Donne in vetta. Le regine della montagna

Abbiamo festeggiato, ieri, il Ferragosto che in Valle d’Aosta coincide con la Festa delle Guide alpine, di quegli uomini e quelle donne per cui l’ascesa è ragione di vita, mestiere, passione. Guide poste sotto la protezione della Vergine Assunta al cielo. Salire, superare rocce, strapiombi e crepacci. Superare le forre e le creste bucando le nuvole. Arrivare lassù, in vetta, dove la terra e il cielo si toccano. Dove l’umano e il divino si sfiorano.

Valle celebra e omaggia le sue valorose guide alpine, capaci, appunto, di ascendere, di salire verso le vette accompagnando e proteggendo i loro clienti. Guide alpine che oggi iniziano a contare anche su presenze femminili.

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#Donne coraggiose ed ardite; #donne curiose e avventurose. Donne che, coi loro abiti ingombranti, i corsetti e i cappelli a tesa larga, han saputo compiere viaggi lunghi ed estenuanti, scalare montagne, superare valichi e colli, in barba ai benpensanti, agli stereotipi e … agli uomini!

Le donne, per secoli, sono state solo le mogli degli alpinisti, quelle che dovevano stare a casa ad aspettare. Per troppo tempo i monti e le donne sono stati contrapposti in virtù di stereotipi e pregiudizi per cui, il gentil sesso, mai e poi mai avrebbe potuto avvicinarsi alle alte quote, per ovvi motivi fisici e mentali. Addirittura, nel XVIII secolo, alcuni medici ritenevano che se una donna avesse provato a salire una montagna, lo sforzo sarebbe stato talmente grande che le avrebbe provocato sterilità. Figuriamoci.

Eppure donne e montagna in un certo senso si somigliano: entrambe esigono una conquista, entrambe sono tanto belle e desiderate quanto spesso inaccessibili. Donne e montagna in realtà sanno dialogare, instaurando una relazione fatta di forza e di rispetto in cui, oltre ai muscoli, serve soprattutto la testa.

Quattro passi nella storia

L’alpinismo al femminile ha iniziato a profilarsi sin dal XVI secolo, quando le prime timide compagini di nobili e avventurose signore si legavano in cordata per affrontare i severi pendii innevati coi loro pesanti gonnelloni.

Marie Paradis

Tuttavia è stato grazie ad una certa Marie Paradischamoniarde DOC, che per la prima volta la cima di una montagna (e che montagna, dato che si trattava niente meno che di Sua Maestà il Monte Bianco!) venne associata ad un’alpinista, o meglio, ad un’ascensionista donna. Era il 14 luglio del 1808, Marie aveva 30 anni e gestiva una locanda in quel di Chamonix. Le finanze languivano. Così lei, per necessità economiche e per desiderio di gloria, decise di azzardare un’impresa fino ad allora impensabile per una donna: scalare il Monte Bianco. Vi riuscì, seppure in seguito i pettegolezzi e le maldicenze si sprecarono. In ogni caso, da quella volta, lei divenne Marie du Mont Blanc.

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Henriette d’Angeville

E cosa vogliamo dire dell’ardimentosa Henriette d’Angeville che, il 4 settembre 1838, col suo nutrito seguito di guide e servitori, col suo particolare abbigliamento e i suoi tanto discussi pantaloni imbottiti stretti in vita e alle caviglie (fu uno scandalo: una nobildonna in braghe!) riuscì, con una vera e propria spedizione, a salire in vetta al Bianco? Henriette annotò la sua impresa nel famoso Carnet Vert, preziosa testimonianza della sua ineccepibile e “tutta femminile” organizzazione. Leggendo questo suo dettagliato resoconto, davvero basta poco per lasciarsi conquistare dalla tenacia di questa viaggiatrice solitaria che, senza remore, andò dritta sull’obiettivo.

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Jane Freshfield

Nata il 5 luglio 1814, al secolo Jane Quinton Crawford convolò a nozze all’età di 25 anni col ricchissimo Henry Ray Freshfield, procuratore legale alla Bank of England nonché rampollo di un’illustre dinastia di avvocati londinesi (peraltro ancora oggi attivi nel campo con uno stuolo di associati). Nel 1845 vide la luce il loro unico figlio, Douglas William Freshfield, che, oltre a seguire le orme paterne laureandosi in legge a Oxford, coltivò la passione per i viaggi e l’avventura, ma soprattutto per la montagna trasmessagli dalla mamma. A soli 16 anni, il giovane Douglas conquistò la sua prima cima: il Monte Nero, in Valmalenco.

Jane infatti rivestì un ruolo significativo nella storia del movimento alpinistico femminile grazie alla sua prolungata e attiva frequentazione delle Alpi dal 1854 al 1862 in seguito a cui scrisse due libri:  “Alpine Byways Or Light Leaves Gathered in 1859 and 1860“, Longman Green Longman&Roberts, (London 1861) e, l’anno successivo presso lo stesso editore, “A summer tour in the Grisons and Italian Valleys of the Bernina”.

Lady Freshfield ci descrive i luoghi, la gente, le usanze, senza tralasciare, con genuino piglio anglosassone, ciò che non incontrava il suo gusto o che la lasciava perplessa. I suoi racconti sono corredati dai disegni dell’amica e compagna di viaggio Charlotte Gosselin: non fotografie ma vere e proprie istantanee piene di arte e di emozione.

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Eliza Robinson Cole

“Sono certa che ogni signora, benedetta da una discreta salute ed attiva e che abbia il senso del pittoresco e del sublime, possa effettuare il tour del Monte Rosa con grande piacere e pochi inconvenienti e che tutte quelle che lo faranno porteranno con sé un bagaglio di deliziosi ricordi a consolazione dei giorni futuri. Due o tre ore nelle sale mal ventilate di un’affollata galleria d’arte saranno senz’altro più stancanti di una camminata di otto ore nella pura e rinvigorente aria di montagna. Allo stesso tempo voglio comunque mettere in guardia le signore dall’intraprendere, senza un adeguato allenamento un viaggio lungo e difficile… Lo sforzo del cavalcare e del camminare per diverse ore dovrebbe essere sperimentato con un po’ di anticipo, iniziando dapprima con facili escursioni giornaliere”.

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Così scriveva Eliza Robinson Cole, dopo aver raccontato in più di 400 pagine le sue esperienze di donna alpinista, alla fine del suo libro “A lady’s tour round the Monte Rosa” edito a Londra nel 1859. In epoca Vittoriana, dal 1837 al 1910, le donne inglesi hanno lasciato le loro testimonianze di viaggio in più di 1400 testi dimostrando un senso di avventura e di adattamento paragonabile a quello dei loro compagni.

Pubblicato a Londra per la prima volta nel 1859 il “Viaggio di una signora intorno al Monte Rosa” racconta in maniera dettagliata i viaggi effettuati intorno al Monte Rosa e nelle valli italiane di Anzasca, Mastalone, Camasco, Sesia, Lys, Challant, Aosta e Cogne in una serie di escursioni negli anni 1850-56-58. A metà Ottocento, in Italia più che in altri Paesi, l’esperienza della Cole era senza dubbio fuori dal comune; per una donna non era usuale viaggiare a piedi o a dorso di mulo per superare passi alpini o avventurarsi in valli pressoché selvaggi salendo erti sentieri. Spesso la Cole racconta di aver dovuto scendere dalla cavalcatura per superare sentieri troppo impervi e pericolosi e di aver proseguito il viaggio a piedi al pari degli uomini suoi compagni di viaggio che, peraltro, sono nominati solo raramente ed in modo molto rapido nel diario. Del marito, citato solo con l’iniziale H., non sappiano pressoché nulla se non la sua appartenenza al prestigioso Alpin Club.

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Lady Cole, inoltre, descrive con precisione gli indumenti e le calzature più adatte suggerendo alle donne anche i possibili accorgimenti per rendere più sicuro ed agevole il cammino in montagna. Curioso l’espediente dei piccoli anelli fissati sul vestito nei quali passare un cordino per sollevare l’abito all’altezza desiderata velocemente e con un solo gesto. 

Lucy Walker

Altra donna eccezionale fu Lucy Walker, sorella del celebre Horace, conquistatore delle Grandes Jorasses nel 1868. Lei acquisì fama per essere stata la prima donna a scalare il Cervino nel 1871, raggiungendo la vetta lungo la cresta Hörnli. Ma questa fu solo una, seppure forse la più nota, delle 98 scalate che Lucy compì nelll’arco della sua vita. Ecco, con Lucy abbiamo realmente un primo, fulgido esempio di vera alpinista donna, un’alpinista “con l’apostrofo”, come dice Erri De Luca.

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Margherita di Savoia

Donna forse non bellissima ma sicuramente carismatica, colta e affascinante, Margherita fu sempre una regina molto amata dal popolo e dagli intellettuali. Amava moltissimo la montagna e rese consuetudinari i suoi lunghi soggiorni estivi a Gressoney-Saint-Jean, in Valle d’Aosta, dove ancora oggi si può visitare il suo fiabesco castello, realizzato tra il 1899 ed il 1904.

Margherita amava questi monti dove la natura selvaggia le consentiva di essere se stessa lontana dal protocollo e dalle aspettative di corte; dove la lingua germanica la faceva sentire a casa, dato che la madre era Elisabetta di Sassonia. Quand’era qui, nonostante il suo castello fosse davvero la pietrificazione dei suoi sogni, lei trascorreva molto tempo in mezzo alla gente e soprattutto adorava le passeggiate e le ascensioni in montagna.

Donna robusta, alta e in ottima forma fisica raggiunse, pur abbigliata di tutto punto, con gonnellone, corpetto e cappello, i 4554 metri della Capanna a lei intitolata (la Capanna Regina Margherita), sulla Punta Gnifetti, il rifugio più alto d’Europa!

Ritratto della regina Margherita di Savoia col costume di Gressoney
Ritratto della regina Margherita di Savoia col costume di Gressoney
La regina Margherita raggiunge la Capanna a lei intitolata a 4554 metri di quota
La regina Margherita raggiunge la Capanna a lei intitolata a 4554 metri di quota

Maria José di Savoia

Senza dubbio forte e determinante fu la figura del padre, re Alberto I, sovrano del Belgio e appassionato alpinista, ad instillare in Maria José l’amore per la montagna.

L’ultima sovrana d’Italia, la bionda “regina di maggio” nutriva una profonda passione per la natura severa ed autentica delle montagne, in particolare quelle valdostane. Una regione, la Valle d’Aosta, dove ebbe modo di recarsi assai spesso, a cominciare da quel gennaio 1930 che la vide ospite a Courmayeur col neo-sposo Umberto II in luna di miele sugli sci. Giovani, bellissimi ed elegantissimi. Raffinatezza e sobrietà anche sulle piste.

La coppia reale sugli sci a Courmayeur per la luna di miele - 1930 (dal libro "Umberto e Maria José di Savoia. Escursioni e soggiorni in Valle d'Aosta", di M. Fresia Paparazzo)
La coppia reale sugli sci a Courmayeur per la luna di miele – 1930 (dal libro “Umberto e Maria José di Savoia. Escursioni e soggiorni in Valle d’Aosta”, di M. Fresia Paparazzo)

Una piccola terra di roccia e boschi dove Maria José si rifugiava per le vacanze estive coi principini: base al Castello Reale di Sarre e, da lì, via per gite ed escursioni, anche in campeggio, come quella volta in alta Val d’Ayas!

Ma non dimentichiamo che la regina dagli occhi di ghiaccio fu anche una validissima alpinista che riuscì a salire in vetta al Monte Bianco e al Cervino conquistandosi la stima delle guide alpine, l’amore della popolazione locale e la ribalta della cronaca.

La sua eleganza misurata e per nulla vistosa viene sempre sottolineata dalla stampa. Assolutamente #allamoda nell’estate del 1937 quando si perde ad osservare col cannocchiale il paesaggio delle Cime Bianche: una camicetta bianca ed un paio di pantaloni molto ampi leggermente scampanati, parrebbe in “Principe di Galles”, tagliati sotto il polpaccio e trattenuti in vita da una fusciacca.

Maria Josè alle Cime Bianche (dal libro "Umberto e Maria José di Savoia. Escursioni e soggiorni in Valle d'Aosta", di M. Fresia Paparazzo
Maria Josè alle Cime Bianche (dal libro “Umberto e Maria José di Savoia. Escursioni e soggiorni in Valle d’Aosta”, di M. Fresia Paparazzo)

Un’ultima curiosità: Maria José fu la prima ad utilizzare scarponi tecnici con suola in Vibram abbandonando quelli con suola chiodata!

Gli anni ’50 e il boom della vacanza in montagna

“Oh, la belle chose qu’une belle femme sur le sommet d’une montagne!” (M.Morin, Les femmes alpinistes, 1956).

Veniamo quindi ai favolosi anni ’50, quelli della rinascita, del boom economico, dell’occhiolino alle mode made in USA, dell’utilitaria, della Vespa, delle vacanze…

Ecco, appunto, le vacanze degli Italiani. Non solo mare, certo, ma anche montagna!

E come far passare in maniera davvero POP l’idea che la montagna è bella, distensiva, salutare e adatta a tutti? Ovvio! Creando manifesti pubblicitari in cui protagoniste sono loro, le #donne! Bellezze da copertina; forme pronunciate, labbra rosso fuoco, capelli ondulati e sguardi da gatta! Sorrisi abbaglianti illuminano le affiches turistiche dell’epoca; artisti come Gino Boccasile firmano pubblicità entrate nel mito!

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Bellezze sulla neve, in funivia, in mezzo ai prati… Bellezze sui monti insomma!

E ancora oggi cerchiamo queste immagini “vintage”, simbolo di felicità e benessere, di vacanze spensierate e splendidi paesaggi!

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Stella

Area Megalitica di Aosta. Archaeological Code

Come ogni anno l’appuntamento con la #MFW, la #MilanoFashionWeek, è fonte di ispirazioni, suggestioni e riflessioni che, partendo dalle ultime tendenze in fatto di moda e costume, mi porta ad andare indietro nel tempo ritrovando accenni di stile, tagli o accessori in testimonianze del passato. Ebbene sì, anche del passato più remoto.

Si fa presto a dire “vestito” quando invece dietro ad ogni abito si muove un mondo, una società, una (o più) culture che proprio quell’abito hanno prodotto e creato per dare un segnale, per comunicare, per sottolineare un modo di essere, di vivere, di apparire.

Come mai, vi chiederete, parlare di fashion trend all’Area Megalitica?

Beh, intanto comincerei con l’elencare, sinteticamente, almeno #10buonimotivi per visitare questo sito inatteso e sorprendente:

  1. Un sito archeologico grandioso che racchiude oltre 6000 anni di storia.
  2. Coi suoi attuali 10.000 mq (che diventeranno 18.000 a fine lavori), è l’area megalitica coperta più vasta d’Europa.
  3. Megaliti in città! Un sito megalitico urbano nel quartiere ovest di Aosta. E non è cosa tanto frequente…
  4. Un viaggio nel tempo alla scoperta di una lontana e affascinante Preistoria alpina.
  5. Emozionarsi davanti ad un paesaggio arcano ed inatteso illuminato dal millenario susseguirsi di albe e tramonti.
  6. Sorprendersi davanti ad arature tracciate più di 6000 anni fa.
  7. Meravigliarsi per gli emblematici allineamenti creati per far dialogare terra e cielo.
  8. Scoprire le prime grandi statue della Preistoria: rivestite di motivi decorativi ma tuttora avvolte da un enigmatico “mistero”.
  9. Stupirsi davanti alle grandiose tombe collettive, leggendarie opere di “giganti”, testimoni di ricchezza e potere.
  10. Uscire dal centro per scoprire un parco archeologico avveniristico, multimediale ed interattivo decisamente “fuori dal coro”.

E da quest’ultimo punto mi riallaccio alla questione moda: il nuovo e l’antico, la Preistoria e il Futuro si toccano, si ibridano e si sublimano a vicenda proprio in questo magico luogo che, secondo me, sarebbe una location fantastica per incredibili e spaesanti shooting fotografici se non, visto lo spazio, per originali “archeo-passerelle”.

Allora, la moda, dicevamo!

Come nel 2019, ma rivisitate nei dettagli e nelle palette cromatiche (ora più piene e accese), le giacche over-size, i blazer dal taglio geometrico e schiettamente maschile ma che ben si adattano anche a noi fanciulle come indumento trasversale e versatile; ok col look elegante e raffinato, ma anche coi jeans, le gonne, addirittura la tuta! Anche i trench devono essere maxi e, se possibile, con spalline importanti.

Bene, ne avevo già parlato nel mio post di allora: le stele dall’enigmatico profilo umanoide sono perfette ed emanano un ipnotico glamour senza tempo con quelle “spalle larghe” e con quel taglio comune ad individui di entrambi i sessi. Già, perché le stele dell’area megalitica aostana, non presentano elementi utili a connotarle immediatamente se riferibili a uomini o donne: tutto si gioca sulla presenza (o assenza) di determinati capi, accessori, motivi decorativi.

Ecco, le decorazioni! Queste stele (che mia figlia – 4 anni – chiama “pietre vestite”!) presentano fitti, minuti e raffinati schemi decorativi che richiamano tessuti lavorati, applicazioni in metallo (in particolare rame) o in osso o addirittura in valva di conchiglia (quelle grandi conchiglie oceaniche che i potenti dell’Età del Rame amavano esibire come oggetti suntuari legati a commerci importanti con terre lontane. E da conchiglia, a perla e madreperla…il passo è breve!

Reticoli di rombi, forse originariamente a colori alterni e a contrasto, ricoprono queste statue preistoriche, iconiche e aniconiche allo stesso tempo, mute (senza volto), ma allo stesso tempo dense di linguaggi.

Proprio queste magnifiche stele eneolitiche sono le protagoniste di un primo ciclo di 15 brevi racconti che, con un linguaggio semplice e con un intreccio favolistico, vogliono narrare ad un pubblico ampio per età e formazione, quello che doveva essere l’arco alpino nord-occidentale 5000 anni fa! Il popolo dei #GrandePietra vuole così dare voce e forma a quegli antichi abitanti che, in questo luogo della piana circondata da alte montagne, avevano il loro santuario più importante, una sorta di Olimpo Preistorico in cui, secondo precisi allineamenti celesti e terrestri, si celebrava il sacro dialogo tra uomini e dei.

Ma torniamo ai vestiti. “Pietre vestite”, appunto! Parliamo poi di epoche in cui, senza overdose di immagini, pochi ma sapienti dettagli potevano comunicare tutto: il rango, il ruolo, il potere!

Fondamentali gli accessori: collane e cinture su tutti! Un trionfo di pelli lavorate, illuminate da ciondoli in rame e in pietra levigata, arricchite da dettagli in osso e, come già detto, conchiglia. Ogni forma, un preciso significato. Beh, ecco il gran ritorno delle cinture-gioiello! … ancora meglio se con forme che riecheggiano ammoniti, antiche spirali, conchiglie… un eterno “femminino” inno di vita e continua rigenerazione!

Guardate la rielaborazione a colori della stele 3 sud:

(https://www.regione.vda.it/cultura/patrimonio/siti_archeologici/st_martin/grandepietra/default_i.aspx)

e quella della stele 30:

(https://www.regione.vda.it/cultura/patrimonio/siti_archeologici/st_martin/grandepietra/default_i.aspx)

Lo stile optical la fa da padrone. In una predominano i rombi; nell’altra il damier, il disegno a scacchiera. In una abbiamo un importante collier e un capo di abbigliamento assai simile ad un corpetto; nella seconda, oltre all’importante collare multifilo, una ampia casacca a scacchi. Nella seconda, poi, la marcata presenza di armi (un’ascia, un arco e ben due pugnali nel loro fodero decorato da frange – anche queste di moda – dichiarano l’identità maschile di questo probabile capo guerriero.

Losanghe e rombi che, curiosamente, non abbandonano questa regione e ritornano nel Medioevo ricoprendo le pareti di stanze, porticati e cortili di alcuni tra i più noti castelli valdostani!

E guardate come, a 13 anni, avevo immaginato la giovane, bella e ribelle contessa Caterina di Challant! Tanto famosa e celebrata quanto per nulla noto il suo aspetto…

E tornando ai personaggi di “C’era una volta GrandePietra2, eccone alcuni disegnati con mia figlia:

Lontani echi egizi e addirittura precolombiani si ritrovano in queste arcane sculture giunte dal passato, gelosamente custodite nel ventre della terra e fortuitamente venute alla luce nell’anno in cui l’uomo metteva per la prima volta piede sulla Luna! 1969, odissea nello spazio e nel tempo!

In quel 1969 Passato e futuro si toccarono all’insegna di un presente ricco di obiettivi, conoscenze, tecnologia e traguardi da raggiungere.

Allo stesso modo, ad Aosta, l’Area Megalitica emerge, dirompente, in un quartiere residenziale ad appena 2 km dal centro storico occupando lo spazio con volumi futuristici e avveniristici. Forme scabre, geometriche e nette; materiali che assorbono e riflettono la luce, quasi a voler catturare quel Sole e quel cielo così importanti, in origine, per disegnare questo sito, contemporaneamente muto ed eloquente.

Allo stesso modo, tra le tendenze dell’ultima #MFW abbiamo visto sfilare motivi geometrici e optical,

Valentino

ma anche pellicce di ogni tipo e colore (rigorosamente eco!)

; gioielli vistosi dal sapore etnico e tribale

accanto a look “spaziali” degni di #StarWars, come quelli ideati da Salvatore Ferragamo per guerrieri e amazzoni del cyber spazio mas all’insegna del #FuturePositive.

Incredibilmente aliene e ancestrali le #Creatures del brand danese Han Kjøbenhavn che ritorna a Milano per la seconda prova nella fashion week dedicata al menswear.

MF fashion

Beh…ogni commento è superfluo!

Le stele antropomorfe. Scoperte: opere d’arte preistorica. Coperte: opere d’arte contemporanea!

Un’eterna Bellezza sospesa tra Preistoria, Contemporaneità e Futuro perché la storia e le grandi civiltà plasmano linguaggi che non passano mai di moda! E’ l’#ARCHAEOLOGICALCODE!

Stella

UNICORNI … MUST HAVE! E mai più senza!

Allora, alzi la mano chi, negli ultimi 4 anni almeno, non ha avuto modo di incrociare da qualche parte o sotto qualunque forma, un UNICORNO! E vogliamo non parlarne proprio oggi, 9 aprile? Oggi: UNICORN DAY!

Allora, io sono classe 1975! Negli anni ’80 anch’io caddi vittima della “Mio Mini Pony-Mania” (ne avevo circa una dozzina…). Una moda che si indica come la base del grande, globale revival fanta-equino sfociata nell’ “UnicornoMania“.

Dai più abituali pupazzi di peluche all’abbigliamento.

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Dalla cartoleria ai bijoux, passando da scarpe, accessori, tazze, piatti, biancheria varia, complementi d’arredo… fino ad una casa vera e propria completamente dedicata al mitico animale! E’ la Unicorn House in centro a Milano, inaugurata per la Design Week 2019!

Unicorn House-Milano
Unicorn House-Milano

Calamite, gadgets di ogni forma, materiale e dimensione… per continuare con giochi impensabili ispirati alla bava di questa creatura; il così tanto amato SLIME (!!!), chiaramente brillantinoso, glitterato, iridescente e profumato!

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Una “Unicorn-Mania” incontenibile, esplosa anche nel look con acconciature e tinte per capelli (e barbe) di sicuro effetto!

unicorn-myonebeautifulthing
unicorn-myonebeautifulthing

Il make-up? Da vera Lady Unicorn on the rainbow! Un trionfo di toni pastello, iridescenze, sapienti sfumature, glitter e decorazioni “a tema”.

Mia figlia “grande” ha 4 anni e mezzo: nutre un’autentica passione, peraltro condivisa con molte amichette, per questi favolosi equini dal magico corno! Le lenzuola, il cuscino, un paio di vestitini, il lucidalabbra, il sapone, le mollette per capelli e, immancabile, il vestito da principessa Unicorno tutto tulle, colori pastello, stelline luccicose e paillettes!

E del cibo? Vogliamo parlare del tanto trendy (ma, a parer mio, stucchevolissimo) “unicorn FOOD”?!

Unicorn cake (nerdy nummies)
Unicorn cake (nerdy nummies)

Torte arcobaleno con orecchie e corno a vite in pasta di zucchero multicolore. Dolcetti, biscotti, cioccolatini, fino ai macarons unicornizzati!

Unicorn-Macarons (Rosanna Pansino)
Unicorn-Macarons (Rosanna Pansino)

E degli (improbabili…) “unicorn-toast” che diciamo? Fette di pancarré spalmate con varie creme di “formaggio” dai colori pastello cosparsi di stelline e paillettes … edibili?

Unicorn food toasted bread with colorfur cream cheese
Unicorn food toasted bread with colorfur cream cheese

Sandwich, cocktails, gelati, cereali, snack! Fino all’incredibile “Unicorn Frappuccino”: una miscela di latte e sciroppi super colorati che cambiano colore alla bevanda a seconda di come la mescoli… mamma mia… gli UNICORN-PARTY vanno per la maggiore (sebbene, per ora, limitati alla famiglia… s’intende!)

Unicorn Frappuccino-Junk banter
Unicorn Frappuccino-Junk banter

Mah, sarà anche di grande tendenza, ma personalmente resto scettica… Chissà se era proprio questo il genere di “gusto” cui pensava la raffinata “Dame à la Licorne” raffigurata nel ciclo di arazzi millefiori esposti al Musée du Moyen Age di Parigi…

Dame à la licorne-Gout (LePoint)
Dame à la licorne-Gout (LePoint)

Scoperti nel 1841 da Prosper Merimée nel castello di Boussac, le tappezzerie fine Quattrocento della “Dame à la Licorne” suscitano ancora oggi viva ammirazione.

Sei arazzi: ognuno rappresenta allegoricamente un senso attraverso le figure di una giovane nobile ed elegante fanciulla, della sua ancella, di un leone e di un unicorno. Ogni scena si situa in un giardino bucolico ricco di erbe e fiori che ci ammaliano e ci trasportano nell’universo immaginario delle classi aristocratiche della fine del XV secolo. !

Gli elaborati sfondi millefleur formano modelli ipnotici generando un’aura trascendentale che attira chi guarda nel loro complesso universo interno.

The Lady and the Unicorn“: un capolavoro divenuto icona indiscussa di un immaginario, di un vero e proprio sistema di simboli e valori facenti capo al raffinato amor cortese e alle sue articolate poetiche.

Ma il senso del “meraviglioso” e del favolistico viene trasmesso in particolare da una figura su tutte: l’unicorno!

Animale fantastico, onirico, stupefacente. Un elegante e leggiadro equino con folta chioma e lunghissima coda, identificabile da un corno a vite in mezzo alla fronte e, cosa venuta dopo, da spruzzate iridescenti di stelline e arcobaleni ad ogni colpo di zoccolo!

E forse è da questo raffinato “incunabolo” che deriva tutto il successivo mondo incantato in cui agli unicorni si associano gli arcobaleni e persino le fate! Eteree ed evanescenti fanciulle di eccezionale bellezza avvolte di sogno e magia. Come gli unicorni! Eh sì, perché il corno sulla loro fronte, l’Alicorno, si diceva fosse magico e capace di guarire immediatamente dalle malattie e di purificare l’acqua. Anche per tale motivo si credeva che solo una fanciulla vergine e pura potesse cavalcare questo animale.

Ma è davvero solo il frutto della fantasia?

Per alcuni scienziati, tuttavia, l’Unicorno parrebbe essere esistito davvero! Un suo antenato (più simile ad un tozzo rinoceronte lanoso però…) sarebbe vissuto in un periodo compreso tra 300mila e 30mila anni fa in Siberia, arrivando forse ad incontrare l’uomo di Neanderthal!

Eccolo!

Elasmotherium sibiricum
Elasmotherium sibiricum

Sì, decisamente meno raffinato e più bovino che equino ma, si sa, se eventualmente incontrato dall’uomo potrebbe averne segnato potentemente l’immaginario!

E che dire delle straripanti Wunderkammern settecentesche, in cui tra i vari “mirabilia” non potevano assolutamente mancare i corni di unicorno? Poi, in realtà, erano corni, o meglio, denti di narvalo… un delfinattero anche detto “unicorno del mare”. Lui, sì, esiste per davvero!

Per inciso, tornando a mia figlia, nella sua Wunderkammern si annoverano anche 2 narvali e uno strano tricheco cornuto… mah! Mirabilia da edicola!

narvalo, unicorno del mare (nationalgeographic.it)
narvalo, unicorno del mare (nationalgeographic.it)

Sta di fatto che pensando alla fortuna iconografica degli unicorni, la mente immediatamente si sofferma ai tanti mosaici medievali dove questo meraviglioso, immaginario animale veniva raffigurato come simbolo di purezza e castità. Divenuto, dal XIII secolo, attributo della Vergine, arriva a simboleggiare addirittura il Cristo.

VALLE D'AOSTA-Mosaici Cattedrale Aosta (foto Enrico Romanzi)
VALLE D’AOSTA-Mosaici Cattedrale Aosta (foto Enrico Romanzi)

Vi riporto, qui sopra, il mosaico duecentesco presente all’interno della Cattedrale di Aosta. Notate, appunto, l’unicorno in alto a sinistra e, sotto di lui, in corrispondenza, il pesce, ιχθύς (pronuncia: ikzùs con la u stretta, alla francese), ovvero acronimo di “Gesù Cristo figlio di Dio Salvatore”).

Quindi dicevamo: simbolo di purezza, di castità e di onestà, si narrava che questo animale potesse venire avvicinato e abbracciato soltanto da una Vergine. E, ad un ulteriore livello iconologico: l’abbraccio, il contatto tra unicorno e Vergine richiama anche la Santa Incarnazione. L’unicorno, simbolo di Gesù Cristo, trova incarnazione in una Vergine: è la Santa Concezione. Si pensava inoltre che il suo corno avesse un forte potere curativo, in grado di guarire,qualora assunto in forma di polvere, qualunque tipo di veleno. Ma come procurarselo? Fino al XIX secolo, poteva esserne acquistata una porzione presso alcune “farmacie” le quali, in realtà, commerciavano denti di un grosso cetaceo: il narvalo, appunto…!

Quindi, fin’ora, possiamo concludere che l’unicorno, anche chiamato “alicorno” o “liocorno” …

“Ci son due coccodrilli ed un orangotango; due piccoli serpenti, un’aquila reale, il gatto, il topo e l’elefante…non manca più nessuno… Solo non si vedono i due liocorni!”.

so che vi è venuta in mente e la state canticchiando… ebbene, questo animale, esistito o meno, si presenta assolutamente legato al mondo femminile! Un animale la cui eleganza, raffinatezza e delicata cromia attirano immediatamente la fantasia e il gusto delle giovani fanciulle!

E numerosi sono gli esempi nell’arte in cui troviamo il fiabesco equino avvinghiato, abbracciato o coccolato da una ragazza!

Domenico Zampieri detto il Domenichino, Vergine con unicorno, 1604, affresco,Roma, Palazzo Farnese, Galleria dei Carracci
Domenico Zampieri detto il Domenichino, Vergine con unicorno, 1604, affresco,Roma, Palazzo Farnese, Galleria dei Carracci

Attenzione, tuttavia! L’unicorno è, sì, simbolo di purezza e castità, cosa che ne fece un emblema indiscusso dell’amor cortese, ma lui, l’animale, parrebbe tutt’altro che casto! Anzi, sarebbe mosso da istinti carnali anche violenti che, però, verrebbero ammansiti solo dal tocco di una giovane candida e innocente…

Raffaello, Dama col Liocorno (1505-1506), Galleria Borghese, Roma
Raffaello, Dama col Liocorno (1505-1506), Galleria Borghese, Roma

Secondo Leonardo Da Vinci, infatti, esisteva un solo modo per catturare un unicorno, ovvero sfruttando il suo istinto sessuale. Gli si metteva davanti una giovane vergine, al che lui per il desiderio impellente dimenticava di attaccare e posava la testa sul suo grembo, e solo così poteva essere catturato. Il significato del corno è chiaro.

Ecco, siamo così arrivati al risvolto piccante dell’unicorno: l’evidente simbologia sessuale data dall’essere “cavallo” con in più un lungo e potente corno!

Ed ecco che il mondo fatato e zuccheroso dai delicati colori pastello, inizia a venarsi di tinte più “dark”! Ecco che l’unicorno di veste di un’identità nascosta, mimetizzata e per certi versi “pericolosa”. Diventa ancor più intrigante per questa sua natura ambigua: un aspetto esteriore candido, fragile e innocuo che nasconde, però, una creatura mossa da forti pulsioni carnali…

Un’ambiguità assunta, tra le altre cose, a novella icona gay!

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E per concludere fa sorridere come, ultimamente, inizino ad emergere divertenti tentativi di smitizzazione degli Unicorni, quasi che tutto questo candore, questa purezza e questa “superiorità” li abbiano resi antipatici. E’ il caso del film animato “Onward-Oltre la magia” (Disney-Pixar 2020).

Ebbene, in questa periferia di New Mushroomton, gli unicorni non sono affatto creature poetiche e celestiali, ma animali randagi, sporchi e aggressivi, che hanno imparato a cercare gli avanzi dai bidoni della spazzatura.

Perché un simile cambiamento? Perché in questo mondo le fate non hanno più bisogno di volare, le Mantigore non combattono e diventano dei food-manager e gli unicorni, beh, tirano fuori il peggio! “Oltre la magia”, appunto; molto al di là della fantastica “terra di mezzo”. Qui la magia è stata soppiantata dalla più onnipresente tecnologia e chi non riesce a stare al passo, resta tagliato fuori e relegato ai margini. Una cruda visione esasperata della realtà? Un monito? Ossia che senza quel necessario pizzico di sana magia ci si abbrutisce e ci si inaridisce? Forse questi unicorni malconci vogliono dirci questo: lasciateci sognare, lasciateci fantasticare e, anche usando la tecnologia, non diventatene schiavi ma pensate che persino nei più sofisticati meccanismi tecnologici può insinuarsi un elemento di “magia”, comunque la si voglia intendere.

Solo con la fantasia, vera e autentica, possiamo continuare ad essere UNICORNI!

Stella

Twin influencer. Gemelli alla riscossa dal mito alle nuove icone del web

Recitava la pubblicità “tormentone” di un noto gelato in voga negli anni ’90 che “Du is mei che uan”…ricordate?

Maxibon-Motta-il-gusto-del-gelato-e-la-bellezza-di-Stefano-Accorsi

Beh, senza dubbio il successo incredibile di molte coppie di gemelli attuali la dice lunga. Un “effetto-specchio” che piace, affascina, convince sul web e sui social, in particolare nel mondo del fashion e della musica pop. Un magnetismo “al quadrato” che rende i gemelli, anzi, ancor più le gemelle, delle creature quasi mitiche, come uscite da una fiaba, come uscite, è il caso di dirlo, proprio da uno specchio magico!

Caillianne e Samantha Beckerman

E ci si diverte ad osservarle nei minimi particolari, sforzandosi di individuarne le differenze o le peculiarità E su questo le stesse twins giocano parecchio: dal colore al taglio dei capelli, al trucco, all’abbigliamento! Uguali, certo, ma con sfumature o “interpretazioni” diverse di un medesimo stile.

Ma, a ben pensarci, il fenomeno “gemelli” non è solo cosa di oggi… Sin dal mito queste coppie suscitano attenzione, curiosità e un pizzico di “timore” nel senso che due creature così uguali, per non dire spesso identiche, ma dal carattere diverso se non addirittura opposto, generate dallo stesso ventre…sì, beh, hanno sempre avuto quel “che” di destabilizzante ed “esotico”.

Iniziamo dall’alba degli dei. Apollo e Artemide. Il Sole e la Luna, fulgidi figli gemelli di Giove e Latona che videro la luce su Asteria, l’isola fluttuante che, da quel momento, venne fissata al fondo del mare e mutò il suo nome in Delo.

Due gemelli dalle luminose imprese e dalla brillante personalità, entrambi invincibili arcieri. Artemide, forse più enigmatica e misteriosa del fratello, indiscutibilmente legato all’astro diurno. Entrambi legati alle arti e alla divinazione, ma lei connotata da una natura più selvaggia, selvatica ed inafferrabile quale si addice alla notturna dea della caccia.

Una coppia ricca di sfaccettature e suggestioni, entrambi dedicatari di molteplici culti legati alle altrettante valenze dei corpi celesti che presiedono. Non potendo (e non volendo in tal sede) dedicare lo spazio necessario alla disamina di questa coppia divina, ci limitiamo a riportare la loro immagine raffigurata più volte nel porticato del barocco Palazzo Roncas di Aosta. Il proprietario, infatti, l’ambizioso e carismatico barone Pierre-Léonard Roncas, una volta nobilitato dal Duca di Savoia, scelse Apollo e Artemide, il Sole e la Luna, quale emblematica coppia luminosa della sua araldica accompagnati dall’esplicito motto “omnia cum lumine“.

Apollo e Diana-Roncas

L’influenza di gemelli astrali continua anche in ambito aerospaziale! Dopo le numerose missioni recanti il nome di “Apollo”, tra cui la numero 11, quella che portò allo storico primo allunaggio del 20 luglio 1969 celebra quest’estate i suoi primi 50 anni, ecco pronta a partire, nel 2024, la prima missione denominata “Artemide” che porterà anche la prima donna sulla superficie della Luna.

La mitologia classica conosce molti altri gemelli.Una delle coppie più celebri è rappresentata da Castore e Polluce, i Dioscuri, letteralmente “i figli di Zeus”. Essi erano identici in tutto,ma Castore era mortale, Polluce immortale. Alla morte del primo, il secondo ottenne di condividere la propria immortalità con lui, ed essi si alternarono nell’oltretomba e nel cielo, formando la costellazione dei Gemelli.

Passiamo ad un’altra coppia di “gemelli diversi”, questa volta di biblica memoria: Giacobbe ed Esaù.

Figli gemelli di Isacco e Rebecca. Esaù, dai folti e ricci capelli rossi, alto e muscoloso, era un cacciatore e si distingueva per la prestanza e la forza fisica. Giacobbe, invece, esile e mingherlino, dai lisci capelli neri, oltre ad essere il prediletto della madre, era noto per la sua astuzia. Il primo a nascere è Esaù e, subito dopo, vede la luce Giacobbe. L’eredità e la benedizione di Isacco sarebbero dunque toccate per diritto ad Esaù, secondo la legge della primogenitura. Passano gli anni. Esaù è ora un giovane alto e forte come una quercia. Ha il corpo ricoperto di un folto pelo rossiccio. Giacobbe invece è mingherlino e di carattere dolce.

Diversi già nell’aspetto ma anche nel carattere! Ma cosa successe di grave tra i due?

Un giorno Giacobbe aveva preparato una minestra di lenticchie. Esaù arriva dalla campagna stanco e affamato. Dice al fratello: “Lasciami mangiare un po’ di questa minestra, perché sono sfinito. ” Giacobbe approfitta della circostanza: ci teneva alla primogenitura e desiderava ardentemente ricevere la benedizione del padre Isacco. Allora dice al fratello: “Ti darò questa minestra, se tu mi cedi la tua primogenitura!”.

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Esaù risponde: “Sto morendo di fame. A che mi serve allora la primogenitura? Dammi la minestra!”. E così Esaù vende il proprio diritto sotto giuramento al fratello gemello per un piatto di minestra di lenticchie. Certo Giacobbe si dimostra in questa occasione un profittatore. Ma, tra i due fratelli, Esaù si comporta in modo peggiore. A tal punto disprezza la benedizione del padre, da barattarla per un piatto di minestra!

Una storia che molto venne ripresa ed interpretata spesso per trovare l’origine prima a dissensi interni alla chiesa oppure per tentare di stabilire quale chiesa fosse la più importante. Una coppia di gemini che ritroviamo nella galleria occidentale del chiostro romanico della Collegiata dei SS. Pietro e Orso ad Aosta. Una galleria, non a caso l’unica del chiostro, a presentare colonnine binate, ossia gemelle!

Cosa ci racconta, dunque, questa galleria? E’ una storia contorta e complicata, in cui inganni e ambiguità la fanno da padrone!

Si comincia con Rebecca partoriente aiutata dall’ostetrica e la nascita di Giacobbe e del gemello Esaù. Rebecca, dal cui ventre nasceranno due popoli, qui è simbolo della Chiesa da cui sono derivate la Cattedrale e Sant’Orso. Di nuovo vi saranno accenni, più o meno velati, ai conflitti tra queste due Case, chiaramente auspicando la riconciliazione finale. Importante l’ambiguità tra Giacobbe ed EsaùIsacco cade nell’inganno e benedice Giacobbe credendolo Esaù che, in quel momento, si trova fuori a caccia. Esaù non perdona al fratello questo inganno e cerca di vendicarsi. Vuole uccidere il fratello.

Nella scena successiva Rebecca consiglia a Giacobbe di fuggire nella città di Harran e rifugiarsi presso il di lei fratello Labano. Così, prima con il ricatto e poi con l’inganno, Giacobbe diventa il nuovo capo del clan ed eredita la promessa fatta da Dio ad Abramo. Dio, accettando l’azione non troppo limpida di Giacobbe, vuole dimostrare che il suo progetto di salvezza è affidato a chi lo apprezza e non a chi si basa solo sui propri diritti umani. La salvezza è un dono e come tutti i doni viene offerta a chi sa accoglierla.

In viaggio Giacobbe fa uno strano sogno. Una scala è appoggiata sulla terra, mentre la sua cima raggiunge il cielo. Ed ecco degli angeli che salgono e scendono sopra di essa. Sempre nel sogno Giacobbe sente una voce: “Io sono il Dio di Abramo e il Dio di Isacco, tuo padre. La terra sulla quale ti sei coricato la darò a te e alla tua discendenza. La tua discendenza sarà numerosa come i granelli di polvere della terra“.
Quando Giacobbe il mattino seguente si sveglia, ricordandosi del sogno fatto, capisce che Dio ha confermato la benedizione del vecchio padre Isacco.

Confortato dal sogno, si rimette in cammino dirigendosi verso la città di Harran. Prima di entrare in città, stanco e assetato, si ferma a bere accanto al pozzo dove già sua madre Rebecca veniva ad attingere acqua. In quel momento arriva al pozzo una bella ragazza di nome Rachele, figlia di Labano, fratello di Rebecca. Rachele è la cugina di Giacobbe. Tuttavia Labano ha una figlia maggiore, Lia. Non bella, ma da accasare. Giacobbe vuole sposare Rachele e per questo accetta di lavorare per Labano sette interminabili anni. Alla fine, però, Labano lo obbliga a sposare Lia. Labano tuttavia per concedere a Giacobbe anche Rachele pretende che il giovane lo serva per altri sette anni. Così Giacobbe, dopo quattordici anni di lavoro quasi forzato, si ritrova ormai uomo maturo e con due mogli.

Vengono quindi raffigurati tutti i figli di Giacobbe: dodici maschi e un’unica femmina, Dina. La grande colonna singola al centro riporta la scena della riconciliazione finale, un auspicio, per chi la commissionò, per un nuovo equilibrio tra la Cattedrale e, appunto, Sant’Orso!

Lasciamo ora le Sacre Scritture per un’altra coppia famosissima di gemelli influencer! Anche se, a ben guardare, solo uno dei due può davvero definirisi tale… Sì, stiamo parlando di Romolo e Remo!

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Impossibile non conoscere la loro storia. Una storia remota, avvolta nel mito, dal sapor di leggenda! M, si sa, dietro ad ogni leggenda si nasconde un’antica verità!

Frutto dell’amore impossibile tra il dio Marte e la Vestale Rea Silvia, figlia di Numitore, legittimo re di Albalonga spodestato dal fratello malvagio Amulio che volle togliere di mezzo ogni possibile rivale. Fu così che, saputo della nascita dei gemelli, obbligò Rea Silvia ad abbandonarli nel fiume Tevere credendo di destinarli ad una morte certa. Invece vennero trovati sulle sponde, urlanti e affamati, da una lupa che li allattò nella sua tana sul colle Palatino. Probabile che dietro questa “lupa” si celi una madre adottiva; col termine “lupa” si indicavano, con disprezzo le prostitute. Vennero poi trovati e allevati dal pastore Faustolo, dal nome sicuramente beneaugurante!

Tuttavia i due non erano destinati ad andare d’amore e d’accordo. Il noto episodio della fondazione di Roma, infatti, riguarda solo uno dei due: Romolo, appunto!

Una volta cresciuti Romolo e Remo vennero informati sulle loro origini e vollero rivendicare il trono di Alba Longa.
Uccisero dunque lo zio impostore Amulio e posero di nuovo sul trono il nonno Numitore. Non volendo dividere il potere, chiesero il permesso di fondare una nuova città, proprio in corrispondenza dei luoghi dove erano cresciuti, cioè nei pressi del colle Palatino.Una lite. Un grave gesto di arroganza da parte di Remo che ignorò un sacro divieto oltrepassando la linea del solco primigenio tracciato con l’aratro dal fratello, alla base del suo assassinio.

La nascita di Roma secondo la tradizione viene fissata con una precisione sorprendente al 21 aprile del 753 a. C., quindi nella seconda metà del VIII secolo. Le sue origini si mescolano a elementi storici, ma sopratutto leggendari e mitologici, con notizie pervenute fino ai nostri giorni grazie agli scritti di famosi autori classici, come Varrone.
In realtà la data precisa è del tutto convenzionale e si deve proprio a quest’ultimo che, basandosi su alcuni calcoli astrologici dell’amico Taruzio, la rese pubblica intorno al I secolo a.C.
Ancora oggi in questa data si tengono solenni festeggiamenti per il Natale di Roma.

Le indagini archeologiche sul Palatino hanno portato a scoperte straordinarie. Ritrovamenti del tutto eccezionali sono le tracce di capanne del X-IX secolo a.C., cioè anteriori alla fondazione della città, i resti dell’antico santuario delle Curiae Veteres attribuite dalla tradizione scritta a Romolo, i pozzi votivi con i loro depositi spettanti ad un secondo antichissimo santuario (metà/fine VIII secolo a.C.) che fronteggiava le antiche Curie sulla via che saliva dalla valle del Colosseo al Foro, una residenza aristocratica (probabile casa natale di Augusto) che si estendeva lungo la pendice del Palatino sino alla sella tra il Palatino e Velia, le rovine impressionanti del famoso incendio neroniano del 64 d.C., le grandi realizzazioni imperiali (neroniane, flavie, adrianee, severiane, tardo-antiche) che caratterizzano il paesaggio di questo settore urbano fino alle destrutturazioni dell’insediamento del VI e VII secolo d.C., alle spoliazioni di età medievale e rinascimentale e agli sterri post-unitari. Tremila anni di storia sono passati sotto gli occhi e tra le “mani”, degli archeologi, restituendo alla comunità scientifica e alla città un formidabile patrimonio di “memorie”.

Tuttavia, nonostante la si debba al solo Romolo, di fatto la nascita dell’Urbe è riassunta e simboleggiata, ancora oggi, ovunque e a distanza di secoli, dalla lupa capitolina che allatta i due gemelli, quasi un animale “totem” che svetta anche ad Aosta, denominata per le sue vestigia “Roma delle Alpi”, in piazza della Repubblica.

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E si potrebbe continuare a lungo indagando il tema dei gemelli anche in letteratura, a cominciare dai Maenecmi di Plauto, imperniata sulle avventure di due fratelli gemelli, separati fin da piccoli, chiamati nello stesso modo e protagonisti di straordinarie peripezie. A questa commedia si ispirò Carlo Goldoni che, ne I due gemelli veneziani (1747), mette in scena le maschere della commedia dell’arte (Arlecchino, Colombina, Brighella, Rosaura, il dottor Balanzoni), accanto a due gemelli, Zanetto e Tonio, dei quali il primo è la classica figura dello sciocco, mentre il secondo è il “gemello spiritoso”, incarnazione dei valori della nascente borghesia; e alla fine, dopo un variegato repertorio di trovate comiche, con una soluzione abbastanza inconsueta Goldoni fa morire in scena il gemello sciocco, decretando il trionfo dell’altro.

Un tema ghiotto, molto amato, su cui si sviluppò buona parte del filone della “commedia degli errori”, sia in Italia che in Europa.

Ma volendo giungere ad una conclusione, riflettiamo su questo fenomeno dei “twin influencer”. Gemelli che si propongono sul web, sui social, nel mondo virtuale. Gemelli la cui vita, in fin dei conti, esiste e si racconta su questi mezzi veloci, anche effimeri, volubili. Mezzi tanto persuasivi e penetranti, quanto rapidamente desueti.

Ecco, meditando su questo mondo immaginario, su questo universo parallelo, voglio concludere citando un noto romanzo di Umberto Eco, “L’isola del giorno prima” (1994).

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Estate 1643. Il protagonista, il piemontese Roberto de la Grive, naufrago su una nave deserta (o forse no?) presso un’isola irraggiungibile, ha un fratello immaginario: un gemello inesistente al quale egli attribuisce, in un gioco di specchi, le responsabilità del suo sventurato destino.

Una pura immagine, che si identifica con l’”io” ma che ne costituisce al tempo stesso un riflesso “altro”. Ne scaturisce un vertiginoso gioco di rimandi che rende impossibile arrivare alla natura genuina dell’individuo. 

Ecco, forse questo è il rischio: l’eccessivamente doppio, riflesso, moltiplicato, riprodotto, amplificato, enfatizzato dalla virtualità di un mondo in cui il confine tra vero e falso è sfuggente, sfrangiato… spesso molto, troppo, labile.

All’inizio del post parlavamo di “specchio magico”: affascinante ma anche inquietante. Tanto da chiedersi cosa sia vero e cosa no.

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Stella