Ricordo benissimo quella notte. Era pieno inverno, il vento soffiava a raffiche e portava con sé una strana sabbia di ghiaccio che rapidamente si depositava su ogni cosa accentuando l’ovattato silenzio delle ore del riposo.
Il terziere di Sant’Orso dormiva nel buio; tutti rintanati nelle case per ripararsi dal gelo di quest’ultima lunghissima notte di gennaio. Un’atmosfera sospesa, una quiete quasi surreale dopo due giorni di mercato e di festa.
Il monastero era pronto per festeggiare all’indomani, 1 febbraio, il suo santo protettore: Orso.
A quell’epoca ero giovane, un adolescente; mio padre, potente nobile della Valle, mi aveva indirizzato sin da bambino alla carriera ecclesiastica. Ma ammetto di essere sempre stato una testa calda: spesso insorgevo, rifuggivo le ore del lavoro e talvolta arrivavo tardi sia a messa che allo scriptorium…per non parlare delle innumerevoli volte in cui avevo tentato la fuga! Dopo l’ennesimo rimprovero, il priore aveva deciso di punirmi obbligandomi a trascorrere queste gelide notti nella guardiola insieme ad un confratello più anziano. Erano gli anziani, infatti, solitamente ad occuparsi dell’eventuale accoglienza di mendicanti e pellegrini così come delle prime cure per i neonati abbandonati sul sagrato della chiesa. Questo perché noi novizi eravamo ritenuti più fragili e vulnerabili davanti alle insidie provenienti dal contatto precoce col mondo esterno.
D’accordo, però se quella notte non ci fossi stato io… fratello Deodatus si era addormentato durante il nostro Rosario e c’erano voluti un paio di scossoni per destarlo dal suo cantilenante russare. La campanella aveva già suonato 3 volte: evidentemente là fuori, oltre le mura del convento, qualcuno aveva bisogno di aiuto!
Fratello Deodatus corre alla porta. Lo spiffero di aria gelata arriva a lambire i miei polpacci. Sento un breve dialogo tra i due. Rientra in compagnia di un uomo molto alto, completamente coperto da un pesante mantello da viaggio. Il viandante era assai affaticato e lamentava un dolore insopportabile alla gamba destra; si appoggiava ad un bastone leggermente ricurvo che, in un certo senso, poteva quasi ricordare il lituo del vescovo. Poche parole ma mi sono bastate per notare un accento insolito; parlava latino correttamente, questo sì, ma il suo accento… mi era del tutto nuovo!
Lo accompagniamo vicino al focolare. Lo straniero si scopre la testa, si passa stancamente una mano sul viso indurito dal freddo. Poi mi guarda. Quegli occhi… quegli occhi non li dimenticherò mai. Due occhi lunghi e affilati di un colore indefinibile: o meglio, un azzurro ghiaccio che, a seconda di come la luce li colpiva, brillavano di strani riflessi color lavanda. Un paio di spesse sopracciglia rosse ne accentuavano l’espressione burbera ma buona allo stesso tempo. La fronte alta, ma non stempiato. Capelli fulvi leggermente lunghi gli ricadevano ai lati delle orecchie fino a sfiorargli il collo.
“Grazie miei cari fratelli! Non so come avrei fatto se non avessi trovato questo monastero. Sto compiendo un lungo viaggio di ritorno da Roma. Sono diretto a casa, al nord, molto… molto lontano da qui! La mia strada è ancora lunga e purtroppo la mia gamba duole moltissimo. Avrei necessità di riposare un po’ presso di voi… e che Dio nostro Signore vi benedica!”.
Io avrei voluto fargli decine di domande, ma fratello Deodatus mi fece cenno di zittirmi. Non era il momento. Il pellegrino aveva bisogno di dormire e rifocillarsi. Con calma l’indomani ci sarebbe stato tempo per le presentazioni dettagliate.
Il giorno seguente il priore convocò tutti nella sala capitolare subito dopo le preghiere del mattino. “Cari confratelli, con grande piacere vi presento il nostro ospite giunto ieri da Roma. Padre Ardagh, del prestigioso ed antico monastero di Clonard, nella verde terra di Hibernia, anche detta Scotia. Raffinatissimo miniaturista, padre Ardagh si fermerà da noi alcuni giorni in modo da rimettersi dalle fatiche sin qui accumulate. Quindi riprenderà il viaggio verso la sua casa madre. Oggi festeggerà con noi il nostro santo patrono Orso”.
Padre Ardagh mi stette subito simpatico. Avevo voglia di conoscerlo meglio e chiedergli tante cose…sulle sue origini, sulla sua terra, su Roma… Cercavo di stargli attaccato come un cagnolino. Veniva anche lui allo scriptorium; aveva voluto vedere la nostra biblioteca, sfogliare i volumi, analizzare i codici…
Io ero un discepolo; stavo imparando l’arte dell’amanuense, ma devo dire che mi è sempre piaciuto di più il disegno rispetto alla scrittura. E’ tuttavia pur vero che l’arte della miniatura aiuta la bella grafia, bisogna imparare a rendere i capolettera come dei piccoli capolavori artistici, come fossero dei camei figurati incastonati all’inizio del testo.
Ero appena un neofita, oltre che un novizio… ma volevo impegnarmi. Padre Ardagh si accorse di questa mia inclinazione e mi prese sotto la sua ala. Io temevo il giorno in cui la sua gamba sarebbe guarita consentendogli di rimettersi in cammino. Avevo addirittura pensato di chiedergli di portarmi con sé…anche se immaginavo con orrore l’ira di mio padre!
Padre Ardagh aveva un carisma fuori dal comune. In breve tempo era riuscito ad accattivarsi la simpatia, l’affetto, la stima di tutti i confratelli. Collaborava in tutte le attività del monastero, anche quelle nel giardino (dove un paio di volte l’ho trovato intento a dialogare persino con gli uccellini!). Mai si tirava indietro e per noi era diventato un esempio.
Sotto la sua guida ero nettamente migliorato; anche sotto l’aspetto della condotta! Il Priore era felicissimo di tutto questo e mio padre assolutamente orgoglioso! Mi ero appassionato allo studio, alla lettura e stavo piano piano impratichendomi con la miniatura.
Padre Ardagh mi aveva mostrato i suoi lavori: erano splendidi! Veri capolavori di arte insulare della sua terra “presa direttamente dal patrimonio figurativo dell’antica gente celtica”, mi ripeteva lui. Racemi intrecciati, fiori, foglie, gemme… un trionfo di motivi vegetali che creavano dei giochi ottici tanto da ricordare persino forme animali! Ma non solo… padre Ardagh aveva una mano fantastica anche nelle raffigurazioni di scene delle Scritture. Quei capolettera erano “letteralmente” cesellati! I volumi parevano istoriati, quasi delle piccole sculture!
I giorni trascorsero velocemente, anche troppo… Padre Ardagh doveva riprendere il suo viaggio. Ero triste, affranto, un senso di abbandono si stava impossessando di me! Per me lui era stato più padre di mio padre…
Prima di partire volle farmi un dono: ” tieni mio giovane Arnolfo, nobile come un’aquila e forte come un lupo, così come recita il tuo stesso nome di radice germanica. Ti lascio questo codice. Io vi ho scritto i testi e ho imbastito le miniature. Ma tu dovrai completarlo e rifinirlo in base agli insegnamenti che ti ho impartito. Quando sarà finito, in quello stesso giorno io tornerò da te qui ad Augusta”.
Misericordia! Quel codice era impressionante tanto era spesso e pesante! Mi ci sarebbe voluta tutta la vita per terminarlo… non avrei mai più rivisto Padre Ardagh, se non nella grazia di Dio.
Passarono giorni, settimane, mesi, anni, lustri. E le diverse missive inviate al convento di Clonard non avevano mai ricevuto risposta.
Il giovane Arnolfo divenne un uomo colto e raffinato, di solida dottrina e gran temperamento. Un uomo dotato di elevata intelligenza non priva di sensibilità, acuto ma giusto in politica, abile nella gestione degli affari del monastero, fine consigliere per i confratelli, illuminato teologo. Grande la sua passione per Sant’Agostino di cui leggeva e rileggeva, spiegava e rispiegava i passi salienti de “La Città di Dio”.
Nemmeno per un solo giorno aveva tralasciato il lavoro sul codice di padre Ardagh. Quello era un pò il suo momento privato. Pagina dopo pagina era riuscito a decifrare le scritture dell’amico e aveva quasi completato le illustrazioni. Si trattava di una sorta di “convento ideale”, di comunità di uomini legati dalla stessa fede e dagli stessi obiettivi.
La parte più difficile ed oscura era quella che stava affrontando ora: un intreccio enigmatico, quasi un rebus in cui disposizioni architettoniche, artistiche e letterarie si mescolavano nell’intento di delineare un luogo particolare. Sacre Scritture e antiche favole greche miste ad animali fantastici e leggende. Indicazioni topografiche, orientamenti, punti cardinali, percorsi, sensi di lettura.
“Riuscirò mai a dare un senso a tutto ciò?”, si chiese perplesso Arnolfo. Non sapeva che la soluzione non avrebbe tardato…
Alla fine capì. Sebbene non tutto il lavoro fosse ancora giunto a termine.
Nei capitoli che avevano richiesto maggiore impegno, padre Ardagh descriveva il suo chiostro ideale, un chiostro dove vivere, meditare, pregare, invocare la vittoria del Dio della Luce sulle tenebre. Il Sole della fede che combatte le ombre del male, lo stesso tema che Arnolfo chiese venisse rappresentato all’interno della chiesa in un grande ed emblematico mosaico al cui centro avrebbe dovuto troneggiare Sansone, il cui nome racchiude la parola ebraica “sole” e i cui lunghi capelli avrebbero simboleggiato i raggi, intento a lottare contro una fiera obbligandola a guardare verso l’alto, verso Dio.
Riga dopo riga, parola dopo parola, Arnolfo comprese: Ardagh aveva illustrato un vero e proprio programma didattico ed iconografico e lui decise che lo avrebbe concretizzato! Non sapeva quando, ma presto ne avrebbe avuto l’occasione…
Nel giro di pochi mesi Arnolfo venne nominato priore. Tra le sue prime iniziative vi fu il voler abbracciare e proporre ai suoi confratelli l’abbandono della vita secolare a favore della regola di Sant’Agostino. E anche questo obiettivo venne raggiunto, nel giubilo generale, nell’anno del Signore 1133 dall’Annunciazione alla Vergine (anno 1132 dalla Natività).
La comunità si ingrandì e perciò anche il convento necessitava di nuovi spazi tra cui, non a caso, un chiostro, il vero cuore dell’intero complesso ursino, uno spazio fondamentale per le necessità della vita claustrale. Si scelse il lato sud della chiesa, quello meglio esposto al sole; qui prima non c’era mai stato nulla, ma l’area era esigua e perciò fu necessario eliminare tre contrafforti della chiesa voluta precedentemente dal vescovo Anselmo. La forma sarebbe stata rettangolare, ma non perfettamente regolare in quanto si rivelava necessario assecondare alcune preesistenze che andavano legate al nuovo chiostro, tra cui anche la biblioteca e lo scriptorium. Al centro ci sarebbe stato un pozzo, l’acqua, simbolo di purezza, di vita, di rigenerazione. Ogni elemento, ogni particolarità, ogni dettaglio descritto nell’oscuro testo di padre Ardagh doveva essere riprodotto.
Arnolfo chiamò i migliori maestri lapicidi di Provenza e Lombardia, addirittura un noto magister iberico, tale Petrus, che si misero immediatamente all’opera. Il nuovo priore volle seguire personalmente la scelta dei marmi che richiese fossero di varie tessiture e sfumature, così come di diverse forme dovevano essere i capitelli. Tutto doveva rispecchiare l’armonia e l’equilibrio. Le scene raffigurate avrebbero dovuto richiamarsi, specularmente, simili nel messaggio seppur diverse nei personaggi, sui lati nord e sud, entrambi da fruire procedendo da est verso ovest, ab solis ortu usque ad occasum, seguendo il naturale ritmo del sole con direzione antioraria, quindi in armonia col moto sempiterno delle sfere celesti, allo stesso modo in cui gli antichi Romani fondavano le città.
La galleria nord
Arnolfo stabilì che si cominciasse dal lato nord, quello attaccato alla chiesa e meglio illuminato dal sole. Quello in cui dovevano prevalere le figure sulle epigrafi. Il lato settentrionale avrebbe raccontato per immagini l’origine dell’uomo e il peccato originale, la rinuncia al paganesimo e l’avvento del Salvatore con scene dell’Annunciazione, dell’Incarnazione e della Santa Natività fino all’annuncio ai pastori e ai Magi d’Oriente per poi approdare al tragico episodio della strage voluta da Erode. Il racconto sarebbe continuato con la fuga in Egitto, posta in corrispondenza del varco verso l’area centrale. Si sarebbe quindi proseguito col martirio di Stefano, primo testimone della vera fede ucciso a colpi di pietre, di cui il convento custodiva anche due sacre reliquie.
La raffigurazione avrebbe inoltre previsto una scena di quotidianità monastica dominata da una grande ruota di pozzo: il mandatum, ossia la lavanda dei piedi che veniva praticata il sabato pomeriggio a voler ricordare lo spirito di umiltà e di servizio. Era infatti questo un rito cui Arnolfo teneva moltissimo e che veniva regolarmente eseguito.
Non sarebbe inoltre dovuto mancare un capitello dedicato alla nota favola della volpe con la cicogna, emblematica per insegnare che “chi la fa, l’aspetti”. Un primo velato riferimento ad un annoso dissidio con i confratelli del Capitolo della Cattedrale. Chissà come aveva fatto padre Ardagh ad individuare la favola più adatta… mah… quell’uomo era ammantato da un alone di mistero difficile da definire. Quegli occhi sapevano vedere sempre oltre, in dimensioni che le umane facoltà spesso trascuravano o addirittura ignoravano. Un grande uomo.
E neppure dovevano mancare capitelli occupati da specie vegetali, frutti o animali di fantasia, solo in apparenza meramente figurativi ed esornativi, ma in realtà densi di significati tutti da scoprire. Occorrerà saper guardare oltre le apparenze perché i fiori e i frutti scelti non sono casuali. Arnolfo, ad esempio, aveva in mente il fico: se produce solo foglie senza frutti, per quanto siano queste belle e grandi, allora è un fico cattivo e bisogna guardarsene!
Giunti all’estremità ovest Arnolfo avrebbe voluto un capitello dedicato ad esseri per metà uomini (sia imberbi che barbati) e per metà aquile: un invito ai suoi monaci a comportarsi come le aquile, ossia a saper guardare verso il cielo, verso Dio, grazie allo studio e alla preghiera.
Ma c’era un “problema”, o meglio una sorta di inspiegabile assenza. Nel codice non era stata considerata la decorazione destinata al grande pilastro dell’angolo nord-est. Arnolfo aveva capito che l’ingresso al chiostro avrebbe dovuto effettuarsi da quel punto, sempre in armonia col moto celeste e solare, ma si chiedeva come mai padre Ardagh non avesse dato indicazioni sul tema da raffigurare in un punto così significativo ed importante. Eppure non vi erano lacune nel testo. Lo aveva letto e riletto con estrema attenzione. Forse una dimenticanza? Davvero strano! Forse un addendum alla fine del codice? E perché mai? Ad ogni modo i lavori dovevano iniziare. Arnolfo condivise le tematiche coi maestri lapicidi e con le maestranze tralasciando temporaneamente la questione del pilastro angolare. Che lo tenessero grezzo per il momento, ci sarebbero tornati in seguito.
Il cantiere prese vita. Un brulichio di operai, manovali, mastri carpentieri per le capriate di copertura, scultori, scalpellini, marmisti… era tutto un “via vai”. Arnolfo era decisamente soddisfatto. Di notte, anziché riposare, continuava nel suo lavoro di decodifica e decorazione miniata del codice di Ardagh.
Alcune notti dopo, durante questo appassionante ma sfiancante lavoro, Arnolfo si accorse di aver terminato un colore importante, il blu, quello ottenuto dalla preziosa polvere dei lapislazzuli e che veniva usato in gran quantità per il manto della Vergine e per la sopravveste del Cristo, simbolo di nobiltà spirituale e trascendenza. Arnolfo decise di trasferirsi nello scriptorium dove erano conservate le scorte di pigmenti utili ai miniaturisti. Lavorò con estrema concentrazione per tutta la notte. Non andò nemmeno a riposare, ma dallo scriptorium si portò direttamente in chiesa per le prime preghiere dell’alba.
Assediato dai diversi magistri e preso dalle incombenze che il suo ruolo gli imponeva, Arnolfo non si accorse nemmeno del tempo che passava fino a che…
“Accorrete! Accorrete! Aiuto! Al fuoco, al fuoco!!! Lo scriptorium!!! Presto, sta bruciando tutto!!”…
“Acqua! Presto, portate acqua!!”. L’intero convento era in subbuglio. Anzi, l’intero borgo di Porta Sant’Orso. Tutti accorrevano per aiutare a domare le fiamme; un fumo nero avvolgeva ogni cosa e intossicava gli uomini. Arnolfo non ci pensò due volte. Corse immediatamente allo scriptorium; alcuni confratelli tentarono di fermarlo, di impedirgli di gettarsi in quel vero e proprio inferno, ma non vi fu nulla da fare. Facendo appello a tutte le sue forze e al suo coraggio, Arnolfo si rovesciò un mastello d’acqua addosso e si infilò in quelle mura fiammeggianti. “Il codice! Mio Signore, ti prego, fa che si sia salvato! Non posso perdere quel codice!!”. Le fiamme, il calore, il fumo. Poi, più nulla.
“Priore! Priore! Nobile Arnolfo, dove siete?!!”. L’incendio era stato finalmente arginato, ma di Arnolfo pareva non esservi più traccia… I confratelli e gli operai cercavano spasmodicamente in mezzo alle macerie, alle travi crollate, al fumo persistente.
Ad un certo punto qualcuno nota un lembo di tonaca, un piede… Arnolfo! “Eccolo! Presto, aiutatemi a tirarlo fuori!!”. Subito tutti si adoperarono per sollevare quel pesante armadio che si era abbattuto su Arnolfo-. Il priore era privo di sensi, ferito e contuso; lo portarono in infermeria dove venne immediatamente sottoposto alle cure del cerusico e dell’erborista.
Sospeso in uno stato di morte apparente, sprofondato in un sonno imperturbabile, l’unico segnale di vita era quel lento alzarsi ed abbassarsi del petto che lasciava capire che il priore era ancora in vita. Per quanto debole, quel respiro lasciava ben sperare.
“Non temere Arnolfo, sono qui accanto a te! Non ti abbandonerò. Insieme dobbiamo portare a termine la nostra missione. Presto starai meglio. Non perdere tempo. Guarda a sud, Arnolfo. E non dimenticarti della direzione del sole. Una serie di antichi sapienti saprà parlarti. I loro insegnamenti andranno scolpiti nel marmo. E i gemelli, Arnolfo. Nati dallo stesso grembo, eppur così diversi. Là dove il sole scompare, l’albero di Israele si sdoppierà; due gemelli, una moltitudine di fratelli. Prima l’odio, poi la pace. Guarda nella notte. Con gli occhi penetra le tenebre, Arnolfo. La luce di Dio ti accompagnerà”.
“Padre Ardagh! Padre Ardagh!!”. Arnolfo dopo tre giorni si risvegliò di soprassalto facendo sobbalzare il confratello che lo assisteva. “Presto, dobbiamo proseguire i lavori! Presto… e, e il mio codice… dov’è il mio codice?!!”.
Arnolfo guardò interrogativo il giovane confratello accanto a lui. Strano, non lo aveva mai visto… forse non lo aveva notato; forse era il giovane novizio giunto dalla Tarantasia… Il monaco lo fissò. Quegli occhi… una strana sensazione pervase Arnolfo facendolo rabbrividire. Quegli occhi, quell’azzurro… no, non è possibile. Il novizio gli porse un fagotto: “Cercate questo mio nobile priore? Lo tenevate stretto sotto la vostra veste.”
Arnolfo, tra l’incredulo e l’euforico, afferrò quel fagotto avvolto nella stoffa e lo aprì. “Il codice!”. Fortunatamente si era danneggiato solo in parte… Quelli che aveva sofferto maggiormente erano i capitoli finali. Molte pagine erano annerite e parzialmente bruciate. Illeggibili. Perdute. Alzò lo sguardo verso il novizio per ringraziarlo, ma il ragazzo non c’era più. Non lo aveva neppure sentito uscire… mah, che strano! Lo avrebbe cercato più tardi.
Tuttavia non si perse d’animo. Riprese il lavoro con ancor più passione di prima. Le rovine dell’incendio erano state rimosse in breve tempo. In fin dei conti la biblioteca si era salvata e lo scriptorium aveva subito danni risolvibili. Nuovi banchi, nuovi leggii, nuovi scaffali: i carpentieri erano già stati allertati. Così come aveva già provveduto ad ordinare una nuova fornitura di pigmenti e foglia d’oro.
Il Signore aveva voluto salvarlo. E le sue vesti zuppe d’acqua avevano in buona parte protetto il codice: il tavolo sul quale lo aveva lasciato era stato appena lambito dalle fiamme, l’unico… Quasi un miracolo!
Dopo alcuni giorni di studio e ricerca, messe insieme le notizie del codice ancora leggibili e le sue conoscenze, il priore convocò il capo cantiere. I lavori di decorazione del colonnato sud dovevano tassativamente partire.
La galleria sud
Anche qui avrebbero dovuto cominciare da est con la menzione della data di inizio della vita regolare: “ANNO AB INCARNATIONE DOMINI MCXXXIII IN HOC CLAUSTRO REGULARIS VITA INCEPTA EST“. “Ricordati… la direzione del sole…”.
Subito dopo doveva esserci la raffigurazione dei protagonisti dell’avvio della nuova vita claustrale: Sant’Agostino, i SS Pietro e Orso, il primo priore Arnolfo (reso con dimensioni inferiori) e infine il vescovo Erberto.
A seguire due capitelli avrebbero ricordato la missione dei monaci attraverso figure significative di apostoli (spicca la figura di S. Andrea, assai venerato a Sant’Orso) e pie donne (Marta e Maria).
Poi Arnolfo volle un capitello interamente dedicato al patrono Orso ispirato alle tradizioni locali (del resto le uniche conosciute ai più) e raffigurante i momenti più salienti della sua vita: la carità verso i poveri, il miracolo della fonte, l’episodio del servitore del perfido vescovo Ploceano e infine la morte di quest’ultimo. Volle inoltre far rappresentare la malvagità di Ploceano attraverso una strana mitra a due corni, quasi fosse una sorta di diavolo, unita ad un volto dai tratti ferini. Arnolfo inoltre stabilì che questo capitello fosse davvero speciale grazie ad un particolare artificio idraulico. I lapicidi, infatti, dovevano lasciarlo cavo e creare un foro in corrispondenza della “fons Sancti Ursi“, ovvero la miracolosa sorgente di Busseyaz, così da poter riempire d’acqua il capitello e rendere ancor più realistico il miracolo del Santo.
Da questo punto in poi, procedendo verso ovest, doveva prendere avvio una ricca sequenza di profeti: i quattro maggiori, i dodici minori e in più i quattro detti “anteriori”: Mosè, Balaam, Natan ed Elia, ognuno recante un rotolo con il motto del proprio libro. “Una serie di antichi sapienti saprà parlarti…”.
Una scelta assai colta quella di Arnolfo che inoltre volle, ispirato dal codice di padre Ardagh, che ai profeti della galleria sud corrispondessero specifici messaggi delle scene situate a nord. La scelta dei versetti, privi di legame logico nell’economia della sequenza, lasciò perplessi molti dei confratelli, ma Arnolfo non volle sentire ragioni. Sarebbe stata un’originale peculiarità del chiostro di Sant’Orso.
Natan cita il peccato e per questo richiama il peccato originale. Balam mette in guardia dalle malizie dei falsi sapienti (quindi instaurando un legame col serpente). Elia cita “tria tabernacula” e sul lato opposto troviamo i 3 fanciulli nella fornace. Mosè invita ad innalzare canti a Dio per trovare la salvezza.
Isaia con un unico verbo ricorda l’apparizione del bastone dal tronco di Yesse: l’inizio della stirpe di David. Chiosa accanto Geremia: “questo è il nostro Dio”. Ezechiele ricorda che “i padri mangiarono uva acerba”. In passato i tempi non erano maturi, ma oggi esiste una nuova comunità riformata. “Guardavo nel volto della notte” recita il cartiglio dell’imberbe Daniele. Una visione messianica; un ficcare gli occhi nel buio più profondo per poter vedere ciò che ancora non è, ma che sarà: la venuta in gloria del Messia.
Il primo dei profeti minori è Osea che paragona la gloria di Dio ad un olivo, simbolo di pace per le genti. Amon precisa che “il Signore sorgerà da Sion”, quasi una conferma per i tre Magi situati sul lato opposto. Abdia vaticina che “il Signore allontanerà i saggi da Idumea (Palestina)”, cioè avvertirà i Magi di tenersi alla larga dalle genti idumee, con chiaro riferimento ad Erode. La sua strage degli innocenti è ricordata da Gioele che ricorda il pianto delle madri dei bimbi massacrati.
Giona, meditando sui suoi errori durante i tre giorni trascorsi nel ventre della balena, impara ad affidarsi al Signore e quando ne esce, sano e salvo, è come se rinascesse dall’inferno a nuova vita. Michea sentenzia che “l’uomo giusto abbandonò la terra” ventilando morti innocenti. Ma subito dopo Naum manda un messaggio positivo: “il sole è sorto”. I nemici svaniscono, le ombre si dissolvono, quando interviene Dio. Infine Abacuc sottolinea l’importanza di dare da bere ai propri amici, naturalmente con intento moraleggiante.
L’ultimo dei capitelli dei profeti si apre con il messaggio di speranza di Aggeo: “Io muoverò il cielo”, da completare “affinché vi sia un cielo nuovo e una terra nuova. Zaccaria ricorda l’ira di Dio verso il suo popolo, che tuttavia deve essere vista come potente stimolo alla conversione. Malachia maledice colui che tesse inganni. E, non a caso, dall’altra parte si trova la favola della volpe e della cicogna. L’ultimo profeta è Sofonia che invita la Chiesa “figlia di Sion” ad innalzare lodi al Signore.
Ed eccoci agli ultimi tre capitelli della galleria sud. Subito dopo i profeti Arnolfo decretò la raffigurazione di quattro uomini seduti su seggi intenti a sostenere delle piante le cui radici sono chiuse in un sacco. Alternativamente un uomo barbato ed uno imberbe: quando uno reggerà il doppio ramo fiorito, l’altro avrà in mano un solo ramo secco e viceversa. Arnolfo pensava che questa simbologia avrebbe fatto ben capire i rapporti tra i canonici di Sant’Orso e il Capitolo della Cattedrale, soprattutto per quanto concerneva il potere di elezione del vescovo.
Segue un capitello connotato da un motivo vegetale e da quattro teste caprine. Nella parte alta dovrà figurare questa scritta: “MARMORIBUS VARIIS HEC EST DISTINCTA DECENTER FABRICA NEC MINUS EST DISPOSITA CONVENIENTER“. Ma sì, si disse Arnolfo, un piccolo autoelogio ci sta! Questo splendido chiostro istoriato richiamerà l’attenzione per la varietà delle sue sculture marmoree e della raffinatezza con cui sono state disposte.
E ultimo il capitello con le aquile. Non dimentichiamo che siamo nei pressi del refettorio! Già, perché i monaci sono equiparati ad aquile che, se da un lato sono gli unici volatili capaci di guardare il sole volando più in alto di tutti, quando ha bisogno di cibo scende a terra in cerca di carne. Magari qualcuno saprà interpretare questa “carne” pensando al miracolo dell’Eucaristia?
Arnolfo era decisamente soddisfatto del lavoro: il suo studio e le sue indicazioni avevano imbastito una decorazione che avrebbe stupito tutti! E doveva riconoscere che i lapicidi erano davvero talentuosi e assai operosi.
La galleria occidentale
Ripreso il codice, Arnolfo si rese conto che per la galleria occidentale era rimasto davvero poco di scritto. La parola che più spesso ricorreva era “gemini“, gemelli. “Gemelli… gemelli, simili eppur diversi…” continuava a ripetere tra sé e sé. Arnolfo si dedicò al completamento della miniatura, che si era salvata. Eccoli! Ma certo… Aveva trovato il soggetto da far rappresentare sulla galleria occidentale… “là dove il sole scompare”, non a caso in direzione della Cattedrale…
Un’altra squadra di scalpellini e scultori era pronta a partire. Certo il tema stabilito dal priore non era affatto semplice da raffigurare.. oltretutto in così poco spazio. Fu allora che ad Arnolfo venne un’altra idea…
Il magister a capo della squadra destinata alla galleria occidentale era alquanto perplesso. “La vicenda di Giacobbe ed Esaù, mio venerabile Priore?! Ma, abbiamo solo sette capitelli a disposizione.. come potremo riuscire a raffigurare l’intera vicenda? E con tutti questi personaggi per giunta…!”. Gli scalpellini si scambiavano sguardi preoccupati.
“State tranquillo, mio valido magister“, disse sicuro Arnolfo, “i capitelli si moltiplicheranno: non dovranno essere solo sette, infatti, ma chiedo che vengano inserite coppie di colonne binate, “gemelle” appunto, in modo da ottenere almeno undici capitelli decorabili!”.
Il magister rimase senza parole. Non era un espediente così diffuso, per quanto, soprattutto nelle terre d’Oltralpe, l’usanza stesse iniziando a dilagare. “Per accentuare il simbolismo della coppia gemellare, ritengo che le colonnine doppie siano un mezzo eccezionale, non credete magister? Se poi vi agevoleranno nella consona distribuzione dei diversi personaggi, meglio ancora, nevvero?”. A queste considerazioni di Arnolfo, il magister rimase privo di ogni possibilità di replica. “Presto! Al lavoro, uomini! Avete capito la volontà del nobile priore?!!”.
“Ottimo”, pensava tra sé Arnolfo, “così avremo un’ulteriore particolarità nel nostro santo chiostro!“.
Protagonisti di questo lato, dunque, sarebbero stati Giacobbe e i suoi figli. Il senso di lettura doveva fluire da nord verso sud in ordine logico concentrico. Gli scalpellini, molti dei quali non conoscevano proprio in tutti i dettagli questa complessa vicenda, erano dubbiosi e anche nel predisporre i cartoni dei disegni che sarebbero serviti all’impostazione delle diverse figure, mostravano una notevole incertezza. Arnolfo decise così di intervenire riassumendo loro l’intera storia.
“Si comincia con Rebecca partoriente aiutata dall’ostetrica e la nascita di Giacobbe e del gemello Esaù. Rebecca, dal cui ventre nasceranno due popoli, qui è simbolo della Chiesa da cui sono derivate la Cattedrale e Sant’Orso. Di nuovo vi saranno accenni, più o meno velati, ai conflitti tra le nostre due Case, chiaramente auspicando la riconciliazione finale. Importante l’ambiguità tra Giacobbe ed Esaù; Isacco cade nell’inganno e benedice Giacobbe credendolo Esaù che, in quel momento, si trova fuori a caccia. Esaù non perdona al fratello questo inganno e cerca di vendicarsi. Vuole uccidere il fratello.
Nella scena successiva Rebecca consiglia a Giacobbe di fuggire nella città di Harran e rifugiarsi presso il di lei fratello Labano. Così, prima con il ricatto e poi con l’inganno, Giacobbe diventa il nuovo capo del clan ed eredita la promessa fatta da Dio ad Abramo. Dio, accettando l’azione non troppo limpida di Giacobbe, vuole dimostrare che il suo progetto di salvezza è affidato a chi lo apprezza e non a chi si basa solo sui propri diritti umani. La salvezza è un dono e come tutti i doni viene offerta a chi sa accoglierla.
In viaggio Giacobbe fa uno strano sogno. Una scala è appoggiata sulla terra, mentre la sua cima raggiunge il cielo. Ed ecco degli angeli che salgono e scendono sopra di essa. Sempre nel sogno Giacobbe sente una voce: “Io sono il Dio di Abramo e il Dio di Isacco, tuo padre. La terra sulla quale ti sei coricato la darò a te e alla tua discendenza. La tua discendenza sarà numerosa come i granelli di polvere della terra“.
Quando Giacobbe il mattino seguente si sveglia, ricordandosi del sogno fatto, capisce che Dio ha confermato la benedizione del vecchio padre Isacco.
Confortato dal sogno, si rimette in cammino dirigendosi verso la città di Harran. Prima di entrare in città, stanco e assetato, si ferma a bere accanto al pozzo dove già sua madre Rebecca veniva ad attingere acqua. In quel momento arriva al pozzo una bella ragazza di nome Rachele, figlia di Labano, fratello di Rebecca. Rachele è la cugina di Giacobbe. Tuttavia Labano ha una figlia maggiore, Lia. Non bella, ma da accasare. Giacobbe vuole sposare Rachele e per questo accetta di lavorare per Labano sette interminabili anni. Alla fine, però, Labano lo obbliga a sposare Lia. Labano tuttavia per concedere a Giacobbe anche Rachele pretende che il giovane lo serva per altri sette anni. Così Giacobbe, dopo quattordici anni di lavoro quasi forzato, si ritrova ormai uomo maturo e con due mogli.
Vengono quindi raffigurati tutti i figli di Giacobbe: dodici maschi e un’unica femmina, Dina. Ma solo Giuseppe e Beniamino, gli ultimi due figli avuti da Rachele, sono quelli che Giacobbe amerà più degli altri. Dovrete anche raffigurare la scena del furto degli idoli di Labano da parte della figlia Rachele. Giacobbe e Beniamino ne verranno accusati, ma Labano non li ritroverà perché Rachele ha saputo nasconderli al meglio: sotto la bardatura di un cammello! Anche qui, perciò, chiedo venga scolpito sulla pietra questo messaggio: occorre fuggire dalle apparenze, dai falsi idoli. Dio saprà fare giustizia là dove gli uomini non vi riescono”.
“So che è assai complicato, ma confido nelle vostre capacità. Vi chiedo che la scena della riconciliazione tra i fratelli si trovi al centro, sulla grande colonna singola. Alle estremità, invece, due situazioni di conflitto. E’ questo un messaggio chiaramente rivolto ai nostri fratelli del Capitolo della Cattedrale”.
“Sarà un duro lavoro, mio nobile Arnolfo”, chiosò il magister, “nella mia già lunga carriera ho visto diverse rappresentazioni del ciclo di Giacobbe, ma mai una così lunga, ricca e complessa!”.
Arnolfo si rendeva perfettamente conto della difficoltà, ma sapeva anche che questo tema, pur così dettagliato, si rivelava necessario. Sant’Orso e la Cattedrale dovevano riappacificarsi e trovare un nuovo, proficuo e duraturo equilibrio.
Giunta la sera, chiuso nella sua cella, Arnolfo si dedicò con grande attenzione al codice, o meglio, a quel che ne restava. Voleva capire cosa effettivamente fosse andato perso nell’incendio. Valutò con perizia il documento e alla fine: “L’intera galleria orientale… ogni indicazione di padre Ardagh è andata perduta… Come fare?“.
Sperò in qualche sogno; sperò nelle preghiere… ma nulla. Stabilì dunque che venissero reimpiegati i capitelli di un porticato già esistente, grandi e poderosi, decorati però unicamente con motivi vegetali stilizzati. Non poteva sapere, il buon priore Arnolfo, che nei secoli, solo uno di quegli antichi capitelli si sarebbe salvato; gli altri sarebbero stati sostituiti.
Dall’alto della sua finestra Arnolfo osservava il procedere dei lavori con gioia e soddisfazione crescenti. Restava un grande rammarico… il pilastro di nord-est. Quel pilastro era fondamentale: era la porta d’ingresso del chiostro, la prima cosa che si sarebbe vista entrando… non poteva permettere che restasse privo di decorazione. Lesse e rilesse decine di volte il codice, nella speranza che qualche accenno potesse essergli sfuggito. Cercò indizi nelle miniature, ma niente! Quanto avrebbe voluto che padre Ardagh fosse lì con lui, a sostenerlo e consigliarlo, come quando era ragazzo…
La galleria incompiuta
Quel cruccio turbava persino i suoi sonni. Tanto che quella notte, completamente incapace di trovare quiete, Arnolfo prese una lanterna e scese nel chiostro silenzioso. Osservò quella magnifica fabbrica che, giorno dopo giorno, aveva assunto un aspetto ragguardevole. La lucentezza dei marmi enfatizzava le volumetrie, gli aggetti e l’espressività delle scene scolpite. Un gioiello! Quel pilastro di nord-est restava un punto buio, anonimo. E non poteva permetterlo!
Ad un certo punto, mentre Arnolfo sedeva assorto nelle sue meditazioni, un’improvvisa folata di vento gelido spense la luce della sua lanterna. Solo il chiarore lunare illuminava d’argento una parte delle gallerie.
Udì dei passi. Un fruscìo. “Chi va là? Chi è?”. Arnolfo si alzò e si avvicinò all’ingresso ma vide che era chiuso. “Chi è? Fratello Arnodus siete voi?”. Credette fosse Arnodus, il guardiano, ma non ottenne risposta. Finché i suoi occhi, ormai abituati all’oscurità, riconobbero un profilo, una sagoma, un’ombra tra le ombre…
“Chi sei…? Parlami!”. Arnolfo era spaventato, ma non riusciva (né voleva) fuggire. Come paralizzato aspettava nel buio che quell’ombra si rivelasse. Che fosse invece un sogno? Una visione? Ad un certo punto il raggio bianco della luna, quella notte più piena e intensa che mai, diede un volto a quel fantasma silenzioso. Tremante, Arnolfo riuscì a malapena a pronunciare due sole parole: “Siete voi…”.
Quegli occhi… quello sguardo azzurro ghiaccio incastonato in quel volto dal fascino antico… “Padre Ardagh!!”.
“Eccomi Arnolfo. Sono tornato. Il tuo lavoro sta per giungere al termine. Sei stato un ottimo discepolo. Hai incontrato mille difficoltà. Non era affatto semplice seguire le mie oscure, spesso labirintiche, indicazioni. La tua dedizione e il tuo impegno, uniti alla tua fede solida ed incrollabile, sono stati e sono tuttora davvero encomiabili”.
“Padre… padre Ardagh… ma, son trascorsi anni. Voi… voi siete identico a come vi ricordavo. Com’è possibile?! E ad ogni modo il lavoro è lungi dall’essere finito, padre. Il codice è andato in parte distrutto… e io non so come fare…!”.
“Non temere Arnolfo. Sai che io non ti ho mai abbandonato. E ti aiuterò anche ora. So che il tuo cruccio è il grande pilastro di nord-est. Questo pilastro è importante, è la chiave di tutto; è il simbolo della mia presenza. In questo pilastro, caro Arnolfo, tu potrai ritrovarmi sempre, se saprai leggermi, se saprai chiamarmi. Sempre, nei secoli che seguiranno”.
Arnolfo era pervaso da un’emozione indescrivibile. Non riuscendo ormai quasi nemmeno a parlare, corse verso padre Ardagh e lo abbracciò. In fondo non gli importava sapere altro; in fondo non gli interessavano i dettagli, sapeva solo di provare verso quell’uomo un affetto profondo, unico, una gratitudine ed una riconoscenza pressoché sconfinate.
Nel momento in cui si strinse a colui che amava più del suo vero padre, una luce fortissima scaturì dal volto di padre Ardagh che lo fissò con un’intensità ipnotica.
“E’ tempo che tu sappia, Arnolfo. Sei pronto. Sei maturo. E’ tempo che io mi riveli. Tu mi conosci come padre Ardagh. Il mio nome, Ardagh, in antico gaelico, significa… Orso! Tu credi che io giunga dalla lontana Irlanda, ma in realtà giungo da ancor più lontano. Io provengo da una fede antica, le cui origini si perdono nella notte dei tempi. Io provengo da mondi che i più ritengono ormai perduti, ma che tuttavia si sono soltanto trasformati, cambiando nome, cambiando preghiere.

Attorno alla mia figura i tuoi padri han saputo tessere leggende, tradizioni, racconti. Tutti verosimili e assai vicini al loro sentire e alla loro quotidianità. Lo hanno fatto per non perdermi, per avermi sempre vicino nelle loro azioni di tutti i giorni e per poter continuare ad invocarmi nelle loro suppliche. Ma io non ho mai avuto una vita tale che la storia degli uomini possa registrare o raccontare con date ed episodi documentati.
Mi hanno raffigurato simile ad un vescovo, ovvero ad un uomo capace di osservare il cielo e comunicarlo agli uomini.
Mi hanno raffigurato con un uccello sulla spalla sinistra, in maniera simile a San Colombano, monaco irlandese che si fece pellegrino di Cristo e grande evangelizzatore. Lui. sì, realmente esistito!
Sono stato animale. Sono stato un dio. Ho accompagnato dei. Rimango un simbolo. Forte, pervasivo. Ad alcuni faccio ancora paura. Altri non hanno mai smesso di venerarmi. Nei secoli ho assunto varie forme e aspetti differenti. Io sono il sacro, Arnolfo.
L’amore che in antico i tuoi predecessori nutrirono per me è immenso e i tuoi padri lo sapevano. Io non potevo essere cancellato, Arnolfo. Io continuerò a vivere. In questo luogo, soprattutto, la mia presenza sacra non verrà mai meno.
La luna è mia compagna; nel suo mutare io mi rinnovo. La morte è mia sorella: in lei mi rigenero per tornare a nuova vita. So nascondermi, quando serve, nel profondo di caverne introvabili, torno nell’oscuro e caldo ventre della madre terra, per poi riemergerne più forte di prima”.
Arnolfo lo fissava e non riusciva a staccarsi da quel forte e sicuro abbraccio. Lui, uomo colto e devoto, aveva capito. Ecco perché non si sapeva con certezza quando lui fosse nato né dove, né dove esattamente fosse morto. Nè con che genere di martirio. Ecco perché spesso veniva raffigurato con un lituo, con un bastone ricurvo, senza mai essere stato vescovo. Perché in lui si assommavano antiche divinità e antichi sacerdoti. Lui era un tramite tra cielo e terra, tra vita e morte. Lui, Orso, rappresentava il passaggio dalla fede pagana più ancestrale, legata ai ritmi degli astri e delle stagioni, fino a quella cattolica. In bilico tra notte e giorno, tra luce e buio, tra il conoscibile e l’imperscrutabile.
Padre Ardagh, o meglio… Orso, si avvicinò quindi al pilastro ancora grezzo. Il pilastro d’accesso del magnifico chiostro istoriato. La sua mano lo sfiorò. La luce lunare invase quell’angolo di galleria; la pietra si illuminò come dall’interno. Orso appoggiò entrambe le mani al capitello mormorando oscure parole. La pietra iniziò a muoversi, a palpitare, quasi a respirare! Gli spigoli assunsero un profilo. Alla fine Arnolfo, stupefatto, vide il capitello compiuto. Quattro animali, tuttavia non mostruosi né spaventosi, decoravano la pietra. Le zampe, certo ferine, ma tra loro vicine, quasi in un gesto di preghiera.

Orso lo fissò nuovamente e appoggiandogli una mano sulla spalla, disse: “Vedi Arnolfo? Io sarò sempre qui con te. E sempre accompagnerò gli uomini nel cammino verso la luce. Di questo è simbolo il chiostro. Di un cammino verso la salvezza, fatto di scelte, di giuste direzioni, di attenzione verso i falsi idoli e verso le apparenze ingannevoli. Dove volevi che fossi, se non all’ingresso?”.

Arnolfo osservò con maggiore attenzione il capitello… ma certo! Erano quattro orsi! Orso stesso era il codice del chiostro! Si voltò per ringraziarlo, voleva fargli altre mille domande, voleva abbracciarlo ancora una volta, ma… no c’era più! Un soffio di vento gelido fu l’ultimo saluto di quella divina, non descrivibile altrimenti, presenza.
“Priore! Nobile Arnolfo! Ma… eravate qui?! Eravamo così preoccupati!”. La voce concitata dei confratelli e le prime luci dell’alba destarono Arnolfo da un sonno insolitamente pesante. Si era addormentato nel chiostro. “Ma avete dormito qui? All’aperto? In una notte così fredda per giunta…!”. Arnolfo si riprese, si guardò attorno. “Sì, confratelli, ero venuto a meditare.. sì, era freddo, ma io sto bene, anzi..!”.
Immediatamente il suo sguardo corse verso il pilastro di nord-est. Vuoto. Grezzo…
Orso
“Ma come, allora si è trattato di un sogno? Di una visione?.. Eppure è stato tutto così stranamente… reale!”. Arnolfo, deluso, non riusciva a capacitarsi che si fosse trattato di una sua fantasia. Certo, ad ogni modo ora sapeva cosa far raffigurare sul pilastro!
“Priore! Venerabile priore, è appena giunto il nuovo magister. Colui che si occuperà di decorare il pilastro d’ingresso!”. Un nuovo capo scultore? Eppure Arnolfo non ricordava di aspettare nuove maestranze…”Fatelo entrare! Lo accoglierò assai volentieri”.
Un passo deciso e un piglio sicuro accompagnavano il nuovo magister. Già da lontano quell’uomo infondeva un senso di sicurezza. Alto, capelli mediamente lunghi tendenti al rossiccio. Fu quando si avvicinò che Arnolfo rimase per un attimo senza respirare…
“Buongiorno nobile priore. Mi avete fatto chiamare e sono giunto. Ho con me anche il cartone con la bozza per la decorazione del pilastro. Eccolo qui!”.
Arnolfo non riusciva a distogliere lo sguardo da quell’uomo. Quegli occhi… un taglio lungo e affilato, di un azzurro ghiaccio con particolari riflessi color lavanda… e quella voce…
Arnolfo prese il cartone con i disegni preparatori utili alla decorazione del pilastro d’ingresso. Non vi fu bisogno di altre parole. Tra i due fu sufficiente uno sguardo ed un sorriso.
Orso era tornato. E non se ne sarebbe andato mai più!