San Lorenzo di Aosta. Antiche storie all’ombra del grande tiglio

Correva l’anno del Signore 451 d.C.; ero ancora un giovane presbitero a quel tempo, cresciuto e nutrito spiritualmente nel cenobio del santo vescovo Eusebio, in quella città di pianura circondata dalle acque chiamata Vercelli. Mio compagno di studi e di formazione, sebbene più grande, il sapiente Eustasio. Ed era proprio lui vescovo di Aosta quando, bloccato da motivi di salute, mi incaricò di rappresentarlo nella grande Milano, nostra sede metropolitana, in occasione dell’importante concilio provinciale.

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Veduta attuale di Vercelli

Un incarico di prestigio col quale Eustasio mi manifestò tutta la sua stima ed il suo apprezzamento. Un onore che, tuttavia, non mancò di farmi venire i tremori per l’ansia di dover, ancora così inesperto, prendere parte ad un incontro di siffatto rilievo.

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Ricostruzione di Mediolanum nel IV secolo d.C. (da Romano Impero)

Il mio nome, Grato, suona l’accento ellenico; ebbene sì, la mia famiglia paterna affonda le sue origini nella terra di Omero. Nonostante sia giovane ho molto viaggiato e ancora bambino giunsi nella sconfinata e ubertosa pianura del grande fiume Po, immenso nastro d’argento che scaturisce dalle alte vette alpine per arrivare a tuffarsi nel mare Adriatico.

Ero da poco entrato in convento quando, una notte, una di quelle dal sonno tormentato scosso da sogni ricorrenti, apparentemente illogici e non privi di angoscia, ebbi una strana visione.

Davanti a me si apriva una valle verdeggiante, solcata al centro da un ampio fiume le cui acque riflettevano un azzurro argenteo e si attorcigliavano in mille gorghi tra le rocce. Intorno a me un panorama insolito: montagne, montagne altissime ammantate di candida neve. Non lontano dal fiume, una città. Una città che doveva essere stata molto importante in passato vista l’entità dei grandi edifici che, seppure in rovina, ancora si ergevano al di sopra di un mare di povere casupole e di orti. In sogno mi sentii chiamare. La gente di quella valle mi aspettava, ma io non sapevo dove si trovavano né come raggiungerli.

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Ricostruzione veduta da est di Aosta in epoca imperiale romana (da Cadran Solaire, 2012)

Questo strano sogno si ripresentò anche negli anni successivi; rimasi esterrefatto quando mi resi conto che questo sogno capitava sempre nella stessa notte, quella tra 6 e 7 settembre.

Finché, già ventenne, venni convocato dal saggio Eustasio. Doveva darmi uno notizia importante: lo avrei seguito ad Aosta.

Giunto in questa città a me sconosciuta, capii: era questa la destinazione cui ero stato assegnato dal volere divino. Quella vallata, quel fiume, quelle vette. La Vallis Augustana mi stava aspettando da tempo e finalmente vi ero giunto.

Lavorare e studiare sotto la guida di Eustasio, anch’egli di origine greca come me, era fonte continua di accrescimento intellettuale e spirituale, ma anche di arricchimento umano vista la sua immensa generosità, il suo buon cuore, la sua costante attenzione verso i più deboli e sventurati.

Spesso con lui ci si recava fuori dalle nobili e vetuste mura della città per visitare le contrade più lontane e sperdute portando la Parola di Dio, conforto e ascolto.

La gente delle campagne viveva poveramente, questo sì, ma devo dire con grande serenità e dignità. Mi piaceva molto fermarmi con loro, accettare l’invito ad entrare nelle loro umili abitazioni, condividere un tozzo di profumato pane di segale spalmato di buon burro o accompagnato da un pezzo di saporito formaggio. A volte mi veniva offerto persino un piatto di zuppa di cavolo, porri e cipolle davvero deliziosa.

Notavo che il saggio Eustasio si incupiva quando si accorgeva che molti contadini ancora mescolavano la vera fede con antiche credenze, magari recandosi a pregare in prossimità di enormi roccioni, di grotte, di anfratti piuttosto che nelle chiese e nelle cappelle. Così come spesso invocavano antiche divinità pagane se, per disgrazia, una tempesta o un’alluvione arrivavano a distruggere il raccolto. Eustasio li ammoniva severamente, ma io mi rendevo conto che più utilizzava toni veementi e meno veniva ascoltato, anzi, otteneva spesso l’effetto contrario.

Pensai così di adottare i metodi degli antichi Romani, provando ad insegnare loro che divinità apparentemente diverse potevano fondersi e convivere. Insegnai loro ad invocare il buon Dio; insegnai loro l’importanza di rivolgersi al cielo, nome stesso che racchiude in sé le radici di tante parole poi passate a designare dei e Dio. Un pomeriggio d’estate, mentre mi trovavo con loro in un piccolissimo villaggio affacciato sulla piana di Aosta, il cielo si coprì all’improvviso di fosche e minacciose nubi scure. In poco tempo tutto si rabbuiò e vidi la paura negli occhi dei contadini. Istintivamente iniziarono ad invocare antichi dei pagani della tempesta e del tuono. Io, con tutta la voce che avevo, intonai un canto al Signore. La pioggia iniziò a cadere, prima fine e poi sempre più forte. I contadini mi fissavano, temendo il peggio, ma nessuno osava andarsene perché mi vedevano lì, immobile, in mezzo al prato. Continuavo a pregare cantando, addirittura ringraziando Dio per il dono della pioggia. Finché, così velocemente come era arrivata, la tempesta quasi per miracolo si allontanò verso sud, riempiendo l’aria di brontolii e di tuoni, ma risparmiando quelle terre.

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Da quel giorno si sparse rapida la voce, di villaggio in villaggio, che io ero capace di bloccare la tempesta e di sedare il temporale. Mi imitarono. Iniziarono a pregare Dio.

Da quel momento ogni volta che mi recavo nelle campagne, venivo accolto come fossi il papa, tra giubilo e festa; ogni volta la gente mi chiedeva di fermarmi a pregare con e per loro. Eustasio capì e ne fu felice.

E fu così che, dopo la morte del venerabile Eustasio, ne divenni il sostituto sulla cattedra aostana.

Tra le mie diverse attività e impegni, vi era un progetto cui ero particolarmente affezionato: la basilica intitolata a San Lorenzo, morto martire per la fede appena due secoli prima. I lavori iniziarono già con Eustasio che, però, non riuscì a vedere l’opera completata. La piccola chiesa sorgeva fuori le mura, in una zona di necropoli utilizzata sin dalla tarda epoca romana, anzi, alcuni raccontavano che anche le antiche popolazioni dei monti vi seppellissero i loro morti.

Alcune tombe di tarda età romana erano più grandi e importanti delle altre, veri e propri mausolei di personaggi di rilievo o di famiglie nobili. Si diceva fossero tombe di martiri e, di conseguenza, il potersi far seppellire vicino a loro era considerato un efficace vademecum verso la Salvezza eterna.

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Ricostruzione delle due chiese funerarie di S. Lorenzo e S. Orso nel V secolo (da Cadran Solaire, 2009)

Sorgeva quindi la basilica di San Lorenzo extra muros sul lato orientale della città, vicinissima ad un’altra chiesa intitolata a San Pietro (e successivamente, ma io non potevo ancora saperlo, intitolata anche a Sant’Orso). Erano quasi allineate. Una coppia emblematica di chiese funerarie, dedicate al culto dei morti o, meglio, della Vita eterna. Contemporaneamente, sul lato ovest, sempre fuori le mura, stava nascendo una piccola basilica analoga, in un’area oltre la Porta Decumana di romana memoria.

Data al 400 d.C. la costituzione della santa diocesi di Aosta contestuale alla costruzione del primo complesso episcopale della Cattedrale, chiesa madre della città con cura d’anime. Fu poi con la sistemazione delle antiche aree funerarie fuori le mura che si pervenne alla costruzione delle basiliche funerarie tra cui, appunto, anche San Lorenzo.

Consolidati i lavori in città, ci si rivolse alle campagne procedendo alla realizzazione delle prime chiese con cura d’anime, ovvero dotate di fonti battesimali, a Villeneuve, a Morgex e a Saint-Vincent, tutte dislocate lungo l’importante arteria della Strada romana ad Gallias, la stessa che utilizzò, non molto tempo fa, il nobile vescovo Martino di Tours nella sua strenua ed indefessa missione di evangelizzazione dei pagi.

Ben presto San Lorenzo e San Pietro (cui in seguito si aggiungerà Sant’Orso) divennero un unico complesso funerario denominato Concilia Dominorum Sanctorum Martyrum.

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Planimetria a croce latina del V secolo d.C. (da Cadran Solaire, 2009)

San Lorenzo presentava una forma a croce latina, sulla scorta di quanto fortemente voluto dal grande padre Ambrogio di Milano per affermare la vittoria del simbolo della Croce nella sua lotta contro l’eresia ariana. E non era un caso che i legami con la diocesi milanese fossero molto forti e sentiti anche perché Aosta, così come Vercelli, faceva riferimento alla sede metropolita di Mediolanum. Stringente in effetti la ricercata somiglianza di San Lorenzo con l’impianto della Basilica Apostolorum di Milano (che voi oggi chiamate San Nazaro in Brolo).

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Ricostruzione dell’interno del V secolo (da Cadran Solaire, 2009)

Grandi edifici romani ormai in disuso e in stato di abbandono vennero utilizzati come cave a cielo aperto per la costruzione di questa come di altre chiese in città; i grandi e bei blocchi romani, già tagliati e sagomati, erano perfetti per essere reimpiegati. Ma l’azione del reimpiego dell’antico, non dimentichiamolo, non aveva solo finalità pratiche, bensì una forte valenza ideologica perché stava a significare che la nuova Aosta cristiana poggiava le sue radici sull’Aosta romana di cui si faceva chiaro e innegabile vanto.

Ricordo ancora l’atmosfera di estrema sacralità che si respirava, che si sentiva sulla pelle, quando si entrava in San Lorenzo, appena illuminata dalle lampade a olio appese al soffitto, dalla tenue luce filtrante dalle lastre di alabastro delle finestre; i marmi romani rifulgevano di nuova vita e nuovo significato in questo nuovo luogo di culto cristiano.

Vorrei raccontarvi un altro episodio assai particolare che ha poi segnato fortemente il ricordo che la gente ha mantenuto di me.

Un giorno, durante una delle mie numerose visite nel contado, mentre tenevo un’omelia venni bruscamente interrotto da urla strazianti. Una donna disperata corse verso di me, verso il resto delle persone assiepate nella piazza del villaggio urlando e piangendo: suo figlio Giovanni, un piccolo di appena 3 anni, era tragicamente scivolato dentro un pozzo lasciato inavvertitamente aperto ed incustodito. Ci precipitammo sul posto; io per primo mi sporsi oltre il bordo chiamando il bambino: piangeva e si lamentava, ma era ancora vivo. Per fortuna quel pozzo era semivuoto, sebbene assai profondo.

Non esitai e mi offrii volontario ad aiutare altri uomini. Con delle corde ci attrezzammo e a mò di scala riuscimmo a calarci e a portare in salvo il piccolo. Ritornai tenendo avvolto il bimbo tremante nelle mie vesti; sporgeva solo la testa con quei grandi occhi neri colmi di paura.

La madre lo prese e lo strinse a sè ringraziandomi in tutti i modi che conosceva. Tornai ad Aosta scortato dall’intera popolazione di quel villaggio e la mia fama presso le genti della valle aumentò considerevolmente. Non potevo immaginare che, nei secoli che seguirono, questo episodio venne a tal punto trasformato ed ingigantito nei racconti da diventare leggenda. La leggenda che vorrebbe fossi stato io a ritrovare la testa di San Giovanni Battista in fondo ad un pozzo di Gerusalemme… e infatti vengo spesso raffigurato così, con la testa del Battista in mano, semiavvolta dal mio mantello.

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Si avvicinavano ormai gli anni finali di questo V secolo dalla nascita di Cristo. Giunse anche la fine dell’estate; da tempo non stavo bene, ero molto affaticato e sempre meno riuscivo a recarmi fuori città. La gente veniva a cercarmi, pur di ascoltare le mie omelie.

La notte tra il 6 ed il 7 settembre rifeci quel sogno (erano anni che non mi si ripresentava più): la grande vallata solcata dal fiume. In sogno ero tranquillo stavolta: conoscevo quel luogo ormai a me così caro. Conoscevo quelle case, quei monti, quelle persone …

Vidi Aosta dall’alto, vidi la zona delle due chiese funerarie di San Lorenzo e San Pietro, ma era diversa da quella che conoscevo. Le chiese erano cambiate: San Pietro veniva indicata dalla gente della città con un altro nome, col nome di un santo a me ignoto: Sant’Orso. Su uno spiazzo compreso tra le due chiese si ergeva una pianta monumentale: un  tiglio dal tronco squarciato ma dalla folta chioma. Vidi un edifico a me sconosciuto, vero trionfo di abilità artistica nel lavorare la terracotta. Vidi che San Lorenzo aveva mutato il suo ingresso spostandolo sul lato orientale dove io ricordavo la curva dell’abside, e sottolineandolo con un portico.

La chiesa sconsacrata di S. Lorenzo, oggi sede espositiva (regione.vda.it)
La chiesa sconsacrata di S. Lorenzo, oggi sede espositiva (regione.vda.it)

Mi svegliai, disorientato; il cuore batteva all’impazzata. Cercai un sorso d’acqua, presi in mano il mio breviario tentando di ritrovare la pace. La vista era come annebbiata ed un senso di torpore presto si impadronì di me.

Il sonno giunse nuovamente e con esso, altri sogni, oppure visioni… non saprei. Mi vidi all’interno di San Lorenzo, ma improvvisamente il pavimento che conoscevo scompariva, diventava come invisibile. Sotto i miei piedi delle tombe, tante, innumerevoli tombe aperte nelle quali si vedevano i resti umani dei Cristiani qui lasciati nel sonno eterno, alcuni coi loro monili, collane, fibbie. Cristiani qui sepolti nel corso di secoli.

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Alcune tombe a ridosso della zona presbiteriale (foto E. Romanzi)

Vidi degli uomini chini con pale e picconi che scavavano quelle tombe, che compilavano taccuini; li chiamavo per fermarli, ma non mi sentivano! Ad un certo punto mi voltai e vidi … il mio nome: Gratus Episcopus. Era riportato su un’epigrafe, un’epigrafe funeraria: “hic requiescit in pace...” Quella era la lastra della mia morte.

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Epigrafe del vescovo Grato in San Lorenzo (foto: E. Romanzi)

Mi ritrovarono il giorno seguente, 7 settembre, sconvolto da tremori, sudori freddi, febbri altissime, in preda al delirio. Rivedevo la Grecia natia, Vercelli, il maestro Eusebio e il saggio Eustasio. Rivedevo la bellissima vallata solcata dal fiume argenteo, la Dora Baltea. Rivedevo gli occhi del piccolo Giovanni. Rivedevo lo stupore sui volti dei contadini risparmiati dalla tempesta.

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Sono Grato, vescovo di Aosta. Riposo qui, nella mia amata chiesa di San Lorenzo, sotto l’ombra di questo grande tiglio, cullato dall’allegro vociare dei bimbi che giocano felici nel giardino sopra di me. Le mie spoglie mortali non sono qui, non più; ma il mio spirito e il mio nome qui rimarranno per sempre, o almeno finché ci sarà anche solo uno tra di voi che avrà desiderio e cuore di venire a farmi visita.

Stella

Il MAR che non ti aspetti!

19.00: fine turno. Chiusura. Ma stavolta non solo del museo, ma di tutti… Tutti i musei, i siti, i castelli, le mostre… Tutto! Quella maledetta pandemia aveva colpito ancora dopo un’illusoria ed effimera tregua estiva. Leo era custode del MAR, il Museo Archeologico Regionale di Aosta. Da diversi anni lavorava nei Beni culturali; aveva prestato servizio in numerosi siti, ma il Museo Archeologico esercitava su di lui un fascino tutto particolare.

Innanzitutto da sempre amava i musei: “le dimore senza tempo delle Muse”, come li definiva lui. Ma l’Archeologico aveva un “quid” in più: tutti quegli oggetti… avevano attraversato i secoli, erano stati in chissà quante e quali mani, avevano visto chissà quante cose… tutti quegli oggetti avevano una storia da raccontare. Forse anche più di una. In quelle vetrine c’era vita, tante vite! Ogni monile, ogni lucerna, ogni ciotola o bottiglia, erano uomini del passato che, però, grazie al lavoro degli archeologi, riuscivano a far parlare di sé ancora oggi, dopo secoli e secoli. Ecco, questo lo entusiasmava e lo stimolava. Quel museo era diventato per Leo come una seconda casa e con infinito piacere accoglieva i visitatori, le scolaresche o semplici curiosi.

Ma quella “fine turno” lo rattristava tremendamente. Lo preoccupava e lo incupiva.

Ok, aveva spento tutto, controllato ogni cosa, inserito gli allarmi; ultimo giro di chiave e… “Ma come? C’è una luce accesa?!”, si stupì, “eppure sono passato dappertutto… che strano!”.

Rientrò; rifece scrupolosamente il giro. La luce nella prima saletta era accesa. “Mah, davvero strano…!”, rimarcò. Spense. Fece per uscire quando gli venne l’istinto di girarsi: un’altra luce era accesa!

“Ma che diamine succede stasera?!”, sbottò.

Rientrò e vide che stavolta era la grande sala del plastico ad essere illuminata. “Questo me lo devono proprio spiegare! Non era mai capitato! Forse c’è qualche contatto… boh!”.

Rifece il giro e, per scrupolo, scese anche nel sottosuolo: “Non si sa mai che sia rimasto acceso qualcosa anche lì!”. Ripercorse con la pila l’intera sezione sotterranea. Tutto a posto. Chiuse la porta, fece i primi scalini, ma la porta del sottosuolo si riaprì! Leo iniziò ad avere qualche insolito “brivido”.

Con cautela e circospezione scese quei pochi scalini e richiuse la porta. Questa volta salì all’indietro per controllare che non si riaprisse. Sembrava finalmente tutto a posto. “Stai a vedere che le leggende sulla povera monaca Visitandina murata viva qui a fine Seicento non so dove… erano vere! Meglio andarsene per stasera, vah!”.

Aveva quasi raggiunto l’uscita quando udì dei passi. Si fermò immediatamente pensando di avere le allucinazioni, di essersi troppo suggestionato. Immobile, aspettò qualche secondo… Ecco! Di nuovo i passi! “Ma chi diavolo… Chi è’?!”, urlò, “Insomma, basta con gli scherzi, eh?! Forza! C’è qualcuno?”.

Nel frattempo la saletta delle epoche preromane si era illuminata. “Adesso però basta!”, esclamò Leo tra il nervoso e un inizio di timore. Si precipitò sul posto. La luce non si spense. Si avvicinò istintivamente alla vetrina con le armille celtiche. “Ma che diavolo…”. Si stropicciò gli occhi un paio di volte. Quella a doppio filo di bronzo dorato con le perle in pasta vitrea… scintillava! Improvvisamente fu tutto buio.

Solo quel bracciale brillava! Lo guardò incredulo e ipnotizzato: le decorazioni “a occhioni” si muovevano… giravano, come due vortici! E le perle sfavillavano! Poi, altrettanto improvvisamente, lo sfavillìo si spostò. Leo seguì quel baluginìo: stavolta, a brillare nel buio pesto, era la scritta incisa sull’epigrafe detta “dei Salassi incolae”.

L’intera scritta era illuminata. Leo si avvicinò, fece per toccare l’oggetto quando la parola “Salassi” si fece ancora più luminosa; udì nuovamente quel rumore di passi accanto a lui. Si voltò di scatto e… fu di nuovo tutto buio. Rumore di passi. Si girò e la luce, stavolta, lo attirava verso il grande plastico della città di Augusta Praetoria.

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Quel grande plastico in scala 1:200 era da sempre una delle attrazioni preferite dei visitatori di tutte le età. La sorpresa di trovarsi la città romana, dalla fondazione fino al II secolo d.C., letteralmente a portata di mano: poterla toccare, poter aprire gli edifici vedendo cosa ne resta e come dovevano essere… beh, un gioco di conoscenza e approfondimento capace, pur nella sua semplicità, di coinvolgere e divertire tutti.

Leo si avvicinò. L’iniziale sgomento stava piano piano lasciando il posto alla pura curiosità, quasi come si fosse ritrovato catapultato in un videogioco.

Si accorse che il modellino del Criptoportico era smontato; allungò una mano per rimetterlo a posto quando alle sue spalle: “Buonasera! Mi scusi per il trambusto…non volevo spaventarla. Sono nuovo…sa…!”.

Leo sobbalzò. Chi era quel giovane? “Chi è … chi sei? Come sei entrato?!”. Un giovane sui 25 anni al massimo, non eccessivamente alto, capelli corti con una frangetta scomposta, tipica aria da “bravo ragazzo” gli rispose con tranquillità e tono pacato: “Sì, ha ragione. Ho iniziato uno stage da pochi mesi… non ci eravamo mai incontrati prima. Sa, io sono archeologo… sto finendo la Specializzazione. Ho iniziato un tirocinio qui e ne sono davvero felice. Stavo esaminando alcuni oggetti esposti nel sottosuolo e ho perso la cognizione del tempo. Quando ho capito che stava chiudendo, mi sono spaventato e… ho fatto pasticci!”.

Leo era perplesso; non sapeva che dire. Possibile che nessuno lo avesse avvisato? Eppure lui era sempre lì! Strano che non lo avesse mai incrociato, anche se… quel volto gli risultava incomprensibilmente famigliare.

“E’ splendido il Criptoportico, vero?”, disse il giovane. “Un vanto per le colonie possedere un simile edificio nel foro… Gli accessi monumentali collegavano la terrazza sacra con la parte bassa, la piazza giuridico-commerciale. Augusta Praetoria… una colonia alpina incredibile: grande, ricca, vivace! Soldati, mercanti, notabili; un vero “porto” tra le montagne. Affascinante!”

Leo si rese immediatamente conto della profonda passione con cui quel giovane parlava e si ritrovò ad ascoltarlo con grande trasporto. “Sei di Aosta?”, gli chiese. Il ragazzo fissava un punto lontano… “diciamo che è come se lo fossi…”.

“E vogliamo forse parlare del quartiere degli spettacoli? Venne realizzato in un secondo momento quando la città aveva un ruolo e un’identità già consolidati. Le vie di transito erano state potenziate. Gente che andava e veniva… dotarsi di un teatro e di un anfiteatro era fondamentale… forse non tanto per effettive esigenze quanto per necessità di immagine. Occorreva trasmettere al primo sguardo potenza e ricchezza!”.

Leo era ammutolito. Quel giovane gli spiegava la città antica come se davvero vi avesse vissuto… Improvvisamente scomparve. Leo credette fosse passato nella sala accanto, ma…non c’era più!

E non gli aveva neppure chiesto come si chiamava!

Entrò quindi nella sala delle necropoli. Di nuovo scese l’oscurità. Leo si immobilizzò. Ancora quel rumore di passi; poi le scritte di antiche epigrafi funerarie iniziarono a illuminarsi una dopo l’altra. Una voce iniziò a declamarle in latino: era quel ragazzo! “Ehi, ma dove sei?!” chiese Leo disorientato. “Seguimi!, gli rispose, “ apprezziamo insieme quanta vita c’era anche nell’estremo saluto. Le tombe non erano solo tombe: erano occasioni per celebrare la vita ravvivando il ricordo delle persone. Ai monumenti funerari ci si avvicinava col desiderio di conoscere la persona defunta, sapendo che anche in questo modo poteva raccontare un pezzo di città e di comunità; non solo per piangere… e i corredi? Sono strepitosi! Frammenti di vita: una quotidianità che continuava oltre la morte!”.

Leo si guardava intorno stranito come se passasse per la prima volta in quelle sale. Forse fu un’allucinazione… un sogno… ma il letto funebre rivestito di raffinate sculturine in avorio era… intatto! Fu un attimo ma gli parve davvero di vederlo come doveva essere. Provò a tornare indietro per verificare ma una fitta oscurità glielo impedì. Il ragazzo continuava a precederlo senza, però, rendersi raggiungibile.

Giunto nella sala dei culti ebbe un sobbalzo. Davanti a lui si ergeva un’imponente statua di Giove Graio: molto più grande del busto che ben conosceva! Quegli occhi enormi lo fissavano e Leo si sentì letteralmente ipnotizzato da quel sacro volto divino. All’improvviso una folgore, un fulmine squarciò l’atmosfera sospesa di quell’inatteso incontro per riportarlo alla realtà, davanti a quell’oggetto in argento così carico di arcana ieraticità proveniente dal colle dell’Alpis Graia, il Piccolo San Bernardo.

“Eccomi!”. Quell’inafferrabile ragazzo gli avrebbe fatto venire un infarto, prima o poi! “Davanti a questo oggetto potrei sostare delle ore, sei d’accordo?”, disse indicandogli lo splendido balteo bronzeo decorato, altro “pezzo forte” del MAR.

“E’ incredibile la raffinatezza e l’eleganza di questo pettorale, vero? Un pettorale in bronzo da parata destinato al cavallo di un personaggio decisamente importante! Sai, Leo, io sono quasi certo che non fosse nemmeno pensato per un cavallo in carne e ossa, quanto piuttosto per una statua equestre. Magari non era un “semplice” ex-voto… ma qualcosa di più!

Un pezzo che ancora oggi ci regala tutto il pathos di una battaglia cruenta, di uno scontro senza esclusione di colpi tra Romani, molti a cavallo, e barbari. I Romani occupano praticamente l’intero registro superiore della raffigurazione: netta ed inequivocabile superiorità. I soldati a terra indossano anche un elmo, utile a farli apparire più alti e temibili.

I barbari sono assai riconoscibili e ben caratterizzati: barba lunga, chioma fluente – pensiamo alla famosa Gallia Comata, appunto… tribù di nerboruti Celti capelloni dalle lunghe barbe: un look decisamente lontano dal composto civis Romanus sbarbato e dal taglio inappuntabile!-, pantaloni, le brachae, il sagum, cioè un corto mantello in lana grezza o in pelliccia, o alternativamente una semplice corta tunica stretta in vita da un laccio, e l’immancabile torquis al collo.

E poi lui, l’imperator! Il comandante svetta al centro della scena troneggiando letteralmente sul suo destriero lanciato al galoppo. Senza alcuno scrupolo travolge i nemici, ormai destinati alla disfatta. Questo generale cavalca senza elmo, a viso scoperto, dichiarando col suo particolare taglio di capelli e la frangia corta e geometrica, l’appartenenza all’età di Traiano (inizi II secolo d.C.). Anzi, diciamo che persino i tratti somatici lo avvicinano all’imperatore Ulpio, mitico domatore dei terribili Daci!”.

“Certo che questo ragazzo è molto preparato! E come spiega le cose! Sembra un film!”, pensò Leo compiaciuto. Voleva chiedergli il nome, ma… “ecco! Sparito di nuovo!”.

Leo passò velocemente nella sala dell’edilizia pubblica… velocemente ma non abbastanza per non rendersi conto che mancava qualcosa! Con la coda dell’occhio aveva notato uno spazio insolitamente vuoto, ma era come se non avesse avuto né tempo né modo di fermarsi. Beh, sarebbe tornato indietro dopo. Intanto sentiva i passi e la voce del giovane in lontananza: “ Ah…i thermopolia! Come gli attuali take away, ma… molto più autentici e ruspanti! Focacce di farro intrise di olio profumato e cosparse di salsa di olive o, per i palati più robusti, di garum… ne esistevano molte qualità, sai? Secondo me la migliore era quella a base di acciughe! E poi uova sode, zuppe di legumi, formaggi, olive nere e verdi! Veri e propri piccoli ristorantini di strada pieni di gustose leccornie. Come lo street food! Ecco, vedi? Quante anfore circolavano! Tante forme, altrettanti contenuti e provenienze! Quante informazioni ci può dare una semplice anfora: chi l’ha prodotta, chi l’ha riempita, che viaggio ha fatto, cosa ha contenuto…

Ah, l’uomo moderno crede di aver inventato chissà cosa, invece… i Romani già sapevano vivere alla grande con tutti i confort! Basti pensare alle terme, al riscaldamento a parete e a pavimento, all’eleganza degli spazi verdi, alla cura delle città… mica come oggi!”.

“Anche ad Aosta ce n’è uno…” sottolineò Leo, orgoglioso di dirgli di esserne a conoscenza. “Certo!”, gli fece eco il giovane, “ben più di uno, caro mio! Solo uno è stato trovato, ma… fidati che una città come Augusta Praetoria ne aveva diversi! Sai, i Romani avevano l’abitudine del fast food, del pranzo veloce fuori casa, quindi puoi solo immaginarti quanto fossero utili i thermopolia! Tra Cardo e Decumano, tra foro e terme, nei quartieri o nei pressi delle principali porte della città, queste piccole trattorie di strada pullulavano e riempivano l’aria di succulenti profumini!”.

Leo non fece fatica a immaginare quell’Aosta antica: viva, dinamica, piena di gente proveniente da ogni parte dell’impero…

Pochi secondi e… era già scomparso di nuovo! “Ehi, ma dove sei finito ancora?”, lo chiamò Leo, “non mi hai neppure detto come ti chiami! Magari potremmo scambiarci il numero di telefono… potremmo restare in contatto!”.

Calò di nuovo il buio nel museo. Solo una luce attirava Leo verso la sala 9. “Ecco! Proprio dove avevo notato una mancanza!”, si ricordò il custode. Giunto nel passaggio delle stampe antiche si immobilizzò, esterrefatto!

Il giovane era lì, davanti a lui: indossava una toga romana dal bianco abbagliante. Gli rivolse un sorriso e gli disse: “E’ stato un vero piacere parlare con te! Tenete sempre vivo il passato perché è solo avendo ben presente il passato che si può guardare al futuro. Volevi sapere il mio nome? Beh… non serve che te lo dica… ci arriverai da solo”.

Il ragazzo si mise di profilo e la sua immagine luminosa si impresse sul fondo rosso della teca vuota. Leo, abbagliato, chiuse gli occhi per un attimo. Quando li riaprì, il nobile profilo del ritratto bronzeo del giovane principe giulio-claudio era tornato al suo posto! Chissà chi è in realtà: il giovane Ottaviano, oppure uno dei suoi sventurati eredi?

Con questo dubbio, Leo ancora frastornato, fece un giro del museo, sperando in cuor suo di rivedere quel giovane. Nulla, tutto era tornato come sempre. O forse no?

Stella