L’Aosta che ti manca. Emozioni dietro l’angolo

Quante passeggiate facevo col bimbe ancora piccole in giro per la città … Mattina e pomeriggio si usciva alla scoperta di nuovi angoli della nostra città.  Spazi di luce, di verde, di tranquillità. Luoghi dove, pur essendo in centro città, poter vivere la sensazione di trovarsi in aperta campagna o quasi. E non è facile… neppure ad Aosta, città tormentata da innumerevoli cantieri… insomma, bene che vi sia tanto lavoro, ma passeggiare in tranquillità senza dover per forza andare chissà dove non è cosa semplice!

Alla fine avevamo individuato un nostro percorso preferenziale, luoghi dove torniamo e ritorniamo ancora oggi perché ci fanno stare bene. E così abbiamo deciso di condividere con i nostri amici del blog queste nostre passeggiate… magari possono fornire spunti per una visita della città diversa dal solito…

Cominciamo dall’Arco d’Augusto, zona in questo periodo più movimentata della Stazione Centrale di Milano per via delle tantissime gite scolastiche che animano il nostro capoluogo. Ci infiliamo subito nella viuzza che porta alla scuola dell’infanzia e, da lì, imbocchiamo il vicolo dell’Antica Vetreria.

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Svoltiamo l’angolo, pochi passi sul marciapiede di Viale Chabod cercando di focalizzarci sul corso del Buthier ignorando le auto; subito inforchiamo la strada sulla sinistra: Via Guido Rey si insinua, invitante, tra porzioni superstiti di prati, giardini cinti da alte siepi, casette dai colori vivaci e, sempre come sottofondo, il rasserenante rumore dell’acqua, la voce dei rus di campagna. E come quinta scenografica a nord, lui, il maestoso Grand Combin dall’elvetico accento.

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Sulla destra l’ampia distesa verde fa da “green carpet” all’inconfondibile campanile di Sant’Orso. Lo sguardo corre e si perde cercando non si sa bene cosa lungo le pareti nord della “materna” Becca di Nona e del superbo Emilius, dal profilo secco, quasi himalayano. Una sorta di coppia di coniugi.

18664218_757649131074886_4222925085821607962_nLui più alto, secco, severo seppur, in fondo, buono di animo. Lei, più piccina (ma non troppo)… dipende da come li guardi (e spesso è così anche nelle coppie “umane”!), dai fianchi larghi e dal seno prosperoso. Emilius e Becca, quasi fossero gli antenati, i rocciosi genitori di questa piana verdeggiante solcata dal nastro della Baltea Dora.

Sulla destra, a un certo punto si apre un cancello e, come un giardino segreto, ecco l’antico Cimitero del Borgo di Sant’Orso, amorevolmente curato dai Volontari locali.

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Uno scrigno di storia, di ricordi, di famiglie, di volti ormai lontani ma di anime ancora presenti che, se presti attenzione, sentirai quasi sussurrare tra i cipressi.

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Proseguiamo lungo via Guido Rey e, in fondo, ecco comparire la sagoma imponente e squadrata della Torre dei Balivi… ogni volta mi percorre un brivido, un’emozione che nonostante tutto non riesce ad affievolirsi. Quella torre ha nascosto un grande segreto per secoli; un segreto poi finalmente svelato in quella pallida giornata di febbraio; un segreto faticosamente interpretato e altrettanto faticosamente veicolato. Un segreto che, purtroppo, al momento giace nuovamente sepolto, ignorato. Ma la forza di questo luogo è immensa; a me è sempre parso che quella torre, al di là della sua pluristratificata identità storica, sia come una grande antenna di comunicazione tra passato e presente, tra cielo e terra, tra divino ed umano… e questo gli antichi àuguri lo sapevano benissimo!

E pensare a quando passavo di qui ai tempi delle superiori: “i Balivi” erano le prigioni di Aosta! Le mura nere, sporche… quelle finestrelle tristi, come orbite vuote, nere e con plurime sbarre, quasi fossero fitte ciglia di ferro! A volte vedevi penzolare calzini, mutande, magliette stese dai carcerati ad asciugare… mentre oggi, invece, eccola lì la Torre dei Balivi: risplende illuminata dal sole in tutto il suo dorato splendore e, con lei, evade in musica l’intero Conservatorio regionale. Pentagrammi ed armonia han preso il posto dell’angoscia e della desolazione.

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Piccola deviazione: giardinetti di Sant’Orso. Al mattino ancora meglio, meno confusione! Sorvegliati dall’immancabile campanile e dall’elegante torre ottagonale del Priorato ci balocchiamo un pò tra i vari giochini, sostiamo sotto gli alberi, ascoltiamo gli uccellini e i sussurri del vento… Poi, via, si riprende la passeggiata!

Torniamo su via Guido Rey, fiancheggiamo il corpo nord del Conservatorio nato sulle mura di cinta di epoca romana. Passiamo tra queste ultime e il convento di Santa Caterina. Fin da lontano si vede il piccolo campanile romanico della chiesetta delle Suore… una presenza famigliare! Che posto, questo…

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Qui, tra la Torre dei Balivi e il Convento nacque Augusta Praetoria. Da qui si cominciò a trainare l’aratro del solco primigenio e qui, guardando verso sud, oltre le mura romane, oltre le mura del convento… sapere che lì, sotto quei meli, riposano i resti dell’Anfiteatro… sì, stiamo “accarezzando” l’antico quartiere romano dedicato agli spettacoli e, da lontano, la facciata del Teatro è lì a ricordarcelo.

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Arriviamo davanti all’ingresso del Convento, sobrio ma prezioso grazie all’elegante affresco tardo quattrocentesco che ne ingentilisce l’ingresso. Ombra, frescura, curiosare di fiori dalle aiuole e dai giardini. La scuola dell’infanzia “Mons. Jourdain” occupa un’altra antica torre romana, “gemella” della Tour du Pailleron (quella vicina alla stazione), chiamata nel Medioevo Tour Perthuis: vi era qui infatti una breccia, un varco, un “pertugio”, appunto, praticato nelle poderosa mura di romana memoria.

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Attraversiamo la strada e imbocchiamo via San Giocondo. Quanto ci piace questa stradella… si fiancheggiano le proprietà vescovili dominate dal grande Seminario Maggiore e dal tozzo campanile di Saint Jacqueme. Guardate con attenzione questo muro di cinta: dopo pochi metri dall’imbocco della via, sulla vostra sinistra, noterete uno stemma: si tratta di una copia, naturalmente, che però vuole richiamare lo stemma originale della Curia vescovile.

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Un tempo lontano questo era un segno importante: chi oltrepassava questo confine entrava automaticamente sotto la protezione del Vescovo.

E’ come un passaggio metaforico, quello tra l’Aosta delle orini, romana e pagana, e l’Aosta cristiana e medievale. L’Aosta del primissimo fonte battesimale di IV secolo d.C., quello le cui tracce permangono all’interno del Criptoportico, quello dove ancora il battesimo veniva impartito per immersione e soltanto nei giorni santi del Triduo pasquale… l’Aosta della prima domus ecclesiae sulle cui mura verrà innalzata la prima cattedrale, quella del secondo fonte battesimale di V secolo d.C.; l’Aosta paleocristiana. Una Aosta davvero poco conosciuta e che invece meriterebbe maggiore attenzione. Una Aosta da ritrovare, oltre che nella grande chiesa madre, anche nella chiesa (oggi sconsacrata) di San Lorenzo, quella proprio di fronte a Sant’Orso, le cui sotterranee vestigia archeologiche raccontano di come la fede cristiana si fece largo tra queste montagne, progressivamente sostituendosi, e non senza fatica, ai culti pagani preromani (forse ancora in parte incarnati dal mito di Sant’Orso) e da quelli più ufficiali e patinati del potente Impero di Roma.

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Oltre quelle mura una sorta di piccolo Vaticano fa capolino con alberi di fico di arcaica biblica memoria, di cachi, di mele, pere… vociare di bimbi, intenti a giocare nel campetto dell’oratorio; vociare dall’orto “Din Don” e dai giardini della Cattedrale.

E musica, ancora musica. Spesso le note di un pianoforte o il ritmo delle percussioni ci accolgono in quest’angolo di Aosta dove ha trovato posto la Scuola di Formazione musicale. Al mattino la luce tenue si attorciglia intorno alle alte torri campanarie di Santa Maria Assunta. Al pomeriggio il solleone infiamma la strada creando atmosfere macchiaiole da quadro di Fattori. La sera i toni purpurei del tramonto infiammano le creste dello Chateau Blanc e riverberano il loro fiammeggiare su queste case basse, dalle delicate tinte pastello, strette le une alle altre, soggiogate dalla maestà della grande Cattedrale.

Ad un certo punto svoltiamo a destra e guadagniamo Viale della Pace con le sue infilate di alberi, le siepi, le aiuole. E sempre un allegro vociare di bimbi. E ancora la voce dell’acqua: la Mère des Rives appare e scompare. Torna e se ne va.

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La Mère des Rives, il canale che disegna il confine nord dell’antica città romana e medievale, dopo essersi separata dal Ru de Saint Ours in corrispondenza della Torre dei Balivi, continua il suo viaggio verso ovest, verso la Tour Neuve, antica roccaforte dei De Villa de Turre Nova, vassalli degli Challant, i potenti Visconti di Aosta. Da qui scenderà verso sud, lambendo la zona delle caserme, lì dove un tempo sorgevano mulini ed impianti artigianali; lì, dove ancora prima, trovavano l’eterno riposo gli abitanti di Aosta romana e tardoantica… fino a perdersi verso sud gettandosi nell’azzurro corso della Dora.

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E svoltiamo ancora verso sinistra, alla volta di via Martinet, un tempo Rue du Grand Saint Bernard. Una via un pò defilata, un pò dimenticata… ma che ha tanto da dire, da raccontare.

Qui usciva, dopo aver superato la monumentale Porta Principalis Sinistra (i cui resti si possono vedere nei sotterranei del vicino Museo Archeologico di piazza Roncas) l’antico Kardo Maximus diretto a nord, pronto ad attaccare la ripida rampa che segnava l’inizio del viaggio verso il Summus Poeninus.

Da qui partiva la storica corsa “Aosta-Gran San Bernardo”, vero e proprio momento di aggregazione sociale, fenomeno di costume, evento amato e seguito dagli abitanti di Aosta e non solo, dagli appassionati di auto e corse, ma non solo. Lungo questo tracciato, nel corso dei secoli, sono transitati eserciti, condottieri, viaggiatori e… piloti. Proprio così, corridori che al volante di prestigiose automobili hanno dato vita, fra il 1920 e il 1957, ad una delle corse in salita di maggior rilievo nel panorama sportivo internazionale; una gara che, nell’ultima edizione, fu addirittura inserita nel calendario del Campionato europeo della Montagna.

Paesaggi straordinari, curve tra le più belle ed impegnative d’Europa, atmosfere d’altri tempi che si rinnovano con le auto d’epoca e l’eredità di una gara dal sapore unico; dall’elegante piazza Chanoux, parterre d’eccezione, fino allo storico valico avvolto nel mito, corrono e rimbombano i ricordi e le emozioni di una corsa da non dimenticare!

E non vogliono dimenticare i commercianti di Via Martinet e piazza Roncas che si impegnano in ogni modo per vivacizzare questa strada così densa di storia e per convincere aostani e turisti che il centro storico non finisce in Croce di Città ma prosegue in piazza Roncas e ancora oltre, in questa via ombreggiata, protetta da Santo Stefano.

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Già, perché per trovare la linea di partenza bisogna arrivare alla fine di via Martinet, superare l’incrocio con Corso XXVI febbraio e proseguire in Viale Ginevra. Lì, proprio lì, dove fino alla metà del Novecento, sorgeva l’altro cimitero storico di Aosta, anch’esso cinto da mura e annunciato dalla perduta cappella neogotica di Saint-Jean-de-Rumeyran, si accalcava la folla degli appassionati e dei curiosi.

Chi avrebbe mai potuto immaginare all’epoca che, sotto quel cimitero moderno, ce ne fosse un altro ben più remoto che affondava le sue radici addirittura nella lontana Età del Ferro e che custodiva, al di sotto di una pesante cupola di pietre, le spoglie mortali di un antico principe viaggiatore proveniente da un misterioso nord.

Sono davvero tante le storie e le leggende da raccontare… e le mie bimbe sanno quanto amo chiacchierare! Quel volto che ci osserva da una delle ultime case di Via Martinet è come un silenzioso genius loci. Lo spirito di una Aosta in filigrana, da leggere tra le pieghe del tempo.

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Stella

San Lorenzo di Aosta. Antiche storie all’ombra del grande tiglio

Correva l’anno del Signore 451 d.C.; ero ancora un giovane presbitero a quel tempo, cresciuto e nutrito spiritualmente nel cenobio del santo vescovo Eusebio, in quella città di pianura circondata dalle acque chiamata Vercelli. Mio compagno di studi e di formazione, sebbene più grande, il sapiente Eustasio. Ed era proprio lui vescovo di Aosta quando, bloccato da motivi di salute, mi incaricò di rappresentarlo nella grande Milano, nostra sede metropolitana, in occasione dell’importante concilio provinciale.

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Veduta attuale di Vercelli

Un incarico di prestigio col quale Eustasio mi manifestò tutta la sua stima ed il suo apprezzamento. Un onore che, tuttavia, non mancò di farmi venire i tremori per l’ansia di dover, ancora così inesperto, prendere parte ad un incontro di siffatto rilievo.

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Ricostruzione di Mediolanum nel IV secolo d.C. (da Romano Impero)

Il mio nome, Grato, suona l’accento ellenico; ebbene sì, la mia famiglia paterna affonda le sue origini nella terra di Omero. Nonostante sia giovane ho molto viaggiato e ancora bambino giunsi nella sconfinata e ubertosa pianura del grande fiume Po, immenso nastro d’argento che scaturisce dalle alte vette alpine per arrivare a tuffarsi nel mare Adriatico.

Ero da poco entrato in convento quando, una notte, una di quelle dal sonno tormentato scosso da sogni ricorrenti, apparentemente illogici e non privi di angoscia, ebbi una strana visione.

Davanti a me si apriva una valle verdeggiante, solcata al centro da un ampio fiume le cui acque riflettevano un azzurro argenteo e si attorcigliavano in mille gorghi tra le rocce. Intorno a me un panorama insolito: montagne, montagne altissime ammantate di candida neve. Non lontano dal fiume, una città. Una città che doveva essere stata molto importante in passato vista l’entità dei grandi edifici che, seppure in rovina, ancora si ergevano al di sopra di un mare di povere casupole e di orti. In sogno mi sentii chiamare. La gente di quella valle mi aspettava, ma io non sapevo dove si trovavano né come raggiungerli.

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Ricostruzione veduta da est di Aosta in epoca imperiale romana (da Cadran Solaire, 2012)

Questo strano sogno si ripresentò anche negli anni successivi; rimasi esterrefatto quando mi resi conto che questo sogno capitava sempre nella stessa notte, quella tra 6 e 7 settembre.

Finché, già ventenne, venni convocato dal saggio Eustasio. Doveva darmi uno notizia importante: lo avrei seguito ad Aosta.

Giunto in questa città a me sconosciuta, capii: era questa la destinazione cui ero stato assegnato dal volere divino. Quella vallata, quel fiume, quelle vette. La Vallis Augustana mi stava aspettando da tempo e finalmente vi ero giunto.

Lavorare e studiare sotto la guida di Eustasio, anch’egli di origine greca come me, era fonte continua di accrescimento intellettuale e spirituale, ma anche di arricchimento umano vista la sua immensa generosità, il suo buon cuore, la sua costante attenzione verso i più deboli e sventurati.

Spesso con lui ci si recava fuori dalle nobili e vetuste mura della città per visitare le contrade più lontane e sperdute portando la Parola di Dio, conforto e ascolto.

La gente delle campagne viveva poveramente, questo sì, ma devo dire con grande serenità e dignità. Mi piaceva molto fermarmi con loro, accettare l’invito ad entrare nelle loro umili abitazioni, condividere un tozzo di profumato pane di segale spalmato di buon burro o accompagnato da un pezzo di saporito formaggio. A volte mi veniva offerto persino un piatto di zuppa di cavolo, porri e cipolle davvero deliziosa.

Notavo che il saggio Eustasio si incupiva quando si accorgeva che molti contadini ancora mescolavano la vera fede con antiche credenze, magari recandosi a pregare in prossimità di enormi roccioni, di grotte, di anfratti piuttosto che nelle chiese e nelle cappelle. Così come spesso invocavano antiche divinità pagane se, per disgrazia, una tempesta o un’alluvione arrivavano a distruggere il raccolto. Eustasio li ammoniva severamente, ma io mi rendevo conto che più utilizzava toni veementi e meno veniva ascoltato, anzi, otteneva spesso l’effetto contrario.

Pensai così di adottare i metodi degli antichi Romani, provando ad insegnare loro che divinità apparentemente diverse potevano fondersi e convivere. Insegnai loro ad invocare il buon Dio; insegnai loro l’importanza di rivolgersi al cielo, nome stesso che racchiude in sé le radici di tante parole poi passate a designare dei e Dio. Un pomeriggio d’estate, mentre mi trovavo con loro in un piccolissimo villaggio affacciato sulla piana di Aosta, il cielo si coprì all’improvviso di fosche e minacciose nubi scure. In poco tempo tutto si rabbuiò e vidi la paura negli occhi dei contadini. Istintivamente iniziarono ad invocare antichi dei pagani della tempesta e del tuono. Io, con tutta la voce che avevo, intonai un canto al Signore. La pioggia iniziò a cadere, prima fine e poi sempre più forte. I contadini mi fissavano, temendo il peggio, ma nessuno osava andarsene perché mi vedevano lì, immobile, in mezzo al prato. Continuavo a pregare cantando, addirittura ringraziando Dio per il dono della pioggia. Finché, così velocemente come era arrivata, la tempesta quasi per miracolo si allontanò verso sud, riempiendo l’aria di brontolii e di tuoni, ma risparmiando quelle terre.

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Da quel giorno si sparse rapida la voce, di villaggio in villaggio, che io ero capace di bloccare la tempesta e di sedare il temporale. Mi imitarono. Iniziarono a pregare Dio.

Da quel momento ogni volta che mi recavo nelle campagne, venivo accolto come fossi il papa, tra giubilo e festa; ogni volta la gente mi chiedeva di fermarmi a pregare con e per loro. Eustasio capì e ne fu felice.

E fu così che, dopo la morte del venerabile Eustasio, ne divenni il sostituto sulla cattedra aostana.

Tra le mie diverse attività e impegni, vi era un progetto cui ero particolarmente affezionato: la basilica intitolata a San Lorenzo, morto martire per la fede appena due secoli prima. I lavori iniziarono già con Eustasio che, però, non riuscì a vedere l’opera completata. La piccola chiesa sorgeva fuori le mura, in una zona di necropoli utilizzata sin dalla tarda epoca romana, anzi, alcuni raccontavano che anche le antiche popolazioni dei monti vi seppellissero i loro morti.

Alcune tombe di tarda età romana erano più grandi e importanti delle altre, veri e propri mausolei di personaggi di rilievo o di famiglie nobili. Si diceva fossero tombe di martiri e, di conseguenza, il potersi far seppellire vicino a loro era considerato un efficace vademecum verso la Salvezza eterna.

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Ricostruzione delle due chiese funerarie di S. Lorenzo e S. Orso nel V secolo (da Cadran Solaire, 2009)

Sorgeva quindi la basilica di San Lorenzo extra muros sul lato orientale della città, vicinissima ad un’altra chiesa intitolata a San Pietro (e successivamente, ma io non potevo ancora saperlo, intitolata anche a Sant’Orso). Erano quasi allineate. Una coppia emblematica di chiese funerarie, dedicate al culto dei morti o, meglio, della Vita eterna. Contemporaneamente, sul lato ovest, sempre fuori le mura, stava nascendo una piccola basilica analoga, in un’area oltre la Porta Decumana di romana memoria.

Data al 400 d.C. la costituzione della santa diocesi di Aosta contestuale alla costruzione del primo complesso episcopale della Cattedrale, chiesa madre della città con cura d’anime. Fu poi con la sistemazione delle antiche aree funerarie fuori le mura che si pervenne alla costruzione delle basiliche funerarie tra cui, appunto, anche San Lorenzo.

Consolidati i lavori in città, ci si rivolse alle campagne procedendo alla realizzazione delle prime chiese con cura d’anime, ovvero dotate di fonti battesimali, a Villeneuve, a Morgex e a Saint-Vincent, tutte dislocate lungo l’importante arteria della Strada romana ad Gallias, la stessa che utilizzò, non molto tempo fa, il nobile vescovo Martino di Tours nella sua strenua ed indefessa missione di evangelizzazione dei pagi.

Ben presto San Lorenzo e San Pietro (cui in seguito si aggiungerà Sant’Orso) divennero un unico complesso funerario denominato Concilia Dominorum Sanctorum Martyrum.

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Planimetria a croce latina del V secolo d.C. (da Cadran Solaire, 2009)

San Lorenzo presentava una forma a croce latina, sulla scorta di quanto fortemente voluto dal grande padre Ambrogio di Milano per affermare la vittoria del simbolo della Croce nella sua lotta contro l’eresia ariana. E non era un caso che i legami con la diocesi milanese fossero molto forti e sentiti anche perché Aosta, così come Vercelli, faceva riferimento alla sede metropolita di Mediolanum. Stringente in effetti la ricercata somiglianza di San Lorenzo con l’impianto della Basilica Apostolorum di Milano (che voi oggi chiamate San Nazaro in Brolo).

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Ricostruzione dell’interno del V secolo (da Cadran Solaire, 2009)

Grandi edifici romani ormai in disuso e in stato di abbandono vennero utilizzati come cave a cielo aperto per la costruzione di questa come di altre chiese in città; i grandi e bei blocchi romani, già tagliati e sagomati, erano perfetti per essere reimpiegati. Ma l’azione del reimpiego dell’antico, non dimentichiamolo, non aveva solo finalità pratiche, bensì una forte valenza ideologica perché stava a significare che la nuova Aosta cristiana poggiava le sue radici sull’Aosta romana di cui si faceva chiaro e innegabile vanto.

Ricordo ancora l’atmosfera di estrema sacralità che si respirava, che si sentiva sulla pelle, quando si entrava in San Lorenzo, appena illuminata dalle lampade a olio appese al soffitto, dalla tenue luce filtrante dalle lastre di alabastro delle finestre; i marmi romani rifulgevano di nuova vita e nuovo significato in questo nuovo luogo di culto cristiano.

Vorrei raccontarvi un altro episodio assai particolare che ha poi segnato fortemente il ricordo che la gente ha mantenuto di me.

Un giorno, durante una delle mie numerose visite nel contado, mentre tenevo un’omelia venni bruscamente interrotto da urla strazianti. Una donna disperata corse verso di me, verso il resto delle persone assiepate nella piazza del villaggio urlando e piangendo: suo figlio Giovanni, un piccolo di appena 3 anni, era tragicamente scivolato dentro un pozzo lasciato inavvertitamente aperto ed incustodito. Ci precipitammo sul posto; io per primo mi sporsi oltre il bordo chiamando il bambino: piangeva e si lamentava, ma era ancora vivo. Per fortuna quel pozzo era semivuoto, sebbene assai profondo.

Non esitai e mi offrii volontario ad aiutare altri uomini. Con delle corde ci attrezzammo e a mò di scala riuscimmo a calarci e a portare in salvo il piccolo. Ritornai tenendo avvolto il bimbo tremante nelle mie vesti; sporgeva solo la testa con quei grandi occhi neri colmi di paura.

La madre lo prese e lo strinse a sè ringraziandomi in tutti i modi che conosceva. Tornai ad Aosta scortato dall’intera popolazione di quel villaggio e la mia fama presso le genti della valle aumentò considerevolmente. Non potevo immaginare che, nei secoli che seguirono, questo episodio venne a tal punto trasformato ed ingigantito nei racconti da diventare leggenda. La leggenda che vorrebbe fossi stato io a ritrovare la testa di San Giovanni Battista in fondo ad un pozzo di Gerusalemme… e infatti vengo spesso raffigurato così, con la testa del Battista in mano, semiavvolta dal mio mantello.

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Si avvicinavano ormai gli anni finali di questo V secolo dalla nascita di Cristo. Giunse anche la fine dell’estate; da tempo non stavo bene, ero molto affaticato e sempre meno riuscivo a recarmi fuori città. La gente veniva a cercarmi, pur di ascoltare le mie omelie.

La notte tra il 6 ed il 7 settembre rifeci quel sogno (erano anni che non mi si ripresentava più): la grande vallata solcata dal fiume. In sogno ero tranquillo stavolta: conoscevo quel luogo ormai a me così caro. Conoscevo quelle case, quei monti, quelle persone …

Vidi Aosta dall’alto, vidi la zona delle due chiese funerarie di San Lorenzo e San Pietro, ma era diversa da quella che conoscevo. Le chiese erano cambiate: San Pietro veniva indicata dalla gente della città con un altro nome, col nome di un santo a me ignoto: Sant’Orso. Su uno spiazzo compreso tra le due chiese si ergeva una pianta monumentale: un  tiglio dal tronco squarciato ma dalla folta chioma. Vidi un edifico a me sconosciuto, vero trionfo di abilità artistica nel lavorare la terracotta. Vidi che San Lorenzo aveva mutato il suo ingresso spostandolo sul lato orientale dove io ricordavo la curva dell’abside, e sottolineandolo con un portico.

La chiesa sconsacrata di S. Lorenzo, oggi sede espositiva (regione.vda.it)
La chiesa sconsacrata di S. Lorenzo, oggi sede espositiva (regione.vda.it)

Mi svegliai, disorientato; il cuore batteva all’impazzata. Cercai un sorso d’acqua, presi in mano il mio breviario tentando di ritrovare la pace. La vista era come annebbiata ed un senso di torpore presto si impadronì di me.

Il sonno giunse nuovamente e con esso, altri sogni, oppure visioni… non saprei. Mi vidi all’interno di San Lorenzo, ma improvvisamente il pavimento che conoscevo scompariva, diventava come invisibile. Sotto i miei piedi delle tombe, tante, innumerevoli tombe aperte nelle quali si vedevano i resti umani dei Cristiani qui lasciati nel sonno eterno, alcuni coi loro monili, collane, fibbie. Cristiani qui sepolti nel corso di secoli.

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Alcune tombe a ridosso della zona presbiteriale (foto E. Romanzi)

Vidi degli uomini chini con pale e picconi che scavavano quelle tombe, che compilavano taccuini; li chiamavo per fermarli, ma non mi sentivano! Ad un certo punto mi voltai e vidi … il mio nome: Gratus Episcopus. Era riportato su un’epigrafe, un’epigrafe funeraria: “hic requiescit in pace...” Quella era la lastra della mia morte.

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Epigrafe del vescovo Grato in San Lorenzo (foto: E. Romanzi)

Mi ritrovarono il giorno seguente, 7 settembre, sconvolto da tremori, sudori freddi, febbri altissime, in preda al delirio. Rivedevo la Grecia natia, Vercelli, il maestro Eusebio e il saggio Eustasio. Rivedevo la bellissima vallata solcata dal fiume argenteo, la Dora Baltea. Rivedevo gli occhi del piccolo Giovanni. Rivedevo lo stupore sui volti dei contadini risparmiati dalla tempesta.

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Sono Grato, vescovo di Aosta. Riposo qui, nella mia amata chiesa di San Lorenzo, sotto l’ombra di questo grande tiglio, cullato dall’allegro vociare dei bimbi che giocano felici nel giardino sopra di me. Le mie spoglie mortali non sono qui, non più; ma il mio spirito e il mio nome qui rimarranno per sempre, o almeno finché ci sarà anche solo uno tra di voi che avrà desiderio e cuore di venire a farmi visita.

Stella

Castello di Saint-Pierre. Il regno di Flora

“Lasciare la città per finire lassù, in mezzo alle montagne… da solo… beh, del resto non ho scelta!”. Così si lamentava il giovane barone, rampollo di una nobile ed importante famiglia, costretto dai parenti a trasferirsi nel piccolo villaggio di Saint-Pierre.

“Hai ereditato l’antico maniero di famiglia, Emanuele!”, tuonava l’arcigno zio, “tuo compito è prendertene cura! Quindi, fattene una ragione e prepara i bagagli! Tra una settimana al massimo il castello di Saint-Pierre sarà la tua dimora! E vediamo se, confinato lassù, tu non metta la testa a posto!”.

Emanuele non aveva scelta. Tutta la famiglia era contro di lui.. Purtroppo negli ultimi anni non si era certo guadagnato una buona fama: conduceva una bella vita sperperando denaro in ogni possibile modo, frequentava compagnie ritenute “pericolose e inopportune”… un continuo litigio con lo zio! Forse era davvero meglio andarsene… poche comodità, pochi soldi, ma almeno sarebbe stato in pace e avrebbe fatto ciò che voleva!

Rapidamente arrivò il giorno della partenza. La diligenza correva veloce sulle strade polverose. In poco tempo le campagne lasciarono il posto al dolce profilo delle colline che vennero presto sostituite dalle alte montagne della Valle d’Aosta.

L’aria aveva cambiato profumo: Emanuele era inebriato da quella fragranza mista di pino, erba, muschio e terra. Gli sembrava che il sangue corresse con più vigore alimentato dalle brezze fresche che rotolavano giù dai ghiacciai.

All’improvviso, dopo un’ultima curva, eccolo: l’antico maniero lasciatogli dal nonno!

Veduta del castello di Saint-Pierre prima degli interventi in stile neogotico (stampa di E. Aubert, 1860)
Veduta del castello di Saint-Pierre prima degli interventi in stile neogotico (stampa di E. Aubert, 1860)

Su un roccione svettava la vecchia torre maestra, già in stato di avanzato degrado, circondata dalle possenti mura medievali in buona parte sbrecciate. Gli edifici residenziali erano spogli (solo i mobili essenziali), bui e umidi. Emanuele sospirò:” Mio Dio… ci vorrebbero dei lavori, ma come li pago? Solo questo mi hanno lasciato e lo zio non mi da più un soldo… vedremo… per ora va ancora bene: per fortuna è estate! Chiederò nel villaggio se qualche manovale può venire a dare un’occhiata…così…giusto per non avere la neve in casa o spifferi gelati quest’inverno… “.

Tuttavia, nonostante lo sconforto iniziale, Emanuele avevo ben presto imparato ad amare quel luogo. Il paesino era carinissimo e gli abitanti avevano accolto con simpatia “quel giovane barone scapestrato e ribelle, amante della natura, fuggito dalla grande città!” (così dicevano di lui).

In una stanza col camino, dove ancora si vedevano resti di antichi affreschi e si potevano magicamente percepire gli echi delle leggendarie feste organizzate dai ricchissimi proprietari oltre 200 anni prima, Emanuele aveva creato il suo angolino prediletto.

Da subito aveva iniziato a perlustrare i dintorni: che meraviglia! Prati verdissimi, meleti, vigneti, orti e, in lontananza, boschi color smeraldo che, con le loro tonalità scure, esaltavano ancor di più il bagliore delle nevi perenni.

Quell’estate cominciata così male, si era rivelata una benedizione. Da solo, in totale libertà! Grazie al suo bel carattere, ai modi educati e, perché no, al gradevole aspetto, il giovane barone si era ben integrato e riceveva aiuto da tutti: cibo e biancheria pulita non gli mancavano!

Le quotidiane lunghissime passeggiate gli avevano fatto riscoprire e aumentare una passione che aveva da bambino: quella per la raccolta di erbe, foglie fiori. La natura così ricca e multiforme di quei luoghi avevano risvegliato in lui una profonda curiosità e in poco tempo si era creato una collezione botanica di tutto rispetto; “così, se mai un giorno dovessi tornare in città, un pò di questi luoghi verrà con me…”, pensava.

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Gli era poi venuta in mente un’idea: voleva trasformare l’alta corte del castello in un suo personale giardino segreto. Un pò “giardino dei semplici” con erbe aromatiche e medicamentose; un pò giardino all’inglese con piante ornamentali capaci di creare atmosfere incantate e suggestive. Quello sarebbe stato il suo giardino, chiuso al mondo eccetto che a lui!

Una sera, al tramonto, attardandosi sulla terrazza, notò per la prima volta un fiore straordinario attaccato al muro della torre. Si avvicinò: era una specie di orchidea. Un fiore grande dai colori cangianti, insoliti: i petali erano uno diverso dall’altro, quasi a formare un arcobaleno, lucidi e setosi.

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Decise di coglierlo per ripiantarlo ed eventualmente ricavarne semenza. Provò a strapparlo, ma il fiore incredibilmente si chiuse e si ritrasse.”No, devo aver sognato”, pensò, “è impossibile!”.

Ci riprovò: niente. Quel fiore si richiudeva su se stesso. Provò a reciderlo con delle forbici: niente!

Prese allora un martello e iniziò a distruggere il muro:”Verrà fuori, no!? Lo estirperò con tutte le radici!”. Risultato: il muro della torre si crepò terribilmente fino a sgretolarsi!

L’operazione aveva prodotto un’enorme voragine nel vecchio muro cadente mentre il fiore era rimasto ben incastrato nella sua pietra.

“No, ma… è impossibile!”. Emanuele non riusciva a crederci. “Che razza di pianta è mai questa?!”. Raccolse allora la pietra con la pianta dentro, deciso a portarla in casa per esporla così com’era, come fosse un oggetto esotico e meraviglioso.

La mise sul comodino accanto al letto e andò a dormire.

Ma non fu una notte come tutte le altre… Emanuele venne svegliato da un fruscio insistente, come se un insetto gli volasse sul viso. Quando aprì gli occhi rimase senza parole: dalla pietra la pianta era uscita a dismisura arrivando fino a lui e i fiori si erano moltiplicati e ingranditi fino a formare una coperta. Emanuele si alzò di scatto, ma qualcosa lo bloccava impedendogli di scendere dal letto.

Ad un tratto la coperta di fiori si mosse, si avvolse su se stessa e si trasformò in una giovane fanciulla alata.

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“Ma… ma chi… cosa…chi sei tu?” balbettò Emanuele confuso e spaventato. “Tranquillo, io sono Flora, la fata della Natura. Conosco la tua passione per il mio regno, ma oggi hai fatto qualcosa di grave: ti sei ostinato ad appropriarti di un fiore assai raro e prezioso, di me! Avevo provato a farti capire che non dovevi né potervi toccarmi, ma hai insistito fino a distruggere addirittura la tua casa! Hai commesso un errore. E ora, se non vi poni rimedio, la voragine nella torre si allargherà a tal punto che tutto il castello potrebbe crollare! Vuoi che accada?”.

“No, no… certo che no… ma..e ora? Come posso rimediare? Quel fiore era talmente bello che…”;

“talmente bello che avresti dovuto rispettarlo e lasciarlo dov’era”, concluse Flora.

E continuò:” Ad ogni modo, visto il tuo amore per il mio mondo, voglio aiutarti.”. Improvvisamente la stanza si riempì di strane creature, metà uomini e metà foglie, o metà uomini e metà fiore; c’erano anche uomini-stelo, uomini-ramo.. un vero e proprio esercito di esseri del piccolo regno al servizio della loro regina, la fata Flora.

Leafman (tratto dal film animato "Epic. Il mondo segreto")
Leafman (tratto dal film animato “Epic. Il mondo segreto”)

Emanuele era sbalordito! “Loro sono i miei fedeli servitori. Ti aiuteranno a ricostruire la torre maestra, a patto che tu segua i miei ordini! Voglio una torre alta ed elegante con quattro torrette, una per ogni angolo.

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Ogni torretta corrisponde ad una stagione e, a seconda della stagione, dovrai lasciarmi (con la mia pietra) nella torretta corrispondente. Nessun uomo però potrà entrarvi! Nemmeno tu! Mi dovrai lasciare all’ingresso, poi saranno i soldati-foglia a trasportarmi all’interno! Sii preciso, non farti trascinare dalla curiosità. Se un uomo dovesse entrare in una torretta, l’intero castello crollerà e per te sarebbe la rovina. Se invece ti atterrai ai patti per almeno 50 anni, il tuo castello diventerà la dimora del piccolo mondo alla portata di tutti e il tuo giardino segreto sarà dono per gli altri così che possano conoscere, scoprire, amare e proteggere il mondo di Flora”.

Emanuele non aveva altra scelta; nonostante un fondo di incredulità, obbedì alla fata Flora e, la mattina seguente, dopo una notte che gli parve lunga un’eternità, la torre non era più la stessa. Gli uomini-foglia e le donne-fiore avevano magicamente creato qualcosa di spettacolare: “ecco, ora posso dire di vivere nel castello delle fiabe”, esclamò il giovane barone.

“Non solo!”, lo corresse la fata, “puoi dire di essere un ospite speciale del regno di Flora”.

Il giardino segreto del barone divenne, col tempo, un tesoro di erbe, fiori ed essenze esotiche a disposizione di tutti. Nelle torrette nessuno mise mai piede e si narra che, ancora oggi, a seconda della stagione, il fiore-dimora della fata Flora vi fiorisca, ancorato alla sua pietra, di volta i volta con un colore ed un profumo diverso.

Castello-Saint-Pierre (Foto: Enrico Romanzi)
Castello-Saint-Pierre (Foto: Enrico Romanzi)

E’ il castello delle favole. E’ il castello di Flora. E’ il meraviglioso castello di Saint-Pierre!

 

Stella

MEGALITICA. Nel “solco” della (PRE)iStoria

Riprendiamo, quindi, il nostro viaggio alle origini attraverso il sito megalitico di Saint-Martin-de-Corléans, ad Aosta. Ricordate la discesa lungo la rampa del tempo?

Ebbene, eccoci a 6 metri sottoterra, avvolti nella penombra cangiante che, ad intervalli regolari, si accende e si colora ricordando lo scorrere dei giorni e delle notti. Ma dove siamo?

Guardando verso sinistra, laggiù sul fondo, emerge una struttura di grosse pietre circondata da strati di pietrame più minuto. E’ una tomba, la cosiddetta “Tomba 2”. Una tomba megalitica, appunto, costruita al di sopra di una particolare piattaforma di pietre a forma di freccia. Da qui ancora non la si vede bene, la scoperta avverrà progressivamente. Si cammina intorno a questo sito incredibile, forse un po’ distanti, è vero, ma è quasi simbolico dell’effettiva distanza che ci separa da quelle epoche avvolte nella notte dei tempi, da quei riti, da quelle preghiere, da quelle persone.

 Una cosa si avverte: il senso del sacro. Il senso di un luogo non certo abitativo, ma contraddistinto da una sorta di flusso comunicativo tra il “sotto” e il “sopra”, tra la terra e il cielo.

Chiudete gli occhi. Immaginate una musica, una di quelle epiche, dalle sonorità prima soffuse che si fanno poi via via sempre più imponenti, coinvolgenti, trionfali. Una musica capace di accompagnarvi in questo viaggio a ritroso facendovi percepire la forza della Storia.

ANTICHISSIME ARATURE

E  ora immaginate una piana. Verso sud, sul fondo, lo scintillio di un fiume incorniciato da ampie zone paludose. La Dora Baltea. Lo sguardo sale fino ad incontrare i boschi e poi raggiungere le alte vette. In particolare due, molto alte, a ridosso della pianura alluvionale, così simboliche, così presenti… chissà con quale nome venivano chiamate in quei tempi lontani. Oggi sono l’Emilius e la Becca di Nona, sentinelle del Sud, monumentali gnomoni di roccia puntati verso il cielo, meridiane naturali per il fluire delle ore e delle stagioni.

Ed ora delle voci. Voci di uomini intenti ad un gesto antico: l’aratura. Un gesto consueto ma che gli uomini avevano appreso non da molto. Una prima mattina di un giorno di inizio estate sul finire del V millennio a.C., quegli uomini stanno arando questa vasta pianura. Lenti movimenti avanti e indietro, e poi ancora avanti e indietro; lunghe strisce ininterrotte aprono il terreno e solcano i depositi limosi lasciati dal fiume e dai movimenti dei ghiacciai. La terra si apre sotto il passaggio del vomere in legno.

Ma questa non è un’aratura qualsiasiQui l’agricoltura si fa rito, si fa preghiera.

La terra solcata viene invocata affinché sia nutrice di genti eroiche e di una solida stirpe di guerrieri. Quegli stessi solchi non restituiranno però dei semi, ma denti umani, perlopiù incisivi. Quella terra doveva dare il cibo a uomini forti e valorosi. In questo gesto, che a noi può apparire tanto insolito, riemerge il mito di quel gruppo di circa 50 eroi che, sotto la guida del prode Giasone, intraprese l’avventuroso viaggio a bordo della nave Argo.

Un viaggio che li condurrà nelle ostili terre della Colchide, alla conquista del vello d’oro. Gli Argonauti, i marinai che fecero l’impresa. Giasone chiese il vello d’oro al re Eeta, il quale acconsentì a concederglielo, ma solo dopo che fosse stato arato un campo per seppellire i denti di un drago ucciso da Cadmo. Questa sepoltura doveva garantire la nascita di uomini armati. Le antiche leggende parlano di draghi; qui si parla di uomini. Delle loro ambizioni, delle loro credenze e delle loro speranze.

Storie antiche frammiste al mito e alla leggenda che, però, ci narrano di eroi, di aventure, di lunghi viaggi verso terre sconosciute, di draghi e sovrani avidi e superbi, di alberi carichi di frutti più o meno proibiti (storia ben nota!), di tori furenti e indomabili, di serpi e draghi spaventosi. Storie che ci raccontano di intrepide ricerche: di terre, di metalli, di ORO!

10.000 mq (ma diventeranno 18.000!) che racchiudono oltre 6000 anni di storia dove tutto ebbe inizio dalla terra, da molteplici e ripetute arature. In campagna non vi è gesto forse più famigliare e consueto. Che però, qui, assume tutto un altro sapore. Qui l’aratura si fa rito, si fa culto, si fa preghiera. Merita una riflessione la ricchezza di significato di un’azione agricola apparentemente semplice come quella dell’arare.

Significa delimitare una porzione di terreno per farla in qualche modo “propria”. Significa incidere la Madre Terra affinché accolga quei semi da cui dovrà nascere una nuova realtà, in termini di raccolto così come in termini di insediamento. La portata sociale e religiosa di questo gesto è incredibile; si perde nella notte dei tempi e attraversa le epoche. Un gesto anticamente “nuovo”, NEOlitico, e per questo profondamente rivoluzionario; l’uomo da nomade cacciatore-raccoglitore si è stabilizzato e ha imparato a coltivare e ad addomesticare. Un cambiamento epocale! E quella terra era ed è SACRA. Terra da invocare, pregare, venerare… affinché sia benevola e non “matrigna”. Una terra che più MADRE non si potrebbe! E, perciò, sacra!

I “POZZI”. OFFERTE NEL SOTTOSUOLO

E non solo di aratura si tratta. La nostra scoperta del sito ci porta ad incontrare una serie di grandi fosse (o pozzi) che, in alcuni casi, arrivano a ben 2 metri di profondità. 

Tra IV e III millennio a.C., mani devote non solo hanno scavato queste cavità, ma sul fondo vi hanno deposto cereali, resti di frutti e macine. Leguminose come vecce e cicerchie; cereali come il farro e il frumento. Carboni di quercia e di pino. Resti che ci parlano di un paesaggio agrario remoto e di contadini che lavoravano la Natura venerandone le forze imperscrutabili. 

Probabilmente offerte alle divinità della terra: divinità ctonie e feconde. Quegli dei che presiedevano agli eterni cicli di vita, morte e rinascita. Un seme nella terra muore e rinasce per germogliare di nuovo. Una speranza di vita che obbligatoriamente doveva passare attraverso una morte inevitabile.

A ben pensarci è lo stesso dualismo che, in altre epoche e ad altre latitudini, si ritrova nelle più note dee greche Demetra e Persefone, tra loro madre e figlia. Demetra, la Madre terra portatrice di messi e la figlia Kore-Proserpina-Persefone, simbolo della primavera, della nuova vita che germoglia, ma anche sposa di Ade e signora dell’Oltretomba.

Due dee che ben rappresentano il ciclo della natura: 6 mesi di sonno, di morte apparente (autunno ed inverno); 6 mesi di fioriture e raccolti (primavera ed estate). Ecco perché anche le forze divine nascoste nel sottosuolo andavano invocate e blandite affinché fossero benigne.

ER’ l’eterno ciclo del seme che di fatto tornerà anche nel Cristianesimo: il seme deve “morire”, essere sepolto, per poi rifiorire in una nuova vita e dare frutto. La vita che passa da una morte necessaria vista, però, come transito e mutamento.

Saint-Martin-de-Corléans: un luogo davvero particolare, dove vita e morte dialogano e si rincorrono fin quasi a sovrapporsi. Seguiteci, il nostro viaggio non è ancora finito…

Stella

MEGALITICA. Viaggio alle origini

Metti una passeggiata ad Aosta. Ma non una passeggiata qualsiasi. Una di quelle che ti portano a scoprire la città, la sua anima, ma soprattutto la sua storia. Una storia che qui si fa plurimillenaria. Lasciatevi dunque alle spalle la rassicurante cortina muraria di epoca romana. Lasciate la monumentale Augusta Praetoria e avventuratevi verso ovest. Attraverserete zone forse ancora poco note della città; i quartieri delle caserme, quelli residenziali, quelli più popolari. Arriverete così a Saint-Martin-de-Corléans. Nucleo del quartiere la graziosa chiesetta romanica dedicata a San Martino. Al di là di un’apparenza forse poco accattivante, è questo un luogo davvero straordinario, dove leggenda, storia e credenze popolari si mescolano e si sovrappongono tra sacro e profano, a cavallo tra mondo pagano e mondo cristiano.

SAINT-MARTIN-DE-CORLÉANS. UN QUARTIERE DAL NOME INTERESSANTE

Il nome stesso di questo quartiere ci catapulta in questa dimensione strana e disorientante. Perché “de Corléans”? Cosa significa? In primo luogo parrebbe ormai comprovato che “Corléans” sia un prediale di matrice romana, intendendo con “prediale” un nome indicante un lotto di terreno, una proprietà fondiaria. L’origine sarebbe da ricercare in un antico Cordelianum, a sua volta derivante da un presunto Cordelius. Ma non è tutto. Ancestrali echi di lontane leggende riecheggiano in questo nome, collegato alla mitica Cordela, “capitale perduta” del popolo dei Salassi, popolo di cultura celtica residente nelle nostre montagne all’arrivo di Roma. A Cordela e al suo fondatore, ossia Cordelo, figlio di Statielo, seguace di Ercole. 

Gorlach, the legend of Cordelia

Miti di viaggio, di lunghi spostamenti, di migrazioni di popoli provenienti dall’Asia Minore. In fin dei conti un po’ di verità c’è. E lo vedremo.Scriveva Silio Italico, politico e poeta romano del I sec. d.C.:“Ercole affrontò le vette inviolate: Fu il primo. Gli dei vedono stupitiCome fende nubi, fracassa alture,Doma possente rupi mai battute“.Vagava, il semidio, da Oriente a Occidente cercando fra i ghiacciai la via per i Giardini del Tramonto, dove le Esperidi avrebbero custodito gelosamente i propri frutti.

VIAGGIO ALLE ORIGINI

I miti si intrecciano in queste origini leggendarie di Aosta, alla cui base però si rileva come fosse comunque nota una presenza antica, misteriosa, difficilmente descrivibile altrimenti. Probabilmente si sapeva che in questa zona la Storia aveva lasciato testimonianze particolari, le cui origini e le cui motivazioni affondavano in un’epoca “perduta”, troppo lontana nei secoli e nei millenni perché si riuscisse a meglio contestualizzarla. Ma, col XX secolo, in un modo del tutto fortuito, sarebbero stati gli archeologi a svelare la reale identità di questo enigmatico luogo.

Ci troviamo, infatti, al cospetto dell’area megalitica, unico e prezioso scrigno di testimonianze archeologiche risalenti fino all’epoca Neolitica (V millennio a.C.). Un’area composta da un sito archeologico pluristratificato le cui testimonianze vanno dalla Preistoria al Medioevo passando, come nel miglior manuale di Storia, attraverso le Età del Rame, del Bronzo, del Ferro fino a tutta l’epoca romana, l’età tardoantica e altomedievale. Un Parco archeologico all’avanguardia che ha aperto definitivamente i battenti il 24 giugno 2016 e che, senza alcun dubbio, merita una visita! 

Un’area estremamente suggestiva e densa di storia, dove cielo e terra, uomini e dei, dialogano sin dalla notte dei tempi. Un grande, straordinario, santuario preistoricodove funzioni cultuali e funerarie si sono avvicendate e trasformate nei secoli fino all’utilizzo dell’area a fini non solo sepolcrali ma anche agricoli in epoca romana, per poi approdare (nuovamente) al contatto col divino nell’Alto Medioevo attraverso l’emblematica figura di San Martino.

Un santo scelto a ragion veduta. Martino era un soldato, nato nel 316 d.C. nell’antica Pannonia (l’attuale Ungheria) e di cui proprio nel 2016 la Chiesa ha celebrato i 1700 anni dalla nascita. Prima al servizio dell’esercito di Roma, e poi al servizio di Dio. Un santo-soldato, poi divenuto monaco esorcista e infine vescovo, che vigila e presidia: ecco perché, nella stragrande maggioranza dei casi, lo si ritrova lungo le mura delle città, in corrispondenza di castelli strategici oppure in prossimità di importanti e frequentati assi viari. Inoltre ci troviamo in un luogo dove le tracce del paganesimo erano profondamente radicate e testimoniate da eloquenti indizi probabilmente ancora noti o comunque percepiti o percepibili in epoca tardoantica. Occorreva pertanto eradicare queste antiche credenze, i cui strascichi probabilmente si protraevano nel tempo e nella società “spaventata” dalle angosce della fine dell’Impero romano. Occorreva esorcizzare luoghi del genere richiamando la forza e l’attrattività di un santo così amato dal popolo quale era, appunto, San Martino di Tours, l’apostolo delle Gallie.

L’AREA MEGALITICA

Ma non indugiamo oltre ed entriamo, varcando la soglia di questo complesso esteriormente così moderno e avveniristico che, con gli anni, diventerà un importante centro non solo museale, ma di studio e ricerca dedicato alla Preistoria alpina, un settore ancora poco conosciuto e dalle frontiere ancora in buona parte inesplorate.

L’avvicinamento al sito avviene scendendo lungo una rampa dove gli intrecci delle travi in acciaio con le strategiche aperture vetrate consentono di vivere l’azione stessa dello scendere. In una scenografia che sa quasi di archeologia industriale, si vede chiaramente che si sta “bucando” il terreno circostante e si sta andando in un luogo sotterraneo; la cappella si fa più alta e più lontana. L’Aosta dell’oggi sta lasciando il posto all’Aosta “perduta”, a quell’area senza nome avvolta dal torpore dei millenni, l’area “dalle grandi pietre”, l’area megalitica.

Sembra quasi di essere su un’astronave, in viaggio al di là del tempo e dello spazio alla ricerca di mondi solo apparentemente perduti. E non a caso era il 1969 quando questo sito venne scoperto. Giugno 1969. Un mese prima che l’uomo mettesse piede per la prima volta sulla Luna. E, davvero, percorrere questa rampa del tempo per raggiungere un luogo così insolito ed inaspettato, può per molti aspetti essere paragonato al mettere piede su un altro pianeta!

E in effetti, la stessa impressione si può avere sin dall’esterno. Forme taglienti, spezzate, che interrompono il presente per accompagnare, quasi come su una nave spaziale, in un inatteso viaggio nel più remoto passato. Forme lucide, vetrate, riflettenti e trasparenti che vogliono appositamente attrarre la luce che, sia diurna che notturna, si rivela componente fondamentale ed imprescindibile all’origine del sito e dei suoi allineamenti, vere forme “ponte” tra cielo e terra.

La rampa continua la sua discesa, le luci progressivamente si affievoliscono e ci si ritrova a 6 metri sotto terra. I colori scuri aiutano la percezione di un sottosuolo al confine con una dimensione “altra”. Bisogna prepararsi ad un salto cronologico importante.

All’ improvviso ci si ritrova in uno spazio immenso. Ci si sente piccoli piccoli in questa sorta di lunare vastità. Ci si potrebbe anche chiedere dove si è e, soprattutto, cosa si debba guardare. Le luci cambiano e sfumano; dal buio quasi totale ad un chiarore freddo, fino ad una luminosità dorata e diffusa, per poi passare ad una calda tonalità aranciata che, virando sul violetto e poi sul blu, riporta di nuovo la notte. 

E’ il susseguirsi dei giorni e delle notti, delle albe e dei tramonti, delle lune e delle costellazioni che nei millenni hanno visto la nascita, lo sviluppo, gli utilizzi e i cambiamenti di quest’area straordinaria. Un’area in origine pensata e costruita a contatto diretto col paesaggio e col cielo, ma che oggi, inserita com’è nel tessuto urbano e dotata di un deposito archeologico tanto corposo quanto fragile e vulnerabile, ha necessitato una copertura. Non ci sono solo “pietre”, c’è molto di più! E’ il più grande sito megalitico coperto d’Europa!

Stella

Il MAR che non ti aspetti!

19.00: fine turno. Chiusura. Ma stavolta non solo del museo, ma di tutti… Tutti i musei, i siti, i castelli, le mostre… Tutto! Quella maledetta pandemia aveva colpito ancora dopo un’illusoria ed effimera tregua estiva. Leo era custode del MAR, il Museo Archeologico Regionale di Aosta. Da diversi anni lavorava nei Beni culturali; aveva prestato servizio in numerosi siti, ma il Museo Archeologico esercitava su di lui un fascino tutto particolare.

Innanzitutto da sempre amava i musei: “le dimore senza tempo delle Muse”, come li definiva lui. Ma l’Archeologico aveva un “quid” in più: tutti quegli oggetti… avevano attraversato i secoli, erano stati in chissà quante e quali mani, avevano visto chissà quante cose… tutti quegli oggetti avevano una storia da raccontare. Forse anche più di una. In quelle vetrine c’era vita, tante vite! Ogni monile, ogni lucerna, ogni ciotola o bottiglia, erano uomini del passato che, però, grazie al lavoro degli archeologi, riuscivano a far parlare di sé ancora oggi, dopo secoli e secoli. Ecco, questo lo entusiasmava e lo stimolava. Quel museo era diventato per Leo come una seconda casa e con infinito piacere accoglieva i visitatori, le scolaresche o semplici curiosi.

Ma quella “fine turno” lo rattristava tremendamente. Lo preoccupava e lo incupiva.

Ok, aveva spento tutto, controllato ogni cosa, inserito gli allarmi; ultimo giro di chiave e… “Ma come? C’è una luce accesa?!”, si stupì, “eppure sono passato dappertutto… che strano!”.

Rientrò; rifece scrupolosamente il giro. La luce nella prima saletta era accesa. “Mah, davvero strano…!”, rimarcò. Spense. Fece per uscire quando gli venne l’istinto di girarsi: un’altra luce era accesa!

“Ma che diamine succede stasera?!”, sbottò.

Rientrò e vide che stavolta era la grande sala del plastico ad essere illuminata. “Questo me lo devono proprio spiegare! Non era mai capitato! Forse c’è qualche contatto… boh!”.

Rifece il giro e, per scrupolo, scese anche nel sottosuolo: “Non si sa mai che sia rimasto acceso qualcosa anche lì!”. Ripercorse con la pila l’intera sezione sotterranea. Tutto a posto. Chiuse la porta, fece i primi scalini, ma la porta del sottosuolo si riaprì! Leo iniziò ad avere qualche insolito “brivido”.

Con cautela e circospezione scese quei pochi scalini e richiuse la porta. Questa volta salì all’indietro per controllare che non si riaprisse. Sembrava finalmente tutto a posto. “Stai a vedere che le leggende sulla povera monaca Visitandina murata viva qui a fine Seicento non so dove… erano vere! Meglio andarsene per stasera, vah!”.

Aveva quasi raggiunto l’uscita quando udì dei passi. Si fermò immediatamente pensando di avere le allucinazioni, di essersi troppo suggestionato. Immobile, aspettò qualche secondo… Ecco! Di nuovo i passi! “Ma chi diavolo… Chi è’?!”, urlò, “Insomma, basta con gli scherzi, eh?! Forza! C’è qualcuno?”.

Nel frattempo la saletta delle epoche preromane si era illuminata. “Adesso però basta!”, esclamò Leo tra il nervoso e un inizio di timore. Si precipitò sul posto. La luce non si spense. Si avvicinò istintivamente alla vetrina con le armille celtiche. “Ma che diavolo…”. Si stropicciò gli occhi un paio di volte. Quella a doppio filo di bronzo dorato con le perle in pasta vitrea… scintillava! Improvvisamente fu tutto buio.

Solo quel bracciale brillava! Lo guardò incredulo e ipnotizzato: le decorazioni “a occhioni” si muovevano… giravano, come due vortici! E le perle sfavillavano! Poi, altrettanto improvvisamente, lo sfavillìo si spostò. Leo seguì quel baluginìo: stavolta, a brillare nel buio pesto, era la scritta incisa sull’epigrafe detta “dei Salassi incolae”.

L’intera scritta era illuminata. Leo si avvicinò, fece per toccare l’oggetto quando la parola “Salassi” si fece ancora più luminosa; udì nuovamente quel rumore di passi accanto a lui. Si voltò di scatto e… fu di nuovo tutto buio. Rumore di passi. Si girò e la luce, stavolta, lo attirava verso il grande plastico della città di Augusta Praetoria.

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Quel grande plastico in scala 1:200 era da sempre una delle attrazioni preferite dei visitatori di tutte le età. La sorpresa di trovarsi la città romana, dalla fondazione fino al II secolo d.C., letteralmente a portata di mano: poterla toccare, poter aprire gli edifici vedendo cosa ne resta e come dovevano essere… beh, un gioco di conoscenza e approfondimento capace, pur nella sua semplicità, di coinvolgere e divertire tutti.

Leo si avvicinò. L’iniziale sgomento stava piano piano lasciando il posto alla pura curiosità, quasi come si fosse ritrovato catapultato in un videogioco.

Si accorse che il modellino del Criptoportico era smontato; allungò una mano per rimetterlo a posto quando alle sue spalle: “Buonasera! Mi scusi per il trambusto…non volevo spaventarla. Sono nuovo…sa…!”.

Leo sobbalzò. Chi era quel giovane? “Chi è … chi sei? Come sei entrato?!”. Un giovane sui 25 anni al massimo, non eccessivamente alto, capelli corti con una frangetta scomposta, tipica aria da “bravo ragazzo” gli rispose con tranquillità e tono pacato: “Sì, ha ragione. Ho iniziato uno stage da pochi mesi… non ci eravamo mai incontrati prima. Sa, io sono archeologo… sto finendo la Specializzazione. Ho iniziato un tirocinio qui e ne sono davvero felice. Stavo esaminando alcuni oggetti esposti nel sottosuolo e ho perso la cognizione del tempo. Quando ho capito che stava chiudendo, mi sono spaventato e… ho fatto pasticci!”.

Leo era perplesso; non sapeva che dire. Possibile che nessuno lo avesse avvisato? Eppure lui era sempre lì! Strano che non lo avesse mai incrociato, anche se… quel volto gli risultava incomprensibilmente famigliare.

“E’ splendido il Criptoportico, vero?”, disse il giovane. “Un vanto per le colonie possedere un simile edificio nel foro… Gli accessi monumentali collegavano la terrazza sacra con la parte bassa, la piazza giuridico-commerciale. Augusta Praetoria… una colonia alpina incredibile: grande, ricca, vivace! Soldati, mercanti, notabili; un vero “porto” tra le montagne. Affascinante!”

Leo si rese immediatamente conto della profonda passione con cui quel giovane parlava e si ritrovò ad ascoltarlo con grande trasporto. “Sei di Aosta?”, gli chiese. Il ragazzo fissava un punto lontano… “diciamo che è come se lo fossi…”.

“E vogliamo forse parlare del quartiere degli spettacoli? Venne realizzato in un secondo momento quando la città aveva un ruolo e un’identità già consolidati. Le vie di transito erano state potenziate. Gente che andava e veniva… dotarsi di un teatro e di un anfiteatro era fondamentale… forse non tanto per effettive esigenze quanto per necessità di immagine. Occorreva trasmettere al primo sguardo potenza e ricchezza!”.

Leo era ammutolito. Quel giovane gli spiegava la città antica come se davvero vi avesse vissuto… Improvvisamente scomparve. Leo credette fosse passato nella sala accanto, ma…non c’era più!

E non gli aveva neppure chiesto come si chiamava!

Entrò quindi nella sala delle necropoli. Di nuovo scese l’oscurità. Leo si immobilizzò. Ancora quel rumore di passi; poi le scritte di antiche epigrafi funerarie iniziarono a illuminarsi una dopo l’altra. Una voce iniziò a declamarle in latino: era quel ragazzo! “Ehi, ma dove sei?!” chiese Leo disorientato. “Seguimi!, gli rispose, “ apprezziamo insieme quanta vita c’era anche nell’estremo saluto. Le tombe non erano solo tombe: erano occasioni per celebrare la vita ravvivando il ricordo delle persone. Ai monumenti funerari ci si avvicinava col desiderio di conoscere la persona defunta, sapendo che anche in questo modo poteva raccontare un pezzo di città e di comunità; non solo per piangere… e i corredi? Sono strepitosi! Frammenti di vita: una quotidianità che continuava oltre la morte!”.

Leo si guardava intorno stranito come se passasse per la prima volta in quelle sale. Forse fu un’allucinazione… un sogno… ma il letto funebre rivestito di raffinate sculturine in avorio era… intatto! Fu un attimo ma gli parve davvero di vederlo come doveva essere. Provò a tornare indietro per verificare ma una fitta oscurità glielo impedì. Il ragazzo continuava a precederlo senza, però, rendersi raggiungibile.

Giunto nella sala dei culti ebbe un sobbalzo. Davanti a lui si ergeva un’imponente statua di Giove Graio: molto più grande del busto che ben conosceva! Quegli occhi enormi lo fissavano e Leo si sentì letteralmente ipnotizzato da quel sacro volto divino. All’improvviso una folgore, un fulmine squarciò l’atmosfera sospesa di quell’inatteso incontro per riportarlo alla realtà, davanti a quell’oggetto in argento così carico di arcana ieraticità proveniente dal colle dell’Alpis Graia, il Piccolo San Bernardo.

“Eccomi!”. Quell’inafferrabile ragazzo gli avrebbe fatto venire un infarto, prima o poi! “Davanti a questo oggetto potrei sostare delle ore, sei d’accordo?”, disse indicandogli lo splendido balteo bronzeo decorato, altro “pezzo forte” del MAR.

“E’ incredibile la raffinatezza e l’eleganza di questo pettorale, vero? Un pettorale in bronzo da parata destinato al cavallo di un personaggio decisamente importante! Sai, Leo, io sono quasi certo che non fosse nemmeno pensato per un cavallo in carne e ossa, quanto piuttosto per una statua equestre. Magari non era un “semplice” ex-voto… ma qualcosa di più!

Un pezzo che ancora oggi ci regala tutto il pathos di una battaglia cruenta, di uno scontro senza esclusione di colpi tra Romani, molti a cavallo, e barbari. I Romani occupano praticamente l’intero registro superiore della raffigurazione: netta ed inequivocabile superiorità. I soldati a terra indossano anche un elmo, utile a farli apparire più alti e temibili.

I barbari sono assai riconoscibili e ben caratterizzati: barba lunga, chioma fluente – pensiamo alla famosa Gallia Comata, appunto… tribù di nerboruti Celti capelloni dalle lunghe barbe: un look decisamente lontano dal composto civis Romanus sbarbato e dal taglio inappuntabile!-, pantaloni, le brachae, il sagum, cioè un corto mantello in lana grezza o in pelliccia, o alternativamente una semplice corta tunica stretta in vita da un laccio, e l’immancabile torquis al collo.

E poi lui, l’imperator! Il comandante svetta al centro della scena troneggiando letteralmente sul suo destriero lanciato al galoppo. Senza alcuno scrupolo travolge i nemici, ormai destinati alla disfatta. Questo generale cavalca senza elmo, a viso scoperto, dichiarando col suo particolare taglio di capelli e la frangia corta e geometrica, l’appartenenza all’età di Traiano (inizi II secolo d.C.). Anzi, diciamo che persino i tratti somatici lo avvicinano all’imperatore Ulpio, mitico domatore dei terribili Daci!”.

“Certo che questo ragazzo è molto preparato! E come spiega le cose! Sembra un film!”, pensò Leo compiaciuto. Voleva chiedergli il nome, ma… “ecco! Sparito di nuovo!”.

Leo passò velocemente nella sala dell’edilizia pubblica… velocemente ma non abbastanza per non rendersi conto che mancava qualcosa! Con la coda dell’occhio aveva notato uno spazio insolitamente vuoto, ma era come se non avesse avuto né tempo né modo di fermarsi. Beh, sarebbe tornato indietro dopo. Intanto sentiva i passi e la voce del giovane in lontananza: “ Ah…i thermopolia! Come gli attuali take away, ma… molto più autentici e ruspanti! Focacce di farro intrise di olio profumato e cosparse di salsa di olive o, per i palati più robusti, di garum… ne esistevano molte qualità, sai? Secondo me la migliore era quella a base di acciughe! E poi uova sode, zuppe di legumi, formaggi, olive nere e verdi! Veri e propri piccoli ristorantini di strada pieni di gustose leccornie. Come lo street food! Ecco, vedi? Quante anfore circolavano! Tante forme, altrettanti contenuti e provenienze! Quante informazioni ci può dare una semplice anfora: chi l’ha prodotta, chi l’ha riempita, che viaggio ha fatto, cosa ha contenuto…

Ah, l’uomo moderno crede di aver inventato chissà cosa, invece… i Romani già sapevano vivere alla grande con tutti i confort! Basti pensare alle terme, al riscaldamento a parete e a pavimento, all’eleganza degli spazi verdi, alla cura delle città… mica come oggi!”.

“Anche ad Aosta ce n’è uno…” sottolineò Leo, orgoglioso di dirgli di esserne a conoscenza. “Certo!”, gli fece eco il giovane, “ben più di uno, caro mio! Solo uno è stato trovato, ma… fidati che una città come Augusta Praetoria ne aveva diversi! Sai, i Romani avevano l’abitudine del fast food, del pranzo veloce fuori casa, quindi puoi solo immaginarti quanto fossero utili i thermopolia! Tra Cardo e Decumano, tra foro e terme, nei quartieri o nei pressi delle principali porte della città, queste piccole trattorie di strada pullulavano e riempivano l’aria di succulenti profumini!”.

Leo non fece fatica a immaginare quell’Aosta antica: viva, dinamica, piena di gente proveniente da ogni parte dell’impero…

Pochi secondi e… era già scomparso di nuovo! “Ehi, ma dove sei finito ancora?”, lo chiamò Leo, “non mi hai neppure detto come ti chiami! Magari potremmo scambiarci il numero di telefono… potremmo restare in contatto!”.

Calò di nuovo il buio nel museo. Solo una luce attirava Leo verso la sala 9. “Ecco! Proprio dove avevo notato una mancanza!”, si ricordò il custode. Giunto nel passaggio delle stampe antiche si immobilizzò, esterrefatto!

Il giovane era lì, davanti a lui: indossava una toga romana dal bianco abbagliante. Gli rivolse un sorriso e gli disse: “E’ stato un vero piacere parlare con te! Tenete sempre vivo il passato perché è solo avendo ben presente il passato che si può guardare al futuro. Volevi sapere il mio nome? Beh… non serve che te lo dica… ci arriverai da solo”.

Il ragazzo si mise di profilo e la sua immagine luminosa si impresse sul fondo rosso della teca vuota. Leo, abbagliato, chiuse gli occhi per un attimo. Quando li riaprì, il nobile profilo del ritratto bronzeo del giovane principe giulio-claudio era tornato al suo posto! Chissà chi è in realtà: il giovane Ottaviano, oppure uno dei suoi sventurati eredi?

Con questo dubbio, Leo ancora frastornato, fece un giro del museo, sperando in cuor suo di rivedere quel giovane. Nulla, tutto era tornato come sempre. O forse no?

Stella

“Il Viaggiatore del Nord”. Ad Aosta quel guerriero venuto da lontano

Decise di attraversare quelle montagne… Si strinse ancor di più nel suo pesante mantello di lana cotta e, dopo aver incoraggiato il suo destriero, intraprese un viaggio che avrebbe segnato il suo destino. Montagne alte, innevate, spesso sferzate da venti gelidi. Montagne abitate da antichi dei e popolate da decine di leggende. Una terra severa, stretta ed impervia nel cui cuore, però, si vociferava di un’ampia e fertile pianura solcata da un grande fiume d’argento figlio dei ghiacci eterni. Quel cavaliere partì. Ma non fece ritorno. Dopotutto era un viaggiatore… “il Viaggiatore del Nord”.

IL CANTIERE DELL’OSPEDALE “U. PARINI” DI AOSTA

Là, dove molti anziani si ricordano la partenza della storica gara automobilistica “Aosta-Gran San Bernardo”.

Ao-GSB 9 agosto 1931 (foto concessa da Massimo Acerbi)
Ao-GSB 9 agosto 1931 (foto concessa da Massimo Acerbi)

Là, dove ancora alcuni “over” ricordano la vecchia palestra “CONI”.
Là, dove si estendeva il vecchio cimitero rimasto in uso fino agli anni ’30 del Novecento, anticipato dalla graziosa cappella neogotica di Saint-Jean-de-Rumeyran…
Là, in questa ampia area delimitata a ovest da Viale Ginevra, dominata dalla mole “eliomorfa” dell’ospedale (ex Mauriziano) terminato all’inizio degli anni ’40;

I bolidi dell'Aosta-GSB sfilano rombando davanti al nuovo, grandioso ospedale,1947 (foto concessa da Massimo Acerbi)
I bolidi dell’Aosta-GSB sfilano rombando davanti al nuovo, grandioso ospedale,1947 (foto concessa da Massimo Acerbi)

 

a nord dalla trafficatissima via Roma e a sud dalla residenziale via Guedoz… gli scavi e le ricerche archeologiche, avviate ancora dalla scomparsa Patrizia Framarin e proseguite sotto la supervisione scientifica di Alessandra Armirotti​, hanno regalato alla città di Aosta nuovi importanti elementi di conoscenza le cui radici si spingono fino al IV millennio a.C.!
Una porzione di territorio da sempre cruciale, un tramite fondamentale tra la piana della Dora Baltea, le prime pendici collinari baciate dal sole di Mezzogiorno (sedi privilegiate per l’impianto di insediamenti e di colture agricole) e la via d’accesso alle alte vallate del nord che si insinuavano tra i monti alla volta del Passo con la “P” maiuscola, il Summus Poeninus, il valico del Gran Sa Bernardo…
Un paesaggio in continua evoluzione.
Agricolo. Sacro. Funerario.
Dietro quella recinzione, nei mesi si è aperta una strepitosa finestra su oltre 6000 anni di storia.
Dietro quella recinzione si celava una porzione di un probabile immenso circolo di pietre, inequivocabile simbolo di ancestrale sacralità.
Dietro quella recinzione ha riposato, per secoli, custodito da un’eterna dimora di pietra, il misterioso Viaggiatore venuto dal Nord…

UN CANTIERE STRAORDINARIO E COMPLESSO

 

Metti un cantiere urbano, con le sue tante problematiche e le sue innegabili, immancabili difficoltà. Metti un cantiere attivo anche in inverno, l’inverno alpino, quello che ogni mattina ti fa trovare la neve e il ghiaccio sullo scavo. Quello che ti gela le mani e ti spacca la pelle. Un cantiere forse più complesso e difficile di altri, denso di aspettative e di preoccupazioni. In Aosta città, lungo viale Ginevra, proprio di fronte all’Ospedale “U. Parini”, prendeva forma quest’area di scavo preliminare ai lavori di ampliamento dello stesso ospedale. Che la potenzialità archeologica dell’area fosse elevata, era noto, ma mai si sarebbe creduto di trovare quel che poi la terra ha fatto riemergere. Fuori dal cantiere campeggia una scritta: “Il futuro nasce sempre con un cantiere”. Verissimo, ma è anche vero che “il passato torna sempre grazie ad un cantiere”.

Il cantiere per l'ampliamento dell'ospedale ad Aosta. (Akhet-Stevanon)
Il cantiere per l’ampliamento dell’ospedale ad Aosta. (Akhet-Stevanon)

Sentirete il freddo pungente di quelle mattine; sentirete l’odore del fango umido e il rumore degli attrezzi sul terreno. Tutt’intorno il traffico della città. Ma lì, sotto quel tendone, quello “strano” cumulo di pietre stava per rivelare un lontano segreto: la storia di un giovane uomo la cui esistenza si perdeva in secoli remoti, probabilmente fin oltre le montagne. Ben presto il “cumulo” si manifestò per quello che effettivamente era in origine: un Tumulo. Questione di una semplice consonante iniziale che, però, ha cambiato radicalmente le prospettive degli scavatori. Quelle pietre non erano messe lì a caso, non erano state malamente accatastate per semplici fini agricoli. No. Quelle pietre erano la tomba monumentale, la dimora eterna, di qualcuno di importante.

L'archeologo David Wicks verifica il rilievo del tumulo (Akhet-Stevanon)
L’archeologo David Wicks verifica il rilievo del tumulo (Akhet-Stevanon)

Quel “qualcuno”, in maniera misteriosa ma senza dubbio evocativa, è stato definito “il Viaggiatore del Nord”.

Un viaggiatore speciale che, grazie al bel documentario prodotto dalla ditta Akhet srl e dal regista Alessandro Stevanon, ha aperto la XXVII  Rassegna Internazionale del Cinema Archeologico di Rovereto, tenutasi dal 4 all’8 ottobre 2016.

Un appuntamento importante, di risonanza europea se non mondiale, ben noto ai tanti appassionati del settore. Documentari, docufilm, cortometraggi; il meglio della cinematografia a tema archeologico qui può fare bella mostra di sé accompagnando gli spettatori in tanti viaggi diversi ai quattro angoli del mondo suscitando, storia dopo storia, emozioni sempre nuove e coinvolgenti.

Questo documentario ci fa rivivere dal di dentro una scoperta incredibile ed eccezionale che, per la prima volta, ci viene raccontata dai suoi stessi protagonisti.

LA SCOPERTA

“Teschio!” , esclama ad un certo punto l’archeologo David Wicks. I suoi occhi azzurri hanno riconosciuto quelle lamelle biancastre mimetizzate dal fango. Teschio… forza, scaviamo!Sì, sotto il crollo dei lastroni di copertura ci sono le spoglie mortali di qualcuno. Riuscite ad immaginare l’emozione? La sentite correre sulla vostra pelle? Ecco che gli attrezzi cambiano; dalla trowel si passa al bisturi, si lavora lentamente e meticolosamente. Per progressiva sottrazione ecco che le mani sapienti degli archeologi eliminano i depositi superflui e portano in luce la struttura ossea. Un’atmosfera sospesa, da trattenere il fiato come se si stesse compiendo un rituale; una luce quasi irreale sotto quel tendone. La luce della Storia, di una storia passata e lontana che sta lentamente riemergendo dalle nebbie del tempo e dalle tante nevicate che nei secoli hanno ricoperto questi luoghi sigillando, sotto coltri di limi, la tomba di quest’uomo. Una tomba a tumulo databile al periodo denominato “Hallstatt C” (Prima Età del Ferro, 800-600 a.C.).

L'osteoarcheologo Ian Marsden al lavoro sulla sepoltura (Akhet-Stevanon)
L’osteoarcheologo Ian Marsden al lavoro sulla sepoltura (Akhet-Stevanon)

Un uomo, ora gli archeologi lo sanno! Le ossa di mandibola e bacino parlano chiaro. Un uomo giovane, robusto, alto. Un uomo senza dubbio appartenente ad una classe sociale di rango elevato. Un guerriero, o comunque un capo, con il suo lungo spadone appoggiato alla gamba, con le fibulae (fibbie) dell’abito un tempo utili a trattenere magari pelli o stoffe pesanti. E con oggetti assai particolari di chiara appartenenza al mondo culturale celtico. Quegli oggetti non appartengono al territorio valdostano, ma arrivano da nord. E lui? Anche quest’uomo arrivava da nord? C’è ancora molto da capire e da scoprire.

Ma il guerriero non riposava in un campo deserto, tutt’altro. A brevissima distanza dal tumulo un altro ritrovamento straordinario: una porzione di un circolo di pietre di cui sono stati individuati 25 elementi lapidei. Un circolo che, sulla base dei dati stratigrafici, parrebbe appartenere al medesimo orizzonte cronologico della tomba. Un’area sacra e funeraria. Un’area dove, come a Saint-Martin-de-Corléans, il cielo dialogava con la terra e il presente con l’al di là.

Il guerriero viaggiatore nella sua eterna dimora (Akhet-Stevanon)
Il guerriero viaggiatore nella sua eterna dimora (Akhet-Stevanon)

La Rassegna di Rovereto 2016, quindi, si era aperta proprio col racconto di questa scoperta straordinaria di notevole portata scientifica, soprattutto per quanto riguarda le attuali conoscenze sulla protostoria dell’arco alpino.

Un viaggiatore-principe-guerriero che senza dubbio riuscirà a colpire l’immaginario di quanti potranno conoscerne la storia, fino ad oggi gelosamente custodita da quell’imponente scrigno di pietre racchiuso tra le alte montagne della Valle d’Aosta.

Stella

Area Megalitica di Aosta. Preistoria da fashion week. Il glamour senza tempo delle stele “dalle spalle larghe”

Pochi giorni fa, il 25 febbraio, si è conclusa la sempre attesa e super seguita Milano Fashion Week.

Non sono certo una fashion-blogger, ma la moda mi ha sempre interessato molto. Sono curiosa delle tendenze, delle diverse declinazioni che l’abbigliarsi assume nel tempo e nello spazio.

Sarà che nei miei variegati trascorsi ci sono anche studi di canto lirico nel cui ambito ho approfondito la storia del costume…

Si fa presto a dire “vestito” quando invece dietro ad ogni abito si muove un mondo, una società, una (o più) culture che proprio quell’abito hanno prodotto e creato per dare un segnale, per comunicare, per sottolineare un modo di essere, di vivere, di apparire.

Da brava archeologa mi è sempre piaciuto moltissimo studiare i cambiamenti di foggia d’abito o di acconciatura che sempre hanno contraddistinto non solo epoche ben precise, ma connotato socio-culturalmente uomini, personaggi, siano essi stati capi, guerrieri, sciamani e sacerdoti.

I mutamenti nelle acconciature delle primedonne dell’antica Roma, ad esempio, aiutano ad individuare un’epoca: dal sobrio ciuffo rigonfio tirato sulla fronte alla moda di Livia, moglie di Augusto,

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fino alle complesse, direi barocche, acconciature ridondanti di riccioli, boccoli e “extensions” dell’epoca flavia,

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fino alle pettinature “a melone” del III secolo d.C. sdoganate dall’imperatrice Giulia Domna, una vera “influencer” del suo tempo!

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Eh già, regine, principesse e star non lanciano tendenze solo oggi, ma da sempre.. pensiamo all’inimitabile Cleopatra, non bellissima ma super affascinante e magnetica erede della dinastia tolemaica, indiscussa ammaliatrice di uomini … e che uomini!

Cleopatra

Dopotutto l’ultima sovrana d’Egitto è glam ancora oggi; potrebbe essere benissimo una “it-girl” da milioni di followers su Instagram!

O, procedendo nel tempo, alle mode lanciate da donne di potere come Caterina de’ Medici che vestiva sempre di nero e, cosa assolutamente nuovissima, indossava lingerie! Per non parlare dei profumi, altra sua passione insieme al gelato e… ai veleni!

Caterina-de-Medici-e-il-suo-abito-vedovile

Oppure come non pensare alla grande Elisabetta I d’Inghilterra, una vera trend-setter del XVI secolo! Le sarebbe servita non una cabina, ma una villa armadio se pensate che, si dice, possedesse almeno 2000 guanti!  La sua moda era così scandalosa in termini di volumi e stravaganza che solo lei, la regina, poteva permettersi di indossarli.

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Dopo le sue apparizioni le sue dame iniziavano a copiare i suoi abiti, utilizzando però materiali meno preziosi. Un pò quello che accade oggi: guardando le Fashion Weeks ci innamoriamo di un capo, e non potendocelo permettere, lo cerchiamo nella grande distribuzione o sulle bancarelle del mercato. Ma questa è tendenza! E anche questo parla di noi che ci rifacciamo ad un look per poi reinterpretarlo e adattarcelo su misura.

Ma veniamo all’oggetto protagonista di questo mio post: l’Area Megalitica di Aosta!

Non voglio qui dilungarmi su questo sito straordinario, inaugurato nel 2016 dopo oltre 40 anni di scavi e ricerche. Scoperto fortuitamente nell’estate del 1969, guarda caso un mese prima che l’uomo mettesse piede sulla Luna e, in Valle d’Aosta, una coppia di archeologi atterrava sull’inatteso pianeta delle grandi pietre! Ecco, anni ’60-’70: e già questo lo rende squisitamente, irresistibilmente vintage!

VALLE D'AOSTA-Dolmen area megalitica Saint-Martin-de-Corléans Aosta (foto Enrico Romanzi)-9537

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Non insisterò sul fatto che si tratta dell’area megalitica coperta più vasta d’Europa (oggi sono visitabili 10.000 mq ma al termine dei lavori l’intera area si estenderà su qualcosa come 18.000 mq!), oltretutto in pieno contesto urbano: uno urban style dove un’Antichità senza tempo strizza l’occhio al futuribile contemporaneo.

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Ma riallacciandomi a quanto visto sfilare alla FashionWeek 2019, vorrei attirare la vostra attenzione su quanto siano trendy le misteriose statue-stele dal profilo umani risalenti al III millennio a.C.!

Ci hanno detto che nella stagione “fall-winter 2019” torneranno le giacche over-size con le spalline imbottite e vagamente a punta che conoscevamo nei ruggenti anni ’80.

giacche anni 80

blazer revival Snap italy

Ebbene, senza ombra di dubbio le nostre stele antropomorfe hanno le spalle larghe con quella nitida forma trapezoidale intrisa di severo distacco.

VALLE D'AOSTA-Stele area megalitica Saint-Martin-de-Corléans Aosta (foto Enrico Romanzi)-9598 (1)

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Abbiamo visto strizzare l’occhio a pellicce sempre sovradimensionate, spesso create a patchwork con ritagli diversi o comunque ispirate ad indumenti antichi, quasi dei capispalla preistorici che non avrebbero sfigurato indosso a Ötzi e compagni. E se fino all’anno scorso i colori erano super sgargianti, quest’anno c’è il ritorno del naturale: dalla sabbia al cammello fino ai marroni più scuri.

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Ecco, anche per le nostre statue stele gli studiosi non escludono la raffigurazione di dettagli lavorati che in origine potevano essere proprio di pelliccia, magari lavorate a check o a triangoli.

Ci hanno detto che molti stilisti o fashion designer hanno riproposto lo stile optical con abiti profusi di quadretti, righe e triangoli.

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Ebbene, osservate con attenzione alcune delle nostre stele e noterete la presenza di abiti ed ornamenti decorati proprio con questo stile!

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Una curiosità in più: stando agli studi più recenti, parrebbe che i quadretti siano esclusivo appannaggio delle stele maschili!

E anche sotto questo aspetto le nostre statue stele sono di moda: non presentano, infatti, peculiarità specifiche che distinguono al primo sguardo i personaggi maschili da quelli femminili. I caratteri spiccatamente sessuali risultano annullati. Maschio e femmina appaiono quasi sovrapponibili se non fosse per alcuni dettagli legati agli abiti o, ancor di più, agli accessori (armi, gioielli, borselli…)!

Abbiamo poi notato come si sia confermata la tendenza dell’unibrow, cioé del monosopracciglio, folto e apparentemente non curato alla moda di Frida Kahlo.

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Beh, osservate, laddove ancora riconoscibili, i volti definiti “a T” delle nostre stele… eh?!

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Una caratteristica ulteriormente accentuata e talvolta esasperata da un make-up geometrico che va a scolpire letteralmente la zona occhi conferendole un fascino insolito, tra lo statuario e il robotico!

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Un dialogo-contrasto, quello tra l’Antico e il Contemporaneo che nell’arte preistorica trovo che si sublimi raggiungendo un linguaggio essenziale, muto ma pervasivo, sottile ma potente.

L’enigma delle statue-stele dell’Area megalitica di Aosta. Divinità? Capi tribù? Guerrieri? Sciamani? Difficile a dirsi ma sprigionanti un fascino magnetico capace di ipnotizzare superando le barriere del tempo e dello spazio.

Stella

Romana, romanica e oltre. La grande fabbrica della Cattedrale di Aosta

Si vedono da lontano: alti e slanciati i due campanili della Cattedrale di Santa Maria Assunta disegnano l’orizzonte della quasi bimillenaria città di Aosta innalzandosi, arditi, verso il cielo.

Sono un punto di riferimento nel paesaggio urbano cittadino; inconfondibili, indicano il primo luogo di culto cristiano dell’antica Augusta Praetoria quando ormai l’impero di Roma volgeva al tramonto.

I suoi grandiosi e monumentali edifici iniziavano a decadere e a servire come cave di pietra a cielo aperto; il suo fulgido e perfetto impianto urbanistico veniva progressivamente occupato da nuove dimore e costruzioni, certo meno ambiziose, e i suoi dèi, celesti e inferi, cominciavano a dissolversi e ad impallidire davanti al dilagare di nuovi culti salvifici concentrati su singole figure, divine e non: dal più violento e militaresco culto solare di Mitra, fino alla speranza di salvezza e rinascita proclamate e diffuse dal Cristianesimo nascente .

RADICI ROMANE

Siamo nella piazza del Foro, per la precisione sulla terrazza sacra che, in epoca romana, era occupata da due templi gemelli sede del culto ufficiale della colonia: oggi piazza San Giovanni XXIII. Questa terrazza era circondata da un doppio sistema di porticati: uno superiore che fungeva da scenografica cornice alla coppia di templi, ed uno inferiore, seminterrato, nascosto: il criptoportico. E’ quest’ultimo un gioiello, un prezioso cameo del patrimonio archeologico della città: un cuore antico che lascia ogni volta esterrefatti e stupiti per la sua eccezionale monumentalità, per la sua aurea geometria, e per quell’incredibile ed inaspettata infilata prospettica sotterranea, “segreta”, delle sue arcate ribassate in dorato travertino.                                                                                                                             Ed è proprio sull’ala orientale del criptoportico che va ad innestarsi la potente fabbrica della chiesa cattedrale, lì dove, in origine, sorgeva una ricca domus patrizia affacciata sul Foro.

LA DOMUS ECCLESIAE

Una domus che poi, con la metà del IV secolo d.C. e in seguito all’Editto di Costantino, divenne sede della prima comunità cristiana della città: quella che si dice “domus ecclesiae”, “casa dell’assemblea”. A questo edificio si può associare anche un primo fonte battesimale le cui tracce sono visibili all’interno del braccio est del criptoportico: era un’ampia vasca per immersione…e in effetti “battesimo”, parole di origine greca, significa proprio questo. Come Gesù era entrato nel fiume Giordano, così, nei primi tempi cristiani, già in età adulta si entrava nell’acqua fino alla vita.

Prima della fine del IV secolo era nata la diocesi di Aosta. Con essa vide la luce la prima cattedrale: è ormai l’alba del V secolo.

Ma non possiamo abbandonare la tarda Antichità senza un accenno allo splendido dittico eburneo di Onorio. Questa sorta di “libro” d’avorio presenta due valve legate da una cerniera. Su entrambe figura all’incirca la medesima rappresentazione:  l’imperatore Onorio (395-423 d.C.) viene raffigurato in piedi sotto un arco, armato secondo lo stile classico, tipico della simbologia del potere consolare tardoantico. Indossa la tunica corta con il motivo del gorgoneion sul petto, il paludamentum che ricade sulla spalla sinistra, la cintura, la spada, i calzari ornati da teste e zampe leonine, la lancia e lo scudo posato a terra. Nella valva sinistra, invece, viene rappresentato appoggiato al labarum, sul quale è appesa una bandiera che riporta l’iscrizione «In nomine Chri(sti) vincas semper», con il globo nella mano sinistra reggente una Vittoria che gli porge una corona con la destra e tiene nell’altra mano una palma.

Ma se Onorio è protagonista della raffigurazione, il console Anicio Petronio Probo ne era il proprietario (406 d.C.) che decise di celebrare la propria investitura al Consolato d’Oriente attraverso questo raffinatissimo dittico, ora custodito nel bel Museo del Tesoro della Cattedrale.

LA FABBRICA DI ANSELMO

Poche le trasformazioni occorse nell’Alto Medioevo. Una figura però troneggia con la sua autorità e la sua immensa cultura: il vescovo Anselmo, che resse la diocesi tra il 994 e il 1026. Con lui la Cattedrale si ampliò e si arricchì enormemente. Pianta basilicale, 3 navate, 8 campate e un’altezza interna che andava dai 9 ai 15 metri. Non c’erano volte, ma capriate di legno che sostenevano il tetto. Sotto il coro, una magnifica cripta, densa di suggestione.

Ma ora saliamo dal sottosuolo fino al sottotetto. E’ qui che si cela un importante tesoro: un ciclo di affreschi, rinvenuto dagli studiosi nel 1979, che rappresenta una delle più importanti testimonianze della cultura pittorica e figurativa degli anni intorno al Mille. Una committenza raffinata e colta; maestranze di altissimo livello. Siamo alla metà dell’XI secolo e questo atelier di pittori è attivo sia qui che nel sottotetto di Sant’Orso. Naturalmente quello che oggi corrisponde al sottotetto, all’epoca era assolutamente a vista; dobbiamo quindi immaginarci una cattedrale molto più alta di quella attuale, coronata da un soffitto di solide capriate lignee.

PREZIOSI AFFRESCHI E…NON SOLO

Gli affreschi visibili in Cattedrale si sviluppano nella parte alta delle pareti laterali della navata centrale romanica. Si va dagli “Antenati di Cristo” ai Vescovi di Aosta”; dalle “Storie di Sant’Eustachio”, soldato romano poi convertitosi e martirizzato, fino alle “Storie di Mosè”. La visita consente di riscoprire una parte della chiesa oggi non più visibile perché occultata dal ribassamento del soffitto; visite guidate conducono alla scoperta di questo prezioso ciclo iconografico che fa di Aosta uno dei massimi centri di arte Ottoniana in Europa.

Sempre nel corso dell’XI secolo si procedette alla costruzione di un’abside occidentale al di sopra del criptoportico affiancata da una coppia di campanili; i resti affrescati dell’originario arco trionfale sono anch’essi visibili nel sottotetto.

Doveva essere una chiesa semplicemente grandiosa, imponente, con le 4 torri campanarie, e i suoi due catini absidali (uno, ad est, intitolato alla Vergine e l’altro, a ovest, oggi scomparso, dedicato a San Giovanni Battista). Nel presbiterio si conserva parte del raffinato pavimento musivo del XII secolo; di eccezionale qualità  la raffigurazione dell’Anno circondato dai Mesi con, ai quattro angoli, le raffigurazioni dei Fiumi del Paradiso. Si nota l’espressività delle figure, la vivacità dei colori, la tecnica, chiaramente mutuata dall’arte musiva romana, ma qui reinterpretata con tutto il sapore dell’immaginifico medievale e cristiano. Più a est ancora un mosaico, generalmente ritenuto di un secolo più tardo, dominato però dai bestiarii medievali, da tutto quel repertorio immaginario e fantastico che popolava le conoscenze, le credenze e spesso le paure dell’uomo medievale. Uno schema geometrico composto da un quadrato che racchiude un cerchio suddiviso in spicchi, e a seguire un altro cerchio, un altro quadrato ed infine un cerchio ancora. All’interno dominano le rappresentazioni di quattro animali chiaramente ibridi, ossia frutto della fusione di animali viventi in ambienti ed elementi tra loro assai diversi. All’esterno del quadrato altre bestie “strane”: una chimera, un unicorno, un grifo ed un orso. Ancora più all’esterno il Tigri e l’Eufrate, fiumi della culla di ogni civiltà e due dei fiumi del Paradiso. Si riconoscono infine con certezza in quanto corredati da didascalie, un elefante (l’Africa?) ed una Chimera analoga alla nota statua rinvenuta ad Arezzo e, quindi, di indiscutibile matrice etrusco-orientalizzante.

Un rebus, un inganno, un dedalo? Cornici apparentemente ordinate che racchiudono una fantasia in cui retaggi del mondo classico di mescolano ad invenzioni medievali.

Insolito e particolare l’accesso principale posto al centro della navata sud e ancora oggi esistente ed utilizzato. E sempre di epoca romanica era il chiostro presente sul lato nord, ma in seguito sostituito da quello tardo-gotico ancora oggi fruibile.

Una Cattedrale medioevale semplicemente monumentale che coniugava modelli transalpini e carolingi al più autentico stile romanico di tradizione italica. Una Chiesa, quindi, che già evocava e riassumeva l’identità culturale di questa piccola ma focale regione ritagliata nel cuore stesso delle più alte vette alpine.

Vi do appuntamento ad un prossimo post per approfondire fasi successive ed ulteriori aspetti della chiesa “madre” della diocesi augustana.

Stella

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