#OltreConfine fino a Petra, splendida capitale dei misteriosi Nabatei

Oggi #OltreConfine si spinge davvero “oltre”! Si va oltre il Mediterraneo per raccontarvi un viaggio straordinario in un luogo avvolto dalla magia che si rivela piano piano, dischiudendosi tra sabbie dorate e rocce dalle incredibili sfumature. Oggi si va in Giordania!

Arrivo a Wadi Mousa sotto un cielo di sabbia: il Ghibli, vento del deserto, imperversa sulle case e riempie le strade tingendo tutto di ocra gialla. Sono in Giordania.

Wadi Mousa (S. Bertarione)
Wadi Mousa (S. Bertarione)

La mattina seguente tutto brilla sotto un sole già alto alle prime ore del mattino; un’aria chiara e tiepida fa presagire il calore della giornata. Si va a Petra. La mitica Petra, città carovaniera, svelata al mondo dall’esploratore anglo-svizzero  Johann Burckhardt nel 1812 in occasione di un viaggio da Damasco al Cairo. Gli dissero che quelle montagne erano impenetrabili e molto pericolose e, proprio per questo, lui ci volle entrare.

Si travestì da mercante musulmano forte della sua conoscenza dell’arabo. Spiegò che doveva assolvere ad un voto fatto ad Allah e riuscì a conquistare la fiducia delle genti beduine che abitavano nelle antiche cavità nabatee.

L’autobus ci lascia in un ampio parcheggio reso abbagliante dalla luce; da lì ci si incammina, tutti in fila. E’ strano: c’è gente, è vero, ma sembra di essere soli. Forse perché la fantasia inizia a lavorare in maniera sempre più incalzante astraendoti dalla realtà …

Petra dalle Tombe reali
Petra dalle Tombe reali

Sei alle porte di un deserto; un deserto insolito, un deserto di roccia, dove luci accecanti si alternano a vere e proprie gallerie d’ombra.

Un deserto cangiante dove il millenario lavorare di acque, terra e vento ha letteralmente dipinto il paesaggio con incredibili nuances di rosa, arancio, rosso e violetto, talvolta striati di giallo, di bianco o di un viola talmente intenso da assomigliare al blu indaco.

Come in un onice. I colori del deserto giordano
Come in un onice. I colori del deserto giordano

Il sentiero si inoltra nella valle fino ad insinuarsi in una sorta di corridoio dalle alte pareti rocciose, un corridoio che si fa sempre più stretto e scuro: è il Siq!

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Si tratta di una vera e propria via d’accesso alla mitica Petra, misteriosa città dei Nabatei, ricco popolo di queste terre. Un popolo di intraprendenti commercianti e di coraggiosi guerrieri.

I resti di un attacco d’arco lasciano immaginare l’antica (e scomparsa) porta d’accesso del Siq. In basso ancora ben riconoscibile il canale di scorrimento delle acque che riforniva la città.

E la strada pare scendere ed insinuarsi sempre di più nel ventre di roccia di un deserto avvolgente e palpitante. Poi, nell’ombra, tutti incanalati in un passaggio davvero angusto, una fessura di luce appare in lontananza.

Una breccia lascia intravedere uno spicchio di facciata architettonica completamente permeata di luce arancione..o meglio, di una luce che varia a seconda delle ore del giorno. Dal tenue rosa dell’alba, all’arancio carico del mezzogiorno fino al porpora infuocato del tramonto. E’ El Khasneh al Faroun. Il Tesoro del Faraone.

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Vera icona di Petra questo monumento, voluto dal sovrano nabateo Areta III (I secolo a.C.), colpisce e stordisce per la sua quasi inspiegabile meraviglia. Scolpita nella parete rocciosa, solida ma facile da lavorare, quest’imponente architettura si erge in tutta la sua maestà: una scalinata consente di raggiungere una terrazza da cui partono sei colonne corinzie. Ai lati le figure dei Dioscuri. In alto, al centro, troneggia un elegante frontone decorato da raffinati ed esili girali vegetali alternati a kantharoi (vasi da simposio). Quindi una sorta di semi-attico decorato a rosette sorregge un secondo livello colonnato dove la creatività e l’eclettismo architettonico toccano vertici inimmaginabili. Al centro una pseudo- tholos (tempietto circolare)cieca scandita da colonne, sempre corinzie tra le quali risaltano (seppur molto danneggiate) delle figure umane interpretabili come divinità. Quella in facciata pare reggere una cornucopia e connotarsi, quindi, come dea dell’abbondanza. Ai lati della tholos, sul fondo, emergono i profili di due figure divine alate. In primo piano, invece, due porzioni di colonnato cieco decorate, forse, da trofei d’armi, sorreggono un timpano spezzato. Il tutto decorato sempre da motivi vegetali e dentelli. Una sovrabbondante ma ben studiata ricchezza decorativa densa di significato.

Petra. El Khasneh al tramonto (S. Bertarione)
Petra. El Khasneh al tramonto (S. Bertarione)

Tempio? Tomba? Monumento celebrativo? Cenotafio? Le ipotesi sono ancora aperte affollandosi, sostituendosi e contraddicendosi continuamente.

Ma Petra non finisce qui. Petra era una città…immensa! Le tombe punteggiano quasi interamente le pareti rocciose intorno alla via principale…ritagliate e scolpite quasi cercando volutamente un’armonia con le onde colorate delle rocce. E poi il grande teatro con l’ampia cavea ricavata nel grembo della montagna. E poi ancora i resti svettanti del cosiddetto “Tempio di Dushara” importante dio nabateo della montagna, poi ribattezzato dai beduini “Qasr-al-Bint-Faroun”, “il palazzo della figlia del faraone”. IUn edificio importante anche perché uno dei pochissimi costruiti e non scavati nella roccia. In cima all’arcone d’accesso un sottile filo di conci lapidei disegna ancora l’arcata originaria meravigliando per come possano resistere così apparentemente sospesi, fragili…

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E poi sù… sù per l’impervio e assolato sentiero fino a El Deir, il Monastero: un’altra incredibile tomba “sorella” del Tesoro, simile per impostazione ma ben più sobria nel decoro.

Petra. El Deir, il Monastero (S. Bertarione)
Petra. El Deir, il Monastero (S. Bertarione)

Tutti cercano di indurti a salire a dorso di mulo, ma meglio usare le proprie gambe e risparmiare l’inutile fatica a quelle povere bestiole..tutte decisamente sottopeso oltretutto!

Un sito che è stato abitato fino a non tantissimi anni fa… e che ancora oggi vede qua e là gruppi di nomadi venditori di souvenirs.

Si possono riuscire a scattare foto davvero suggestive..anche immortalando una dolcissima bimba beduina che gioca,

Petra. Bimba beduina
Petra. Bimba beduina

o quasi ipnotizzati dal profilo senza tempo di un uomo figlio di queste sabbie, avvolto in candide vesti, mentre scruta un orizzonte lontano… un orizzonte dove, forse, ancora si odono le voci dei principi nabatei.

Petra. Profili senza tempo
Petra. Profili senza tempo

Stella

#OltreConfine a Vaison. Inaspettate “vacanze romane” al profumo di lavanda.

Queste magnifiche giornate, più miti e più lunghe, la luce diversa, gli alberi in fiore, i prati sempre più verdi mi hanno fatto tornare alla mente una terra che io adoro: la Provenza!

#OltreConfine ci porta in Vaucluse nella splendida civitas di Vaison-la-Romaine che, come in un perfetto quadro impressionista, incastonata in un paesaggio pennellato nei toni del giallo ocra, del lavanda, del verde e dell’azzurro, si apre tra le colline e la pianura attraversata dal torrente Ouvèze.

Vigneti, uliveti, campi di lavanda e girasoli… colpi di luce talvolta accecanti in questa terra meravigliosa dove spesso si vorrebbe non solo trascorrere una vacanza, ma un’intera vita.

Le case rosate di Vaison emergono nella piana dominata dal Gigante di Provenza, quel Mont Ventoux cantato dal Petrarca (dopo aver ripreso fiato perché, a quanto dice, la salita lo sfiancò!): verso nord scruta le vette alpine; verso sud, strizza l’occhio alle onde mediterranee: tra monti e coste, dalle nevi alle onde seguendo antichi tracciati preistorici, protostorici, romani e medievali che hanno disegnato un sorprendente e vasto territorio liaison tra Italia e Francia.

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Siamo nel dipartimento del Vaucluse, dicevamo, nella terra che in antico corrispondeva alla provincia romana della Gallia Narbonense. Vaison-la-Romaine, ossia Vasio Vocontiorum, civitas foederata di Roma, ci restituisce oggi l’area archeologica aperta al pubblico più vasta e meglio conservata di Francia: ben 15 ettari a cielo aperto armonicamente inseriti in un contesto urbano e paesaggistico dalla bellezza quasi commovente. Tutta la poesia della dolce Provenza con oltre 2000 anni di storia alle spalle!

Vasio (derivante probabilmente da una radice celtica col significato di “sorgente”): forse un oppidum della tribù celtica dei Galli Vocontii, in merito ai quali l’enciclopedista “tuttologo” Plinio il Vecchio cita un particolare vino dolce e leggermente effervescente davvero squisito! Ci racconta che i Vocontii conservavano il segreto di conferire a questo vino la giusta effervescenza, pare, lasciandolo per lungo tempo nell’acqua fredda dei torrenti…Che sia l’antenato dello champagne?!

I Vocontii fanno la loro comparsa nel IV secolo a.C. calando da nord; la regione a loro piace molto (non mi sorprende!) e decidono di stabilirvisi creando due “capitali”: Vasio, appunto, e Lug (attuale Luc-en-Diois). Roma conquista queste terre tra il 125 ed il 118 a.C. e, in breve tempo, le due cittadine diventano i centri più floridi dell’intera Narbonense, come del resto ci racconta lo storico Pompeo Trogo.

L’Ouvèze, in passato navigabile, divide la città in due parti: la città alta, nata nel Medioevo intorno al severo maniero dei conti di Toulouse, vero gioiello rimasto apparentemente fermo al XIII-XIV secolo! E la città bassa, sorta e sviluppatasi sui resti del centro romano che, tuttavia, dopo le campagne di scavo di inizio Novecento, per ben 15 ettari fanno bella mostra di sé tra le case, accanto alle chiese, nei giardini…

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Il centro moderno è a dir poco delizioso. Domina una calda e rassicurante luce rosa-dorata che accende i colori degli innumerevoli vasi e balconi ridondanti di fiori. Piccoli vicoli ombreggiati conducono a piazzette “gioiello” spesso con fontana, sempre rivestite di fiori. Negozi carinissimi e ristorantini accattivanti occhieggiano tra piante di pomodori, aglio e cipolle; i profumi del timo, dell’origano e dell’immancabile lavanda vi accompagneranno ovunque!

Ma iniziamo a dedicarci all’aspetto più strettamente culturale.

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La mia visita era partita con l’area della Villasse, corrispondente ad un ricco quartiere residenziale (con magnifiche domus) e commerciale (con botteghe e porticati). Le tabernae si aprono su un tratto del Kardo Maximus diretto alle vicine terme. Degne di interesse due dimore patrizie: la Domus del Busto d’Argento e la Domus del Delfino. La prima, costruita all’inizio del I sec. d.C., raggiungeva una superficie totale di ben 5000 mq ed è la più vasta ed imponente dimora romana di tutta Vaison al momento messa in luce. La seconda, così chiamata in seguito al ritrovamento di un piccolo delfino in marmo, venne abbellita ed ingrandita nel corso del II secolo d.C.; sul retro, lato sud, uno splendido giardino con piscina. Residenze di lusso, senza dubbio!

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Altro sito imperdibile è quello chiamato del Puymin. In posizione leggermente sopraelevata, ospita altre dimore di pregio, un santuario e, udite udite, un fantastico edificio teatrale!

2000 i mq di superficie (solo parziale!!) ad oggi noti per la Domus dell’Apollo laureato, con un tablinum incredibile dal pavimento a marmi policromi affacciato sul peristilio. Per non parlare dell’immensa Domus della Pergola che raggiunge i 3000 mq (e anche questa non è stata scavata del tutto!). Il nome le deriva dal pergolato che caratterizza un amplissimo triclinium estivo affacciato sulla corte centrale. Una zona sud prettamente residenzial-suntuaria (dotata anche di balnea privati) ed una a nord dalle funzioni rustiche e di servizio (un pò come nella Villa della Consolata di Aosta).

E ancora, la visita prosegue con un vasto ed arioso santuario costituito da un periptero porticato aperto su un giardino con vasca centrale. Da qui si può accedere ad un quartiere artigianale.

Ma il “pezzo forte” del Puymin è lui, il teatro! Tutelato come “monumento storico” sin dal 1862, si tratta di un superbo esemplare di epoca claudia realizzato scavando il versante settentrionale della collina del Puymin, cosa che ha assicurato al teatro un’ubicazione al riparo dai venti e, allo stesso tempo, fresca ed ombreggiata. Ulteriormente oggetto di abbellimenti nel II e nel III d.C., si pensa venne distrutto dopo l’emanazione dell’editto di Onorio nel 407 d.C. quando tutte le statue di dei e imperatori che ne ornavano la scaenae frons furono abbattute e/o volutamente sepolte. Durante il Rinascimento del teatro si conoscevano soltanto due arcate, uniche testimoni della grandezza passata. Oggi la cavea con le sue 32 gradinate è stata radicalmente ricostruita, ma il teatro è vivo e vissuto, splendida sede di eventi, spettacoli e manifestazioni.

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La cavea del teatro romano (da http://www.monumentum.fr)

Terra di Provenza. Una terra dove “romano” (in francese “romain”), va a braccetto con “romanico” (in francese “roman”). Due termini che nel gallico idioma sono separati e distinti solo da una semplice “i”. Due aggettivi che rievocano due epoche imprescindibili, due culture sfavillanti che forse qui più che altrove hanno saputo avvicinarsi e fondersi. Non di rado infatti accade che una cattedrale romanica altro non sia che il magnifico risultato, architettonico ma anche fortemente ideologico e simbolico, di sapienti e mirati reimpieghi dell’età di Roma.

E anche a Vaison vi consiglio di visitare la suggestiva cattedrale di Notre Dame de Nazareth col suo poetico chiostro; un luogo dello spirito dove fermarsi a guardare fuori ma soprattutto dentro di sé. Un luogo di silenzio e di pace dove la luce potente del Sud si infrange tra le arcate e le colonnine rimbalzando sulle bifore e saltellando sulle mostruose creature che ornano stipiti e portali.

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La facciata della Cattedrale di Notre Dame de Nazareth a Vaison (da http://www.vaucluse-visites-virtuelles.com)
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Il chiostro di Notre Dame de Nazareth (S. Bertarione)

E ancora il Museo Archeologico “Theo Desplans”. Non grande ma assai curato, luminoso, coinvolgente e con reperti di notevole interesse che ben raccontano i fasti passati di una cittadina dall’economia fiorente e vivace, per quanto vi sia esposto meno della metà di quel che ci si aspetterebbe… Ci viene detto, infatti, che nei secoli le collezioni sono andate disperse e che reperti provenienti dagli scavi di Vaison sono finiti in tutti i musei di Francia e anche oltre oceano! A tale proposito un’associazione locale ha creato un sito che consente di sapere dove questi si trovano e dove andarli a ricercare.

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Sala della statuaria

Vaison, Vasio Julia Vocontiorum. Una perla di Provenza che ben fa il paio con la forse più conosciuta Orange. Una terra dai forti contrasti dove il mare si perde nei monti e l’azzurro si confonde col verde, dove la dolcezza dei campi fioriti quasi improvvisamente lascia spazio alla rude severità delle rocce calcaree e dei manieri arroccati. Contrasti che, forse, stando a recenti studi storici, si possono persino ritrovare nella prosa del grande storico Tacito di cui si vociferano origini galliche. In effetti, a ben pensarci, la sua lucida analisi di un impero che pur nella sua struttura centralizzata doveva saper fare i conti con l’elemento “barbaro” forse è frutto di un gallo romanizzato piuttosto che di un autoctono romano purosangue… chi lo sa…

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Vi lascio quindi con questa poesia di Provenza e con questi colori negli occhi; ma soprattutto con la voglia di trascorrere delle “vacanze romane” molto particolari nella terra che venne a buon titolo definita sempre dal nostro amico Plinio Italia verius quam provincia”.

Stella

Archeo-UTMB. Archeologia, storia e leggende del versante nord del Monte Bianco

E anche l’UTMB, come numerose altre manifestazioni, sportive e non, ha dovuto arrendersi alla terribile emergenza sanitaria. Ma a modo mio voglio contribuire con un mini-UTMB storico-archeologico per dare un’occhiata oltre confine, oltre la mole di Sua Maestà il Monte Bianco. Iniziamo dal territorio francese… Un’insolita Chamonix e dintorni!

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Il nostro viaggio sulle orme di un lontano passato parte dal ponte Saint Martin di Sallanches – luogo rappresentato in tutte le sue possibili prospettive dalle stampe ottocentesche –, risale il corso del fiume Arve, lungo la riva destra, per raggiungere, dopo Passy, l’ampia pianura che un tempo, prima dei Romani, si narra, fosse occupata dalla mitica città di Dionisia (o Diouza).
Insediamento travolto in un tempo lontano dal cedimento degli argini del lago di Servoz e successivamente colmato da una frana nella località di Chedde, frana che ha dato origine alla stupenda cascata chiamata “Cascade du Coeur”, perché le sue acque precipitano disegnando un cuore.

INDIZI ARCHEOLOGICI, STAMPE, RACCONTI E UNA NATURA MOZZAFIATO
Da Chedde saliamo faticosamente a Chatelard, chiusa naturale di quell’antico lago glaciale che occupava la piana di Servoz. Prima sorpresa: ci imbattiamo in antiche fortificazioni innalzate dai Nantuati, popolazione locale, contro i Ceutroni, risalenti ad un periodo pre-romano.

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Servoz era e resta un sogno ad occhi aperti: alla nostra destra, improvvisamente, il Monte Bianco si innalza in tutta la sua bellezza sullo sfondo dei resti del castello di Saint Michel, mentre alla nostra sinistra si scorgono le Gorges du Diosaz, gli orridi più imponenti d’Europa. Il viandante che faticosamente era giunto fin quassù – stupende le descrizioni di viaggio di Alexandre Dumas e di Horace-Benedicte De Saussure – iniziava ora il tratto più pericoloso, che le carrozze non potevano affrontare: la Montà Pellissier. Di qui, attraverso una lunga salita nell’incanto di un bosco medievale, si attraversa Vaudagne raggiungendo la Testa Nera. Spira ancora qui intatto il fascino della leggenda che voleva che da una spaccatura della roccia il Diavolo allettasse e rapisse le vergini facendo loro apparire una stanza piena d’oro. Fascino di una leggenda che non è per nulla turbato dalla presenza in loco di un’epigrafe romana del I secolo d.C. identificante i confini tra le varie giurisdizioni.
La discesa a Les Houches, sempre immersa nel verde del bosco e illuminata dai riverberi del ghiacciaio, resta fuori dal tempo. Les Houches, nome derivante dal termine ‘olca’ con cui i Celti designavano il tratto di terreno coltivato intorno alla casa, è certamente il più antico degli insediamenti della valle, e testimonia la situazione di acquitrini e di residuati morenici che un tempo occupavano la piana di Chamonix.
Questo percorso divenne carrozzabile nel 1818, ma solo con la cessione alla Francia della Haute Savoie e per intervento personale di Napoleone III, assunse la dignità di vera strada (1867).
Per la cronaca i tempi di un viaggio in carrozza da Ginevra a Chamonix nel 1850 erano di ben 11 ore per una distanza di soli 90 km.
Abbiamo così raggiunto Chamonix, la cui origine probabile è del 1119 se consideriamo che a tale data risalgono le fondamenta della chiesa, un tempo abbazia benedettina. Ma solo al 1236 possiamo far risalire con certezza la denominazione attuale come risulta da un documento di cessione del territorio dal Conte di Faucigny all’Abbazia benedettina di Saint Michel de Cluses.
Quale sia il significato del nome Chamonix è abbastanza discusso, per quanto appaia la più credibile quello di ‘campo cintato’ o di ‘campo del mulino’.
Il territorio aveva nel Medioevo una proprio autonomia amministrativa e giuridica anche se i pieni poteri spettavano all’Abbazia di Sallanches.  Al 1770 risale la costruzione del primo albergo, quello di Madame Souterraud, ma già nel 1850 gli alberghi erano diventati nove e i frequentatori di Chamonix ammontavano a ben 5.000.

L’epoca romana fa la sua comparsa anche nel territorio di Saint-Gervais-les-Bains con una particolarissima iscrizione di età vespasianea (74 d.C.) rinvenuta poco a valle del Col de La Forclaz. Questo il testo: EX AUCTORITAT(E)IMP(ERATORIS) CAES(ARIS) VESPASIAN(I)AUG(USTI) PONTIFICIS MAX(IMI)TRIB(UNICIA) POTEST(ATE) V, CO(N)S(ULIS) VDESIG(NATI) VI P(ATRIS) P(ATRIAE)CN(AEUS) PINARIUS CORNEL(IUS)CLEMENS LEG(ATUS) EIUS PRO PR(AETORE)EXERCITUS GERMANICI SUPERIORIS INTER VIENNENSES ET CEUTRONAS TERMINAVIT.

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Un’epigrafe utile a sottolineare i confini tra il territorio dei Ceutroni e dei Viennensi Allobrogi, ossia gli abitanti dell’attuale zona di Vienne, poco distante da Lione. Due territori appartenenti in effetti a due distinte province: gli Allobrogi già in Gallia Narbonense e i Ceutroni nelle Alpes Graiae.

Il versante nord del Bianco. Oltre lo sci, oltre l’alpinismo, oltre lo shopping… c’è ancora tutto un mondo da scoprire…

Stella

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Palmira, splendida “sposa del deserto”. Racconto di un viaggio che (ancora) non ho fatto

Questo che vi scrivo col cuore a mille è un post diverso dal solito. Non è un archeoracconto. E non è neppure un suggerimento di viaggio ispirato da qualcosa che ho fatto davvero. E’ uno sfogo, un urlo rappreso tra le sabbie di quel deserto oggi così martoriato. E’ un sogno, un desiderio: quello di visitare la Siria, magica ed antica terra dove l’uomo ha iniziato a lasciare le sue tracce sin dal periodo Paleolitico con la cultura detta “di Giabrud”.

Tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila ho viaggiato moltissimo nel Mediterraneo. Mi sono riempita gli occhi con le sontuose e possenti rovine di Leptis Magna, di Dougga e di Sabratha. Ho potuto salire gli scalini del teatro cretese di Gortyna. Mi sono emozionata tra i colonnati di Gerasa e persa tra le enigmatiche tombe rupestri di Petra. E ancora la Turchia, con le sue scenografiche città terrazzate e i paesaggi struggenti di millenaria bellezza. Ma per varie ragioni non son mai riuscita a fare un viaggio in Siria, cosa che invece avrei sempre voluto.

Una terra strategica, porta d’accesso per il deserto d’Arabia ma anche per le importanti vie carovaniere che si spingevano verso Oriente con carovane cariche di spezie, tessuti preziosi, gioielli e profumi. Città carovaniere ammantate di fascino come Palmira, la splendida sposa del deserto, che diede i natali a cotanta regina: Zenobia la straordinariamente bella, colta e coraggiosa sovrana, moglie di Odenato, che osò sfidare la potenza di Roma.

Palmira, un nome che trasuda poesia, una sorta di lontana armonia d’Oriente riecheggiata dai venti e dalle fluide dune del deserto. Quella platea, cioé quella lunghissima via colonnata al cui centro si apre, come un respiro, la famosa piazza ovale con arco tetrapilo (distrutto!) e con quell’originale, inusuale, esotico arco di snodo a pianta triangolare! E quel gioiello che era (purtroppo dobbiamo usare l’imperfetto) il teatro, anch’esso distrutto!

Te la immagini, evanescente sogno di colonne e fregi arricciati, persa tra le atmosfere opalescenti dell’alba o accesa dalle luci infuocate del tramonto. Da sempre, sin dai tempi del liceo, un mio grande sogno.

Dicono sia un viaggio non semplice quello per Palmira; occorre dragare, nel senso letterale del termine, uno scomodo e sgradevole tratto di deserto ghiaioso e polveroso per raggiungere un bivio (che definirei drammatico): a sinistra Palmira, a destra Bagdad.

Un brivido, un timore che scorre sotto pelle anche standosene a casa… e si procede verso questa città fatata persa nella storia e minacciata dal più oscuro presente che a fatica si possa (sebbene non si voglia) immaginare. Palmira, simbolo di un Paese, di un popolo.

Dicono che all’alba il sole sembri levarsi più lentamente del solito su questi resti carichi di magia, quasi a volerli vedere più da vicino, a volerli accarezzare con la sua luce rosea e dorata, quasi a voler lui per primo, ogni giorno, assistere a questo spettacolo color ocra ritagliato contro un cielo che da lilla si fa blu e poi ancora più blu, come i lapislazuli che adornavano le dame palmirene.

Credo che aver visto Gerasa (oggi in Giordania) in parte mi aiuti. Mi aiuti a ritrovare quei colori, quei profumi, quelle sfumature… ma anche quelle persone: i venditori di acqua, di thè aromatizzato al cardamomo, di tappeti e di kefiah. Quei volti di donne dai profondi occhi scuri ammantate in colori sgargianti che fugacemente mostrano denti bianchissimi aprendosi in un sorriso di saluto e di benvenuto. Quei visetti sempre un pò arruffati di dolcissimi bimbi dagli immensi occhi neri, felici di farsi scattare una foto e ricevere una caramella o un chewing-gum o magari, perché no, qualche moneta… Vivo il ricordo di una bimba che all’epoca avrà avuto suppergiù 3 anni, dal profilo dolce, le lunghe ciglia nere, protetta da un cappellino rosa con la visiera che la faceva sembrare una bambola di porcellana brunita… Lei era felice e serena; giocava coi ninnoli che la madre proponeva ai turisti e ci fissava curiosa. Vorrei che anche oggi tutti i bimbi di Siria fossero come era lei quel pomeriggio: felici, sereni e curiosi, non travolti da un orrore indescrivibile troppo più grande di loro…

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Dichiarata patrimonio dell’Umanità nel 1980, oggi vituperata e violentata come la sua stessa gente. Una terra dove oggi, ahimé, le stelle stesse si nascondono, la luna stessa si nasconde, per fuggire all’incubo. Ma è una terra fiera, resa nei secoli potente dalla sua geografia e dalla sua storia, culla dell’umanità neolitica europea, culla delle prime civiltà di villaggio e dell’idea stessa di città se pensiamo a siti come Ugarit e Tell Ramad, o come Hama sull’Oronte. Per non parlare di Ebla, città egemone dal punto di vista economico e culturale sin dall’Età del Bronzo. Città in perenne bilico tra difficili e fragili equilibri fra le diverse potenze mesopotamiche, ambita da potenze straniere, ma sempre rialzatasi e nuovamente arricchitasi.

La poderosa fortezza di Dura Europos, fondata da Seleuco I Nicatore sui resti di un preesistente insediamento semitico, “padre” della dinastia dei raffinati sovrani Seleucidi in posizione dominante sulla riva destra dell’Eufrate. E se pensate che proprio qui è stata identificata una delle primissime chiese cristiane (!!), datata alla metà del III secolo d.C. Una città piazzaforte, baluardo strategico contro i temibili e temuti Parti, ma che vide nel 165 d.C. la vittoria trionfante dell’imperatore Lucio Vero. Siamo su una linea di frontiera, di presidio delicatissimo; un presidio sempre presente ma mimetizzato tra le sabbie e tra le sinuosità di una raffinata sequenza di fortezze e punti di avvistamento basata sulla mobilità delle truppe, delle merci e dei mercanti. Strade quasi a volte impercettibili, ma stabili e conosciute. Percorsi camaleontici ma battuti. Non certo una “muraglia cinese”, ma un limes fluido ed elastico, ancor più di quello africano, fatto di veri e propri fasci di strade ritagliate tra le oasi e le ingannevoli dune.

I Seleucidi. Una potenza ellenistica che, dopo periodi di straordinaria ricchezza e dopo aver fondato decine di floride colonie tra cui citerei Antiochia sull’Oronte, Apamea e Laodicea, si sono dedicati a rendere prestigiosa, elegante e raffinata questa terra. Un’attività edilizia irrefrenabile, costosa e monumentale; commerci fiorenti. Templi grandiosi. Puro spettacolo. Finché giunsero all’inevitabile scontro con Roma che si risolse con la sconfitta subita da Antioco III da parte di Lucio e Publio Cornelio Scipione prima alle Termopili e poi a Magnesia sul Sipilo nel 189 a.C.La Siria divenne provincia imperiale romana.

E quella che i Seleucidi chiamarono Beroea e che noi oggi conosciamo come Aleppo, antica e fulgida “capitale del nord”, non lontana dal confine con la Turchia. Una delle città più antiche del mondo, abitata ininterrottamente dall’XI secolo a.C. e dichiarata Patrimonio dell’UNESCO dal 1986. Un territorio da sempre strategico, a metà strada tra il mare e l’Eufrate; un centro da sempre cosmopolita in quanto città carovaniera dove si incrociavano mercanti e milizie provenienti da ogni angolo del Mediterraneo così come dalle più remote terre d’Oriente. Una città gioiello, in filigrana di pietra grigia, oggi quasi del tutto rasa al suolo da una furia cieca e senza scrupoli.

 

Vorrei citare un passo delle memorie di viaggio redatte dallo storico dell’arte Cesare Brandi (1906-1988) e apparso per la prima volta nel volume “Città del deserto” del 1958:

“Su quella vegetazione contenuta ma violenta, il cielo si tendeva come gonfiato dal vento. La città assurda e straordinaria, che godé di una potenza quasi inconcepibile – arrivò sino all’Egitto – era riapparsa, porto asciutto di sabbia per le dondolanti navicelle dei cammelli, emporio di merci lontane. Tutto il panorama, nel suo perimetro antico, s’abbracciava con un’occhiata, il Tempio di Bel, e la Via colonnata, l’Agorà, il Teatro: tutto era chiaro come in un plastico, e invece stava sotto gli occhi nella sua realtà e per un’estensione che non si riusciva a definire, perché non c’era una misura reciproca fra i monti e le colonne.”

E quindi? Cos’è questo post? Un viaggio impossibile? No! Un viaggio che si auspica sia di nuovo fattibile e che questa terra magnifica torni a risplendere nel ricordo del suo glorioso passato e in omaggio a Khaled Asaad, eroico direttore del sito archeologico di Palmira che per non rivelare i luoghi in cui aveva nascosto i reperti più preziosi è stato barbaramente ammazzato. Per lui è stato chiesto il Nobel.

Un viaggio che tutti potremo fare quando finalmente le stelle torneranno a sorridere da dietro la cortina di polvere che le ha oscurate. Quando quei bimbi innocenti torneranno a guardare il mondo sereni e curiosi e, coi visetti puliti e sorridenti, potranno diventare adulti con la voglia di cambiare il mondo!

Stella

22 febbraio 1300. Giubileo di papa Bonifacio VIII. Passaggio in Valle d’Aosta

Siamo dei pellegrini in viaggio verso Roma. Corre l’anno 1300 e papa Bonifacio VIII ha indetto il primo grande Giubileo della cristianità. Siamo partiti dall’antica Urbs Remensis (oggi Reims), per i Romani Durocortorum, nel nord della Francia e lungo il cammino abbiamo incontrato tanti, tantissimi compagni di viaggio; molti si sono però dovuti fermare, alcuni si sono uniti a noi o ad altri, altri ancora, ahimé, non hanno sopportato le fatiche e i pericoli del percorso.

DAL VALLESE AL GRAN S. BERNARDO

Dall’oppidum di Agaunum (oggi Saint-Maurice d’Agaune, nel Vallese) una lunga e faticosa salita ed un lento cammino di 2 giorni ci ha portati fin quassù, nel cuore di queste montagne selvagge. Nel punto dove le rocce si abbassano sorge un luogo di santa ospitalità e qui ci fermiamo: è il Mons Jovis, il colle del Gran San Bernardo.Ci siamo svegliati di buon’ora: una mattina cristallina ma assai fredda, quassù. Dopo una colazione frugale offerta dai canonici, ci apprestiamo a ripartire dall’ospizio voluto dall’arcidiacono di Aosta Bernardo verso la metà dell’XI secolo, vero e proprio baluardo contro i venti, il gelo e le tempeste di neve che spesso affliggono questa località così vicina a Dio. La mattina è fredda pur essendo piena estate, come del resto è normale che sia a 2473 metri di altezza, ma ci sentiamo decisamente rinvigoriti al pensiero che la salita è ormai terminata e ci aspetta solo una rapida e sicura discesa verso la piana di Augusta (Aosta).

Ma oggi possiamo vedere cose che i nostri amici pellegrini del XIV secolo non avrebbero potuto apprezzare. Innanzitutto l’attuale edificio dell’Hospice risale al 1821-25 ed è quindi di ben cinque secoli successivo, mentre la chiesa che oggi sorge al valico presenta forme seicentesche.
Non avrebbero certo potuto visitare il museo archeologico dedicato ai ritrovamenti di eccezionale importanza effettuati al Plan de Jupiter, pertinenti ai resti di una stazione di sosta (mansio) edificata all’inizio del I secolo d. C. su un sito già conosciuto e frequentato sin da epoca preistorica, incluse le numerose tavolette votive offerte dai legionari e dai mercanti di passaggio a Giove Pennino, divinità eponima di questo luogo, per la grazia concessa loro nell’attraversamento di questi monti.
Infine non sarebbero stati accolti dall’abbaiare dei cani San Bernardo oggi simbolo di questo passo, giunti all’ospizio solo nel XVII secolo.
Ma torniamo nel 1300 e seguiamo il loro peregrinare.

IN CAMMINO SULLA STRADA ROMANA

Cercando di non pensare al freddo, affrontiamo con i nostri compagni di viaggio  (viaggiare da soli non è mai prudente) la strada che, con grandi tornanti, ci porta a perdere velocemente quota. Quello che ci colpisce è la qualità di questo tratto di carrareccia, che si presenta a volte tagliata in roccia, altre volte lastricata, caratteristiche che non abbiamo trovato spesso nel corso del nostro pellegrinaggio e che ci fanno immediatamente capire che deve trattarsi di una via di grande importanza. Uno dei nostri compagni ci spiega che questa strada venne costruita dagli antichi Romani, e che era una grande via di comunicazione tre le regioni cisalpine e transalpine; ammirati dall’ingegno di questo popolo capace di piegare la natura ai propri bisogni, proseguiamo il cammino senza poter immaginare che il pellegrino del XX secolo non avrebbe più potuto percorrere, se non per pochi tratti, questa straordinaria via di collegamento,modificata prima dall’avvento dell’esercito napoleonico all’inizio del XIX secolo e poi quasi definitivamente cancellata dall’odierna statale 27.
Pochi chilometri ed una pendenza mozzafiato ci conducono all’ospizio di Fonteinte, fondato dal vescovo Pierre de Bosses grazie alle donazioni del nobile Nicolas de Richard de Vachéry nel 1258. Veniamo accolti dal rettore che ci offre una pagnotta ed un buon bicchiere di vino, mentre ci spiega che la struttura di carità è aperta dalla festa di San Martino (11 novembre) alla Visitazione della Vergine (31 maggio), col compito di aiutare i pellegrini (servizio che dismetterà solo nel XVIII secolo).

SUI PASSI DI SIGERICO

Dopo una benedizione nella piccola cappella, si riparte tra i pascoli, per giungere, proprio dove questi lasciano il posto alle conifere, al borgo citato nel diario di Sigerico come Sancte Remei, Saint-Rhémy, nome probabilmente legato al culto di San Remigio vescovo di Reims ( e ci sentiamo un pò a casa). Anche in questo borgo (l’antica Eudracinum romana), che ci appare subito decisamente florido dal punto di vista economico come testimoniano la qualità di alcune abitazioni e la presenza di mura a cingere il complesso abitato, è presente un luogo di ricoveroper i viandanti con annessa una cappella dedicata a San Maurizio. Chiuso nel 1669, oggi non ne rimane traccia, ma nel 1300 era sicuramente nel pieno della sua attività. Inoltre il paese pullula di pellegrini sulla via del ritorno, e la popolazione locale è organizzata per fornire un vero e proprio servizio come accompagnatori e portatori, i cosiddetti vectuarii (poi marronniers), indispensabile specie nei mesi più freddi dell’anno. Salutiamo alcuni nostri compagni, che hanno deciso di fermarsi qui per la notte, e proseguiamo fino all’abitato sparso diBosses, dove ci colpisce in particolare la presenza di una massiccia costruzione fortificata a pianta quadrata: si tratta della residenza di una nobile famiglia, i signori De Bocza (oggi trasformata in centro espositivo). La chiesa, dedicata a San Leonardo, è invece decisamente piccolina (quella attuale è del 1860-61) ed il tempo, che sembra iniziare a guastarsi, ci spinge ad accelerare il passo in direzione del villaggio successivo, Sancti Eugendi (Saint-Oyen).

UNA LUNGA STORIA DI ACCOGLIENZA E OSPITALITA’

A passo spedito raggiungiamo il villaggio, dove cerchiamo immediatamente un posto per trovare riparo dall’inclemenza del tempo. Veniamo indirizzati verso una sorta di grangia, un complesso che sotto il nome di Castellum Verdunense (Château-Verdun) cela un’antica casa ospitaliera (gestita dai monaci del Gran San Bernardo dal 1337, anno in cui venne loro donata dal conte savoiardo Amedeo III, ed ancora attiva oggi all’inizio del XXI secolo). Mentre usufruiamo della carità offertaci, ascoltiamo racconti che parlano del passaggio per queste contrade persino di Carlo Magno, quasi sei secoli prima di noi, e ci sentiamo davvero immersi in un percorso dove ogni pietra trasuda storia e fede. Decidiamo di passare qui la notte e, dopo aver dedicato il vespro alla cura della nostra anima, concediamo alle membra il meritato riposo.
Il giorno successivo riprendiamo il cammino in direzione del borgo di Estruble o Restopolis(oggi Étroubles), così chiamato in una Cronica del 1130 del monaco belga Rodolfo di Saint-Trond. Poche miglia e veniamo accolti dal profilo tozzo e squadrato di una torre, che i locali chiamano Tour de Vachéry, un vero e proprio monolite a controllo della strada, come spesso ci è capitato di vederne nel nostro cammino. Affrontiamo le formalità e possiamo quindi entrare nel borgo fortificato, dove ci dirigiamo verso la chiesa dedicata all’Assunta, che verrà ricostruita nel corso del XV secolo e poi completamente riedificata nelle forme attuali nel XIX secolo. Nel 1300 non è ancora stato realizzato l’ospizio intitolato ai SS. Nicola e Maddalena, fondato nel 1317, mail paese è già strutturato per fornire assistenza ai pellegrini, specie grazie al servizio di marronnaggio che, in seguito agli Statuti emanati da Casa Savoia nel 1273, è stato riservato ai soli abitanti dei borghi di Étroubles e Saint-Rhémy.
Proseguiamo uscendo dal villaggio, dopo aver ammirato una seconda maestosa torre appena al di fuori dell’abitato, chiamata Tour d’Étroubles (oggi scomparsa), per giungere poco dopo in località Echevennoz e quindi all’antico ospizio di La Clusaz, esistente dal 1140 (oggi trasformato in accogliente albergo-ristorante). Dopo una preghiera nell’adiacente cappella dei SS. Maria e Pantaleone, riprendiamo il cammino fino a Gignod, dove veniamo accolti dall’imponente mole della torre quadrata a controllo dell’accesso viario, che ben chiarisce, insieme alla casaforte della famiglia dei nobili Archiéry, l’importanza commerciale e politica di questa statio, sorta già in epoca romana.
Nel sito dove oggi sorge la chiesa di Sant’Ilario, nel 1300 è presente un castello, ed è quello che i nostri occhi possono ammirare mentre attraversiamo questa località dove confluisce il cammino proveniente dalla conca della Vallis Poenina (Valpelline), attraverso cui hanno accesso alla Vallis Augustana (Valle d’Aosta) i pellegrini provenienti dall’area elvetica orientale.
Si passano villaggi dove la presenza della Via Francigena è ben radicata, come testimoniano numerose cappelle lungo il tracciato, oltre a siti fortificati a controllo della strada, tra cui emerge la cosiddetta Tornalla presso il Castrum Agaciae (Oyace), insediamento già citato dallo storico romano Strabone nel I sec. d.C..
Dopo una breve sosta ci prepariamo a ripartire e, dopo poche miglia, finalmente la valle si apre lasciandoci scorgere in fondo la prossima tappa del nostro viaggio: Augusta (Aosta). È lì che passeremo la notte, in uno dei tanti ostelli e xenodochi presenti in città, prima di rimetterci in cammino alla volta della meta ultima del nostro pellegrinaggio: Roma, caput et fundamentum totius christianitatis.
(Stella)

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Courmayeur. Tra le pieghe (e gli strati) di San Pantaleone

Oggi voglio accompagnarvi alla scoperta della chiesa parrocchiale di Courmayeur intitolata a San Pantaleone, edificio religioso dalla storia lunga (più di quanto si immagini) e complessa che, tra il 1997 ed il 1999, è stata oggetto di indagini archeologiche preliminari ad un’opera di consolidamento e restauro resa necessaria dal suo essere sorta sopra una paleofrana.

APPUNTI DI STORIA E DI SCAVO
Le prime attestazioni storiche risalgono al 1227 in occasione di una controversia tra la parrocchia ed il Capitolo della Cattedrale di Aosta; successivamente, nel 1302, viene annoverata nel Liber Redditum capituli Auguste. L’evoluzione architettonica di questo edificio può riassumersi in cinque grandi fasi cronologiche comprese tra l’età romanica (secoli XI-XII) ed il cantiere settecentesco che condusse alla sua consacrazione il 13 luglio 1742.
Gli scavi archeologici hanno evidenziato come, da un edifico stretto e allungato ascrivibile all’XI secolo, si sia passati ad un secondo ben più ampio, datato da analisi dendrocronologiche ai secoli XII-XIII, per giungere ad una terza chiesa di epoca gotica (secoli XIV-XV) per la quale furono costruite cinque cappelle funerarie addossate al muro perimetrale occidentale. In relazione a questa furono rinvenuti anche numerosi frammenti di intonaco dipinto tra cui lo stemma della nobile famiglia dei De Turre. Le maggiori trasformazioni del monumento, tuttavia, si attribuiscono alla sua fase barocca (secoli XVI-XVII), quando l’originaria abside semicircolare viene sostituita da una quadrangolare e un ampliamento di tutto l’impianto porta ad inglobarvi anche il campanile. Centinaia le sepolture pertinenti a questa fase, tutte distribuite in spazi appositi: le analisi hanno evidenziato molti individui sofferenti di patologie articolari dovute soprattutto a faticosi spostamenti su pendii con aggravio di carichi. In seguito, col XVIII secolo, la chiesa assume le dimensioni e l’aspetto attuale.

UN CAMPANILE IN ROSA
Il campanile, anch’esso oggetto di restauro nel 2007, si inserisce nella tipologia dei “clochers porches” (cioè campanili d’accesso) realizzati tra l’XI ed il XIII secolo; la cuspide, dalla forma particolare, richiama quella del campanile di Valgrisenche e ricorderebbe il soggiorno dei papi ad Avignone, collocandosi cronologicamente tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo. L’aspetto attuale restituito dal restauro si è basato su una preventiva e scrupolosa analisi delle murature che ha consentito di individuare proprio l’originaria presenza di intonaco su tutti e quattro i lati del manufatto ad eccezione della cuspide.

SAN PANTALEONE E SAN VALENTINO. LA SALUTE PRIMA DI TUTTO!

Il 27 luglio Courmayeur festeggia il suo patrono principale, San Pantaleone. Un patrono “estivo” cui, in seguito, si è affiancato un secondo patrono “invernale”: San Valentino.

Il culto di S. Pantaleone, attestato soprattutto nell’alta Valle, dovrebbe provenire dalla vicina Francia, in quanto si ricorda la presenza di una reliquia del santo a Lione. Pantaleone, originario di Nicomedia, dove nacque nel III secolo d.C., divenne uno stimato medico; a causa della sua fede cristiana fu condannato a morte e martirizzato. I suoi simboli, infatti, sono: la palma del martirio, i rotoli su cui studiava e l’astuccio dei medicinali. Un santo taumaturgo invocato contro le malattie e le pestilenze molto popolare non solo in Occidente, ma anche, se non di più, nell’Oriente cristiano.
È nel V secolo d.C. che compare nelle fonti storico-letterarie la figura di S. Valentino, il cui nome contiene chiaramente la radice del verbo latino valeo, ossia “stare bene, stare in buona salute” e che, perciò, ben si accompagna al medico S. Pantaleone. Cittadino e vescovo di Terni nel II secolo d.C., divenne famoso per la sua carità ed umiltà, ma anche per le sue facoltà guaritrici. La festa del santo si riallaccia ad antichi culti della fertilità che le genti italiche celebravano il 15 febbraio, legati alla purificazione dei campi e ai riti di fecondità. La Chiesa decise di cristianizzare queste pratiche anticipandole di un giorno e collegandole alla morte del martire ternano, cui si chiedeva la protezione delle unioni favorendo la nascita di figli. Curioso inoltre sottolineare come, proprio a partire dal 14 febbraio, il sole illumini il paese per un’ora in più passando alto sopra la vetta del Crammont. Questa piazza, cuore del paese, è un vero balcone affacciato sulle prime piste dello Chécrouit e su Dolonne, i cui prati un tempo erano intensamente coltivati a canapa, lino, orzo e segale; l’orizzonte risulta dominato e protetto dalla lontana sagoma scura della Madonna Regina della Pace che si erge sulla vetta del Mont Chétif.

Stella

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A Brescia per la mostra”Brixia, Roma e le genti del Po”. Preziosa, ricercata, colta…forse troppo?

Week-end a Brixia! Che città affascinante… Ops, scusate, forse è meglio chiamarla col suo nome attuale, Brescia! Un nome che racchiude in sè l’anima delle montagne, perché deriva da un’antica radice celtica -brig che significa, appunto, “altura”. Una radice che ha dato origine a diversi toponimi: oltre a Brescia si pensi a Brianza, Bressanone, ma anche alla vicina Bergamo che ricalca, invece, più da vicino, il nome di una divinità indigena venerata dal popolo dei Cenomani: Bergimus. Che sia -brig o -birg la valenza è la stessa; si parla di alture, di vette, ammantate dal sacro, punto di riferimento nel territorio, luoghi strategici di riparo e controllo.

Arrivo a Brescia nel primo pomeriggio; dopo un buon gelato artigianale si procede a passo svelto alla volta del Museo di Santa Giulia. Si imbocca quindi Via dei Musei sulla quale, ad un certo punto, si affaccia il maestoso Capitolium di età flavia (73 d.C.). Mi fermo, e osservo, rapita da quei resti affascinanti e coinvolgenti… Già la gente si assiepa all’ingresso in attesa dell’apertura, ma io procedo alla volta del museo (tornerò dopo) perché voglio iniziare dalla mostra “Brixia, Roma e le genti del Po. Incuriosita dal clamore e dall’attesa di questa importante rassegna, nonché da sempre profondamente interessata dalle tematiche legate al processo di romanizzazione nelle diverse regioni dell’impero, eccomi qui! Occasione fantastica anche perché mi consente di rivedere un carissimo amico e collega della Scuola di Specializzazione in Archeologia, bresciano: Paolo Bonini!

Si entra e si viene subito immersi in una sorta di foresta virtuale: questo per ricreare l’ambiente e il paesaggio che connotava le terre padane all’alba della romanizzazione. Quelle foreste che di certo non aiutavano l’incedere degli eserciti romani e che, al contrario, erano valide alleate dei popoli che le abitavano. Nel caso di Brescia i Cenomani (Cenòmani, alla greca, o Cenomàni alla latina??mah…); gli Insubri più a ovest, in terra milanese, i Veneti a est. Si prosegue con una panoramica sulla cultura materiale di questi popoli di stirpe e cultura celtica: i vasi ” a trottola”, alcune piccole marmitte tripodi, le armille in vetro blu e alcuni esemplari di torques in bronzo mi rimandano immediatamente alle parures salasse valdostane… emerge una sorta di “koiné” (comunità) celtica cisalpina!

Mi colpisce un magnifico diadema in oro con decoro a “tetes coupées”, motivo ampiamente utilizzato e documentato in tutta l’area celtica occidentale. Lo stesso disegno che arricchisce le splendide falere (decorazioni militari metalliche decorate applicabili sia su divise che su finimenti per cavalli) di Manerbio. Giri di “teste mozzate” su dischi con umbone centrale vivacizzato, in un paio di casi, dall’inconfondibile “triscele” celtica. E sempre da Manerbio il famoso “tesoretto”: oltre 4000 dracme d’argento padane, per un peso di circa 30 kg!

E via con corredi funerari di guerrieri, produzione vascolare con chiare “immissioni” di provenienza etrusca fino al panorama numismatico, indicativo dei frequenti transiti e scambi commerciali che interessavano quest’area.

Continuiamo il giro scoprendo stipi votive e santuari; splendidi decori architettonici in terracotta, fino a frammenti di statue monumentali tra cui l’emozionante testa di dea (Giunone?) proveniente da Alba (CN): un volto dal pathos ellenistico con quello sguardo struggente, la bocca socchiusa, girata di 3/4… echi “scopadei”… E cosa dire di quella commovente ed emblematica (anche proprio sul piano del messaggio che implica) mezza testa di dea diademata (sempre Giunone?) in terracotta? Quello sguardo nobile e sereno, che guarda lontano, alto, protetto da una profonda arcata orbitale…e quelle labbra carnose, appena dischiuse, quasi ad emanare un soffio di divinità…il tutto bruscamente interrotto, spezzato, dallo scorrere dei secoli, dal mutare delle menti…

Una terra di matrice culturale celtica ma toccata da flussi ellenizzanti che, in qualche modo, hanno preparato il terreno alla successiva romanizzazione; questo è percepibile, visibile, tangibile grazie a queste oltre 500 testimonianze attestanti l’evolvere, o meglio, il progressivo mutare di una società. Tra pianura padana e Appennino fino a Talamone (GR) da cui proviene il magnifico decoro in terracotta ad altorilievo e statue a tuttotondo del frontone del tempio etrusco-ellenistico: qui, dove un esercito composto da diverse tribù celtiche (Boi e Insubri alleati con Taurisci e Gesati) venne circondato e distrutto da quello romano settant’anni dopo Sentino, quindi nel 225 a.C.

Emblematica per comprendere la “rivoluzione” portata dalla romanizzazione la stele funeraria  di Ostiala Gallenia proveniente dall’area veneta dalla quale si evince tutta la forza della commistione tra elementi autoctoni e apporti romani: l’epigrafe è in latino, le due figure maschili indossano tunica e toga, mentre la donna è raffigurata ancora nel suo costume venetico.

Altri elementi interessanti le simulazioni digitali del suburbio e della campagna: pareti trasformate in maxischermi su cui girano le immagini digitali della Brixia di età romana…in lontananza si ode rumore di ruote..sempre più vicine…peccato, però, non vedere il carro che passa, ma solo la strada..(!!) Comunque bello e suggestivo il risultato complessivo…come nella sezione dedicata alla campagna: vedi le ville rustiche con i torchi nel cortile e senti l’abbaiare dei cani e il canto degli uccelli… Sei fuori città e, progressivamente, dai campi centuriati e coltivati, dai piccoli sacelli agli incroci, ecco che ritorni nel bosco, lungo il fiume…in quella pianura dalla quale avevi cominciato…

Un’esperienza bella e sicuramente formativa, ma… qualche piccola “pecca” a mio avviso, c’è. Vengo immediatamente colpita dalle scritte sulle pareti: che si tratti di citazioni latine o di frasi utili alla contestualizzazione, sono realizzate su un tono appena più scuro del grigio dei muri o, per la versione inglese, in bianco e posizionate a nostro avviso troppo in alto…si fa davvero fatica a leggerle! In più le scritte in latino sono distribuite in maniera insolita: quasi a voler ricordare il fusto di una colonna con degli “a capo” inspiegabili ( e talvolta discutibili proprio sul piano della correttezza linguistica…eppure di spazio ce n’è!!) che complicano ulteriormente la lettura…E, sempre in merito a tali citazioni: non si sa perché ma alcune hanno accanto ( o sotto) la traduzione, altre no…evidentemente si presume che, dopo alcune frasi, uno abbia imparato il latino!!

Altra nota: le didascalie dei pezzi. Scarne e difficili. Forse pensate dando tutto per scontato; pensate per un pubblico “addetto ai lavori”, colto, un filo “elitarie” come dire… Sono scelte, per carità, ma non è comunque funzionale al grand public, senza dubbio!

Concludo, quindi, sottolineando come questa sia effettivamente una grande mostra a livello di pezzi scelti e di alcune soluzioni “immersive” molto suggestive, ma risulti un pò fragile sotto l’aspetto del “racconto”…secondo me manca un fil rouge chiaro che aiuti davvero il visitatore medio ad orientarsi tra questi materiali (ad esempio i corredi funerari..li trovi all’inizio, ma poi ritornano anche alla fine..mah..); sembra una mostra suddivisa per temi non bene concatenati tra loro. E, ancora una volta, sempre secondo me ( e secondo il parere di alcuni visitatori non addetti ai lavori che hanno fatto la visita insieme a noi), chi non possiede adeguate basi storico-archeologiche o linguistiche, molto difficilmente comprende gli oggetti anche perché, ripeto, le “dida” non sono state tarate sul visitatore “medio” ( un solo esempio: se la “dida” recita: “Antefissa fittile con Potnia Theron” e nulla più, mi dite quanti tra chi legge capiscono fino in fondo a cosa si riferisce??). Quindi, apparato informativo decisamente migliorabile seppure la straordinaria bellezza di molti pezzi riesca lo stesso ad appagare la vista e lo spirito.

La Cultura è di tutti e a tutti va comunicata; con tutti va condivisa!

Ci rivediamo al prossimo post, sempre “bresciano”, interamente dedicato al sito del Capitolium la cui lunga storia e preziosità dei resti hanno portato alla creazione e all’inaugurazione (pochi giorni fa) del più esteso Parco Archeologico a Nord di Roma.

Stella

A spasso per Aosta…piccola Roma tra i giganti delle Alpi

Valle d’Aosta: vi riempirete gli occhi (ed il cuore) di pascoli, sentieri, boschi, alpeggi e… mucche! Paesaggi a dir poco incantevoli; una natura selvaggia, basica, dove l’essenziale è tutto ciò che ti serve! Ma se un giorno, per mille motivi, deciderete di non salire in quota, magari solleticati da scorci fugaci intravisti nelle rapide ma frequenti passeggiate in centro, allora è tempo di scoprire Aosta, colonia augustea dal nome altisonante: Augusta Praetoria Salassorum.

E cito il “maestro” Battiato nella sua “Delenda Carthago”: “Per terre ignote vanno le nostre legioni a fondare colonie a immagine di Roma”.

2000 ANNI DI GRANDE BELLEZZA

Ha più di 2000 anni questa città fondata nel 25 a.C. dall’ imperatore Ottaviano Augusto e, oltre a portarli molto bene, li sa anche raccontare a chi vuole conoscerla più da vicino!

Volendo essere “topograficamente” e filologicamente corretti, occorre entrare in città dall’antico ponte romano che attraversa il torrente Buthier. Corso Ivrea, “periferia” est della città: qui è facile individuare la sagoma arcuata di questo bel ponte in grossi blocchi di arenaria locale che, oggi, è inserito in un grazioso giardino fiorito. Ebbene sì, una disastrosa alluvione dell’XI secolo ha letteralmente spostato il corso del Buthier di alcune decine di metri e il ponte costruito dai Romani si è poco a poco trasformato nel cuore di une vero e proprio piccolo borgo.
Da qui l’occhio corre immediatamente all’ imponente Arco onorario di Augusto: la città, con le sue mura, ormai è vicinissima! Un’infilata prospettica dall’assialità inappuntabile collega il ponte all’arco e quest’ultimo al Decumano Massimo, la via principale che da est portava alla porta ovest della città romana. Certo nei secoli la città è cresciuta e le case, dal Medioevo in poi, si sono “mangiate” l’ampia strada romana, ma nonostante tutto leggere il reticolato antico non è così difficile.

LA CITTA’ DI AUGUSTO NELLA TERRA DEI SALASSI
I negozi della vivace via Sant’Anselmo ci conducono alla scoperta della Porta Praetoria: fantastica! Una delle pochissime porte romane doppie col cavaedium, il cortile d’armi centrale! Solo da poco è stata rimessa a nudo la sua intera volumetria, quella verticialità che gli accumuli secolari dovuti ad esondazioni e lavori edili avevano mutilato; oggi si può nuovamente apprezzare la sua notevole mole attraversandola su passerelle ancorate alla strada attuale. Purtroppo alcuni problemi e ritardi hanno impedito di portare a termine l’intervento di valorizzazione del sito e, per ora, sotto le passerelle vedrete dei mucchi di sacchi di sabbia il cui compito è quello di proteggere la strada romana dalle intemperie (e non solo)…o meglio, “le strade” e non solo romane…tanti sono stati gli interventi e i rimaneggiamenti che hanno interessante questo luogo cruciale della città! Immaginando l’effetto scenografico originario, è facile comprendere l’impressione che doveva suscitare negli antichi…L’immagine della potenza di Roma ai piedi delle Alpi!
Siamo sul lato est delle mura; ma lo sapete che Aosta può vantare un circuito di mura romane quasi completo?! E con un totale, sull’intero perimetro, di ben 20 torri!
Svoltiamo a destra ed entriamo nell’antico quartiere degli spettacoli. L’inaspettata facciata del teatro romano ci accoglie dall’alto dei suoi 22 metri… incredibile! Augusta Praetoria non aveva un teatro come tanti, all’aperto, ma inserito in un perimetro di mura: che fosse coperto? La suggestione di vedervi una sorta di odeion è forte, ma va anche detto che sarebbero servite travi per il solaio lunghe almeno 42 metri… Dunque ancora l’incertezza è tanta… ma il fascino è abbagliante! Siamo in Valle d’Aosta, eppure le tracce di Roma antica sono ovunque, palpabili e avvolgenti! L’Anfiteatro, invece, si nasconde al di là di un muro di recinzione che separa l’area del teatro dal giardino-frutteto delle Suore di San Giuseppe. L’anfiteatro non è mai stato oggetto di campagne di scavo specifiche e non è inserito negli abituali circuiti di visita; ma se provate a suonare il campanello del convento, le suore, sempre molto gentili ed ospitali, saranno liete di aprivi e di accompagnarvi in questo luogo fuori dal tempo…i resti delle volte si ergono tra i meleti e alcuni tratti di ambulacra oggi ospitano galline e conigli. E’ come entrare in una stampa del ‘700 o in un disegno del Newdigate!

La nostra passeggiata archeologica prosegue alla volta di piazza della Cattedrale, luogo anticamente occupato dall’immenso foro romano. Effettivamente si vede poco; si intuisce appena il podio di uno dei due templi gemelli che dovevano svettare sulla terrazza sacra ( e volendone immaginare l’antico aspetto, pensate al tempio di Augusto e Livia a Vienne o alla nota Maison Carrée di Nimes), ma la sorpresa è tanta quando ci accorgiamo che Aosta possiede un vero e proprio gioiello segreto: il criptoportico! Già il nome suona un po’ “esotico” e misterioso; scendiamo alcuni gradini che ci portano alla quota del piano di spiccato dei templi e, da qui, scendiamo ancora attraverso una breccia aperta in epoca basso-medievale… Ci ritroviamo improvvisamente in una galleria a due navate con un’imponente fila centrale di pilastri. Sarà anche l’illuminazione soffusa, la musica in sottofondo scelta ad hoc… ma c’è un’atmosfera che è difficile descrivere… bisogna venirci! Si trattava di un sistema di gallerie a forma di U rovesciata che i Romani avevano costruito per sopraelevare la terrazza dei templi contenendone il terrapieno; ma contemporaneamente era un luogo di elegante passeggio dove, forse, gli imperatori e i “VIP” di Augusta Praetoria esponevano i loro ritratti o comunicavano le loro iniziative a favore della comunità. In tutta Europa di criptoportici forensi ce ne sono in realtà più di 30, ma quello di Aosta è sicuramente tra i meglio (per non peccare di superbia dicendo “il meglio”) conservato!

IL “MAR.. nostrum”
Questo giro ci ha fatto scoprire una città dalla storia lunghissima che si rivela poco a poco, che va scoperta…E non è finita: salendo verso la prima collina possiamo visitare anche i resti di una enorme villa privata, che in origine era parecchio fuori città trovandosi a 400 metri in linea d’aria dalle mura settentrionali: una villa rustica di campagna, ma molto raffinata (ha addirittura piccole terme private!). La villa della Consolata: è questo il nome della località in cui si trova. Chissà chi ci aveva abitato qui..sicuramente qualcuno di molto ricco ed importante…lavorando di fantasia mi piace pensare sia stato, almeno per un certo periodo, proprio Aulo Terenzio Varrone Murena, cioè il generale che riuscì a domare definitivamente i fieri Salassi.
Si torna quindi in città, per l’esattezza si può raggiungere “Croce di città”, ossia il punto in cui Decumano e Cardo Massimi si incrociano; da qui si prende verso nord per arrivare in piazza Roncas e visitare l’interessante Museo Archeologico Regionale, il MAR, dove vedere alcuni dei tanti oggetti che il sottosuolo di Aosta e della Valle restituisce ad ogni scavo. Un museo non grande ma molto ben curato e strategicamente allestito, a ingresso gratuito, dove viaggiare indietro nei millenni e conoscere la lunga e densa storia di queste montagne, di questa regione di confine piccola ma cruciale, luogo di transito e di scambio per popoli e culture al di qua e al di là delle Alpi.
Questa visita sarà un’esperienza “a ritroso” che, davvero, non ci si potrebbe aspettare in una cittadina alpina ai piedi dei famosi ” 4 4000″ d’Europa!
E voi? Avete mai visitato Aosta? Capirete in fretta perché la chiamano “Roma delle Alpi”!

Stella

Tra boschi, rocce ed acque: Pont d’Ael… l’archeologia che non t’aspetti!

Poco visibile e defilato, il grazioso villaggio di Pondel, nonostante la sobria apparenza, è invece una tappa importante per ogni viaggiatore appassionato di storia e archeologia che desideri scoprire il patrimonio valdostano. E lo è ancora di più in quest’estate 2014, cioé nell’anno in cui ricorre il bimillenario della morte dell’imperatore Augusto.

È qui, infatti, che sorge il Pont d’Aël, un impressionante ponte-acquedotto risalente all’anno 3 a.C., frutto dell’ingegno e dell’operosità del padovano Caius Avillius Caimus.

Dopo aver lasciato l’auto al parcheggio situato all’ingresso del villaggio, si percorrono poche decine di metri passando nella stretta viuzza che si insinua tra le case; sulla sinistra si noterà la cappella e, un poco oltre, sulla destra, la vecchia scuola del villaggio da poco ristrutturata: una casetta rosata, su due piani, con gli infissi azzurri. Gerani color rosso brillante, giardini e abbaiare di cani vi accompagneranno fino ad una strettoia fiancheggiata da una rimessa e da un rudere quasi completamente crollato. Ma voi, andate avanti!

Quasi all’improvviso, increduli, davanti ai vostri occhi si aprirà uno scenario assolutamente inatteso. Il villaggio finisce e la sponda rocciosa si getta, ripida, nel torrente Grand Eyvia che, impetuoso e gonfio, scende veloce dalla valle di Cogne.

Un’unica arcata, poderosa e tenace, ampia quasi 15 metri, scavalca la forra ad un’altezza di 56 metri dal corso d’acqua sottostante. Tutt’intorno irte e strapiombanti pareti rocciose ricoperte di fitte edere e boschi, latifoglie e conifere, quasi a perdita d’orizzonte. E’ il Pont d’Ael. Il Pons Avilli,qui realizzato da un intraprendente e ricco padovano attivo nel settore dell’edilizia ormai più di 2000 anni fa, in piena epoca augustea.

Un grandiosa opera idraulica. Un ardito ponte-acquedotto suddiviso su due livelli: un percorso scoperto superiore, oggi percorribile a piedi, ma che in origine costituiva il canale idrico dove passava l’acqua; un altro sottostante, coperto, utile al transito di uomini e animali. Un’infrastruttura privata, come recita a lettere cubitali l’epigrafe ancora in posto al centro della facciata che guarda verso valle, probabilmente voluta per incanalare l’acqua verso le cave di marmo di Aymavilles. Il tracciato completo, in parte ancora esistente, in parte obbligatoriamente ricostruito a tavolino, vede un’opera di presa situata a 2,5 km più a monte rispetto al ponte, lunghi tratti, ancora percorribili, ritagliati nel banco roccioso e sapientemente adattati al profilo morfologico della montagna e, il punto sicuramente più spettacolare, Pont d’Ael, dove l’acqua cambia versante.

Un percorso di visita ad anello realmente emozionante. Si passa in quello che gli archeologi chiamano “specus“, cioé l’antico condotto idrico, risalendo a ritroso rispetto all’originario senso di scorrimento dell’acqua. Giunti in sinistra orografica si scendono alcuni scalini per raggiungere uno dei due ingressi originali del camminamento coperto pedonale. Una vista che mozza il fiato; un cambio di prospettiva che fa sembrare questo monumento ancora più imponente, così aggrappato sulle rocce, umide e lucide per la risalita del vapore acqueo.

Una volta entrati…aspettate che gli occhi si abituino alla penombra e poi…Poi vi renderete conto che sotto i vostri piedi c’è il vetro, illuminato dal basso, e vedrete un vuoto profondo ben 3 metri. Un glassfloor davvero originale ed inatteso!Quel vetro sostituisce l’antica presenza del tavolato ligneo dove gli operai e il dominus Avillius camminavano, ma al di sotto oggi si può apprezzare la struttura stessa del ponte-acquedotto. Un’infilata impressionante di spazi cavi e tramezzi in muratura: una struttura, quindi, organizzata “a camerette” in modo da essere leggera ed elastica, senza però rinunciare alla necessaria stabilità!

Si percorrono in trasparenza i 50 metri di lunghezza del ponte e si ritorna in destra orografica; si supera l’altro accesso d’origine, rimasto per lunghi secoli chiuso e inutilizzato, e si esce..di nuovo sul vuoto! Sì, perché là dove un tempo i Romani passavano su un ampio sentiero ritagliato nel banco roccioso e poi franato nel torrente, oggi c’è una panoramica passerella in acciaio che consente di ripercorrere il loro stesso tragitto! Una cosa che da secoli non si poteva più fare!

La passerella conduce quindi all’interno di un piccolo edificio che, da rudere dismesso, è ora un piccolo ed accogliente centro visitatori dove poter reperire le informazioni essenziali. Il suo allestimento, certo, non è ancora completo, ma i lavori fatti sono stati ingenti.

Una visita incredibile…un’archeologia romana alpina che davvero non ti aspetteresti mai!Oltretutto in un sito che possiede anche un’altra particolarità: il Pont d’Ael è pure un’Area naturale protetta abitata da oltre 96 specie diverse di splendide farfalle. Senza dimenticare che, da qui, passano numerosi sentieri…perciò, le passeggiate, con tutta la famiglia, sono assicurate!

Possiamo quindi dire che il Pont d’Aël, con la sua inaspettata grandiosità, il suo incredibile stato di conservazione, e una straordinaria cornice paesaggistica che senza dubbio ne aumenta fascino e valore, ha tutte le carte in regola per ricominciare a raccontare la sua storia bimillenaria anche ai più esigenti visitatori del XXI secolo.

Stella