Lythia e il segreto della spirale di pietra

Un’altra mattina di sole stava per illuminare la piana. Le vette tutt’intorno si stavano tingendo di rosa e le nevi che dimoravano eterne su quelle cime risplendevano nell’aria cristallina del primo mattino. Il clima era ancora fresco in questo inizio di primavera e l’altezza dei monti impediva al sole di uscire dalla linea dell’orizzonte al mattino presto. Il cielo si accendeva guardando verso nord-est e la grande montagna che separava quella terra amata dagli dei da quella dei vicini Veragri e Seduni sfolgorava catturando i primi raggi donati dal dio Belenos.

La piccola Lythia amava molto quel momento iniziale della giornata. A differenza degli altri bimbi del villaggio, lei non faticava affatto ad alzarsi presto; non vedeva l’ora di uscire per dare il “buongiorno” agli animali, sgranchirsi le gambe dopo la notte, respirare a pieni polmoni l’aria frizzante dei suoi monti.

E, soprattutto, amava andare a scuola ad ascoltare le storie che la saggia e sapiente Licamara, anziana del villaggio, nonché sua nonna, raccontava quotidianamente ai piccoli della tribù.

Caileach

Licamara era la mamma di suo padre, il valoroso Catumaro, grande capo e coraggioso guerriero. Ma anche ardito esploratore di quelle grandi montagne, di cui sin da giovane percorreva ogni passo, ogni colle, ogni pertugio.

Catumaro

Catumaro conosceva ogni angolo di quella terra di roccia, e con saggezza governava quello che da tutti era riconosciuto come territorio cardine per gli scambi commerciali tra le grandi vette dell’Ovest e del Nord, tra i Salassi della terra del sud, fino al grande fiume Bodinco, i Veragri e i Seduni delle terre del nord, oltre l’importante passo sacro al dio Penn, protettore delle vette inviolate, e gli Allobrogi delle terre dell’ovest, estese al di là del passo dove, si narrava, transitò l’eroe semidivino Ercole nel suo lungo viaggio verso i mitici Giardini del Tramonto; laggiù dove avrebbe trovato la finis terrae, i confini più occidentali del mondo, il regno dell’eterno tramonto al cospetto del mare sconfinato.

Lythia assomigliava molto al padre, sia nell’aspetto che nell’indole. Ma se per quanto riguardava l’aspetto senza dubbio Catumaro ne andava fiero ed era certo che quella vivace pargoletta sarebbe diventata una splendida fanciulla, facile da maritare con un importante principe, magari di qualche potente tribù del nord, ugualmente era molto preoccupato da quel carattere testardo, cocciuto e dalla spiccata voglia di indipendenza.

Lythia era una bimba dalla brillante intelligenza, molto intuitiva, capiva al volo il significato di discorsi anche difficili per la sua età, capiva le situazioni e, come la nonna, “sentiva”… In più era assai curiosa e non appena riusciva a sfuggire al controllo di qualche adulto, si inerpicava sù per i sentieri che dalla piana conducevano verso i villaggi e, da lì, verso le terre alte. In particolare era letteralmente affascinata dalle stelle e poteva passare ore a guardarle. Infatti occorreva prestare molta attenzione perché durante la notte, la bimba non ci pensava due volte a scappare di casa per andare ad osservare gli astri, sempre alla ricerca della Grande Orsa e di una strana stella a forma di “A” non troppo distante da uno strano corpo luminoso a forma di spirale.

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Catumaro si incupiva ogni volta che la piccola gli raccontava di queste sue passioni; non amava affatto che sua madre Licamara le riempisse la testa con queste antiche storie di popoli perduti osservatori delle stelle né che la istruisse nel sapere druidico. Troppo pericoloso. Catumaro cercava in ogni modo di troncare le passioni della figlia, ma così facendo, otteneva l’effetto contrario. La piccola Lythia pendeva letteralmente dalle labbra della nonna-maestra, nonna guaritrice dalla quale in molti si recavano per ottenere medicamenti e rimedi, nonna-veggente che sapeva leggere i segni della natura, del cielo, del fuoco.

E la nonna, da parte sua, aveva capito fin dai primi vagiti che Lythia era una predestinata; a lei un giorno avrebbe potuto rivelare il grande segreto di pietra. Un segreto che racchiudeva la storia del suo popolo e che anche a lei era stato tramandato da sua nonna secondo una linea matriarcale che si perdeva nella notte dei tempi.

Anche quel giorno Lythia, dopo aver bevuto avidamente la sua ciotola di latte, si precipitò in classe. Nonna Licamara stava appendendo dei grandi disegni alle pareti per aiutare i piccoli a seguirla nei suoi discorsi.

Lythia riconobbe subito il simbolo della grande spirale. “Nonna! La spirale del cielo! Purtroppo sono settimane che non riesco ad uscire la notte… mio padre blocca la porta dall’esterno e ha addirittura messo un suo servitore a fare la guardia intorno a casa…”. La nonna sapeva dell’avversione del figlio per quel genere di conoscenza. Sapeva che secondo Catumaro solo gli uomini potevano dedicarsi alla scienza druidica e che mai avrebbe voluto istruire la figlia in tal senso. “Non preoccuparti Lythia”, la tranquillizzò, “tanto siamo solo a metà aprile; la vedrai ancora meglio mano a mano che ci avviciniamo all’estate”.

“E questa? Ricordi cos’è?”. “Certo!”, esultò Lythia, “è la grande A. E’ l’aratro del cielo!”.

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“Bravissima”, rispose la nonna, “è la costellazione che i popoli del mare chiamano Andromeda, col nome di un’importante principessa. Ma io preferisco continuare a vedervi un aratro. L’aratro che solca la terra, la rompe e la prepara ad accogliere il seme. Sai, piccola mia, vi fu un tempo in cui i nostri antenati, in certi precisi momenti dell’anno, aravano il terreno per motivi diversi da quelli agricoli che conosciamo noi. I buoi con le corna più belle, i più possenti ed imponenti, simbolo di forza e vigore, venivano aggiogati e condotti avanti e indietro trascinando un vomere sacro. Era come una sorta di preghiera affinché gli dei della terra fossero compiacenti. Ma non solo per avere un florido ed abbondante raccolto, anche per proteggere la comunità, il popolo. Quella terra doveva dare il cibo, doveva nutrire forti e valorose stirpi di guerrieri e di donne capaci di generare molti figli per dare continuità al popolo”.

Lythia ascoltava rapita. “E quindi facevano la fatica di arare un campo intero… solo per pregare, nonna?!”. “Come SOLO?!”, sbottò Licamara; “è assai importante che gli dei siano benevoli, piccola, altrimenti il popolo è destinato alla rovina!”. “Vedi anche ora? Non ti accorgi che nonostante le apparenze, la nostra comunità si sta sfaldando? Altri clan potenti nutrono invidia verso tuo padre e tramano nell’ombra. Ultimamente molte, troppe, donne vengono da me piangendo perché non riescono a generare figli e questo crea attriti in seno alla famiglia e al clan. Sempre più spesso vengono a chiedermi rimedi per le mucche che producono poco latte e iniziano a non sopravvivere al parto, oppure generano vitelli deformi o già morti! Dobbiamo stare attenti, Lythia! Gli dei ci stanno avvertendo. Qualcosa va cambiato… ma tuo padre non mi ascolta. Tuo padre rifiuta la saggezza del primitivo femminile…ahimé…e il grande druido continua a rassicurarlo, ma solo per fare i suoi interessi!”.

“Ma, nonna, sei sicura? A me sembra che qui nel grande villaggio di Carnobriga si viva bene. Io sono felice!…”. “Sei ancora piccola, Lythia; e va bene così. Arriverà il tempo per capire e per reagire. Arriverà il tempo per dare, anche tu, il tuo contributo alla comunità. Ma adesso stanno arrivando i tuoi compagni: è ora di fare lezione. Vai a sederti, sù!”.

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Passavano i giorni, i mesi, le stagioni. La piccola Lythia cresceva a vista d’occhio, in altezza e in intelletto. Ma anche in intuito. Lei, come da sempre sosteneva la vecchia e saggia nonna Licamara, aveva la capacità di “sentire”. Aveva iniziato ad accorgersi di un fatto strano: quando passava vicino a certe rocce, sentiva come un brivido che le percorreva la schiena, come un sussurro lontano, una voce imperscrutabile, indecifrabile, che la chiamava e le chiedeva di fermarsi. Allora Lythia si fermava e quasi istintivamente toccava una roccia, ma non una roccia a caso, di solito erano rocce grandi e lisce che fuoriuscivano dal terreno. Non appena la sua mano sfiorava la superficie, Lythia era percorsa da tremori e aveva come delle visioni. Ma la sua ancora giovane età le impediva di capirle, di descriverle. Provava a raccontare alla nonna ciò che, a tratti, vedeva; la nonna capiva e cercava di darle supporto e consiglio. Guai a farne parola col padre, tuttavia!

Lythia aveva compiuto ormai 15 anni. Il grande villaggio di Carnobriga era scosso da frequenti tumulti interni. I clan erano in subbuglio. Spesso si svolgevano grandi riunioni coi capi delle tribù delle terre alte, quelle che vivevano nei villaggi fortificati, costruiti come fossero un’unica fortezza rocciosa a ridosso delle morene o nelle gole più nascoste. Si diceva che dalla pianura il pericolo fosse ormai vicino. Un popolo venuto da molto lontano stava premendo per impossessarsi delle terre alte, per controllare quei valichi che erano stati loro sin dai tempi più remoti. Bisognava intervenire, ma come? I clan erano sempre in lite e Catumaro non riusciva più ad imporsi sugli altri come una volta. Anche perché il popolo non era unito per fronteggiare al meglio questo oscuro “nemico”; infatti c’era chi ventilava possibilità di guadagno dalla collaborazione con queste genti straniere.

Nonna Licamara sospirava. Se lo aspettava. Sapeva che prima o poi si sarebbe arrivati a questo. Il popolo stava vacillando e di Carnobriga forse si sarebbe persa memoria…

“Nonna, ma mi spieghi come mai mio padre si ostina a non darti ascolto? E perché, anche adesso che la Grande Dea mi ha reso donna, tenta di impedirmi di trascorrere tempo con te?”.

“Vedi Lythia, tuo padre ha un rapporto problematico con se stesso, col suo passato… Sai, ora che hai 15 anni posso parlartene. In realtà lui non è mio figlio naturale. Lui fu messo al mondo da una donna importante: era una sacerdotessa del nord. Purtroppo si innamorò e questo non avrebbe dovuto succedere. In più, come se non bastasse, si innamorò di un giovane, bellissimo guerriero straniero. Suo padre, una volta saputo della sua gravidanza che non si poteva più nascondere, non solo la cacciò di casa ma fece uccidere il suo amato. Io la accolsi nel mio villaggio. Pur se ancora giovane, ero già una nota guaritrice e mio padre era il capo villaggio, un uomo di cuore e di fine intelligenza che portava grande rispetto verso le mie qualità. La aiutai a partorire; ma lei, ahimé, non sopravvisse a quel parto difficile. Perse molto, troppo sangue. Provai in ogni modo, ma non riuscii a salvarla. Solo, con l’ultimo respiro che le restava in corpo, appena prima di morire, mi raccomandò quel frugolino urlante dai folti capelli neri e mi mise in mano un amuleto cui lei teneva moltissimo”.

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Licamara infilò una mano nelle vesti, all’altezza del seno, e ne estrasse un monile in bronzo lavorato a spirale; anzi, una doppia spirale! Era un oggetto molto bello, di colore verde scuro con riflessi blu, lucidissimo. Emanava un fascino ipnotico.

Lythia non aveva perso nemmeno una parola; era sgomenta, ma finalmente dava una risposta a molti atteggiamenti di suo padre. “L’ho cresciuto come fosse figlio mio. E mio padre da subito lo ha presentato al popolo come fosse suo nipote naturale. Quando raggiunse l’età adulta gli tatuammo la doppia spirale sul petto, affinché gli dei di sua madre vegliassero su di lui, ma senza dirgli la verità. Purtroppo la venne a sapere l’anno seguente, e nel peggiore dei modi, da un compagno d’armi, principe di un clan rivale, che gliela rivelò per invidia e per dispetto dandogli dell’illegittimo, per non ripetere altre offese ben peggiori che sporcavano persino il ricordo di sua madre”.

“ Da quel momento il suo atteggiamento verso di me cambiò radicalmente. Era come se non mi accettasse più. Sicuramente vede in te la sua vera madre e, in tutta sincerità, le somigli moltissimo. I lunghi capelli scuri, i grandi occhi verdi, la mandibola volitiva. Lui ti teme, Lythia. E teme per la tua vita.”

Lythia era scossa ed emozionata. Avrebbe voluto correre da suo padre ed abbracciarlo, rincuorarlo… ma ultimamente anche il rapporto tra di loro si stava logorando per i troppi litigi, le incomprensioni, le cose non dette o mal dette.

“Ma, nonna, io però non ho mai visto la doppia spirale tatuata… Lui sul petto ha dei simboli vegetali che non mi ha mai voluto spiegare…”. “No, Lythia. Sotto quei simboli c’è la doppia spirale. Lui se l’è fatta cancellare apposta, per non vedersela addosso. Il fatto è che quella doppia spirale lui ce l’ha dentro, nell’anima; è la voce dei suoi antenati. E non può continuare a rinnegarla e a tenerla sepolta. Presto riemergerà.”

Lythia tornò a casa con la mente in preda a mille pensieri. Chi era la sua vera nonna? Quali doni le aveva passato? Cosa cercavano di dirle quelle strane pietre lisce che ogni tanto vedeva sbucare dal suolo?

Doveva capire. Sentiva che se avesse capito, avrebbe potuto aiutare non solo suo padre, ma tutta la sua gente.

Trascorsero altri due anni. Anni di studio, di formazione continua con nonna Licamara. Il padre, talmente spossato dalle lotte intestine tra clan, non aveva nemmeno più tempo né forza di star dietro a sua figlia. Sua madre, donna timida e riservata, si era chiusa in un silenzio preoccupante che la stava avvelenando dentro. Il popolo era scontento, agitato, ribelle e allergico a qualsiasi regola.

Il sapere dei padri si stava perdendo, qualcuno addirittura lo rinnegava e lo travisava; alcuni persino lo mettevano in ridicolo. E infatti la natura aveva cominciato a ribellarsi. Il grande fiume Druantia si gonfiava ad ogni autunno; diventava incontrollabile con terribili e rovinose esondazioni. L’altro grande fiume della piana, quello che scendeva da nord, il Bauthegion, causava danni nefasti ogni estate. Coltivare era diventato quasi impossibile. I pascoli si erano impoveriti per le temperature sempre più rigide, le frequenti grandinate, le gelate improvvise. Gli animali erano in sofferenza, persino le pecore e le capre, solitamente così robuste.

Intanto nonna Licamara era sempre più debole; gli anni sulle sue spalle erano davvero tanti. Finché una notte fece chiamare Lythia.

“Vieni piccola mia, avvicinati. Non mi resta più molto tempo e devo assolutamente parlarti. E’ giunto il tempo, il tuo”. Lythia si avvicinò il più possibile; la voce della nonna era talmente flebile che a stento la udiva. “ Vedi, Lythia, tu sin dalla nascita sei destinata ad essere la custode di un grande sapere. Ad essere la custode dell’identità e del passato di un grande popolo. Il popolo che, giunto al seguito del semidio Ercole in un tempo remoto e perduto, decise di fermarsi qui, ai piedi delle grandi montagne. Queste montagne accolsero quelle genti e divennero la loro casa. Quelle genti giunte dalle lontane terre d’Oriente, dal regno dell’eterna Aurora, conoscevano l’arte di osservare il cielo, le stelle, il moto degli astri e le fasi della Luna. Sapevano come coltivare la terra e renderla fertile. Conoscevano l’uso dell’aratro, strumento fondamentale che diede la forma alla costellazione della grande A che tu conosci sin da bambina”.

Ogni tanto la nonna veniva scossa da forti e dolorosi crampi; spesso le mancava il fiato ed era ricoperta di sudori freddi. Lythia era molto preoccupata. La abbracciava. Le passava un panno fresco sulla fronte cercando di darle sollievo.

“ Quel popolo, Lythia, scelse questa pianura nei pressi del fiume Druantia. Una pianura che venne arata, ma non per seminare, per pregare, come ti avevo già spiegato. Al centro di questa pianura si elevava un collina, il nucleo del nostro villaggio: Carnobriga, che in lingua gallica significa “altura delle corna”, un villaggio posto sotto la protezione del dio Cernunnos, signore delle forze naturali e del vigore guerriero.

Dopo il tempo delle grandi arature propiziatorie, venne il tempo delle grandi fosse. La terra era fondamentale, era dea, era madre, era nutrice. La terra esigeva preghiere e devozione e gli uomini sapevano come accontentarla.

Venne poi il tempo in cui il cielo si unì alla terra, anche nelle preghiere. Ed ecco che i nostri antenati eressero pali verso le stelle, assecondandone gli allineamenti ed i segni affinché le divinità celesti fossero benigne. Tuttavia l’attenzione data al cielo iniziava a sminuire quella destinata alla Terra. La Grande Madre si stava offendendo. La linea matriarcale cominciò a contare sempre meno. I villaggi erano dominati dagli uomini, purtroppo non tutti saggi e avveduti. Purtroppo il potere acceca e gli antichi equilibri sacri si sfrangiano.

“Ma, quando? Quando successe tutto ciò? E dove si trova questo luogo? Dove sono queste fosse, questi pali….”. Lythia era divorata dalla curiosità; voleva sapere, sentiva che doveva sapere.

La nonna appoggiò debolmente una mano sul braccio della nipote. “Presto lo saprai, cara. Dovrai cercare, ma senza allontanarti”. Lythia la guardava interrogativa. Licamara prese quindi la mano sinistra di Lythia, la mano del cuore, e la guidò tra le vesti, madide di sudore, fino a toccare la pelle avvizzita del petto. Aperte le vesti, mostrò a Lythia un tatuaggio: la doppia spirale. Anche nonna Licamara l’aveva, proprio sul petto.

“E’ un legame, cara. E’ un simbolo capace di unire terra e cielo. Capace di dare la vita, anche oltre la morte. E’ il flusso eterno, Lythia. E’ il moto delle stelle e dei corpi celesti. Questo simbolo è il segreto della forza del nostro popolo che, nonostante il volgere dei secoli e degli avvenimenti, saprà trasformarsi e sopravvivere. Ma che ora ha bisogno di ritrovare se stesso.”

L’anziana mise infine nelle mani di Lythia l’antico amuleto regalatole dalla madre di Catumaro. “Cercala! Cerca la doppia spirale incisa nella grande pietra, Lythia. Puoi farcela!”. “Ma come? Nonna, nonna!! Ti prego, dimmi come devo fare… dove, devo cercare?…Nonna…”. Ma ormai la vecchia Licamara, era salpata verso il regno delle Ombre senza fine.

Per alcuni giorni Lythia rimase preda del dolore per questa atroce perdita. Sua nonna non c’era più; era stata da sempre la sua guida, il suo sostegno, il suo punto di riferimento…come avrebbe fatto senza i suoi consigli e i suoi preziosi insegnamenti?

Alla fine, colma di lacrime fino a scoppiare, corse dal padre per sfogare su di lui tutta la sua rabbia da troppo tempo repressa. “Tu! Tu hai lentamente portato la nonna alla morte! Tu, perfido uomo, col tuo atteggiamento ostile, con la tua cattiveria… maledetto! Come hai potuto non esserle vicino nemmeno alla fine?! Tutto preso dai tuoi giochetti politici, dagli equilibri tra i clan, circondato come sei di traditori e adulatori…. Senza neppure accorgertene!”.

Lythia si scagliò sul padre, tempestandolo di pugni e di lacrime… finché il padre, prima immobile, all’improvviso la strinse a sé con forza. Lythia si accorse che stava piangendo. Suo padre, il prode Catumaro, che piangeva? “Padre….”, sussurrò. “Oh Lythia, figlia mia adorata. Saggia figlia mia. Non ti ho mai meritato. Più crescevi e più vedevo in te mia madre; nemmeno riuscivo a guardarti negli occhi. Mi facevi paura. Mi incutevi rispetto. E questo mi dava fastidio, spesso tu stessa mi sei sembrata una minaccia della mia autorità, della mia supremazia. E invece avevi ragione, l’hai sempre avuta. E Licamara aveva visto giusto, come sempre del resto. Aiutami, Lythia! Sento che sto per soccombere…”

“Padre, ma perché non avete mai voluto parlarmi prima? Perché avete sempre cercato di seppellire i vostri ricordi facendovi solo del male? Facendo del male anche a mia madre, vostra sposa, e a vostra madre, anzi, alle vostre due madri!”. Lythia mostrò l’amuleto al padre. “Ecco, questo è il segreto della nostra forza! Dobbiamo trovare questo simbolo inciso nella pietra da qualche parte qui intorno a Carnobriga! Se non lo facciamo, la nostra gente scomparirà divorata dagli eventi e dai secoli finché se ne perderà persino la memoria, la condanna peggiore che ci possa essere!”.

Catumaro sgranò gli occhi… quanto tempo era passato dall’ultima volta che aveva visto quel simbolo? E come aveva potuto farsi nascondere il tatuaggio? Forse proprio da quell’insano gesto era iniziata la sua rovina… chissà se c’era ancora modo di arrestare questa caduta e dare nuova forza alla sua famiglia, al suo clan, al popolo intero!

“Sono nelle tue mani, Lythia. Agisci come meglio ritieni. Agisci ascoltandoti, tu che ne sei capace”.

Dopo un ultimo abbraccio che però valeva come tutti quelli che mai si erano dati negli ultimi 5 anni, Lythia uscì. Era notte fonda. Si incamminò, alla luce di una sottile falce di luna, verso un luogo a lei caro da cui si dominava l’intero fondovalle. Una volta arrivata, si appoggiò l’amuleto sul petto e, con gli occhi al cielo, intonò antiche nenie insegnatele dalla nonna.

All’improvviso le parve che il cielo stellato iniziasse a girare, sempre più veloce, formando un’enorme spirale di stelle e polveri brillanti. Sopraffatta da quella luce fortissima (che solo lei vedeva) chiuse gli occhi; ebbe una visione. La spirale si sdoppiò e al centro ne uscì una grande A che si rivelò per quello che era in realtà: un aratro.

L’aratro iniziò a solcare la volta celeste che, al suo passaggio si apriva. Dai solchi tra le stelle emersero delle grandi pietre. Talmente grandi come non ne aveva mai viste. Pietre con occhi e naso, ma mute, senza bocca. Pietre ricoperte di simboli, di monili, di armi. Ed eccone una che colpì la sua attenzione: indossava un amuleto. La doppia spirale. Inizialmente le sembrò che fosse un gioiello, poi vide che emanava luce ma che in realtà era incisa nella pietra.

Aprì subito gli occhi, spossata. Tutt’intorno a lei, il silenzio della notte. Guardò nuovamente il cielo e stavolta seppe leggere segni che prima non avrebbe mai capito. Seguì una sorta di sentiero disegnato nel cielo che la guidò nuovamente a valle. Gli astri indicavano un punto in cui lei sentiva che doveva fermarsi.

Si accorse di essere appena ad ovest di Carnobriga, ai margini del villaggio, lì dove già da secoli ormai era loro usanza seppellire i morti. Ma lei ne aveva paura. Era la zona dei grandi tumuli di pietra, delle tombe giganti e delle grandi pietre. Ma era la terra destinata ai morti, e lei non avrebbe mai osato addentrarvisi. Una necropoli che i suoi concittadini stavano oltretutto lentamente abbandonando perché ormai satura; qualcuno addirittura diceva fosse maledetta da qualche sortilegio. Fu il grande druido a mettere in giro questa voce. In realtà voleva venissero dimenticati i sacerdoti che lo avevano preceduto; voleva infangarne la memoria inducendo il popolo a trovare un altro posto per i defunti.

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La luce delle stelle pareva illuminare un punto in particolare. Lythia si avvicinò, si chinò a terra appoggiando le mani su uno spigolo di pietra lucida e liscia, di forma tondeggiante. Udì un sospiro, un sussurro che usciva dalle viscere del terreno. Venne travolta da una sorta di sonno.

Ecco, un’altra visione! Vide che sotto di lei, nelle viscere della terra, giaceva una grande pietra al cui centro, come fosse sul petto, brillava il simbolo della doppia spirale. Gli antenati delle grandi tombe erano offesi per essere stati dimenticati. Gli spiriti erano inquieti. Capì.

Si precipitò da suo padre e gli spiegò l’accaduto. Questa volta Catumaro le credette e la assecondò. Allontanò malamente il druido adulatore e bugiardo e obbedì alla figlia.

Coi saggi, gli anziani e i nobili guerrieri del villaggio, si recarono in processione, la notte stessa, alla luce delle torce, fino all’antica necropoli. Lì dove i loro antenati avevano eretto tombe giganti sul terreno delle grandi pietre senza volto e senza nome.

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Grandi pietre non riconosciute che vennero abbattute ed utilizzate come materiale da costruzione. Gli spiriti delle grandi pietre erano offesi. E così pure le anime dei defunti delle grandi tombe. La trascuratezza e l’indifferenza degli uomini, dei loro stessi eredi, ne aveva suscitato le ire. Questo aveva portato al ribellarsi della natura e alle lotte tra gli uomini, tra fratelli dello stesso sangue, incapaci di stare saldi ed uniti.

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Solo restituendo valore alla memoria degli antichi, gli spiriti si sarebbero placati. Lythia individuò un punto particolare sul terreno. Chiese che venisse scavata una fossa; vi gettò semi e frutti (secondo antiche usanze spiegatele dalla nonna), recitò antiche preghiere di una lingua perduta e dimenticata dai più, vi gettò persino un tizzone infuocato che presto si spense. Alla fine vi seppellì la doppia spirale di metallo verde: l’amuleto di nonna Licamara era tornato da dove era venuto. Gli spiriti, così, ritrovarono pace. Il popolo riprese a frequentare quell’area e a seppellirvi i suoi cari. Un’usanza che sarebbe diventata abitudine. Altri popoli, nei secoli che seguirono, continuarono ad utilizzare questa zona sacra per dare degna sepoltura ai loro defunti. La terra torno fertile, la natura amica e madre. I lavori agricoli ripresero come da tempo non era possibile. I clan ritrovarono l’armonia.

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Non poteva sapere la giovane Lythia che dopo altre decine di secoli, dopo il volgere di centinaia di stagioni, di albe e di tramonti, di giornate di sole e di cieli stellati, la voce di quell’amuleto si sarebbe fatta di nuovo sentire, ma questa volta non dai sacerdoti o dai druidi, ma dai ricercatori del tempo.

A distanza di quasi 1.500 anni da quando visse Lythia, la terra delle grandi pietre è tornata alla luce. Solo un tassello ancora manca: nessuno ha mai più ritrovato l’amuleto a doppia spirale. Forse, chissà, giace ancora sepolto lì, da qualche parte tra le grandi tombe e le immense stele a forma d’uomo.

Chissà se mai qualcuno riuscirà a ritrovarlo.

Oppure, chissà, forse è più giusto che nessuno lo ritrovi mai.

 

Stella

 

Castello di Saint-Pierre. Il regno di Flora

“Lasciare la città per finire lassù, in mezzo alle montagne… da solo… beh, del resto non ho scelta!”. Così si lamentava il giovane barone, rampollo di una nobile ed importante famiglia, costretto dai parenti a trasferirsi nel piccolo villaggio di Saint-Pierre.

“Hai ereditato l’antico maniero di famiglia, Emanuele!”, tuonava l’arcigno zio, “tuo compito è prendertene cura! Quindi, fattene una ragione e prepara i bagagli! Tra una settimana al massimo il castello di Saint-Pierre sarà la tua dimora! E vediamo se, confinato lassù, tu non metta la testa a posto!”.

Emanuele non aveva scelta. Tutta la famiglia era contro di lui.. Purtroppo negli ultimi anni non si era certo guadagnato una buona fama: conduceva una bella vita sperperando denaro in ogni possibile modo, frequentava compagnie ritenute “pericolose e inopportune”… un continuo litigio con lo zio! Forse era davvero meglio andarsene… poche comodità, pochi soldi, ma almeno sarebbe stato in pace e avrebbe fatto ciò che voleva!

Rapidamente arrivò il giorno della partenza. La diligenza correva veloce sulle strade polverose. In poco tempo le campagne lasciarono il posto al dolce profilo delle colline che vennero presto sostituite dalle alte montagne della Valle d’Aosta.

L’aria aveva cambiato profumo: Emanuele era inebriato da quella fragranza mista di pino, erba, muschio e terra. Gli sembrava che il sangue corresse con più vigore alimentato dalle brezze fresche che rotolavano giù dai ghiacciai.

All’improvviso, dopo un’ultima curva, eccolo: l’antico maniero lasciatogli dal nonno!

Veduta del castello di Saint-Pierre prima degli interventi in stile neogotico (stampa di E. Aubert, 1860)
Veduta del castello di Saint-Pierre prima degli interventi in stile neogotico (stampa di E. Aubert, 1860)

Su un roccione svettava la vecchia torre maestra, già in stato di avanzato degrado, circondata dalle possenti mura medievali in buona parte sbrecciate. Gli edifici residenziali erano spogli (solo i mobili essenziali), bui e umidi. Emanuele sospirò:” Mio Dio… ci vorrebbero dei lavori, ma come li pago? Solo questo mi hanno lasciato e lo zio non mi da più un soldo… vedremo… per ora va ancora bene: per fortuna è estate! Chiederò nel villaggio se qualche manovale può venire a dare un’occhiata…così…giusto per non avere la neve in casa o spifferi gelati quest’inverno… “.

Tuttavia, nonostante lo sconforto iniziale, Emanuele avevo ben presto imparato ad amare quel luogo. Il paesino era carinissimo e gli abitanti avevano accolto con simpatia “quel giovane barone scapestrato e ribelle, amante della natura, fuggito dalla grande città!” (così dicevano di lui).

In una stanza col camino, dove ancora si vedevano resti di antichi affreschi e si potevano magicamente percepire gli echi delle leggendarie feste organizzate dai ricchissimi proprietari oltre 200 anni prima, Emanuele aveva creato il suo angolino prediletto.

Da subito aveva iniziato a perlustrare i dintorni: che meraviglia! Prati verdissimi, meleti, vigneti, orti e, in lontananza, boschi color smeraldo che, con le loro tonalità scure, esaltavano ancor di più il bagliore delle nevi perenni.

Quell’estate cominciata così male, si era rivelata una benedizione. Da solo, in totale libertà! Grazie al suo bel carattere, ai modi educati e, perché no, al gradevole aspetto, il giovane barone si era ben integrato e riceveva aiuto da tutti: cibo e biancheria pulita non gli mancavano!

Le quotidiane lunghissime passeggiate gli avevano fatto riscoprire e aumentare una passione che aveva da bambino: quella per la raccolta di erbe, foglie fiori. La natura così ricca e multiforme di quei luoghi avevano risvegliato in lui una profonda curiosità e in poco tempo si era creato una collezione botanica di tutto rispetto; “così, se mai un giorno dovessi tornare in città, un pò di questi luoghi verrà con me…”, pensava.

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Gli era poi venuta in mente un’idea: voleva trasformare l’alta corte del castello in un suo personale giardino segreto. Un pò “giardino dei semplici” con erbe aromatiche e medicamentose; un pò giardino all’inglese con piante ornamentali capaci di creare atmosfere incantate e suggestive. Quello sarebbe stato il suo giardino, chiuso al mondo eccetto che a lui!

Una sera, al tramonto, attardandosi sulla terrazza, notò per la prima volta un fiore straordinario attaccato al muro della torre. Si avvicinò: era una specie di orchidea. Un fiore grande dai colori cangianti, insoliti: i petali erano uno diverso dall’altro, quasi a formare un arcobaleno, lucidi e setosi.

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Decise di coglierlo per ripiantarlo ed eventualmente ricavarne semenza. Provò a strapparlo, ma il fiore incredibilmente si chiuse e si ritrasse.”No, devo aver sognato”, pensò, “è impossibile!”.

Ci riprovò: niente. Quel fiore si richiudeva su se stesso. Provò a reciderlo con delle forbici: niente!

Prese allora un martello e iniziò a distruggere il muro:”Verrà fuori, no!? Lo estirperò con tutte le radici!”. Risultato: il muro della torre si crepò terribilmente fino a sgretolarsi!

L’operazione aveva prodotto un’enorme voragine nel vecchio muro cadente mentre il fiore era rimasto ben incastrato nella sua pietra.

“No, ma… è impossibile!”. Emanuele non riusciva a crederci. “Che razza di pianta è mai questa?!”. Raccolse allora la pietra con la pianta dentro, deciso a portarla in casa per esporla così com’era, come fosse un oggetto esotico e meraviglioso.

La mise sul comodino accanto al letto e andò a dormire.

Ma non fu una notte come tutte le altre… Emanuele venne svegliato da un fruscio insistente, come se un insetto gli volasse sul viso. Quando aprì gli occhi rimase senza parole: dalla pietra la pianta era uscita a dismisura arrivando fino a lui e i fiori si erano moltiplicati e ingranditi fino a formare una coperta. Emanuele si alzò di scatto, ma qualcosa lo bloccava impedendogli di scendere dal letto.

Ad un tratto la coperta di fiori si mosse, si avvolse su se stessa e si trasformò in una giovane fanciulla alata.

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“Ma… ma chi… cosa…chi sei tu?” balbettò Emanuele confuso e spaventato. “Tranquillo, io sono Flora, la fata della Natura. Conosco la tua passione per il mio regno, ma oggi hai fatto qualcosa di grave: ti sei ostinato ad appropriarti di un fiore assai raro e prezioso, di me! Avevo provato a farti capire che non dovevi né potervi toccarmi, ma hai insistito fino a distruggere addirittura la tua casa! Hai commesso un errore. E ora, se non vi poni rimedio, la voragine nella torre si allargherà a tal punto che tutto il castello potrebbe crollare! Vuoi che accada?”.

“No, no… certo che no… ma..e ora? Come posso rimediare? Quel fiore era talmente bello che…”;

“talmente bello che avresti dovuto rispettarlo e lasciarlo dov’era”, concluse Flora.

E continuò:” Ad ogni modo, visto il tuo amore per il mio mondo, voglio aiutarti.”. Improvvisamente la stanza si riempì di strane creature, metà uomini e metà foglie, o metà uomini e metà fiore; c’erano anche uomini-stelo, uomini-ramo.. un vero e proprio esercito di esseri del piccolo regno al servizio della loro regina, la fata Flora.

Leafman (tratto dal film animato "Epic. Il mondo segreto")
Leafman (tratto dal film animato “Epic. Il mondo segreto”)

Emanuele era sbalordito! “Loro sono i miei fedeli servitori. Ti aiuteranno a ricostruire la torre maestra, a patto che tu segua i miei ordini! Voglio una torre alta ed elegante con quattro torrette, una per ogni angolo.

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Ogni torretta corrisponde ad una stagione e, a seconda della stagione, dovrai lasciarmi (con la mia pietra) nella torretta corrispondente. Nessun uomo però potrà entrarvi! Nemmeno tu! Mi dovrai lasciare all’ingresso, poi saranno i soldati-foglia a trasportarmi all’interno! Sii preciso, non farti trascinare dalla curiosità. Se un uomo dovesse entrare in una torretta, l’intero castello crollerà e per te sarebbe la rovina. Se invece ti atterrai ai patti per almeno 50 anni, il tuo castello diventerà la dimora del piccolo mondo alla portata di tutti e il tuo giardino segreto sarà dono per gli altri così che possano conoscere, scoprire, amare e proteggere il mondo di Flora”.

Emanuele non aveva altra scelta; nonostante un fondo di incredulità, obbedì alla fata Flora e, la mattina seguente, dopo una notte che gli parve lunga un’eternità, la torre non era più la stessa. Gli uomini-foglia e le donne-fiore avevano magicamente creato qualcosa di spettacolare: “ecco, ora posso dire di vivere nel castello delle fiabe”, esclamò il giovane barone.

“Non solo!”, lo corresse la fata, “puoi dire di essere un ospite speciale del regno di Flora”.

Il giardino segreto del barone divenne, col tempo, un tesoro di erbe, fiori ed essenze esotiche a disposizione di tutti. Nelle torrette nessuno mise mai piede e si narra che, ancora oggi, a seconda della stagione, il fiore-dimora della fata Flora vi fiorisca, ancorato alla sua pietra, di volta i volta con un colore ed un profumo diverso.

Castello-Saint-Pierre (Foto: Enrico Romanzi)
Castello-Saint-Pierre (Foto: Enrico Romanzi)

E’ il castello delle favole. E’ il castello di Flora. E’ il meraviglioso castello di Saint-Pierre!

 

Stella

Castello di Montmayeur. Un oscuro signore per il goth-tale di Halloween

Ed eccoci ad #Halloween, una “festa” che personalmente non amavo e non “praticavo” fino a quando non sono diventata mamma! Così, oggi 31 ottobre, tra zucche, fantasmi, ragnatele e pipistrelli, con 2 streghette eccitatissime che si preparano a fare #trickortreat, voglio rendere omaggio a uno tra i castelli meno noti e più misteriosi della Valle d’Aosta: Montmayeur, in comune di Arvier.

Sarà un volo immaginario e immaginifico sulle labili tracce di questo misterioso signore, la cui ombra sinistra permea e ammanta il severo profilo roccioso di questa torre sospesa sul baratro…

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La casa sua il signore di Baux

l’ha costruita sui sassi…

La casa sua il signore di Baux

l’ha costruita sui sassi…

Passi di mille cavalieri

segnano i suoi sentieri,

vegliano dall’alto nella notte

gelidi i suoi pensieri…

I versi della nota ballata di Angelo Branduardi ben si adattano ad illustrare questo luogo e lo spettro immanente del suo antico signore.  Una musica fiera e solenne, ritmata da un progressivo aumentare di percussioni aiuta ad immaginare l’avanzata dei cavalieri in sella ai loro destrieri; una lunga fila di armigeri pare risalire l’impervio sentiero che conduce alla sommità di un’altura isolata, dal fascino sinistro. Siamo all’imbocco della Valgrisenche, una delle vallate più selvagge della Valle d’Aosta. Una vallata dai fitti boschi e dagli interminabili inverni che divide questo estremo lembo d’Italia dalla vicina Tarentaise francese. Prestando attenzione, si possono ancora udire, tra i ruderi, le voci, le grida, i rumori degli antichi abitanti scomparsi… Scomparsi, forse, in una sola notte di luna nera, improvvisamente, misteriosamente… e di loro non si seppe più nulla. Solo l’estrema ferocia attraversò i secoli, vestita di leggende e fantasmi figli della notte.

A GUARDIA DELLA SEVERA VALGRISENCHE

Da Arvier si imbocca la strada che, con ampi e frequenti tornanti, si inerpica fino ad arrivare al bivio per Grand Haury, un piccolo villaggio dove il tempo pare essersi fermato. Lassù, in alto, ecco apparire l’austero profilo della torre-mastio, risalente al XIII secolo. Pare uscita da un fosco racconto medievale questa struttura fortificata mimetizzata nel bosco,  in cima a uno sperone roccioso con pareti a strapiombo; una posizione estrema, isolata, inquietante.

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OSCURE LEGGENDE

Ancora oggi infatti si narra del signore di questo maniero: un uomo perfido e astuto, dalla ferocia inaudita. Un vero e proprio “nido di avvoltoi” circondato da cupe leggende, così viene descritto in numerose cronache ottocentesche, trasudanti di “dark Romantic”: si racconta di nemici uccisi, sgozzati, decapitati, mutilati e poi gettati nel baratro dall’alto della torre.

Secondo una leggenda, intorno al 1450, un conte di Montmayeur che, in lite con un cugino, era stato ritenuto colpevole dal tribunale di Chambéry, con un pretesto invitò nella sua dimora il presidente della giuria del tribunale, Guy de Feissigny; lo fece accomodare, certo, ma per…decapitarlo!. La sua testa fu quindi recapitata ai giudici di Chambéry, come “documento che mancava al processo”. Per sfuggire alla cattura il conte di Montmayeur sarebbe fuggito sulle montagne e di lui non si seppe più nulla.

Montmayeur: Uno scabro castello “primitivo”, ossia essenziale, composto da una torre circondata da mura, ben difese e arroccate in una posizione da cui si poteva vedere tutto senza essere visti. Montmayeur: una torre fatta di rocce, dello stesso color della roccia, a tratti quasi invisibile, tanto bene è mimetizzata… talvolta la si potrebbe persino credere una “torre fantasma”.

Montmayeur nacque così e tale è rimasto. Mai un rimaneggiamento, mai un adattamento… una postazione militare, lassù, in cima ad un tremendo salto nel vuoto avvolto dai boschi.

Un maniero militare, cristallizzato… quasi che, ad un certo punto, i suoi stessi proprietari siano fuggiti e mai più nessuno vi abbia fatto ritorno se non, come narrato da alcuni, le streghe della vallata nelle notti di luna nera….

Un signore terribile, quello di Montmayeur, che mostra suggestive affinità con un altro, noto e feroce signore: quello di Baux!

SOGNANDO LA FUGA DEL SIGNORE DI BAUX

I Baux: una potente famiglia feudale che, nel X secolo, si stabili’ al limite delle Alpilles, in un altopiano quasi incastrato tra le Alpi e i Pirenei, edificando sulle rocce un imponente castello, arroccato sul ciglio di un dirupo, tanto maestoso da diventare parte delle rocce stesse e da dominare l’intera vallata.

Il castello di Les-Baux-de-Provence (provence-pays-arles.com)
Il castello di Les-Baux-de-Provence (provence-pays-arles.com)

Roccia su roccia, il castello di Les-Baux-de-Provence lascia letteralmente senza fiato! La fortezza degli impavidi principi-guerrieri: coraggiosi al limite della sfrontatezza, ambiziosi, arroganti, forti, senza scrupoli e spesso senza pietà.

Per quasi cinque secoli i Signori di Baux riuscirono a difendere il loro dominio, capaci di tenere testa a re, imperatori e pontefici. Tanto forti e orgogliosi da dichiararsi discendenti di Baldassarre, uno dei tre Re Magi;  non a caso, per ricordare i loro reali e mistici natali, il loro stemma era rappresentato come una cometa bianca in campo rosso. Tanto impavidi e fieri da essere definiti dal poeta Mistral “Stirpe di aquile, mai vassalli”.

Les Baux de Provence
Les Baux de Provence

La loro storia è una lunga ed impetuosa catena di guerre, sangue e tradimenti. Una corte comunque colta, ricca e raffinata fino a quando la morte di Alix, ultima principessa della stirpe, farà estinguere il mondo dei Baux.

A metà del 1300 il visconte Raymond de Turenne diventò tutore della giovane nipote Alix de Baux, ultima principessa della città-fortezza.

Il visconte causò una guerra civile che lacerò la fama di Les Baux, soprattutto a causa della sua crudeltà. Chiamato ‘flagello della Provenza’, costringeva i prigionieri a buttarsi dal castello nel vuoto dei burroni, per semplice divertimento (stesso “hobby” del signore di Montmayeur… quest’ultimo però più sanguinario!).

Per eliminarlo, il re di Francia e il papa – per i quali Raymond aveva peraltro in precedenza combattuto – ingaggiarono dei mercenari, che però devastarono numerosi territori non coinvolti nello scontro senza riuscire nel loro intento: Raymond de Turenne riuscì comunque a scappare facendo perdere completamente le sue tracce!

Si narra che i Baux scomparvero nell’arco di una sola notte e che, già il mattino seguente, il castello era distrutto. E parrebbe anche che i Baux divennero i “Del Balzo” e giunsero nel Sud Italia al seguito di Carlo d’Angiò, insediandosi tra Campania, Abruzzo e Puglia.

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E’ bello immaginare che la fortezza valdostana possa quasi essere la traccia di questa fuga, la testimonianza di un rifugio segreto, seppur transitorio, nel cuore di monti inaccessibili.

Del resto ben diceva il canonico Bethaz parlando della sua terra: «A Valgrisenche on y va ni par mer ni par terre, mais par rocs et par pierres››.

Stella

Archeologia e pittura contemporanea. Quando si dice “mano santa”

Tutto comincia da una mostra. Ma non di archeologia, di pittura…contemporanea! Quest’estate il Castello Gamba di Châtillon, il Museo di Arte moderna e contemporanea della Valle d’Aosta, ha ospitato una mostra molto interessante dedicata a Mario Schifano, uno dei più grandi, vulcanici e prolifici interpreti dell’arte contemporanea in Italia nella seconda metà del Novecento.

L’aspetto, però, che più di altri ha attratto il mio interesse, è stata la serie di quadri realizzata in occasione di un suo soggiorno in Valle d’Aosta tra febbraio e marzo 1988. In questo non lungo ma intenso periodo, il pittore romano trovò una sede di profonda ispirazione in un’ala dell’antico convento benedettino di Saint-Bénin ad Aosta. Queste opere, raccolte nella serie denominata Calore locale (sì, calore con la a!), vennero quindi esposte al pubblico nell’aprile dello stesso anno in una mostra dal titolo che più “schifaniano” non si potrebbe: Verde fisico. Una mostra curata, oltretutto, da una figura che ha profondamente connotato il panorama artistico ed espositivo della Valle tra gli anni ’80 e ’90: il critico d’arte Janus, al secolo Roberto Gianoglio.

La caratteristica comune di questa serie è una grande penisola italiana dipinta in un materico e denso verde smeraldo, il verde FISICO appunto, “fisico” dal greco fùsis, natura. Un inno alla natura e alla bellezza del territorio e dei paesaggi italiani. In questa serie di Italie, l’attenzione è sempre puntata su quell’angolino in alto a sinistra che corrisponde alla Valle d’Aosta, ogni volta raffigurata da oggetti simbolo che Schifano scelse tra i reperti archeologici locali.

Racconta, infatti, Janus nella premessa del catalogo di Verde fisico, che Schifano gli chiese, come prima imprescindibile fonte per conoscere la regione, un catalogo di archeologia. E Janus non ebbe alcuna esitazione a dargli una copia dell’opera all’epoca più recente e che ancora oggi resta una base di indiscussa utilità: Archeologia in Valle d’Aosta. Dal Neolitico alla caduta dell’impero romano, 3500 a.C. – V sec. d.C. (uscito nel luglio 1985).

Si racconta che Schifano non solo divorò queste pagine, ma che addirittura strappò quelle per lui più significative per attaccarle alla tela e “viverle” in maniera più intensa.

Del resto il rapporto che univa questo infaticabile e poliedrico artista al mondo dell’archeologia aveva radici lontane. Lui stesso era figlio di un archeologo e, proprio per il lavoro paterno, vide la luce a Homs, in Libia, località nei pressi dell’antica e gloriosa Leptis Magna, la “Roma d’Africa”.

Era il 20 settembre del 1934: una data e un luogo che volle immortalare nella tela Io sono nato qui. Un titolo semplice, un ricordo intimistico, ma anche l’affermazione forte, quasi perentoria, di un profondo attaccamento a una terra natale particolare ed esotica.

Mario Schifano, Io sono nato qui-20.09.1934 (1985) (immagine tratta dal catalogo Etruschifano)
Mario Schifano, Io sono nato qui-20.09.1934 (1985) (immagine tratta dal catalogo Etruschifano)

Ma lasciamo le dorate sabbie libiche per tornare sulle Alpi valdostane. Ebbene, della serie Calore locale, le cui singole opere meriterebbero un post dedicato, oggi vorrei soffermarmi sulla numero VIII, un acrilico su tela di 160 x 130 cm.

Mario Schifano, Calore locale VIII, 1988 (immagine tratta dal catalogo Verde fisico)
Mario Schifano, Calore locale VIII, 1988 (immagine tratta dal catalogo Verde fisico)

Purtroppo non ho un’immagine a colori, e mi rendo conto che parlando di un maestro del colore come Schifano sia un grave difetto. Immaginatevi però un’Italia tutta verde, le linee in bianco, le coste abbozzate in blu elettrico e poi, lassù, dove c’è la Valle d’Aosta, due oggetti.

Partendo da quello a destra, che ricorda una casetta, posso dirvi che si tratta di una lamina votiva in argento proveniente dal colle del Piccolo San Bernardo, l’antica Alpis Graia, raffigurante al centro Ercole con la clava. Una sorta di ex-voto dedicato a quel Graio nume protettore del passo alpino. Un oggetto oggi apprezzabile al MAR – Museo Archeologico Regionale di Aosta.

Accanto a questa lamina, la sagoma di una mano benedicente ci porta all’altro iconico passo che attraversa le montagne valdostane: quello del Gran San Bernardo, l’antica Alpis Poenina (o Summus Poeninus).

Una mano il cui gesto ci appare famigliare: un numero tre riconducibile al tipico gesto della benedizione impartita dagli ecclesiastici: la benedictio latina. Ma che cos’è questa mano santa?

E’ la mano di un dio; la mano di Sabazio.

Mano votiva del dio Sabazio (o Giove Sabazio), bronzo, III sec. d.C. (gentile concessione Musée de l’Hospice du Grand Saint Bernard)

Ma chi è Sabazio?

Questo nome dal suono apparentemente famigliare che saremmo tentati di collegare alla parola “sabato” (ma non è così!), appartiene a una “misteriosa” divinità traco-frigia egata ai cicli della vegetazione e della fertilità il cui culto ha iniziato a diffondersi al seguito degli eserciti a partire dal II secolo d.C.

Nelle colonie giudaiche dell’Asia Minore, il culto del “Signore Sabazio” (Kύριος Σαβάζιος) fu assimilato a quello del “Signore degli eserciti” israeliano (Kύριος Σαβαώϑ), assumendo un più alto valore religioso: a Sabazio fu attribuita infatti la funzione di divinità “santa”, purificatrice delle anime degli adepti, i quali ottenevano attraverso i riti di iniziazione la liberazione da una sorta di peccato originale.

Il principale attributo  di Sabazio era la mano benedicente, che alcuni chiamano “mano pantea” (cioé “tutta divina”), che ben simboleggiava il carattere sincretico del suo culto: infatti la mano (di cui esistono numerosi esempi come singoli arti votivi, le cosiddette “mani di Giove Sabazio”, forgiate nel gesto tipico della “benedictio latina”, con la posizione del pollice, dell’indice e del medio distesi, l’anulare e il mignolo ripiegati all’interno del palm, presenta numerosi simboli e attributi di vari culti e divinità, come la pigna, la testa caprina, la donna con bambino, la lucertola, la tartaruga, la testa di montone, il serpente, il fallo, la bilancia e altri ancora.

L’esemplare conservato presso il Museo dell’Ospizio al colle del Gran San Bernardo si presenta decisamente ricco di simboli. La visione del dorso presenta innanzitutto un serpente, animale che da sempre simboleggia il collegamento tra mondo sotterraneo, infero, e mondo terrena. Un rettile che cambia pelle, quindi che si rinnova e rinasce, presente ugualmente in altri culti salvifici come quello di Asclepio-Esculapio, dio della medicina (non vi siete mai chiesti perché le farmacie hanno il serpente come simbolo?). Alcuni storici, come Demostene, raccontano che nelle cerimonie per Sabazio, all’adepto veniva fatto scivolare un grosso serpente color oro lungo il corpo a suggellare il suo legame, potremmo dire la sua unione orgiastica, col dio stesso.

Notiamo quindi due rane e una tartaruga: animali anfibi, capaci di vivere sia sulla terra che nell’acqua, quindi animali messaggeri tra due mondi.

Mano votiva del dio Sabazio, bronzo, III sec. d.C (gentile concessione del Musée de l’Hospice du Grand Saint Bernard)

Guardiamo ora il palmo. Tra indice e medio spunta la testa di un ariete, animale dalla chiara valenza solare, guerriera e fallica che, però, si lega contemporaneamente all’atto sacrificale. Un animale che simboleggia la forza vitale che va chiesta, e ottenuta, attraverso il sacrificio e la devozione verso gli dei. Nel Cristianesimo l’ariete si “addolcisce” diventando l’Agnello. E, non a caso, alla base del palmo, vediamo un altare.

Infine, in cima al pollice, si erge una pigna, simbolo di resurrezione.

Frutto del pino, da sempre e in diverse civiltà ha racchiuso in sé i significati simbolici di forza vitale, immortalità, divinità, legati all’albero che la genera, insieme a quelli di fecondità e forza rigeneratrice per i semi che contiene.

Nella tradizione iconografica dell’Estremo Oriente, soprattutto indiana, essa svetta all’apice dell’Albero della Vita, in quella greca è in cima al tyrso, il bastone di Dyoniso, dio legato ai misteri della morte e della rinascita, della rigenerazione e della resurrezione. Rappresentata frequentemente nell’arte romana funeraria, in età cristiana la pigna viene scolpita spesso su capitelli e archivolti di epoca romanica, arrivando nel corso del tempo a divenire emblema della elevazione speculativa e filosofica.

Tirando le conclusioni possiamo riconoscere come Schifano, consapevole o meno, abbia colto in questi due oggetti tutta la potenza della sacralità espressa da una natura forte e a suo modo divina. I passi, i colli, sacre “terre di mezzo”, evocative di un antico Olimpo alpino che, a ben guardare, esiste tuttora.

Il colle del Gran San Bernardo in inverno

La Valle d’Aosta, quella strada tra le vette in cui l’immanenza divina si unisce alle commistioni e alle contaminazioni di un continuo sovrapporsi di culti e culture.

Stella Bertarione

Il drago, la quercia e il melograno.

Mais où sont les neiges d’antan ?

Il signore, ormai abbondantemente superata la metà della sua vita, si alzò dallo scranno intagliato e lentamente si incamminò verso la balconata del loggiato. Un loggiato magnifico, di gusto classico, le cui colonne riecheggiavano antichi volumi di gusto imperiale romano. Ma allo stesso tempo un loggiato gentile, aereo e luminoso, aperto su una campagna ondulata e verdeggiante, ricamata di frutteti e vigneti, punteggiata di villaggi tra i quali dominava il centro di Pinerolo, cittadella – fortezza sempre più strategica per gli scambi e le relazioni tra Italia e Francia.

Qui, nelle giornate limpide, vedeva la sagoma appuntita del Monviso svettare all’orizzonte. Là invece, dall’altra parte, a Varey, in lontananza si delineava il profilo massiccio di quello che da tutti era chiamato Mont Maudit. In un certo senso anche lui si riteneva una sorta di tramite tra questi due Paesi e l’aver deciso di trascorrere gli ultimi anni in questo luogo forse non era dovuto ad un semplice caso. Anzi, proprio non lo era! Così come, del resto, nulla nella sua vita era dovuto al caso…

Mais où sont les neiges d’antan ?

Sì, il signore, ricordando quel verso del poeta maledetto François Villon, nato quasi nei suoi stessi anni ma già prematuramente scomparso, spontaneamente andò col pensiero ai suoi trascorsi, alla sua gioventù.

Mais où sont les neiges d’antan ?

Questo refrain della “Ballade des dames du temps jadisinserita all’interno dell’opera di Villon divenuta rapidamente celebre come “Testament, ben si adattava al suo presente. In quel suo amato rifugio, in quella dimora chiamata “Torione” che da un poggio guardava verso le mura di Pinerolo, il nobile signore riposava e scriveva; pensava e scriveva; ricordava e scriveva.

Appoggiato alla balaustra il signore respirò a lungo mentre il suo sguardo celeste indagava la campagna e l’orizzonte sfumato nei toni caldi del tramonto. Anche lui era intento a redigere le sue ultime volontà e inevitabilmente i ricordi affioravano. La sua vita era costellata di eventi importanti. Lui stesso era un uomo assai importante e a suo modo decisamente potente, pur non avendo mai maneggiato un’arma in battaglia.

Mais où sont les neiges d’antan ?

Dove sono? Dove sono le nevi di un tempo? Dov’è la mia giovinezza? Il signore si scoprì scosso dall’emozione nel considerare quanto quella campagna assomigliasse al paesaggio di Varey, nel Bugey, a lui così familiare e così tanto caro.

Il suo cuore mai avrebbe potuto dimenticare quelle dolci colline, quei boschi, quel clima mite accarezzato dalle brezze di laghi non lontani, quei toni delicati. Terzogenito di un’illustre ed antica famiglia, fu lì che vide la luce. Oltre alla terzogenitura fu la sua precoce e fervida intelligenza a spingere il nobile padre Amedeo a ritenerlo assai adatto alla carriera ecclesiastica. E così, ancora adolescente, si ritrovò in seminario a Lione. E da qui a Losanna e poi ad Avignone. Da Torino a Roma…una formazione continua e decisamente arricchente. Ma la sede che più di tutte sentì davvero sua fu una sola: Aosta. A questa città legò strettamente il suo nome e la sua figura di mecenate.

Mais où sont les neiges d’antan ?

Era l’estate del 1509. Era tardo pomeriggio e l’aria si era appena rinfrescata. Il nobile signore apprezzava quella dolce ora che si approssimava ai vespri e amava intrattenersi nel loggiato. A volte, se chiudeva gli occhi, quasi gli sembrava di essere affacciato sul cortile del suo amato castello valdostano di Issogne. Quasi gli sembrava di ricordare il fervere dei lavori, lo sciamare delle maestranze, il vociare dei piccoli Philibert, Jacques, Charles e Louise, figli del cugino Louis e a lui affidati. Quanto amava quel piccolo giardino al’italiana impreziosito da un angolo dedicato alla coltura dei “semplici”… Un prezioso e appartato cameo nel cuore del castello, con le aiuole ben disegnate e sapientemente curate, con fiori meravigliosi ed essenze aromatiche. Già, la corte di Issogne… Quanto potente era il messaggio che lui aveva voluto imprimere in quel luogo. Quella corte doveva essere il perenne insegnamento per i discendenti di casa Challant. Era densa di simboli. Simboli di nobiltà, di fierezza aristocratica, di potenza. Simboli di amore e auspici di buona sorte.

Mais où sont les neiges d’antan ?

La neve. Anche lui aveva sempre amato la neve, quella fredda ma delicata coltre bianca che tutto ammantava di ovattato silenzio. E in Valle d’Aosta, in quella terra dolce e severa allo stesso tempo circondata da vette altissime, lui ne aveva vista e calpestata davvero tanta. Gli venne da sorridere pensando a quanto si divertivano i suoi nipotini rincorrendosi e scivolando sul tappeto bianco che ricopriva il giardino di Issogne…

Un soffio di vento più fresco del solito lo portò a stringersi nel mantello. Quel gesto gli ricordò immediatamente gli inverni a Sant’Orso, in quel chiostro così denso di sacralità, mistero e divina immanenza. Di chiostri nella sua vita ne aveva frequentati diversi, di qua e di là delle Alpi. Ma due su tutti erano rimasti scolpiti nel suo cuore: Sant’Orso, primo fra tutti, e il chiostro della Cattedrale di Aosta che nacque proprio sotto i suoi ancora giovani ma saggi occhi. Un piccolo chiostro prezioso e raffinato, luminoso nelle iridescenze cangianti del marmo grigio-argento e dell’alabastro appena dorato. Su uno di quei capitelli era riportato il suo nome, insieme a quelli di altri canonici committenti dell’opera. Era il 1460 e Giorgio aveva poco più di 25 anni. Un grande futuro lo aspettava.

Mais où sont les neiges d’antan ?

Il signore lentamente si voltò e tornò a sedersi. Il suo sguardo correva sulle sue ultime volontà. Quel documento era ancora lungi dal considerarsi terminato. Aveva bisogno di riflettere, di meditare, di pregare soprattutto. Ascoltava il suo respiro, il battito del suo cuore, cullato dai rumori della campagna. Una terra operosa e fertile; villaggi animati e vivaci. Città ricche, strade sicure. Questo da sempre era stato il suo sogno, il suo progetto. Questo era il buon governo che volle raffigurato anche nelle lunette del porticato basso di Issogne.

La pace. Era la pace la vera signora di tutto. Solo in tempo di pace i soldati potevano riporre le armi e trascorrere il tempo a bere e divertirsi. Solo in tempo di pace si poteva andare tranquillamente dal sarto alla ricerca di stoffe preziose. In tempo di pace i magazzini erano pieni e la gente poteva vendere e comprare: ortaggi, frutta, carni, salumi e quelle grandi forme di buon formaggio d’alpeggio che lui tanto apprezzava sulla sua tavola…

Per scrivere le sue volontà, Giorgio doveva prima di tutto aver ben chiaro in mente cosa davvero avrebbe lasciato, e non solo in termini meramente materiali, ma anche culturali, identitari, sociali.

Princes, n’enquerez de sepmaine
Ou elles sont, ne de cest an,
Qu’a ce reffrain ne vous remaine:
Mais ou sont les neiges d’antan ?”

E con questo ritornello sempre in mente, il nobile priore decise di allegare al suo testamento una breve autobiografia. Sì, voleva trasmettere ai suoi posteri gli avvenimenti più significativi e salienti della sua vita e voleva indicare loro in quali luoghi e in quali dettagli avrebbero potuto ritrovare il suo pensiero e la sua personalità.

Era stato ed era ancora un grande uomo, un mecenate, una mente aperta e lungimirante. Aveva visto le più grandi città. Aveva frequentato le eleganti corti padane. Aveva studiato nei più prestigiosi atenei. Aveva conosciuto illustri intellettuali e fini politici.

Di tutto questo voleva lasciare esplicita testimonianza. Fu così che l’inchiostro iniziò a scorrere sul foglio bianco. Il nobile priore cominciò a delineare una sorta di itinerario alla ricerca di se stesso. Una sorta di mappa per chi avrebbe voluto ripercorrere la “sua” Valle d’Aosta.

“Bene, direi che potrei iniziare da qui”, pensò. “Era, appunto, il 1460…

_________________________________

Il nobile Giorgio iniziò a vergare il foglio; si fermava spesso. Quindi per un attimo chiuse gli occhi cerulei ormai stanchi per l’età ma ancora vividi, accesi di quella luce tutta particolare che da sempre aveva contraddistinto il suo sguardo. Occhi grandi, di un azzurro chiarissimo ma non acqueo; un azzurro che ricordava la vastità del cielo, di quegli orizzonti che lui non si stancò mai di sondare, cercare, indagare. Ecco, sì, il suo era uno sguardo indagatore. Molto spesso gli avevano detto che i suoi occhi emanavano regalità, incutevano rispetto se non talvolta persino una sorta di timore. Il suo portamento era regale. Il suo incedere lento e diritto lo faceva apparire persino più alto ed accentuava la sua innata eleganza.

Quasi un sovrano. Gli veniva da sorridere… non avrebbe ambìto a tanto (o forse sì?), ma sicuramente nel suo campo era un solido punto di riferimento. Regalità. Una qualità forse derivatagli, oltre che dall’educazione ricevuta, anche da quel suo carattere, da quella sua naturale indole “leonina”. Non era forse solo una casualità se la prima luce che quegli occhi videro fu quella del 1 agosto 1439, sotto la costellazione del Leone, segno del Sole e della nobiltà.

Sguardo fiero e severo, seppur non privo di indulgenza e magnanimità. Mascella forte e volitiva, indice di carattere tenace e attitudine al comando. Capelli castano scuro che ancor più esaltavano il suo incarnato diafano. I suoi ritratti di profilo ben si allineavano alla ritrattistica aristocratica all’epoca in voga, derivata dallo studio di quella imperiale romana i cui nobili profili attraversarono le più ampie latitudini geografiche veicolati sulle monete e ben si impressero nelle consuetudini e nell’immaginario comune.

Si sentiva già nell’aria il profumo della primavera. Correva l’anno 1460 e lui era da poco giunto ad Aosta, entrando, ad appena 20 anni, nel Capitolo della Cattedrale.

Vi era un’atmosfera di grande fermento perché il nuovo chiostro, dopo quasi un ventennio di lavori, stava per essere consegnato dalle maestranze ed inaugurato dal nobile vescovo Antoine de Prez.

Fu l’anziano canonico François Rosset che gli raccontò le vicissitudini della fabbrica del chiostro. Lui, infatti, era presente al momento della stipula del venerabile patto tra il Capitolo della Cattedrale e il magister Petro Bergerii de Chamberiaco. Era l’8 giugno del 1442.

In quel giorno ormai lontano, otto canonici della Cattedrale stipularono il contratto per la ricostruzione del chiostro capitolare con questo importante architetto savoiardo, sebbene l’inizio vero e proprio dei lavori prese avvio nel marzo 1443, quando era vescovo Johannes de Pringino.

Il rapporto di lavoro con il Berger non andò a buon fine, pare per lungaggini e spese eccessive, tanto che l’architetto transalpino sparì presto dalla circolazione. Si procedeva a rilento e, nel frattempo, cambiarono pure le maestranze. Ancora nel 1456 si sottolineava lo stato di degrado del vecchio chiostro romanico così come di altri edifici del complesso capitolare. Venne così ufficialmente istituita la Fabbriceria della Cattedrale. Capo cantiere divenne il “lathomusMarcellus Gerardi di Saint Marcel.

Giorgio aveva conosciuto personalmente questo Marcellus e ne aveva pubblicamente riconosciuto e apprezzato le indubbie doti artistiche. La sua finezza nel plasmare i blocchi di alabastro cristallino che avrebbero costituito i capitelli del chiostro era davvero notevole.

Il nobile Giorgio si soffermò un istante. Mentre la brezza del tramonto accarezzava l’edera del giardino accesa di porpora e arancio, guardando le colline pensò ancora al suo glorioso passato.

Effettivamente c’erano tre siti che meglio di altri potevano riassumere le maggiori fasi della sua vita, e tutti e tre si trovavano nella sua petrosa ma tanto amata Valle d’Aosta, terra natia dei suoi avi, la nobile e potente casata dei siri di Challant.

Innanzitutto la Cattedrale di Aosta: la sua gioventù, il periodo dei grandi sogni, delle forti ambizioni.

Quindi il Priorato di Sant’Orso: il trionfo della sua maturità, il luogo che forse più di altri rappresenta la sua doppia identità transalpina e la sua raffinata apertura culturale.

Infine il castello di Issogne: icona della sua filosofia di vita, delle sue gesta, delle sue speranze nel futuro, dei suoi auspici… Una dimora sontuosa che doveva fungere da costante insegnamento e monito servendo, allo stesso tempo, da riflessione tanto sulla vita quanto sulla morte. Una senilità che altro non è se non la fulgida ed autorevole sintesi di una vita straordinaria.

“Ebbene”, pensò, “chi vorrà trovare il mio nome scolpito su uno di questi capitelli dovrà accedere al chiostro dal lato sud, direttamente dalla porta di collegamento con la navata nord della Cattedrale. A sinistra dell’ingresso, dopo il capitello recante il nome del canonico Ludovicus de Sancto Petro, ecco il “mio”: Dominus Georgius de Challant canonicus.

20 anni. Appena 20 anni e il mio nome, il nome della mia casata, veniva scolpito in quella pietra brillante, per sempre. La mia carriera era agli inizi, ma sapevo che mi aspettavano grandi successi. Sapevo che avrei fatto grandi cose nella mia vita; me ne ritenevo capace.

E non finisce qui. Entrate in Cattedrale e raggiungete il presbiterio dedicato a Santa Maria Assunta. Lì resterete abbagliati dall’eccezionale eleganza dei magnifici stalli gotici, vero capolavoro di ebanistica, opera di due scultori capaci di modellare il legno con tale fervore da conferirgli un cuore eternamente pulsante, un respiro, un’anima. 61 stalli realizzati dalle sapienti mani di Jean Vionin di Samoens e di Jean de Chetroz. Questo splendore venne portato a termine nel 1469.

Naturalmente io non potevo mancare, essendo anche tra i committenti. Salite verso la testa della fila di sinistra e procedendo verso la navata, immediatamente dopo la raffigurazione di San Pietro, troverete quello da me donato riconoscibile innanzitutto grazie allo stemma della mia casata: “d’argento al capo di rosso con filetto nero in banda” sorretto da un angelo. Un angelo assai particolare che ritroverete anche altrove se saprete aguzzare la vista. Lo schienale vede la rappresentazione di re David. Un sovrano, dunque. Un indizio di aristocrazia che già poteva far intuire l’estrazione sociale di chi quello stallo aveva donato. Un re votato alla fede e amante, cultore, delle arti. Sì, in qualche modo, in quel devoto re David, era come se ritrovassi un pò di me.

Che anni furono quelli… Il Quattrocento vide il trionfo delle più importanti committenze artistiche che mutarono il volto della cattedrale anselmiana.

L’antica chiesa dedicata a San Giovanni Battista, la cui grande abside aggettava verso ovest, venne definitivamente demolita e il bel mosaico romanico con animali fantastici spostato nella zona presbiteriale a monte di quello, immenso, dedicato allo scorrere sempiterno dei mesi. Il corpo della navata di Santa Maria veniva allungato verso ovest di due campate e completamente voltato con una nuova copertura a crociera costolonata che andò a ricoprire quella lignea precedente nonché resti di affreschi molto antichi che, ormai, non rispondevano più al gusto della Chiesa.

Fu così che, ad occidente, si diede avvio al ripensamento di una nuova facciata che, però … purtroppo, io non vidi mai terminata.

Sempre nel coro il noto ed apprezzato scultore Stefano Mossettaz aveva creato un magnifico soffitto decorato adatto ad inquadrare in maniera decisamente scenografica la tomba di Francesco di Challant. Al grande orafo fiammingo Jean de Malines, inoltre, venne affidato l’incarico di portare a termine la monumentale cassa per le reliquie di San Grato, oltre a bastoni processionali, cibori, calici per la sagrestia…

Per non parlare delle vetrate del deambulatorio dove ai piedi della Vergine e di San Giovanni, i due dedicatari della Cattedrale, figurava nuovamente il mio stemma: sotto i piedi dell’Assunta sorretto da una coppia di angeli; sotto il Battista dal grifone e dal leone”.

Ecco, il signore poteva davvero affermare che la grande e vivace Fabbrica quattrocentesca della grande Cattedrale aostana ben sintetizzava la sua gioventù, fatta di studio, di preghiera, certo, ma anche di entusiasmi, di stimoli culturali, di voglia di scoprire, di sfide.

Tornò quindi a sedersi. Si strinse ancor più nel mantello. Ormai le ombre della sera si erano allungate e le prime stelle della notte facevano capolino in lontananza. Era ora di rientrare. Avrebbe proseguito domani, auspicando che, durante la notte, il Signore lo aiutasse nel nitore dei ricordi e gli desse la forza e la salute per redigerli.

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Un’insolita quanto densa coltre di nebbia avvolgeva la bella piana della Dora Baltea. Le vetuste mura di Aosta, costellate di torri, in buona parte rivestite di caseforti e dissimulate dalle dimore nobili su di esse arroccate, bucavano la caligine dichiarando la ricchezza e la potenza di questa città.

Il raccolto borgo di Porta Sant’Orso si rivelava come un prezioso cameo, vivace ed animato. Botteghe artigiane si susseguivano lungo la via e il continuo vociare dei mercanti difficilmente avrebbe potuto far credere che proprio lì, alle spalle della prima fila di edifici, si celava un luogo di grande silenzio e profonda contemplazione, l’Insigne Collegiata dei Santi Pietro e Orso.

Un’angusta stradella sfiorava i possenti piedi a scarpa delle mura e dei torrioni angolari; alzando lo sguardo immediatamente si veniva come ipnotizzati da quell’antica torre difensiva romanica ora divenuta campanile che dall’alto dei suoi 46 metri sorvegliava le umane vicissitudini.

Ma era solo dopo aver varcato l’alto muro di cinta che ci si ritrovava nel cuore di un complesso architettonico di abbagliante e disorientante bellezza.

E, il nobile priore poteva andarne fiero, quella bellezza era opera sua, del suo ingegno, della sua volontà. Correva l’anno 1468 e Giorgio di Challant veniva eletto Priore di Sant’Orso al posto di Humbert Angley, che diventava così suo vicario.

Ora che i lavori erano terminati, Giorgio poteva soffermarsi e godere di quel capolavoro che tanto di lui sapeva raccontare.

Sul piccolo cortile si apriva un elegante loggiato le cui arcate richiamavano antichi modelli romani sebbene leggermente ribassate; al di sopra di esse grandi finestre crociate ridondanti di decorazioni e poi, a salire, ancora fregi ricchi di preziosi altorilievi e poi ancora, al di sopra di tutto, lo svettare severo di quell’inconfondibile torre ottagonale di gusto prettamente borgognone. Tuttavia quel che forse più di ogni altro elemento colpiva i visitatori e aveva impressionato gli stessi confratelli, era quel materiale così inusuale per Aosta: il cotto!

Cotto che al nobile Giorgio piaceva moltissimo. Nei suoi numerosi viaggi in Italia lo aveva visto così spesso, così ben lavorato, così ampiamente utilizzato… Quel caldo colore aranciato, quella gentile porosità, quell’odore di terra umida, così particolare… tutto questo incontrava appieno il suo gusto e il suo desiderio di personalizzare il “suo” Priorato. Quell’edificio avrebbe dovuto parlare di lui, della sua nobile stirpe, delle sue illustri radici, delle gloriose alleanze. Avrebbe dovuto dichiarare una volta di più la doppia identità di quella sua amata terra di confine, di raccordo e di scambio tra mondo padano e mondo transalpino.

La nebbia mattutina si era pian piano dissolta, vaporizzata dai primi tepori solari. Quel velo lattiginoso era progressivamente scomparso consentendo una visione più nitida di quel luogo straordinario. Rilucevano le cornici ogivali delle finestre aperte sul prospetto nord e al primo piano della torre; finestre così simili a quelle del castello sforzesco di Milano… Un tocco voluto di esibita nobiltà, così come nella profusione di araldica affacciata sul cortile “scrigno”.

Stemmi priorali dipinti e in cotto; chiavi di volta conformate nella riconoscibilissima cifra Challant, sia nella loggia al pianterreno che nelle gallerie del piano nobile.

Osservando, dal basso verso l’alto, la facciata nord, si potevano riconoscere, in sequenza: lo stemma Challant completo, col ceffo di cinghiale, le ali di basilisco (figura mitologica simile ad un draghetto il cui nome richiama sovranità unita all’immortalità, anche noto come “re dei serpenti”) e le due colombe con le pergamene srotolate (filatteri), quindi lo stemma di casa Savoia con lo scudo torneario sormontato dal ceffo di leone alato e il motto “FERT”, e infine, più in alto, lo stemma del Papato con le due chiavi incrociate e la mitra.

L’altra facciata riportava, ai lati di una grande finestra del primo piano, lo stemma di Giorgio col bastone priorale seguito da quello del suo predecessore (e ora vicario) Humbert Angley.

Al pianterreno le radici di Giorgio di Challant: lo stemma Challant-Varey affiancato a quello relativo all’alleanza matrimoniale con i nobili De La Palud, la famiglia di sua madre Anne.

La sua storia era tutta lì. Le sue ambizioni, i suoi progetti, la sua potente personalità erano lì, in quel cortile rosso di cotto e acceso di colori sgargianti come il giallo ocra, il verde, l’azzurro… quei colori non sarebbero sopravvissuti all’impietoso scorrere del tempo, ma tutto il resto sì, e sarebbe forse diventato ancora più straordinario.

Quei nuovi volumi erano un potente biglietto da visita, portavano la firma di Giorgio di Challant.

E questo era “solo” l’esterno. Una volta entrati nell’edificio e raggiunta la galleria del secondo piano esposta a nord, si sarebbe rimasti letteralmente abbagliati dagli accesi cromatismi e dalle raffinate scene affrescate nella cappella.

Una pietra preziosa avrebbe brillato di meno. Le Petit Paradis: intimo e raccolto, ma non per questo meno raffinato e pregevole, luogo di meditazione e preghiera. Ma anche luogo di autocelebrazione ed espressione di ideali cortesi.

Sotto un cielo blu cobalto punteggiato da piccole stelle d’oro, sul fondo della stanza risplende una magnifica Madonna in trono, avvolta da preziose vesti damascate bordate d’oro e incoronata da un grande diadema tempestato di pietre preziose. Il delicato incarnato è ravvivato dal rosa delle guance ed esaltato dai lunghi capelli scuri. Sulle sue ginocchia siede il Bambino Gesù, nudo, con in mano il globo crociato. Entrambi guardano verso il nobile Giorgio inginocchiato che, a sua volta, rivolge lo sguardo verso di loro, in preghiera, vestito di porpora. Nessuno saprà mai che in quella dolce ma aristocratica Madonna bruna potrebbe forse celarsi il ricordo di sua madre Anne De La Palud.

In effetti corre una certa aria di famiglia tra i due, anzi tra i tre perché del Bambino il priore ha gli stessi vivi occhi chiari che, insieme a quei capelli castani rafforzano, per così dire, il muto ma intenso dialogo che sembra persino andare oltre la preghiera e la devozione.

Rivolgendo poi lo sguardo verso le due lunette della parete meridionale si riconoscerà il santo protettore ed eponimo del nobile priore. San Giorgio, prode cavaliere difensore dei deboli e difensore della fede. Rappresentante dei valori cavallereschi, San Giorgio (morto martire agli inizi del IV secolo d.C.) fu adottato dai Crociati come loro patrono.

Oniriche città murate e turrite si ergono a dominio di una spoglia e lunare campagna; uno stagno “grande quanto il mare” ospita il drago, temibile bestia pestifera affamata di giovani vite umane; la principessa, figlia del sovrano del luogo e vittima designata: esile, diafana ed elegante, cerca persino di fermare l’impeto di Giorgio affinché non muoia insieme a lei, divorato dal mostro. Ma San Giorgio, protetto a sua volta dalla Croce, incede coraggioso ed uccide la bestia. La Fede cristiana che uccide il Male, il demonio.

Conseguita questa vittoria, San Giorgio riesce a convertire al Cristianesimo tutta la popolazione ed il re del luogo (si diceva ben 20.000 persone!), scena raffigurata nella lunetta accanto.

Il nobile priore volle così omaggiare il suo santo protettore e contemporaneamente se stesso celebrando i suoi valori e la sua etica. Un nobile impavido, armato di solida fede e di grandi ideali.

Sul lato opposto, ai lati della finestra, i due titolari della Collegiata: San Pietro e Sant’Orso, quest’ultimo col bastone diaconale così come rappresentato anche sul capitello del chiostro a lui dedicato. Segue la scena dell’Annunciazione sorvegliata, al di sopra della finestra in posizione centrale, da Dio Padre.

Infine, la parete d’ingresso dove, accanto alla porta, si trova la Maddalena penitente, inginocchiata accanto al suo eremo roccioso, completamente nuda, vestita solo dei suoi lunghissimi capelli biondi. Una scelta assai particolare questa…

La Maddalena, controversa figura di donna. Ma chi si cela dietro quella misteriosa figura femminile? Una peccatrice, certo… ma forse non è tutto qui. Raffigurata a lato di quell’antro oscuro, di quella grotta aperta nella roccia, lei, così diafana e luminosa nonostante il suo essere macchiata dal peccato… potrebbe persino ricordare una dea pagana! Vicino ad un ingresso al sottosuolo, a richiamare antichissimi e forse mai del tutto sopiti culti pre-cristiani devoti alla Madre terra, a perdute dee della fertilità, a quel femminino sacro tanto seducente e ammaliante e per questo strenuamente combattuto e represso.

Qui nella cappella il priore Giorgio volle contrapporre una Maddalena nuda e sola, lontana tra le rocce, ad una Madonna sfarzosa e rilucente davanti alla quale lui stesso si inginocchia, seppur con uguali dimensioni. Una giovane donna bionda, avvolta nella sua chioma, additata comunemente come meretrice, qui trattata come una sorta di antica divinità della natura o come un’insolita ed emblematica “Eva” primogenitrice, un etereo ed ancestrale femminino divino contrapposto fortemente ad una Madonna, sempre giovane ma madre: bruna, luminosa, aristocratica.

Che vi sia una sorta di dichiarazione d’intenti? Io voglio combattere le ombre pagane; voglio che quelle divinità ritornino per sempre negli antri dai quali gli uomini volevano farle uscire. Combatterò, come San Giorgio, nel nome di Maria.

“Chissà” – pensava il nobile Giorgio – “chissà se mai qualcuno si accorgerà che l’unica donna mora in questo oratorio è la Madonna… mia madre…”.

Assorto in preghiera Giorgio vedeva quel volto sempre più splendente, sempre più vicino, vivo, palpitante… finché credette di avere un’allucinazione: la Madonna si accese di un fremito di vita. Il divin Bambino prese a muoversi su quelle ginocchia materne, a sorridere… sì, ne era certo.. entrambi gli stavano sorridendo. La Madonna tese una mano verso di lui; “Giorgio”, quel nome sembrò quasi un sospiro, un alito di vento, una carezza dell’anima… “Giorgio, sei un grande uomo e saprai cambiare il mondo. Il tuo nome verrà ricordato nei secoli a venire. Io ti sono accanto”.

La voce, quella voce… era proprio la voce di sua madre Anne. Giorgio non poteva credere a quel che stava accadendo, l’emozione era illogica, irrazionale, incontenibile, inspiegabile. Il cuore accelerò il suo battito. Ad un tratto la vista gli si offuscò e quell’immagine divenne evanescente. Tutto intorno a lui si muoveva… All’improvviso si ritrovò nella navata centrale della chiesa Collegiata, ma era disorientato da elementi che non riconosceva.

Gli apparve di fronte una sagoma di donna luminosa, ma stavolta non era Maria. La sagoma brillava di una luce lunare, fredda, intermittente. Piano piano prese maggiore consistenza… pallida, esile, diafana, bionda. I lunghi capelli le svolazzavano intorno al corpo creando una strana aureola; poi la giovane donna allargò le braccia, quasi dovesse spiccare il volo, balzò verso l’alto, al di sopra del presbiterio. Improvvisamente, in un bagliore indescrivibile, si accartocciò su stessa, divenne un bozzolo racchiuso nei capelli.

Quando la luce sparì, Giorgio vide una statua in pietra ai piedi di un Crocifisso, entrambi come sospesi a mezz’aria. Quella statua raffigurava una donna penitente dalla chioma inconfondibile; ma certo, era lei, la Maddalena! Eppure quella statua lui non l’aveva mai vista, non era a conoscenza della sua esistenza… chi l’aveva richiesta? Chi l’aveva realizzata? Era così insolita, diversa dalle statue che era abituato a vedere… E quel Crocifisso? Anche di quello non aveva memoria… Sì, era la chiesa di Sant’Orso, eppure era diversa…

Tutto riprese a girare, sempre più vorticosamente, finché…

Nel suo letto il nobile ed anziano priore si svegliò di soprassalto. Era stato un sogno. Il Priorato, Aosta, Sant’Orso… quei luoghi a lui così cari; quei luoghi per lui così emblematici, unici, speciali. Luoghi che, tuttavia, continuavano ad essere permeati da una sacralità antica e pervasiva, difficile da eliminare del tutto. Li aveva rivisti e rivissuti in sogno, sotto lo sguardo gentile di quella straordinaria Madonna bruna. 

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“Zio Giorgio! Zio! Dai, vieni a giocare con noi!!”, “Zio, zio… guarda! Guarda come salto in alto adesso!”… Eh, sì, Giorgio ricordava assai nitidamente quelle voci allegre e le risate argentine dei suoi adorati “nipotini” (in realtà cugini di secondo grado, ma era più semplice così).

I piccoli Philibert, Jacques, Charles e Louise, figli del cugino Louis e a lui affidati, erano la sua speranza, rappresentavano il futuro suo e dell’intera casata Challant. Quanto amavano giocare e rincorrersi nel cortile e nel giardino del castello di Issogne…

Già, Issogne… volendo quasi parafrasare questo nome: “il sogno”!

Un sogno fattosi realtà per il nobile priore. E certo non poteva immaginare che, a distanza di secoli, gli stessi abitanti del paesello intorno alla dimora lo avrebbero proprio chiamato così: “il castello dei sogni!”.

Sin dalla prima volta in cui aveva visto l’antica, ormai obsoleta, casaforte medievale fatta erigere dall’antenato Ibleto, signore di Verrès, sui resti di una ancora precedente casaforte di proprietà vescovile, aveva capito le potenzialità di quella dimora circondata da prati, non lontana dal fiume e dirimpettaia dell’avita fortezza di Verrès.

Morto il cugino Louis, padre dei suoi “nipotini”, Giorgio si impegnò al massimo per ottenere una dimora di raffinato gusto aristocratico, al passo coi tempi e con le eleganti corti padane da lui visitate in occasione dei suoi frequenti viaggi. Ogni parete, ogni stanza, ogni loggiato doveva esprimere l’elevata cultura, le ambizioni, i valori della sua dinastia.

Come in un potente abbraccio denso di significato, il cortile era avvolto su tre lati da pareti interamente rivestite da affreschi il cui insieme rispondeva al nome di Miroir pour les enfants de Challant. Quelle pareti, come un efficace libro di storia, avrebbero perennemente raccontato agli eredi Challant, quali fossero le loro nobili origini, le loro radici. E, non in ultimo, a quale importante compito fossero chiamati mantenendo sempre alto il nome di questa nobile famiglia.

Era tutto, infatti, un trionfo di araldica, un fitto e coloratissimo susseguirsi di stemmi e blasoni rappresentanti, oltre ai numerosi rami della casata, i tanti matrimoni e le proficue alleanze.

Al centro del cortile, una fontana. Ma non una fontana qualsiasi. Fu questo il dono che lui volle fare all’amato nipote Philibert nel giorno delle sue nozze con Louise d’Aarberg. Un albero, un ibrido tra quercia e melograno, simboleggiante la robustezza e la solidità del casato unita alla fecondità e al proliferare di eredi che si auspicava nei secoli a venire. La quercia, simbolo di forza eterna. Il melograno, frutto già sacro alla dea Giunone, simbolo dell’utero femminile ricco di ovuli fecondi; simbolo di matrimoni forieri di nuovi giovani virgulti.

Sui rami, qua e là dissimulati, dei draghetti (che piacevano così tanto ai piccoli!). O si trattava forse di basilischi, lo stesso animale mitologico presente nel suo stemma personale? Figure animali chiamate ad allontanare il male e l’invidia dei nemici, rappresentando al contempo l’immortalità di questa stirpe (quasi) regale.

E, per finire, la forma della vasca: un ottagono. Come fosse un fonte battesimale, simbolo di vita eterna, di rinnovamento e di rinascita nel segno della purezza dell’acqua.

E poi, il giardino. Uno scrigno prezioso. Piccolo, ma delizioso giardino all’italiana, con aiuole ben curate e geometriche, ricche di essenze variopinte e profumate, di fiori ed erbe aromatiche. Il tutto composto in un ricercato hortus conclusus cinto da mura decorate da affreschi con figure di saggi e di eroi evocanti le virtù della tradizione antica.

Dal suo “Torione” pinerolese, il nobile Giorgio, decisamente affaticato, scrutava l’orizzonte avvolto nelle ombre violacee del vespro. Respirava a pieni polmoni l’aria profumata di erba e terra proveniente dalla campagna circostante. Chiudeva i grandi occhi azzurri e si perdeva nei ricordi.

Issogne, il castello dei suoi sogni, della sua famiglia. Ricordava il fervere dei lavori, l’andirivieni costante e frenetico della maestranze, la curiosità dei villici e dei locali che, appena potevano, curiosavano fugaci oltre il grande portone d’accesso aperto nella torre orientale, proprio con affaccio sulla piccola ma vivace piazza del villaggio.

Ricordava i frequenti sopralluoghi al cantiere, i consigli ai capimastri, gli scambi di idee e di proposte con artisti e botteghe; e quel “maitre Colin” così talentuoso e creativo! Gli era piaciuto da subito!

Il bel portico al pianterreno, illuminato dalla luce del vicino cortile, doveva rappresentare il trionfo della pace e del “buon governo”: i soldati a riposo, le botteghe ricche di mercanzie, le donne al mercato, l’abbondanza… E, su tutto, raffigurato al centro delle volte a crociera, lo stemma degli Challant.

Le cucine, gli ambienti di servizio, la sala da pranzo…E come non ricordare quella gustosa e profumata zuppa di pane, cavolo e formaggio che preparava Enrietta, la sua cuoca preferita?!

Ma, innanzitutto, la “Salle Basse”, o “Sala di Giustizia”, che Giorgio volle affrescata con un finto colonnato in cui si alternano colonne lignee, di cristallo e di alabastro, arricchito da stoffe preziose e affacciato su paesaggi di gusto nordico con graziosi villaggetti e città con curiose case a graticcio, una miriade di personaggi occupati nelle più varie attività, stormi di uccelli in volo e insolite scene di commercio fluviale, da un lato, su uno scorcio dominato da una fortezza simile a quella di Verrès e dalla Città di Gerusalemme, sull’altro.

Gli veniva ancora da sorridere se ripensava all’espressione dei piccoli quando videro le navi dipinte sulla parete…

Sala bassa (L. Acerbi)

non ne avevano ancora mai viste davvero e Giorgio augurò loro di viaggiare molto e conoscere il mondo quanto più possibile, per arricchire la loro cultura e, soprattutto, per aprire le loro menti. Per quanto gli era possibile, compatibilmente coi suoi numerosi impegni. voleva essere lui ad istruire i piccoli, personalmente! In sua assenza si era premurato di individuare dei precettori referenziati e di alto livello. Solo e sempre il meglio per i discendenti di casa Challant!

Sulla parete di fondo, di fronte agli scranni dei giudici, una scena di soggetto mitologico: il giovane principe troiano Paride al cospetto di tre dee: Athena, Afrodite e Hera. “Molti penseranno immediatamente al famoso giudizio”, pensò tra sè il colto priore, “ma c’è dell’altro! Chissà se rifletteranno sul fatto che Paride, in questa scena, sta…dormendo! Ebbene, sì! E’ un sogno! Un monito, un avvertimento da non trascurare… pena la rovina!”.

Ma fu quella giovanile e istintiva intemperanza che, ahimé, diede inizio alla decennale ed epica guerra cantata da Omero.

Quanto occorre ponderare ogni singola scelta, anche quella apparentemente più scontata… quanta attenzione per saper correttamente distinguere tra verità e calunnia, tra realtà e finzione, divincolandosi tra insidiose menzogne costruite ad arte e falsi adulatori…

Già, quante volte nel corso della sua vita aveva dovuto stare in guardia, diffidare, soppesare, valutare le persone che gli stavano davanti e le parole che dicevano… Spesso le apparenze erano ingannevoli e beffarde. Spesso persino chi ritenevi amici si rivelavano infidi serpenti. Oppure poteva anche capitare il contrario: persone cui non avresti attribuito la minima fiducia che riuscivano a sorprenderti con gesti ed azioni encomiabili, e magari senza pretendere nulla in cambio!

E poi sorrise ancora pensando all’espressione del piccolo Philibert, il maggiore dei “nipotini” quando lo condusse a vedere il suo oratorio al secondo piano del castello, immediatamente al termine dei lavori. Ancora si sentiva l’odore dei pigmenti stesi di fresco. “Oh zio, un piccolo smeraldo istoriato!”, esclamò Philibert, abbagliato dal verde acceso che dominava in quel piccolo ambiente. “Ma quello sei tu! Zio, ma tu sei meglio dal vivo!!”.

Rise di gusto il nobile Giorgio e ringraziò per il bel complimento! “Qui nel dipinto sembri più vecchio…”, aggiunse il nipote. Giorgio allora gli illustrò le scene raffigurate (Crocifissione, Deposizione e Compianto), gli insegnò a riconoscere i santi osservando quali particolari oggetti recassero o quali altre creature eventualmente li accompagnassero.

Philibert rimase colpito da Santa Margherita e dal drago che l’aveva inghiottita ma dal quale lei, con l’aiuto di Dio, era riuscita ad uscire viva e vegeta! Giorgio nutriva, inoltre, una particolare attenzione verso la figura della Maddalena e qui, nel suo oratorio privato, ben la si riconosceva ai piedi della croce, ammantata dai suoi lunghi capelli biondi.

Una figura decisamente intensa, ricca di sfumature; una donna in cui peccato e redenzione, lussuria e santità si mescolavano misteriosamente; una peccatrice che, tuttavia, si era guadagnata un posto speciale nella vita e nel cuore di nostro Signore Gesù. Una figura da molti ecclesiastici rifiutata, additata, quasi temuta o utilizzata quale esempio di peccato; eppure… eccola, affranta, distrutta da un dolore senza limite, piangere la morte terrena del figlio di Dio. Nella Maddalena, Giorgio vedeva l’umanità intera.

E quella volta in cui, già anziano, era tornato ad Issogne per assistere alla posa del magnifico altare della cappella del primo piano. Una vera meraviglia. Affacciandosi dalla penombra del viret, attraverso il gioco di bussole e porte, rimase immediatamente colpito dal bagliore dorato del polittico in stile borgognone al centro del quale spiccava la scena della Natività. E le ante, così come gli affreschi alle pareti, sempre opera di quel maître Colin che già aveva illuminato coi suoi affreschi magistrali il porticato del pianterreno.

Che atmosfera, quell’anno stesso, la messa di Natale, in presenza dei suoi famigliari, davanti a quel gioiello tardogotico, risplendente nella sua solenne sacralità.

Che atmosfera, quell’anno stesso, la messa di Natale, in presenza dei suoi famigliari, davanti a quel gioiello tardogotico, risplendente nella sua solenne sacralità.

Perso nei ricordi e nei pensieri, si accorse quasi per caso che le ultime luci del tramonto erano ormai svanite, lasciando il posto alla notte, dominata da una luna incredibilmente grande e vicina, così luminosa da oscurare le stelle. Una notte terribilmente fredda, ammantata da uno strano silenzio… tutto sembrava ovattato, come se nevicasse… E, in effetti, nel pomeriggio aveva nevicato. La campagna pinerolese stava vestendo gli abiti invernali e risplendeva in quella fredda notte di fine dicembre. I rumori erano così vaghi, lontani…

Il nobile priore pensò fosse giunto il momento di ritirarsi in casa e andare a riposare.

Si stese sotto una coltre di coperte che pareva pesare come un cumulo di pietre. Si girava e si rigirava, ma i pensieri si affollavano nella mente. Nulla da fare. Proprio non c’era verso di prendere sonno.

Si alzò nuovamente. Gli pareva di soffocare; uscì nel loggiato e si sedette. La sua intensa vita continuava a passargli davanti agli occhi: luoghi, volti, gesti, momenti…

Si ricordò che doveva terminare il suo testamento. Si diresse allo scrittoio e lo estrasse da un cofanetto a doppio fondo nel quale lo aveva racchiuso. Lo lesse e lo rilesse più volte. Chissà se quelle sue volontà avrebbero trovato le orecchie giuste, ma soprattutto la mente e l’animo davvero capaci di ascoltarle e metterle in pratica pensando al bene di tutti e non al proprio tornaconto. Chissà se i suoi eredi sarebbero stati in grado di dare giusto seguito a quelle parole lasciate per iscritto. Prese il documento, dell’inchiostro, e tornò nel loggiato, il suo posto preferito. Quasi bastava la luce della dea Diana per accompagnare la sua scrittura…

Tutto ad un tratto ebbe come un sussulto; la sensazione come di un violento pugno allo stomaco, un dolore lancinante lo attanagliò, una stretta feroce gli serrò la gola. Il cuore prese a battere all’impazzata. Provò a chiamare soccorso, ma la voce non usciva. Le gambe non reggevano più, si aggrappò con tutta la forza che aveva alla balaustra del portico, cercando aria, cercando sollievo… Tutto intorno a lui girava vorticosamente. Perse l’equilibrio e, cadendo, urtò sedia e tavolino che caddero a loro volta; il rumore attirò un servitore dal pianterreno. Costui si precipitò in casa chiamando a gran voce le inservienti e il cerusico, che in quei giorni soggiornava al “Torione” in modo da essere pronto ad ogni evenienza.

Trovarono il nobile Giorgio in preda al delirio, madido di sudore, agonizzante… Stringeva forte nelle mani un foglio; non c’era verso di prenderglielo… Lo portarono di peso fin sul suo letto. Il priore a stento respirava e a stento riusciva ad aprire gli occhi.

“Anne! Anne, presto! Corri! Portami acqua calda e biancospino!”. Udendo quel nome, a lui così caro, il priore aprì gli occhi. Il suo sguardo incrociò il giovane volto di una cameriera, di nome Anne, accorsa per prestare aiuto con quanto richiesto dal cerusico.

Il nome e… quel volto, la pelle chiara, i grandi occhi azzurri, i lunghi capelli scuri… “Madre…madre!”, ansimò il priore, “siete qui!”. Tutti si guardarono, attoniti… stava perdendo il senno!

“Madre, Madonna del Petit Paradis“… Le espressioni dei presenti si fecero ancor più interrogative. “Tenete, solo voi potete prendervi cura di quanto scritto. Tenetelo voi, ma, vi prego, non datelo a nessuno! Tenetelo finché non sarete ad Aosta, in quel sacro luogo a me caro… Portate questo scritto fino lì e, quando sarete lì, riponetelo, in un luogo sicuro. Chi verrà, saprà. Ma solo chi avrà la capacità di capire, lo troverà. Qui ho scritto le mie volontà; qui ho raccontato la mia vita. Qui, infine, ho vergato le mie conoscenze…”.

Pose quindi il rotolo nelle mani della giovane servitrice, che, non capendo, si guardò intorno cercando aiuto e supporto. Il cerusico, interpretando le parole del nobile Giorgio, non solo suo illustre paziente, ma decennale amico, chiuse con la cera di una candela quel rotolo e lo timbrò col sigillo riportato sull’anello del priore che, per quanto gli era ancora consentito, riuscì persino ad abbozzare un sorriso, quasi per ringraziarlo.

La notte era alta. Ma, all’improvviso, quella grande luna che tutto illuminava del suo raggio d’argento, scomparve. Il buio più fitto avvolse la campagna. Non si sa da dove né come, ma una densa coltre di nubi aveva occultato la dea della notte. Il silenzio, se possibile, era ancora più intenso. Una folata di vento entrò furtiva dalla finestra; le candele si spensero, tutte contemporaneamente. Era il 30 dicembre 1509. Il nobile Giorgio esalò l’ultimo respiro.

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Il giorno seguente il cerusico accompagnò la giovane cameriera, designata ambasciatrice dal priore, fino al luogo sacro a lui caro. Spiegò al nuovo Priore l’accaduto e, nonostante un iniziale sospetto, le venne consentito di accedere, accompagnata dal cerusico, fino alla soglia del Petit Paradis.

Effettivamente, per quanto fosse semianalfabeta e assai timorosa, la giovane ancella si accorse immediatamente di una straordinaria somiglianza; una somiglianza che la fece sentire “accolta”, ancor più orgogliosa di essere stata scelta quale depositaria di una tale importante missione.

Anne“, la chiamò il cerusico, “deposita il documento nel luogo che a tuo avviso può ritenersi il più adatto e sicuro”. La giovane, che oltretutto portava lo stesso nome della madre di Giorgio di Challant, si guardò attentamente intorno.

Notò una sorta di piccola nicchia ai piedi dell’affresco raffigurante la Madonna in trono. Una specie di sportellino quasi mimetizzato dall’ingombro della grande mensa d’altare. Lo indicò e guardò il cerusico, chiedendo un’ultima volta conferma e autorizzazione. Da lontano, il Priore in carica sorvegliava il tutto; sapeva cos’era successo e si fidava del noto e sapiente cerusico, uomo di fiducia del nobile Giorgio. Sorvegliava ma in modo discreto; tutto doveva svolgersi così come Giorgio aveva indicato prima di morire.

La fanciulla, ora più sicura, rivolse un’ultima volta gli occhi a Maria e all’allora giovane Giorgio di Challant. Aprì lo sportellino, vide che celava un doppiofondo ricavato ancor più all’interno della parete: lì depose il documento. Una volta richiusolo con grande accuratezza, si fermò a pregare il buon Dio chiedendo la sua protezione.

Le ultime volontà del nobile Giorgio erano dove lui voleva che fossero:nel luogo sacro a lui così caro.

Lì sarebbe rimasto per molto tempo. Nessuno proferì mai parola in proposito né fu mai messo nulla per iscritto.

Ancora oggi ci si domanda che fine possa aver fatto quel testamento…

La dama in blu.

Immobile. Silenziosa. Se ne stava lì, in piedi, davanti a quel feretro avvolto da fiori gialli troppo vistosi per lei. Uno squarcio di colore in quella giornata fredda e piovosa in cui a suo marito, l’unico uomo che aveva conosciuto, veniva tributato l’ultimo saluto. Un graffio colorato che la infastidiva, che non riusciva nemmeno a guardare.

Se ne stava lì Giuseppina, impietrita da un sentimento strano e confuso che le impediva di muoversi e parlare. Fissava la pioggia che cadeva battente su quelle persone vestite di nero, apparentemente tutte uguali; persone che sembrava si aspettassero qualcosa da lei. Un qualcosa che però non arrivava né sarebbe mai arrivato. Non era abituata a lasciar trasparire ciò che provava. Teneva tutto ben chiuso dentro il suo cuore. Doveva difendersi, e aveva imparato a farlo.

Quello stesso matrimonio era stata una forma di difesa, una speranza di vivere meglio e, soprattutto, di far vivere più tranquillamente la sua famiglia. Quell’uomo, più anziano di lei, provvedeva a sua madre e faceva studiare i suoi fratelli. E questo le bastava.

Forse non era mai stata davvero innamorata di quel marito che, sì, le voleva bene, ma non sapeva renderla veramente felice.

In realtà neppure lei sapeva cosa avrebbe potuto renderla felice. Forse non conosceva neppure il reale e profondo significato di quella parola, di quello stato d’animo.

Era ancora giovane Giuseppina. Aveva solo 25 anni, anche se forse ne dimostrava qualcuno di troppo. Un volto da bambina, tondo, con grandi occhi scuri, ma velato da un misto di fermezza e malinconia. Un incarnato diafano esaltato da un’abbondante chioma corvina, riccia e ribelle, che lei si sforzava di stringere e comprimere sotto la cuffia. Ecco, forse quella chioma rappresentava la sua vera indole, il suo carattere, quella sua natura più intima e passionale, che lei tenacemente nascondeva sotto un aspetto austero e distaccato.

Non era mai stata davvero bella, Giuseppina. Eppure, a detta di molti, emanava uno strano fascino misterioso, forse dovuto ai suoi silenzi e a quel modo di guardare che pareva rovistare l’animo mettendo a nudo le persone.

Zsigmond Vajda (1860-1931), La Dame en bleu dans un tourbillon de poussière

Giuseppina, appena venticiquenne, e già vedova.

Non aveva avuto una vita facile. Primogenita di cinque figli, da subito aveva dovuto darsi da fare per accudire i più piccoli e la madre, spesso costretta a letto da una salute cagionevole. Quanto al padre, beh… un bel giorno non era più tornato. C’era chi diceva fosse morto, durante uno dei suoi frequenti viaggi alla ricerca di un lavoro oltre le montagne. Ma in molti sostenevano che si fosse rifatto una vita lontano da lì, da quel paesello sonnacchioso dove tutti si conoscevano, nel bene e nel male.

E così Giuseppina aveva dovuto fare da capo famiglia, badando a tutti e lavorando come poteva. Una situazione non certo semplice che, però, non le aveva impedito di studiare. Sapeva leggere, scrivere e fare di conto. Inoltre era molto dotata nel ricamo, nel disegno e nel canto. Aveva imparato dalle suore, quand’era piccola.

Aveva le mani d’oro Giuseppina. E una voce melodiosa. Cantava sempre, ogni volta che poteva! L’importante era che fosse da sola. Non voleva che qualcuno la sentisse; era come se cantando si lasciasse andare, scoprendo il suo animo, le sue emozioni e le sue fragilità. E di fragilità lei non ne poteva avere. Non poteva permettersele.

Ed eccola lì, Giuseppina, a salutare non solo un uomo, ma un capitolo intero della sua ancor breve vita. In cuor suo già sapeva che non avrebbe fatto la vedova. Certo, avrebbe rispettato il lutto e il ricordo. Ma lei voleva vivere. Voleva trovarsi un’occupazione, magari ritagliarsi un minimo di spazio tutto per lei… chissà … E poi era curiosa, avida di sapere. Avrebbe tanto voluto viaggiare. Ma erano solo sogni … sebbene, in cuor suo, sperava non fosse così!

Quella pioggia le stava lavando via molte paure instillandole, contemporaneamente, il coraggio di guardare avanti, il coraggio di mettere finalmente al centro se stessa, ritrovandosi e volendosi un po’ di bene.

Il primo anno di vedovanza trascorse via più veloce del previsto. Ciò che non sopportava era l’essere sempre sotto gli occhi di tutti, quasi che la gente non aspettasse altro che coglierla in fallo per dare un po’ di sapore a quella pigra quotidianità scandita dal lavoro nei campi e dal rintocco delle campane.

Quel giorno, allo scadere del primo anno dalla morte del marito, si recò sulla sua tomba e, nel sistemare un mazzo di fiori, promise a se stessa che, da quel momento, non avrebbe più indossato gli abiti neri. Li voleva blu. In tutte le sfumature possibili. Giuseppina adorava questa gamma di colori: le dava pace e la aiutava a sognare e pensare. La aiutava a rinascere.

Andò a messa quella domenica. Il suo abito blu fece voltare tutti. Sguardi severi, sorpresi, esterrefatti. Di certo quel giorno le vecchie donne del paese avrebbero avuto di che parlare. Ma non le importava. Lei sapeva di non dover rendere conto a nessuno.

Alla fine della celebrazione, il sacerdote la chiamò in sacrestia. Lui aveva capito perfettamente la ragione di quel blu. Giuseppina aveva solo 26 anni e, di fatto, era come se non avesse mai vissuto una vita sua, ma solo quella degli altri.

“Senti figliola”, le disse il sacerdote, “ho saputo che al castello cercano una brava governante. La signora Maria Teresa di Challant necessita di una dama personale che si prenda cura di lei e la aiuti nel sovraintendere alla gestione della casa. Tu te la sentiresti? Io ti conosco sin da piccola e so bene con quale dedizione e discrezione tu ti sia sempre prodigata per la tua famiglia. Pensaci. Se vorrai, sarò io stesso ad accompagnarti e a presentare le tue referenze”.

Sul momento Giuseppina non seppe cosa dire, se non un flebile “grazie”. Tornò a casa lentamente, assaporando la carezza delicata del sole primaverile e il forte profumo della terra che si riscalda dopo lo sciogliersi della neve.

Ecco, forse anche lei era come quella terra. La neve si era sciolta e lei aveva voglia di rinascere. Quella proposta non poteva essere un caso. Di fatto, nulla accadeva per caso. Non esisteva il “caso” gratuito.

Auguste Toulmouche, La lettre (1879)

Tornò indietro quasi di corsa e, cosa insolita per il suo abituale comportamento, quasi irruppe in sacrestia per dire che avrebbe accettato.

“Bene Giuseppina, domani andremo al castello!”, esclamò il sacerdote con evidente soddisfazione.

Dalla finestra della sua casa, Giuseppina vedeva la possente sagoma turrita di quel palazzo che l’aveva sempre affascinata, ma in cui non aveva mai avuto l’occasione di entrare. Quel momento era finalmente giunto. In paese tutti nutrivano profondo rispetto e a tratti un reverenziale timore nei confronti di Madame de Challant. Algida e austera, di rado sorrideva in pubblico. Si recava in chiesa ogni domenica; sedeva nel banco di famiglia, sempre molto elegante ma mai sfarzosa. Una donna alta, composta, dalla forte mascella quadrata e lo sguardo fiero. Una nobildonna di antica famiglia pienamente consapevole dell’importanza che i suoi natali le conferivano. Lei era una Challant! L’ultima.

In molte, tra le giovani che aspiravano al ruolo di sua governante personale, erano state costrette ad andarsene. Madame era molto esigente, attenta, severa. Occorreva impegnarsi molto per accontentarla e raramente dava soddisfazione per il buon operato. Il minimo errore, la minima dimenticanza, potevano risultare fatali.

Ed eccola, Giuseppina, mentre saliva l’ordinata strada lastricata che conduceva all’ingresso. Il parco era davvero grande e molto ben curato con una fontana circolare al centro. Una doppia scalinata permetteva di raggiungere il portone principale: “che meraviglia”, pensò emozionata. Un’ampia loggia decorata da sculture e stucchi incorniciava quel portone che aveva sempre solo intravisto da lontano, immaginando il mondo al suo interno, così diverso dal suo… Poco prima di entrare, una stranezza attirò la sua attenzione: l’orologio in facciata, che lei aveva sempre creduto reale, in realtà era dipinto: un inganno per l’occhio. Segnava le undici e dieci. Per quell’orologio sarebbero sempre state le undici e dieci. Forse anche un inganno del tempo? Chissà… ma non ebbe modo di soffermarvisi oltre.

E adesso, invece, Giuseppina era lì in quel grande salone, ad attendere Madame accompagnata dal gentile prelato, l’unica persona cui la nobildonna mostrasse un minimo di confidenza.

“Padre Antoine, che onore la vostra gradita visita”. La voce forte e impostata di Madame de Challant riempì il salone. Giuseppina sentiva l’agitazione crescere ogni secondo di più; si sentiva piccola al cospetto di quella potente signora che la guardava severa dall’alto in basso. Ma, come sempre, si sforzava di non lasciar trapelare nulla. Composta si inginocchiò nella maniera più elegante possibile e, con le mani in grembo, accennando un rapido inchino, espresse un saluto con un filo di voce. Ma non tenne gli occhi bassi. Anzi, fissava con una sorta di educata fierezza quella donna importante.

Dal film Jane Eyre di Franco Zeffirelli (1996)

Uno sguardo che certo non sfuggì a Madame de Challant. “Bene padre Antoine. Quindi è costei che avete scelto. Può restare per il momento. Mi renderò conto subito delle sue effettive capacità e qualità”. Non degnò Giuseppina nemmeno di una parola di benvenuto; era come se non ci fosse. Incaricò una cameriera di accompagnarla nella sua stanza e mostrarle le zone della casa in cui le sarebbe stato permesso di accedere. Salutò cordialmente padre Antoine e se ne andò.

La stanza al penultimo piano era piccola ed essenziale, ma pulita e decorosa. Giuseppina guardò fuori dalla finestra e si sentì pervasa da un insolito senso di leggerezza nel lasciar correre lo sguardo su quelle dolci colline e sulle cime innevate. “Farò del mio meglio! Madame de Challant presto non potrà più fare a meno di me!”, promise a se stessa.

I giorni presero a correre ad una velocità inaspettata. Giuseppina aveva presto imparato a fronteggiare gli altalenanti stati d’animo di Madame, le sue improvvise e molteplici richieste, gli ordini perentori e quella sua particolare fredda superiorità che le attirava l’antipatia di tutti ad eccezione dei suoi pari e di quelli che ambivano a doni, concessioni e privilegi.

Vivendo a stretto contatto con lei, si rese conto, col passare dei mesi, di quanto in realtà fosse sola, di quanto le mancassero gli affetti, in particolare quello del suo unico figlio, Vittorio, quasi sempre lontano per la vita militare o per altri suoi interessi. Di fatto Madame era stata costretta a rivestirsi di una spessa corazza per difendersi da quanti le offrivano un falso e interessato appoggio o un’infida amicizia. Per questo metteva tutti alla prova e, sempre per questo, faceva in modo che fossero ben poche le persone a lei vicine. Poche e sempre le stesse.

Tuttavia, dopo quasi un intero anno dalla sua assunzione, pur avendoci provato in molti modi, non era ancora riuscita a mandare via Giuseppina.

“Quella ragazza è decisamente insolita!”, pensava spesso Madame de Challant. “E’ precisa, puntuale, affidabile. Non riesco mai a coglierla in fallo. E dire che all’inizio ero molto titubante… una popolana, oltretutto già sposata e vedova! Invece devo ammettere che è molto garbata, educata e discreta. Non come certe pettegole che mi sono arrivate in casa tempo fa! Buone solo a curiosare e frugare nelle mie cose… Questa Giuseppina è diversa. Sa esprimersi correttamente e senza mai risultare fuori luogo. Non parla molto, anzi… ma ha un modo di guardarmi che dichiara una forte e determinata personalità”.

E così, passati altri mesi, Madame de Challant aveva iniziato ad affezionarsi a quella fanciulla solitaria e pensosa della quale aveva anche avuto modo di scoprire la profonda passione per la lettura e una particolare abilità nel ricamo tanto che non solo le affidò alcuni nuovi abiti da ricevimento che necessitavano di essere rifiniti e impreziositi con pizzi francesi, ma cercava con evidente piacere la sua compagnia nel conversare.

Questa manifestazione di fiducia aveva suscitato curiosità e, purtroppo, anche molte invidie. Più di una volta, infatti, Giuseppina aveva trovato la sua camera a soqquadro o i suoi abiti macchiati e lacerati.

Eppure, nonostante questo, mai si era lamentata né era andata a riferire l’accaduto se non a padre Antoine, con cui spesso si confidava per avere conforto senza arrecare disturbo a Madame e creare scompiglio a palazzo. Sapeva, infatti, quanto la signora odiasse i pettegolezzi e le chiacchiere inopportune.

E fu sempre padre Antoine, un giorno, a riferire il tutto a Madame de Challant che chiedeva maggiori informazioni su questa misteriosa ragazza che aveva acceso il suo interesse.

Da quel momento l’atteggiamento della signora iniziò a cambiare; la sua gentilezza, i toni cortesi e l’evidente predilezione per Giuseppina non furono più un segreto.

“Cara Giuseppina”, esordì Madame quella mattina, “oggi sono profondamente felice! Finalmente, dopo tanto tempo, la prossima settimana mio figlio Vittorio finalmente tornerà a casa e vi resterà per qualche mese. Dovrai aiutarmi a far sì che tutto sia perfetto: dal suo appartamento fino al pranzo! Nessuna sbavatura, mi raccomando!”.

Una luminosa mattina di metà maggio accolse il conte Vittorio. L’intera servitù era schierata all’ingresso. I giardini erano perfetti, meravigliosi: un trionfo di alberi fioriti e aiuole ricolme di rose, le Blanchefleur: una varietà di preziosa rosa antica, bianca screziata di rosa, dai petali carnosi e dal profumo dolce ma persistente. Passeggiare in giardino in quel periodo era come immergersi in un sogno avvolti da una fragranza straordinaria.

Madame indossava il suo abito più bello e, nonostante la non più giovane età, lei stessa splendeva come una delle sue amate rose. E, per la prima volta, Giuseppina, sempre al suo fianco, la vide sorridere ed emozionarsi.

Madame non aveva approvato l’abito scelto dalla ragazza; “Ma insomma, è troppo scuro! Siamo in primavera ed è un giorno di festa! Perché non indossate quello color zafferano? Siete davvero testarda, ma un giorno riuscirò a farvelo indossare!”. Giuseppina, ancora una volta, aveva preferito il suo abito blu. Un blu oltremare lucido e intenso. Un taglio quasi monastico, senza orpelli: ma lei era a suo agio così.

Era molto curiosa di conoscere il conte Vittorio. Su di lui giravano molte voci. Chi diceva che non corresse buon sangue con la madre e che, per questo, preferisse stare lontano per lunghi periodi. Chi giudicava strano il fatto che non avesse mai avuto una fidanzata e che, a quanto pare, non volesse nemmeno sposarsi; cosa che, avendo egli superato i quarant’anni, suscitava dubbi e sospetti più o meno malevoli. Chi ancora affermava che, in realtà, fosse tutta colpa della madre che pretendeva di essere lei a stabilire quando e se sarebbe convolato a nozze e, soprattutto, a decidere con chi. E nessuna sarebbe mai andata bene perché, a detta dei più, nutriva un tale smisurato amore per il figlio che mai gli avrebbe permesso di amare un’altra donna.

Distratta da tutti questi pensieri non si accorse che il conte era già arrivato alla scalinata d’ingresso. Scese dal suo cavallo e si avvicinò alla madre.

Era un uomo molto alto e magro, quasi segaligno. Un volto scarno dai tratti affilati; un naso forse troppo lungo e dei baffi biondi che ombreggiavano due labbra sottili, quasi trasparenti.

Ma ciò che più la colpì furono gli occhi. Due perle allungate di uno strano colore grigio-azzurro, una tinta che tanto le ricordava il marmo cangiante di quelle montagne.

Rimase ammaliata dall’incontrare quello sguardo sfuggente e al tempo stesso penetrante quando lui la guardò per salutarla. Credette di essere arrossita; credette di perdere l’equilibrio. Ma come sempre, nulla di tutto questo trasparì all’esterno.

Il conte, di vent’anni anni più grande di lei, era un uomo schivo e solitario. Amava ritirarsi a leggere, amava l’arte e la musica; soprattutto amava andare a cavallo. Nutriva una sorta di venerazione per questi splendidi animali, in particolare per Horus, il suo prediletto, un magnifico stallone di razza normanna color del grano.

Un nome insolito riferito al dio egizio del sole, figlio di Iside e Osiride, che, si venne poi a sapere, fu scelto dal conte spinto dalla sua passione verso l’antico Egitto, allora in gran voga a Torino.

“Horus è un esemplare meraviglioso”, si vantava spesso con Gaston, lo stalliere del castello, “è elegante, robusto e armonioso allo stesso tempo. Mi raccomando, abbiatene la massima cura!”.

Un pomeriggio, di ritorno da una delle sue lunghe cavalcate, il conte e Giuseppina si trovarono per la prima volta l’uno di fronte all’altra. “Sto cercando mia madre, voi sapete dove si trova?”, le chiese frettoloso. “E’ uscita a fare una passeggiata in carrozza, signore. Ma dovrebbe tornare tra poco”, rispose Giuseppina vagamente intimidita.

Dal film Jane Eyre di Kary Fukunaga (2011)

“Capisco… voi dunque siete la sua nuova dama di compagnia? Come vi chiamate?”. “Oh no, sono solo una governante… mi chiamo Giuseppina” rispose lei in maniera cortese ma apparentemente seccata e frettolosa.

“Giuseppina come?”, insistette Vittorio. “Allegroni. Giuseppina Allegroni”, gli fece eco la giovane fissandolo negli occhi e rendendosi conto in quell’istante di non aver detto Giuseppina Giovane e si sentì in colpa. Quindi si corresse: “Vedova Giovane. Mio marito è morto due anni fa”. Ma ora vi prego di scusarmi, ho molto da fare prima del ritorno di Madame” e, abbozzando il suo abituale veloce inchino, se ne andò.

“Allegroni …”, pensò il conte tra sé e sé, “quindi una popolana! Insolito che mia madre le conceda così grande credito e fiducia. Decisamente una ragazza misteriosa … e già vedova oltretutto!” E si promise che avrebbe cercato di saperne di più.

Dopo cena, seduto davanti al camino con la madre, il conte chiese informazioni su questa nuova giovane governante. La madre lo trafisse con obliquo cipiglio: “E’ una vedova! E’ già stata sposata ed è una semplice ragazza del popolo. Me l’ha raccomandata padre Antoine: è seria, discreta e affidabile. Cerca di non mostrare interesse nei suoi confronti, mi sono spiegata? Non voglio scandali né pettegolezzi, sia chiaro! Ricordati chi sei e da dove vieni Vittorio! Tu meriti ben altro. Anzi, la prossima settimana ho organizzato un grande ricevimento e tra gli invitati credo ci possa essere un’ottima candidata al ruolo di consorte”.

“Madre, per la miseria!”, inveì Vittorio scattando in piedi, “eppure lo sapete che detesto le feste! Fate pure, io non verrò! E non mi interessa la vostra ospite!”.

Non fece in tempo a finire la frase che anche la madre si alzò di scatto dalla poltrona e con aria oltremodo adirata tuonò: “Tu ci sarai! E’ un ordine!” e scomparve nell’ombra della scala.

Credevano di essere soli, invece qualcuno, nell’ombra, aveva assistito alla scena: Giuseppina, in cuor suo e in maniera del tutto irrazionale, gioì per la reazione del conte. Non ve ne era alcun motivo, ma si sentì stranamente euforica e felice sapendo che nessuna fosse ancora padrona del suo cuore.

Giunse così il giorno della festa. Il castello risplendeva di cristalli e broccati. Il salone sembrava uscito da una fiaba e persino il menu della cena era stato studiato nei minimi dettagli. Anche il parco si presentava nella sua veste migliore; nei loggiati erano stati posizionati grandi vasi di terracotta con piante di limone, assai di moda nelle residenze aristocratiche.

Tutta la nobiltà locale era stata invitata, così come molti esponenti dell’aristocrazia torinese e savoiarda. Madame era tesa e nervosa: Vittorio non arrivava. Era oltremodo offensivo non essere presenti ad accogliere invitati così prestigiosi! Aveva ordinato di andare a cercarlo, ma nessuno lo trovava.

Giuseppina chiese il permesso di unirsi alle ricerche. Si recò nelle stalle e, come immaginava, Horus non c’era! Il conte era uscito a cavallo. Attese facendo la spola tra le scuderie e il cancello, ma il conte non arrivò.

Una volta rientrata notò immediatamente l’agitazione di Madame che si impegnava, nonostante tutto, a gestire il ricevimento conversando con gli ospiti e accampando scuse circa l’assenza del figlio.

Non ci fu nulla da fare; il conte non rientrò e il ricevimento si concluse con le più sentite e sofferte scuse di Madame de Challant che si vide costretta a inventare, in seguito, che il figlio era caduto da cavallo in un bosco lontano dal palazzo e che fu soccorso solo il giorno successivo da boscaioli capitati lì per caso.

La primavera finì. L’estate trascorse lenta e pigra finché i colori dell’autunno non cominciarono ad accendere il paesaggio. Giuseppina amava molto quel periodo dell’anno; lo considerava un inno, o piuttosto, un grido di vita che la natura lanciava con la forza e la potenza di quella bellezza infuocata. Una bellezza che non sarebbe durata a lungo ma che, proprio perché breve e fragile, doveva imporsi potente e prepotente negli occhi e nell’anima.

In quei mesi, col suo impegno, la sua precisione e la sua affidabilità, era riuscita a ritagliarsi definitivamente uno spazio prezioso nel cuore di Madame che, piano piano, aveva addirittura iniziato a confidarsi con lei.

Fu così che venne a sapere dei suoi tormenti, delle sue ansie e della forte preoccupazione per quell’unico adoratissimo figlio così solo e sfuggente. Vittorio sin da bambino aveva manifestato un carattere chiuso e ombroso cui si accompagnava una viscerale ammirazione per il padre. Un padre autorevole e carismatico che, a sua volta, lo adorava pur non riuscendo, per indole ed educazione, ad esprimere al figlio il suo affetto. Che c’era, di fatto, ma che non si notava né si sentiva. E presto la carriera militare rappresentò la migliore delle motivazioni per andarsene e stare lontano lunghi periodi. Amava molto viaggiare, Vittorio; era letteralmente divorato dalla curiosità e dal desiderio di scoprire paesi, usi, costumi… di conoscere altre realtà e altri orizzonti.

Madame lo capiva, ma condivideva questa sua passione fino a un certo punto. Avrebbe voluto che restasse più tempo a palazzo, per occuparsi in prima persona degli affari di famiglia e, non ne faceva mistero, per sposarsi e garantire un futuro alla casata, di fatto già pesantemente indebolita e sfrangiata. Più volte gli aveva proposto ottimi partiti, ma invano.

E Vittorio, per reazione, cercava di allontanare la prospettiva di un matrimonio preferendo inseguire il suo ideale di libertà. Un divario apparentemente insanabile che stava allontanando madre e figlio ogni giorno di più.

Le folte chiome degli alberi davanti all’ingresso si erano ormai tinte di porpora e oro. L’autunno inoltrato stava regalando il meglio di sé avvolgendo in un giallo luminoso i filari dei vigneti che incorniciavano il castello. Anche nelle giornate nuvolose in cui le nebbie restano impigliate tra i rami dei pini, tutto intorno al castello il paesaggio emanava una vibrante e poetica bellezza.

“Giuseppina!”. La giovane, immersa nella lettura, sobbalzò e si voltò. Il conte Vittorio era tornato! “Giuseppina, vi ho riconosciuta da lontano. L’unico accento blu nel giallo autunnale!”. Giuseppina rimase talmente sorpresa che ci mise un po’ a trovare una risposta. “Conte Vittorio, che sorpresa! Il vostro ritorno non era stato annunciato… Madame vostra madre sarà raggiante!”.

“Già…” rispose il conte guardando lontano. “Bene, allora credo sia tempo di rientrare, giusto?” abbozzando un sorriso tirato. La reazione del conte non fu quella ci si sarebbe aspettati, ma Giuseppina non se ne stupì.

Come previsto, Madame esultò dalla gioia. Sembrava si fosse persino dimenticata della voluta scomparsa del figlio in occasione della festa di primavera. Tra loro sembrava che tutto andasse bene: Madame de Challant e Vittorio si concedevano lunghe passeggiate tra Aymavilles, Saint-Pierre e Sarre. Accettavano volentieri inviti presso la nobiltà locale e, di tanto in tanto, anche a castello venivano organizzati sfavillanti ricevimenti in cui il conte amava mostrare agli ospiti le prestigiose opere d’arte e gli innumerevoli oggetti rari e insoliti portati dai suoi viaggi in giro per l’Europa.

Alcuni facoltosi esponenti dell’aristocrazia iniziarono a proporre le proprie figlie come possibili spose di quest’uomo certo schivo, ma ricco, intelligente e brillante.

Tuttavia, non appena Madame riprese il discorso del matrimonio con maggiore insistenza, Vittorio partì nuovamente, nel cuore di una piovosa notte di fine novembre.

Questa volta Giuseppina si accorse di quanto questa assenza pesasse sul suo cuore. Il conte le mancava. Con quel suo carattere apparentemente ombroso e solitario, ma in realtà attento e sensibile, lo avvertiva assai simile a come era lei e sapeva che avrebbe potuto stare bene con lui. Ma era anche perfettamente consapevole di quanto fosse un sogno: non le sarebbe mai stato permesso!

Passò l’inverno. Le nevi lasciarono nuovamente posto al verde smeraldo dei prati e, piano piano, i primi boccioli di rosa iniziarono a impreziosire quel giardino da lei tanto amato. Le piaceva ritagliarsi piccoli spazi per sé, accomodarsi sulla sua panchina preferita da cui poteva abbracciare con lo sguardo quel paesaggio di disarmante bellezza cullata dalla voce della grande fontana.

O per leggere, o per ricamare, Giuseppina in quel posto, circondata dalle rose, si sentiva davvero a casa. I sogni, beh, quelli restavano nelle più recondite profondità dell’animo ma si sforzava di tenerli costretti e domati come faceva coi suoi ricci neri e ribelli che nessuno aveva mai visto.

Certo sperava che un giorno, da quel cancello entrasse lui, che tornasse a cavallo di Horus per fermarsi, finalmente, e non partire più. Ma nello stesso tempo temeva che avrebbe potuto tornare con una moglie, e questo le avrebbe definitivamente spezzato il cuore. Così come un altro suo grande timore, era ricevere la fatale notizia che il conte fosse morto.

Un pomeriggio, verso il tramonto, terminate le faccende per Madame, nella quale ormai aveva trovato una sorta di seconda madre, Giuseppina si recò al suo amato angolo di parco dove, però, trovò qualcosa di inaspettato: sulla panchina una rosa bianca con un nastro blu. Nient’altro. Si guardò attorno ma non vide nessuno. Prese il fiore, ne apprezzò il famigliare profumo, e lo chiuse nel suo libro.

Il giorno successivo, alla stessa ora, trovò un’altra rosa dello stesso colore con un nastro blu.

E anche questa volta: nessuno.

Ogni giorno, alla stessa ora e nello stesso posto, Giuseppina trovava una rosa bianca con un nastro blu ad attenderla. Ma chi mai poteva essere?

Non fece parola con nessuno di questi fatti. In camera, nel cassetto della toilette, ormai le rose non si contavano più.

Finché, in una sera d’estate, arrivata alla sua panchina, Giuseppina non trovò alcun fiore. Rimase delusa; ormai si era innamorata di quell’abitudine. Si sedette e rimase lì. Niente.

Rientrò per le abituali faccende, per la cena e la buonanotte alla cara Madame, sempre più anziana. Salì in camera, provò a mettersi a letto ma era impossibile prendere sonno. Si girava agitata pensando a quella rosa mai arrivata. Finché, assalita da una rabbia mista a tristezza e frustrazione, prese tutte le rose accumulate gelosamente nel cassetto e, in piena notte, corse fuori. Respirò a pieni polmoni. Andò alla panchina e, finalmente erompendo in un pianto liberatorio, buttò nel vento tutte le rose ricevute accanendovisi e lacerandole.

“Perché? Perché? Perché non mi è permesso neppure sognare? Perché non mi è concessa neppure la consolazione di un amore invisibile?!, ripeteva tra le lacrime.

“Giuseppina, avete dei capelli bellissimi”. All’improvviso una voce alle sue spalle. Quella voce! La giovane si voltò di scatto e istintivamente si portò le mani nei capelli: era uscita senza cuffia! E lui era lì, davanti a lei!

Non riusciva a dire una sola parola. “Voi… conte…”, sospirò tremante, sconvolta da un vortice di emozioni, speranze e paure. “Voi… Vittorio, siete qui!”.

E finalmente, senza pensare, senza riflettere, senza contenersi, Giuseppina si strinse a quell’uomo con tutta la forza e l’impeto di una donna innamorata.

Lui ricambiò col medesimo trasporto e le sussurrò: “Avete dei capelli bellissimi… lasciateli liberi. Siete la mia rosa, una dolcissima rosa in blu! Vi prometto che non andrò più via!”.

Stella

Donne in vetta. Le regine della montagna

Abbiamo festeggiato, ieri, il Ferragosto che in Valle d’Aosta coincide con la Festa delle Guide alpine, di quegli uomini e quelle donne per cui l’ascesa è ragione di vita, mestiere, passione. Guide poste sotto la protezione della Vergine Assunta al cielo. Salire, superare rocce, strapiombi e crepacci. Superare le forre e le creste bucando le nuvole. Arrivare lassù, in vetta, dove la terra e il cielo si toccano. Dove l’umano e il divino si sfiorano.

Valle celebra e omaggia le sue valorose guide alpine, capaci, appunto, di ascendere, di salire verso le vette accompagnando e proteggendo i loro clienti. Guide alpine che oggi iniziano a contare anche su presenze femminili.

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#Donne coraggiose ed ardite; #donne curiose e avventurose. Donne che, coi loro abiti ingombranti, i corsetti e i cappelli a tesa larga, han saputo compiere viaggi lunghi ed estenuanti, scalare montagne, superare valichi e colli, in barba ai benpensanti, agli stereotipi e … agli uomini!

Le donne, per secoli, sono state solo le mogli degli alpinisti, quelle che dovevano stare a casa ad aspettare. Per troppo tempo i monti e le donne sono stati contrapposti in virtù di stereotipi e pregiudizi per cui, il gentil sesso, mai e poi mai avrebbe potuto avvicinarsi alle alte quote, per ovvi motivi fisici e mentali. Addirittura, nel XVIII secolo, alcuni medici ritenevano che se una donna avesse provato a salire una montagna, lo sforzo sarebbe stato talmente grande che le avrebbe provocato sterilità. Figuriamoci.

Eppure donne e montagna in un certo senso si somigliano: entrambe esigono una conquista, entrambe sono tanto belle e desiderate quanto spesso inaccessibili. Donne e montagna in realtà sanno dialogare, instaurando una relazione fatta di forza e di rispetto in cui, oltre ai muscoli, serve soprattutto la testa.

Quattro passi nella storia

L’alpinismo al femminile ha iniziato a profilarsi sin dal XVI secolo, quando le prime timide compagini di nobili e avventurose signore si legavano in cordata per affrontare i severi pendii innevati coi loro pesanti gonnelloni.

Marie Paradis

Tuttavia è stato grazie ad una certa Marie Paradischamoniarde DOC, che per la prima volta la cima di una montagna (e che montagna, dato che si trattava niente meno che di Sua Maestà il Monte Bianco!) venne associata ad un’alpinista, o meglio, ad un’ascensionista donna. Era il 14 luglio del 1808, Marie aveva 30 anni e gestiva una locanda in quel di Chamonix. Le finanze languivano. Così lei, per necessità economiche e per desiderio di gloria, decise di azzardare un’impresa fino ad allora impensabile per una donna: scalare il Monte Bianco. Vi riuscì, seppure in seguito i pettegolezzi e le maldicenze si sprecarono. In ogni caso, da quella volta, lei divenne Marie du Mont Blanc.

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Henriette d’Angeville

E cosa vogliamo dire dell’ardimentosa Henriette d’Angeville che, il 4 settembre 1838, col suo nutrito seguito di guide e servitori, col suo particolare abbigliamento e i suoi tanto discussi pantaloni imbottiti stretti in vita e alle caviglie (fu uno scandalo: una nobildonna in braghe!) riuscì, con una vera e propria spedizione, a salire in vetta al Bianco? Henriette annotò la sua impresa nel famoso Carnet Vert, preziosa testimonianza della sua ineccepibile e “tutta femminile” organizzazione. Leggendo questo suo dettagliato resoconto, davvero basta poco per lasciarsi conquistare dalla tenacia di questa viaggiatrice solitaria che, senza remore, andò dritta sull’obiettivo.

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Jane Freshfield

Nata il 5 luglio 1814, al secolo Jane Quinton Crawford convolò a nozze all’età di 25 anni col ricchissimo Henry Ray Freshfield, procuratore legale alla Bank of England nonché rampollo di un’illustre dinastia di avvocati londinesi (peraltro ancora oggi attivi nel campo con uno stuolo di associati). Nel 1845 vide la luce il loro unico figlio, Douglas William Freshfield, che, oltre a seguire le orme paterne laureandosi in legge a Oxford, coltivò la passione per i viaggi e l’avventura, ma soprattutto per la montagna trasmessagli dalla mamma. A soli 16 anni, il giovane Douglas conquistò la sua prima cima: il Monte Nero, in Valmalenco.

Jane infatti rivestì un ruolo significativo nella storia del movimento alpinistico femminile grazie alla sua prolungata e attiva frequentazione delle Alpi dal 1854 al 1862 in seguito a cui scrisse due libri:  “Alpine Byways Or Light Leaves Gathered in 1859 and 1860“, Longman Green Longman&Roberts, (London 1861) e, l’anno successivo presso lo stesso editore, “A summer tour in the Grisons and Italian Valleys of the Bernina”.

Lady Freshfield ci descrive i luoghi, la gente, le usanze, senza tralasciare, con genuino piglio anglosassone, ciò che non incontrava il suo gusto o che la lasciava perplessa. I suoi racconti sono corredati dai disegni dell’amica e compagna di viaggio Charlotte Gosselin: non fotografie ma vere e proprie istantanee piene di arte e di emozione.

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Eliza Robinson Cole

“Sono certa che ogni signora, benedetta da una discreta salute ed attiva e che abbia il senso del pittoresco e del sublime, possa effettuare il tour del Monte Rosa con grande piacere e pochi inconvenienti e che tutte quelle che lo faranno porteranno con sé un bagaglio di deliziosi ricordi a consolazione dei giorni futuri. Due o tre ore nelle sale mal ventilate di un’affollata galleria d’arte saranno senz’altro più stancanti di una camminata di otto ore nella pura e rinvigorente aria di montagna. Allo stesso tempo voglio comunque mettere in guardia le signore dall’intraprendere, senza un adeguato allenamento un viaggio lungo e difficile… Lo sforzo del cavalcare e del camminare per diverse ore dovrebbe essere sperimentato con un po’ di anticipo, iniziando dapprima con facili escursioni giornaliere”.

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Così scriveva Eliza Robinson Cole, dopo aver raccontato in più di 400 pagine le sue esperienze di donna alpinista, alla fine del suo libro “A lady’s tour round the Monte Rosa” edito a Londra nel 1859. In epoca Vittoriana, dal 1837 al 1910, le donne inglesi hanno lasciato le loro testimonianze di viaggio in più di 1400 testi dimostrando un senso di avventura e di adattamento paragonabile a quello dei loro compagni.

Pubblicato a Londra per la prima volta nel 1859 il “Viaggio di una signora intorno al Monte Rosa” racconta in maniera dettagliata i viaggi effettuati intorno al Monte Rosa e nelle valli italiane di Anzasca, Mastalone, Camasco, Sesia, Lys, Challant, Aosta e Cogne in una serie di escursioni negli anni 1850-56-58. A metà Ottocento, in Italia più che in altri Paesi, l’esperienza della Cole era senza dubbio fuori dal comune; per una donna non era usuale viaggiare a piedi o a dorso di mulo per superare passi alpini o avventurarsi in valli pressoché selvaggi salendo erti sentieri. Spesso la Cole racconta di aver dovuto scendere dalla cavalcatura per superare sentieri troppo impervi e pericolosi e di aver proseguito il viaggio a piedi al pari degli uomini suoi compagni di viaggio che, peraltro, sono nominati solo raramente ed in modo molto rapido nel diario. Del marito, citato solo con l’iniziale H., non sappiano pressoché nulla se non la sua appartenenza al prestigioso Alpin Club.

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Lady Cole, inoltre, descrive con precisione gli indumenti e le calzature più adatte suggerendo alle donne anche i possibili accorgimenti per rendere più sicuro ed agevole il cammino in montagna. Curioso l’espediente dei piccoli anelli fissati sul vestito nei quali passare un cordino per sollevare l’abito all’altezza desiderata velocemente e con un solo gesto. 

Lucy Walker

Altra donna eccezionale fu Lucy Walker, sorella del celebre Horace, conquistatore delle Grandes Jorasses nel 1868. Lei acquisì fama per essere stata la prima donna a scalare il Cervino nel 1871, raggiungendo la vetta lungo la cresta Hörnli. Ma questa fu solo una, seppure forse la più nota, delle 98 scalate che Lucy compì nelll’arco della sua vita. Ecco, con Lucy abbiamo realmente un primo, fulgido esempio di vera alpinista donna, un’alpinista “con l’apostrofo”, come dice Erri De Luca.

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Margherita di Savoia

Donna forse non bellissima ma sicuramente carismatica, colta e affascinante, Margherita fu sempre una regina molto amata dal popolo e dagli intellettuali. Amava moltissimo la montagna e rese consuetudinari i suoi lunghi soggiorni estivi a Gressoney-Saint-Jean, in Valle d’Aosta, dove ancora oggi si può visitare il suo fiabesco castello, realizzato tra il 1899 ed il 1904.

Margherita amava questi monti dove la natura selvaggia le consentiva di essere se stessa lontana dal protocollo e dalle aspettative di corte; dove la lingua germanica la faceva sentire a casa, dato che la madre era Elisabetta di Sassonia. Quand’era qui, nonostante il suo castello fosse davvero la pietrificazione dei suoi sogni, lei trascorreva molto tempo in mezzo alla gente e soprattutto adorava le passeggiate e le ascensioni in montagna.

Donna robusta, alta e in ottima forma fisica raggiunse, pur abbigliata di tutto punto, con gonnellone, corpetto e cappello, i 4554 metri della Capanna a lei intitolata (la Capanna Regina Margherita), sulla Punta Gnifetti, il rifugio più alto d’Europa!

Ritratto della regina Margherita di Savoia col costume di Gressoney
Ritratto della regina Margherita di Savoia col costume di Gressoney

La regina Margherita raggiunge la Capanna a lei intitolata a 4554 metri di quota
La regina Margherita raggiunge la Capanna a lei intitolata a 4554 metri di quota

Maria José di Savoia

Senza dubbio forte e determinante fu la figura del padre, re Alberto I, sovrano del Belgio e appassionato alpinista, ad instillare in Maria José l’amore per la montagna.

L’ultima sovrana d’Italia, la bionda “regina di maggio” nutriva una profonda passione per la natura severa ed autentica delle montagne, in particolare quelle valdostane. Una regione, la Valle d’Aosta, dove ebbe modo di recarsi assai spesso, a cominciare da quel gennaio 1930 che la vide ospite a Courmayeur col neo-sposo Umberto II in luna di miele sugli sci. Giovani, bellissimi ed elegantissimi. Raffinatezza e sobrietà anche sulle piste.

La coppia reale sugli sci a Courmayeur per la luna di miele - 1930 (dal libro "Umberto e Maria José di Savoia. Escursioni e soggiorni in Valle d'Aosta", di M. Fresia Paparazzo)
La coppia reale sugli sci a Courmayeur per la luna di miele – 1930 (dal libro “Umberto e Maria José di Savoia. Escursioni e soggiorni in Valle d’Aosta”, di M. Fresia Paparazzo)

Una piccola terra di roccia e boschi dove Maria José si rifugiava per le vacanze estive coi principini: base al Castello Reale di Sarre e, da lì, via per gite ed escursioni, anche in campeggio, come quella volta in alta Val d’Ayas!

Ma non dimentichiamo che la regina dagli occhi di ghiaccio fu anche una validissima alpinista che riuscì a salire in vetta al Monte Bianco e al Cervino conquistandosi la stima delle guide alpine, l’amore della popolazione locale e la ribalta della cronaca.

La sua eleganza misurata e per nulla vistosa viene sempre sottolineata dalla stampa. Assolutamente #allamoda nell’estate del 1937 quando si perde ad osservare col cannocchiale il paesaggio delle Cime Bianche: una camicetta bianca ed un paio di pantaloni molto ampi leggermente scampanati, parrebbe in “Principe di Galles”, tagliati sotto il polpaccio e trattenuti in vita da una fusciacca.

Maria Josè alle Cime Bianche (dal libro "Umberto e Maria José di Savoia. Escursioni e soggiorni in Valle d'Aosta", di M. Fresia Paparazzo
Maria Josè alle Cime Bianche (dal libro “Umberto e Maria José di Savoia. Escursioni e soggiorni in Valle d’Aosta”, di M. Fresia Paparazzo)

Un’ultima curiosità: Maria José fu la prima ad utilizzare scarponi tecnici con suola in Vibram abbandonando quelli con suola chiodata!

Gli anni ’50 e il boom della vacanza in montagna

“Oh, la belle chose qu’une belle femme sur le sommet d’une montagne!” (M.Morin, Les femmes alpinistes, 1956).

Veniamo quindi ai favolosi anni ’50, quelli della rinascita, del boom economico, dell’occhiolino alle mode made in USA, dell’utilitaria, della Vespa, delle vacanze…

Ecco, appunto, le vacanze degli Italiani. Non solo mare, certo, ma anche montagna!

E come far passare in maniera davvero POP l’idea che la montagna è bella, distensiva, salutare e adatta a tutti? Ovvio! Creando manifesti pubblicitari in cui protagoniste sono loro, le #donne! Bellezze da copertina; forme pronunciate, labbra rosso fuoco, capelli ondulati e sguardi da gatta! Sorrisi abbaglianti illuminano le affiches turistiche dell’epoca; artisti come Gino Boccasile firmano pubblicità entrate nel mito!

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Bellezze sulla neve, in funivia, in mezzo ai prati… Bellezze sui monti insomma!

E ancora oggi cerchiamo queste immagini “vintage”, simbolo di felicità e benessere, di vacanze spensierate e splendidi paesaggi!

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Stella

C’era una volta Courmayeur. Il sogno del castello perduto

Bianca aveva 17 anni e abitava a Courmayeur da sempre. Frequentava il liceo linguistico del paese e l’anno prossimo avrebbe avuto la maturità. Amava molto studiare: conoscere tante lingue diverse le apriva la testa ma anche il mondo! Viaggiare … un grande sogno da sempre! Ma ugualmente aveva una forte passione per l’arte, la storia… conoscere il passato la incuriosiva e la affascinava; forse l’aveva ereditata dalla nonna archeologa, chissà! Ed era stata proprio la nonna a raccontarle innumerevoli storie e leggende non solo sul suo paese, ma su tutta la Valle d’Aosta. Ben presto aveva iniziato a incuriosirsi sui tanti castelli, torri, caseforti che punteggiavano quelle montagne. Finché un giorno, ancora bambina, le chiese; “Ma, nonna, e qui a Courmayeur? Non c’era un castello?”. “Certo che c’era, Bianca! Solo che purtroppo oggi non esiste più… si trovava nei pressi della chiesa, sai? La sua mole incombeva sull’attuale piazzetta del Brenta e sovrastava una via Roma, un tempo chiamata via Margherita di Savoia, assai più stretta di quella che percorriamo adesso!

Il condominio Brenta, così chiamato dal nome del suo costruttore, fu realizzato nei primi anni ’60 dopo aver tragicamente distrutto, raso al suolo, il precedente albergo, sorto a sua volta sulle vestigia del castello (o forse piuttosto una casaforte) risalente al XIII secolo”, le aveva spiegato la nonna scuotendo la testa. Roba da far drizzare i capelli! Nessun vincolo, nessuno scavo preventivo, niente di niente su un’area dalla storia così intensa! E quante volte la nonna le aveva raccontato dei nobili De Curia Majori, dei La Cort, dei Piquart de la Tour, dei Malluquin… insomma, di quelle antiche famiglie che nei secoli del Medioevo avevano stabilito la loro residenza ai piedi di un temuto ed invalicabile Monte Maledetto, non ancora Bianco, popolato da streghe e fate, da giganti e demoni, insomma da tutte le molteplici forme della paura dell’uomo davanti all’immensa e sovrastante forza della montagna.

Gli anni erano passati. La sua amata e divertente nonnina era partita per le nuvole (come diceva lei…) lasciandole tutti i suoi racconti e quella voglia di scoperta e di mistero!

Aveva 17 anni e, come già faceva da un paio d’anni, l’estate cercava sempre qualche lavoretto per “arrotondare”. E a Courmayeur il lavoro non mancava! Era fine luglio, per l’esattezza il 27 (festa patronale di San Pantaleone). Quell’anno, però, avrebbe perso la “veillà” perché di sera doveva fare la baby-sitter.

Una coppia di turisti l’aveva contattata per badare al piccolo di 5 anni dalle 19 alle 24. Perfetto! Nessun problema! E a pensarci bene, se non fosse stata troppo stanca, sarebbe anche riuscita a raggiungere le sue amiche! Bianca amava i bambini e conosceva un sacco di giochi da fare insieme! Questa famiglia abitava al condominio Brenta. Caspita! Ne sentiva parlare fin da quando era piccola ma non ci era mai entrata! Non sapeva perché, ma si sentiva insolitamente agitata. Appena entrata, quel vano ampio e semi buio avvolto nel silenzio le mise un pò di inquietudine. Non volle prendere l’ascensore e, salendo le scale fino al 4° piano, le venne spontaneo guardarsi attentamente intorno, quasi alla ricerca di un qualche indizio del castello scomparso (“magari qualche pietra, qualche stipite…”- pensava – memore dei racconti della nonna). Ma niente!

Improvvisamente un botto alle sue spalle. Bianca si voltò di scatto. Sembrava che qualcuno avesse chiuso bruscamente una porta, ma… non vide nulla né sentì nessuno. Era quasi arrivata. Una raffica di vento gelido la fece rabbrividire. Eppure, da dove poteva essere entrata? Non vedeva finestre aperte e, oltretutto, era un luglio decisamente caldo… Era assorta nei suoi pensieri quando la porta davanti a lei si aprì: “Bianca, è lei? Posso darti del tu?”. Bianca sobbalzò; “Sì, sì… mi scusi… io non… certo! Sono in anticipo!”. “Perfetto! Hai fatto bene! Il piccolo Giovanni non vedeva l’ora che arrivassi. Entra pure che ti mostro la casa…”.Giovanni era un bel bimbo paffutello coi capelli rossi e un paio di grandi occhi blu! Fu un vero piacere stare con lui e Bianca riuscì presto ad incantarlo con i racconti della nonna.

Ma uno su tutti fece centro! “Un castello?! Questa casa?! Coi soldati, i cavalieri… Ti prego, portami a vederli da vicino!”. “Ma no, Giovanni… non è possibile… non esistono più! Dobbiamo accontentarci di immaginarli, proprio come nelle favole…”, cercò di spiegargli Bianca.”Ma no! Secondo me li troviamo! Dai, giochiamo al castello! Saliamo sulla torre!”. “Quale torre? Dici sul balcone?”; “No! Ho sentito mio papà che parlava di una soffitta! Sù, nel sottotetto! Dai, andiamo a vedere com’è?! Per favore!! Resterà il nostro segreto!”.

Curiosa com’era, Bianca acconsentì e i due salirono fino all’ultimo piano. Tuttavia nulla lasciava supporre la presenza di una soffitta… “Giovanni, mi sa che dobbiamo…”; “Bianca! Vieni, presto! C’è una porta!” esclamò il bambino. Bianca si avvicinò. “Ma, è tutto buio, Giovanni…”. “No no! Tranquilla! Ho il mio portachiavi con la torcia!”. La piccola porta era dura e arrugginita; evidentemente non veniva aperta da tempo! Bianca tirò con tutte le sue forze e, finalmente, con sinistri cigolii, riuscì ad aprirla.

Come un fulmine Giovanni si lanciò sù per le scalette e ben presto Bianca ne perse le tracce. “Giovanni! Giovanni, dove sei?! Sù, non fare scherzi, eh?! Dai, per favore… non farmi preoccupare! Vieni fuori!”. Ma Giovanni non rispondeva… Bianca sentiva dei passi, delle risate soffocate, ma nulla più. Procedeva nell’oscurità con cautela, sudando freddo nel timore che fosse accaduto qualcosa al bambino e continuando a chiamarlo. Ad un certo punto intravide una lama di luce che penetrava da un abbaino socchiuso. Lo spalancò e sentì l’aria fresca della sera.

Uscì su un terrazzo; “Dai, esci sù! Ti ho trovato!… ehi…”. Guardandosi attorno con più attenzione si accorse che il panorama intorno a lei non era il solito… O meglio, le montagne sì, certo, ma… il paese, la “sua” Courmayeur, non c’era più… Era davvero in cima ad una torre che svettava su un villaggio di poche case avvolte nelle ombre della notte.

Poco distante, la sagoma del campanile rivaleggiava in altezza superando i tetti dell’edificio su cui lei si trovava… “Eccomi! Ti sei spaventata?”. Bianca aguzzò lo sguardo. Ma davanti a lei non c’era il bimbetto che credeva.

“Giovanni…?”.”Sì, sono Giovanni De Curia Majori. E’ un onore averti mia ospite. Da tempo aspettavo di trovare qualcuno abbastanza sensibile da farmi tornare qui, nel mio castello… nella mia amata dimora perduta. Ma un modo per darmi pace, c’è! Ho bisogno che tu mi accompagni nelle segrete! Là avevo nascosto un amuleto: un gioiello di famiglia cui tengo moltissimo e che non ho mai avuto modo di recuperare. Devo assolutamente riprenderlo. Solo così mi quieterò!”.

Bianca era sconvolta. Credeva di sognare. Ma quel giovane uomo elegante dai capelli rossi le si avvicinò prendendola per mano. “Le… segrete? Ma, quali segrete?”, balbettò la ragazza incredula. “Dai, scendiamo!E’ l’unico angolo che non è stato distrutto…per fortuna!” E fu così che Bianca si trovò a seguire il nobile Giovanni De Curia Majori attraverso le sale di quell’antica dimora.

Mura spesse e finestre crociate con sedute interne; solai bassi e grosse travi di legno; le cucine al pianterreno coi grandi camini e un fortissimo odore di fumo e carne arrostita. Attraversarono velocemente la corte interna del maniero. Bianca si fermò solo un attimo e si rese conto di quanto assomigliasse alla piazzetta porticata dove passeggiava da sempre. Più piccola, circondata da mura, ma con un breve portico che dava accesso ai magazzini e alle stalle. Si infilarono nell’angolo opposto e, giù per un ripido viret (scala a chiocciola), raggiunsero i sotterranei. Erano assai più ampi di quanto lei potesse pensare. Giovanni la precedeva con una torcia.

Arrivò davanti ad una sorta di cassaforte a muro chiusa da un elaborato lucchetto. La aprì e ne estrasse un sacchetto di velluto giallo e grigio. “Eccolo! Finalmente!”. All’interno vi era un prezioso ciondolo d’oro a forma di scudo con un leone rampante in argento e rubini. “Ma, è lo stemma di Courmayeur!”, esclamò Bianca. “Esatto! Dovevo rientrarne in possesso. Ma finora nessuno era stato in grado di capire e di sentire la mia presenza. Hanno raso al suolo il mio castello. Solo questo angolo di segrete è rimasto, ma è invisibile ai più… Ma ora saliamo. Ci aspettano!”.”Ci aspettano?! E chi? Non sono ancora finite le sorprese stanotte?!”, commentò una Bianca sempre più esterrefatta.

Questa volta, però, per salire non dovettero attraversare la corte, ma imboccarono un’altra ripidissima scala a chiocciola che si avvitava vertiginosamente all’interno di una stretta torretta circolare. Bianca faticava non poco a star dietro a Giovanni… Tentò di fermarsi per un momento, si voltò e con stupore vide che dietro di lei… non c’era nulla! Il vuoto! La scala scompariva mano a mano che si saliva! “Eccoci al piano nobile, Bianca! Qui si trova la mia sala delle udienze. Entro per primo. Ti farò chiamare!”.

Bianca non riuscì nemmeno a rendersi conto di dove fosse, che una voce cupa e tonante la chiamò. Entrò, ma…Davanti a lei si apriva un vasto salone affrescato che, grazie a tre finestre a crociera, si affacciava sulla corte interna. La ragazza vi si avvicinò per guardare e notò immediatamente che la corte non era già più quella da dove era passata poco prima con Giovanni. Solo la forma vagamente trapezoidale era quella; i loggiati si aprivano su tutti i lati e grandi vasi in terracotta decoravano un grazioso giardino interno pavimentato in acciottolato.

“Benvenuta, madamigella Bianca! Ero davvero curioso di fare la sua conoscenza!”. A Bianca venne spontaneo mettersi sull’attenti. “Sono il nobile Roux Favre, vice Balivo di Aosta! Questa ora è la mia dimora nell’abbraccio delle più alte montagne della Valle.” Era un omone alto e grosso, dai capelli rossi e ricci, il viso rubizzo illuminato da due acuti occhi azzurri e un sorriso largo. “Avverte un accento forestiero, vero? Sono di origini elvetiche infatti; la mia famiglia ha le sue radici nel vicino Vallese. Ma prego, mi segua! Con immenso piacere le mostrerò la dimora. Sa, dispongo di tali ingenti ricchezze che ho potuto rilevare l’intero feudo di Courmayeur e possiedo un’altra casaforte rustica nel ridente villaggio di Dolonne”.

Roux (non avrebbe potuto chiamarsi in altro modo, del resto) era dilagante! Parlava come un fiume in piena e si capiva subito di che pasta era fatto: un leader dal carisma travolgente! Bianca passò per le stesse sale viste prima con Giovanni, ma erano diverse! Diversi i soffitti: non più travi in legno, ma volte a unghia e ad ombrello. Un maggior numero di camini, ma più piccoli. E, al piano nobile, persino una piccola galleria ingentilita da decori dipinti e stucchi. Scesero nell’elegante corte proprio nel momento in cui una splendida carrozza trainata da due cavalli, uno bianco e uno nero, entrava dal grande cancello.”Bene”, esordì Roux Favre, “ecco il futuro proprietario del mio palazzo: il barone Pierre-Léonard Roncas! Anche lui di origini vallesane… eh, buon sangue!! Un uomo che si è fatto da solo, sai? I suoi nonni erano semplici macellai! Poi suo padre ha avuto la fortuna, la possibilità e l’intelligenza di studiare e diventare un medico affermato, molto noto in Aosta. E lui, beh… in Valle non esiste un uomo più ricco e potente! Ti dico solo che è il Primo ministro e Consigliere di Sua Eccellenza il Duca di Savoia… e non occorre dilungarsi oltre, mia cara!”

Bianca attese che la carrozza si fermasse, curiosa di vedere un personaggio così importante di cui aveva sentito parlare più di una volta. La porta si aprì. Con incedere autoritario scese il potente barone Roncas: un bell’uomo, alto e snello, avvolto in un elegante mantello di velluto blu, il volto semi-coperto da un cappello piumato a tesa larga. Il barone alzò lo sguardo su di lei scrutandola da capo a piedi con occhi affilati e indagatori. Bianca si voltò per cercare supporto nel sorriso bonario di Roux, ma … era sparito! “Madamigella Bianca, i miei omaggi! E’ rimasta colpita dai miei destrieri, nevvero? Sono bestie magnifiche! Quello bianco, maschio, si chiama Apollo; mentre la femmina, scura come la notte, Diana. Immagino lei conosca i divini gemelli dell’Olimpo, il Sole e la Luna! Non a caso i simboli da me scelti per il mio stemma famigliare il cui emblematico motto è “Omnia cum lumine”. Lei conosce il latino, vero?”

Bianca era nervosa come in un’interrogazione a sorpresa senza aver studiato! Quell’uomo le metteva soggezione… “Sì, un pò… vuole dire, mi pare, “ogni cosa con lume”, ..vero?!” balbettò la ragazza. “Bene, signorina. Noto che almeno le basi ci sono! Sì, “ogni cosa con lume”! Il lume di un fine, acuto e lungimirante intelletto: fulgido in pieno giorno e ugualmente capace di illuminare le tenebre. Quelle dell’ignoto, dell’inganno, della menzogna… Sa, il mio ruolo richiede una mente vigile, svelta e strategica! Ma, prego, mi segua, inizia a far fresco…”. Bianca lo seguì e subito notò che l’ambiente d’ingresso era di nuovo cambiato: più ampio e prezioso con un grande scalone che portava al piano superiore.

Il barone Roncas si accorse dello stupore di Bianca:” Sì, ho fatto abbattere due tramezzi e ampliare l’accesso principale eliminando quell’angusto e scomodo viret, decisamente obsoleto! Le mie dimore devono rispecchiare la mia figura e il mio gusto!”. Bianca trovò un minimo di coraggio:” Barone, sa, proprio 3 anni fa ho visitato il suo palazzo di Aosta: è stupendo, raffinato…non credevo…”.

“Esatto!”, irruppe il barone, ” sobrio all’esterno, ricco e trionfale all’interno! E, mi dica, cosa l’ha colpita di più?”. “Beh, gli affreschi a grottesche! Mi hanno sorpresa! Non se ne vedono molti qui in Valle, anzi… inoltre soggetti mitologici,vedute di paesi esotici, marine… davvero inaspettato! E sono rimasta incantata dalle raffigurazioni astrologiche del loggiato superiore. Subito credevo fossero sbagliate perché i segni zodiacali non rispettano l’ordine canonico, ma poi mia nonna mi ha illustrato una sua ipotesi interessante e suggestiva…”

“Ah, sì?”, chiese il barone decisamente incuriosito, “e sarebbe?”. “Beh, io non la so spiegare bene, ma, ecco, secondo la nonna quei segni, disposti in quell’insolita sequenza, avrebbero in realtà indicato un quadro astrale ben preciso…

“Sono felice che, nei secoli, qualcuno abbia colto questo messaggio, oscuro a chi si sofferma sulla superficie, ma interpretabile da chi riconosce la multiforme forza dei simboli. Nulla è a caso! Tua nonna non mancava certo di fine intuito…Avrei voluto conoscerla!”

Al ricordo della nonna, Bianca si emozionò e guardò fuori dalla finestra. Poi, improvvisamente si sentì chiamare:” Benvenuta mademoiselle, necessita di aiuto?” Bianca si voltò. Il barone era sparito e l’androne d’ingresso era ancora una volta cambiato! Aveva perso quell’aura di eleganza e ricercatezza; tutto era decisamente più sobrio e spartano.

Di fronte a lei un sacerdote la guardava sorridente; indossava un’insolita tunica rossa decorata da una grande croce bianca e oro sul petto.”Ma, io, ecco… il barone Roncas…”. “Certo mademoiselle, il barone Roncas è stato proprietario dell’edificio tempo fa. Poi lo ereditò l’unico figlio, il barone Pierre-Philibert Roncas, quindi passò alla di lui figlia che, seguendo il suggerimento del nobile marito, lo vendette al nostro Ordine”.”Ordine? Ma quindi adesso è … un convento?”, chiese Bianca disorientata.

“Oh, no, mademoiselle! L’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro, fondato ben 2 secoli orsono, nel 1572, da Sua Eccellenza il duca Emanuele Filiberto di Savoia – nostro Gran Maestro – ha natura religioso-militare; siamo una “sacra milizia” i cui valori si ispirano all’insegnamento dell’antica valorosa Legione Tebea! In questo luogo ci occupiamo di servire Casa Savoia con un valido presidio in un luogo tanto impervio quanto assai strategico. Nel contempo offriamo supporto e ospitalità ai pellegrini, ai viandanti, ai bisognosi…”.

“Ah, non…sapevo, ecco…io sono un pò confusa e…”; “Non si preoccupi, la faccio accompagnare da una consorella in una camera dove poter riposare. Quando si sentirà meglio, potrà scendere nel refettorio per la cena, se vorrà”.

E così, accompagnata da una suora silenziosa, Bianca attraversò nuovamente quel nobile e vasto edificio, sempre considerevole, curato e pulito, ma privo della particolare impronta artistica voluta dal barone Roncas. A questo punto era ancor più curiosa. Sarebbe scesa per cena! Si rinfrescò il viso, si aggiustò i capelli e si diresse verso il refettorio.

Tuttavia, già nelle scale qualcosa non era più come prima: si sentiva un allegro vociare, della musica e un profumo di buon cibo. I corridoi erano tutti illuminati con mobilio ricercato in stile “rétro” (secondo lei, naturalmente…), dei graziosi salottini dalle tinte pastello e dalle forme panciute che, nel salire, non c’erano affatto! Alle finestre splendidi tendaggi damascati color cipria e un numero imprecisato di comò con altrettante lampade deliziose a forma di fiore o in vetro multicolore. Il vocìo era sempre più forte. Giunta sulla porta della sala da pranzo rimase senza parole.

Quello sembrava in tutto e per tutto un hotel, un magnifico ed elegantissimo hotel. Tavoli riccamente preparati e imbanditi. Donne elegantissime con abiti straordinari che lei aveva visto solo sui libri o, si ricordava, nei quadri di Giovanni Boldrini. Un’atmosfera da sogno. e lei si sentiva un pesce fuor d’acqua coi suoi jeans, la felpa e le sneakers… Stava per andarsene quando: “Signorina, posso esserle d’aiuto? Ha smarrito qualcosa?” Bianca si trovò di fronte un uomo sui cinquant’anni dall’aspetto curato e molto elegante. “Buonasera, io sono Michel-Joseph Ruffier, proprietario di questo hotel: l’Hotel de l’Union! Mi hanno informato del suo arrivo; so che ha dovuto affrontare un viaggio lungo e faticoso. Se posso esserle utile, al suo servizio!”

Bianca si sentì immediatamente a suo agio e confessò il suo imbarazzo nel non avere abiti adeguati. “Non si preoccupi. Posso provvedere io, se mi consente… La affido a Jeanne: ha delle mani d’oro e saprà trovare la soluzione più adatta!”. Jeanne era una cameriera “factotum” dell’hotel, nonché bravissima sarta! Avrà avuto circa 30-35 anni, bassina, paffutella e con una massa di ricci color rame che scappavano ribelli fuori dalla cuffia. Le stette subito simpatica!

“Una signorina bella come lei starà benissimo con tutto! Mi segua”. E in men che non si dica, Bianca si ritrovò vestita come una principessa: un abito sontuoso azzurro polvere lungo fino ai piedi; morbidissimo con balze e pizzi, la vita strettissima fasciata da un largo nastro di raso blu, e impreziosito da una stola impalpabile. Jeanne le aveva anche acconciato i capelli raccogliendoglieli in un alto e gonfio chignon decorato con nastri e piume.

“Ah ragazza mia, ti guarderanno tutti!” cinguettò Jeanne soddisfatta. Bianca la guardò bene in viso: quegli allegri occhi blu, il naso spruzzato di lentiggini, i ricci rossi… le sembrava che, bene o male, tutti i personaggi incontrati in quella serata unica e surreale, avessero dei tratti comuni.”Forza! Cosa fai lì tutta imbambolata?! La cena ti aspetta!”, la esortò Jeanne spingendola nel corridoio. Investita dalla luce e dalla musica, Bianca dovette riconoscere di sentirsi particolarmente a suo agio in quegli abiti e in quel luogo; “Eh, sì – pensò – in un posto così verrei volentieri in vacanza. Certo, non è un hotel 5 stelle come quelli di adesso, ma… ha un fascino, una raffinatezza e un’atmosfera impareggiabili!”.

Un bel ragazzo sui vent’anni, distinto, e dai modi educati, ad un certo punto le si avvicinò e, in un francese incerto, la invitò a ballare. Bianca arrossì e, per toglierlo dall’imbarazzo, essendosi accorta di quale fosse la sua lingua madre, gli rispose senza titubanze in inglese. Il ragazzo restò piacevolmente sorpreso. I due iniziarono a danzare; la serata era splendida, anzi, letteralmente magica.

Le disse di chiamarsi John, unico figlio di un ricco lord delle Midlands, di avere 24 anni e di essere partito per un Grand Tour in Italia. Era rimasto talmente colpito dalla grandiosa, imponente, ancestrale bellezza di quelle montagne, da volersi fermare il più possibile per conoscerle a fondo. Era a Courmayeur, ospite dell’Hotel de l’Union già da 2 settimane e affermava di trovarsi davvero bene. L’hotel disponeva di tutti i conforts possibili, e il paese era “pittoresco” e delizioso, circondato da una natura “selvaggiamente romantica”.

John era molto diverso dai ragazzi che conosceva e Bianca cadde vittima di un immediato colpo di fulmine! Quella sera avrebbe dovuto durare un’eternità. Uscirono nel cortile. Bianca notò ulteriori cambiamenti. Non era più circondato da mura, ma lungo la strada c’era un’elegante cancellata in ferro battuto. Ricche carrozze stazionavano nei pressi del locale loro riservato dov’era anche possibile ricoverare i cavalli e prendersene cura (cibo, strigliatura, cambio o riparazione dei ferri).

“Ti andrebbe una passeggiata?”, le propose John. E come rifiutare? Anzi, essendo lei del posto, era entusiasta di poter ri-scoprire il suo paese insieme a lui. Quant’era diverso!

La chiesa si stagliava sull’unica piazza quasi in solitaria. Poche semplici case e i servizi essenziali. Altri fantastici alberghi come l’Hotel de l’Ange, sviluppato su più edifici disposti a “L” e dotato di un favoloso giardino d’inverno con padiglione danzante.

“E’ meravigliosa questa Courmayeur”, disse Bianca; “ma tu lo sei mille volte di più”, rispose John fissandola negli occhi. “Se questo è un sogno, non svegliatemi più!”, pensò Bianca abbandonandosi al suo abbraccio.

A notte fonda, quando ormai tutte le feste erano terminate e il paese era avvolto nel silenzio, i due fecero ritorno all’Hotel. Un ultimo bacio con la promessa di rivedersi il giorno dopo a colazione. John si frugò in tasca e ne estrasse un piccolo libretto: “Questo è il mio taccuino, tienilo a ricordo del nostro incontro” e ci infilò dentro un bocciolo di rosa colta all’esterno. Bianca, stordita ed estasiata, entrò nella sua stanza ma… ecco, era di nuovo diversa! Un arredo moderno e colorato; sul tavolo un giornale di “Benvenuto” con tanto di data: 27 luglio 1958.”1958?! Ma come?”.

Bianca corse alla finestra: infatti il cortile era nuovamente cambiato: l’ingresso era sottolineato da una colorata tenda parasole; sulla piazzetta tavolini, dondoli, sedie a sdraio con grandi vasi di gerani ovunque. Aveva bisogno d’aria e aprì. A ulteriore conferma del periodo, Bianca vide 3 auto parcheggiate nei pressi di un “Auto-Garage”: una Lancia Flaminia, una Giulietta Spider e una Ferrari 250 Gt (le conosceva bene perché le auto d’epoca erano la passione di suo nonno!).

Nel cortile udì parlottare due camerieri:” Eh, ormai l’Union non funziona più! E’ antiquato e la gente preferisce altri alberghi, magari con solarium, giardino, piscina… eh, ho già sentito dire che presto chiuderanno definitivamente!”.”No! No! John! “, disperata Bianca provò ad uscire dalla camera ma la porta era bloccata. Alla fine, stremata, si accasciò sul letto tra le lacrime.

“Bianca…Bianca…”. La ragazza aprì gli occhi a fatica. “Sì?… chi è adesso?”. “Siamo noi. Scusaci, abbiam fatto più tardi del previsto… e’ quasi l’1 di notte!”. Bianca si destò: era nell’appartamento del Brenta, vestita coi suoi abiti, col piccolo Giovanni addormentato con lei sul divano. La testa le girava all’impazzata!

“Ah, no si figuri… tanto dormivamo da un pezzo…”. Chiudendosi quindi la porta alle spalle, Bianca aveva un certo timore a scendere quelle scale: cosa sarebbe successo ancora? Se almeno avesse potuto riabbracciare John…avrebbe voluto dirgli tante cpse!

Finalmente uscì in piazzetta dove la veillà era ancora nel vivo. I locali erano pieni e c’era gente ovunque. Ma lei non aveva nessuna voglia di fare festa, voleva solo andare a casa. Troppe emozioni e non poteva credere che fosse stato solo un sogno. Cercò nello zainetto il suo cellulare, ma trovò un’altra cosa: “Non… non è possibile! E’ il taccuino di John!! Oddio, ma allora…” Era persa in queste folli considerazioni che quasi non si accorse che stava per andare a sbattere contro la sua amica Cinzia. “Ehi! Ma ci vedi?! E’ da un pezzo che ti sto chiamando! Dai, vieni con noi a fare un giro? All’Ange si balla ancora e devo presentarti un tipo da urlo!”

“Oh no, Cinzia, grazie ma sono stanca morta! Preferisco andare a casa…dai!”.”E sù! Non hai 80 anni, dai! Solo 10 minuti!”. “Ok, ma davvero 10 minuti, eh?!”

Cinzia la prese sottobraccio e la trascinò all’Ange dove impazzava la disco-dance; “Vieni, c’è un gruppetto di ragazzi stranieri e tu sai bene l’inglese! Devi darci una mano!”

Bianca la seguì controvoglia. “Bianca, ti presento Andrew, William e John! Arrivano da Leicester, nelle Midlands!”. “John?! Midlands?!” – pensò Bianca sobbalzando.

Mise a fuoco quel ragazzo dai capelli rossi e dagli occhi blu…non era possibile, era proprio lui, il “suo” John! Bianca gli porse la mano inebetita, incapace di dire una sola parola. Ma ci pensò lui, in uno stentato italiano: “Piacere Bianca, non so perché ma mi sembra di conoscerti già…forse ti ho incontrata nei miei sogni?”

I suoi amici esplosero a ridere allungandogli sonore pacche sulle spalle. Ma Bianca sapeva, in cuor suo, che stava dicendo la verità e gli rispose: “Lo penso anch’io. Evidentemente abbiamo fatto lo stesso sogno…

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MEGALITICA. Nel “solco” della (PRE)iStoria

Riprendiamo, quindi, il nostro viaggio alle origini attraverso il sito megalitico di Saint-Martin-de-Corléans, ad Aosta. Ricordate la discesa lungo la rampa del tempo?

Ebbene, eccoci a 6 metri sottoterra, avvolti nella penombra cangiante che, ad intervalli regolari, si accende e si colora ricordando lo scorrere dei giorni e delle notti. Ma dove siamo?

Guardando verso sinistra, laggiù sul fondo, emerge una struttura di grosse pietre circondata da strati di pietrame più minuto. E’ una tomba, la cosiddetta “Tomba 2”. Una tomba megalitica, appunto, costruita al di sopra di una particolare piattaforma di pietre a forma di freccia. Da qui ancora non la si vede bene, la scoperta avverrà progressivamente. Si cammina intorno a questo sito incredibile, forse un po’ distanti, è vero, ma è quasi simbolico dell’effettiva distanza che ci separa da quelle epoche avvolte nella notte dei tempi, da quei riti, da quelle preghiere, da quelle persone.

 Una cosa si avverte: il senso del sacro. Il senso di un luogo non certo abitativo, ma contraddistinto da una sorta di flusso comunicativo tra il “sotto” e il “sopra”, tra la terra e il cielo.

Chiudete gli occhi. Immaginate una musica, una di quelle epiche, dalle sonorità prima soffuse che si fanno poi via via sempre più imponenti, coinvolgenti, trionfali. Una musica capace di accompagnarvi in questo viaggio a ritroso facendovi percepire la forza della Storia.

ANTICHISSIME ARATURE

E  ora immaginate una piana. Verso sud, sul fondo, lo scintillio di un fiume incorniciato da ampie zone paludose. La Dora Baltea. Lo sguardo sale fino ad incontrare i boschi e poi raggiungere le alte vette. In particolare due, molto alte, a ridosso della pianura alluvionale, così simboliche, così presenti… chissà con quale nome venivano chiamate in quei tempi lontani. Oggi sono l’Emilius e la Becca di Nona, sentinelle del Sud, monumentali gnomoni di roccia puntati verso il cielo, meridiane naturali per il fluire delle ore e delle stagioni.

Ed ora delle voci. Voci di uomini intenti ad un gesto antico: l’aratura. Un gesto consueto ma che gli uomini avevano appreso non da molto. Una prima mattina di un giorno di inizio estate sul finire del V millennio a.C., quegli uomini stanno arando questa vasta pianura. Lenti movimenti avanti e indietro, e poi ancora avanti e indietro; lunghe strisce ininterrotte aprono il terreno e solcano i depositi limosi lasciati dal fiume e dai movimenti dei ghiacciai. La terra si apre sotto il passaggio del vomere in legno.

Ma questa non è un’aratura qualsiasiQui l’agricoltura si fa rito, si fa preghiera.

La terra solcata viene invocata affinché sia nutrice di genti eroiche e di una solida stirpe di guerrieri. Quegli stessi solchi non restituiranno però dei semi, ma denti umani, perlopiù incisivi. Quella terra doveva dare il cibo a uomini forti e valorosi. In questo gesto, che a noi può apparire tanto insolito, riemerge il mito di quel gruppo di circa 50 eroi che, sotto la guida del prode Giasone, intraprese l’avventuroso viaggio a bordo della nave Argo.

Un viaggio che li condurrà nelle ostili terre della Colchide, alla conquista del vello d’oro. Gli Argonauti, i marinai che fecero l’impresa. Giasone chiese il vello d’oro al re Eeta, il quale acconsentì a concederglielo, ma solo dopo che fosse stato arato un campo per seppellire i denti di un drago ucciso da Cadmo. Questa sepoltura doveva garantire la nascita di uomini armati. Le antiche leggende parlano di draghi; qui si parla di uomini. Delle loro ambizioni, delle loro credenze e delle loro speranze.

Storie antiche frammiste al mito e alla leggenda che, però, ci narrano di eroi, di aventure, di lunghi viaggi verso terre sconosciute, di draghi e sovrani avidi e superbi, di alberi carichi di frutti più o meno proibiti (storia ben nota!), di tori furenti e indomabili, di serpi e draghi spaventosi. Storie che ci raccontano di intrepide ricerche: di terre, di metalli, di ORO!

10.000 mq (ma diventeranno 18.000!) che racchiudono oltre 6000 anni di storia dove tutto ebbe inizio dalla terra, da molteplici e ripetute arature. In campagna non vi è gesto forse più famigliare e consueto. Che però, qui, assume tutto un altro sapore. Qui l’aratura si fa rito, si fa culto, si fa preghiera. Merita una riflessione la ricchezza di significato di un’azione agricola apparentemente semplice come quella dell’arare.

Significa delimitare una porzione di terreno per farla in qualche modo “propria”. Significa incidere la Madre Terra affinché accolga quei semi da cui dovrà nascere una nuova realtà, in termini di raccolto così come in termini di insediamento. La portata sociale e religiosa di questo gesto è incredibile; si perde nella notte dei tempi e attraversa le epoche. Un gesto anticamente “nuovo”, NEOlitico, e per questo profondamente rivoluzionario; l’uomo da nomade cacciatore-raccoglitore si è stabilizzato e ha imparato a coltivare e ad addomesticare. Un cambiamento epocale! E quella terra era ed è SACRA. Terra da invocare, pregare, venerare… affinché sia benevola e non “matrigna”. Una terra che più MADRE non si potrebbe! E, perciò, sacra!

I “POZZI”. OFFERTE NEL SOTTOSUOLO

E non solo di aratura si tratta. La nostra scoperta del sito ci porta ad incontrare una serie di grandi fosse (o pozzi) che, in alcuni casi, arrivano a ben 2 metri di profondità. 

Tra IV e III millennio a.C., mani devote non solo hanno scavato queste cavità, ma sul fondo vi hanno deposto cereali, resti di frutti e macine. Leguminose come vecce e cicerchie; cereali come il farro e il frumento. Carboni di quercia e di pino. Resti che ci parlano di un paesaggio agrario remoto e di contadini che lavoravano la Natura venerandone le forze imperscrutabili. 

Probabilmente offerte alle divinità della terra: divinità ctonie e feconde. Quegli dei che presiedevano agli eterni cicli di vita, morte e rinascita. Un seme nella terra muore e rinasce per germogliare di nuovo. Una speranza di vita che obbligatoriamente doveva passare attraverso una morte inevitabile.

A ben pensarci è lo stesso dualismo che, in altre epoche e ad altre latitudini, si ritrova nelle più note dee greche Demetra e Persefone, tra loro madre e figlia. Demetra, la Madre terra portatrice di messi e la figlia Kore-Proserpina-Persefone, simbolo della primavera, della nuova vita che germoglia, ma anche sposa di Ade e signora dell’Oltretomba.

Due dee che ben rappresentano il ciclo della natura: 6 mesi di sonno, di morte apparente (autunno ed inverno); 6 mesi di fioriture e raccolti (primavera ed estate). Ecco perché anche le forze divine nascoste nel sottosuolo andavano invocate e blandite affinché fossero benigne.

ER’ l’eterno ciclo del seme che di fatto tornerà anche nel Cristianesimo: il seme deve “morire”, essere sepolto, per poi rifiorire in una nuova vita e dare frutto. La vita che passa da una morte necessaria vista, però, come transito e mutamento.

Saint-Martin-de-Corléans: un luogo davvero particolare, dove vita e morte dialogano e si rincorrono fin quasi a sovrapporsi. Seguiteci, il nostro viaggio non è ancora finito…

Stella

MEGALITICA. Viaggio alle origini

Metti una passeggiata ad Aosta. Ma non una passeggiata qualsiasi. Una di quelle che ti portano a scoprire la città, la sua anima, ma soprattutto la sua storia. Una storia che qui si fa plurimillenaria. Lasciatevi dunque alle spalle la rassicurante cortina muraria di epoca romana. Lasciate la monumentale Augusta Praetoria e avventuratevi verso ovest. Attraverserete zone forse ancora poco note della città; i quartieri delle caserme, quelli residenziali, quelli più popolari. Arriverete così a Saint-Martin-de-Corléans. Nucleo del quartiere la graziosa chiesetta romanica dedicata a San Martino. Al di là di un’apparenza forse poco accattivante, è questo un luogo davvero straordinario, dove leggenda, storia e credenze popolari si mescolano e si sovrappongono tra sacro e profano, a cavallo tra mondo pagano e mondo cristiano.

SAINT-MARTIN-DE-CORLÉANS. UN QUARTIERE DAL NOME INTERESSANTE

Il nome stesso di questo quartiere ci catapulta in questa dimensione strana e disorientante. Perché “de Corléans”? Cosa significa? In primo luogo parrebbe ormai comprovato che “Corléans” sia un prediale di matrice romana, intendendo con “prediale” un nome indicante un lotto di terreno, una proprietà fondiaria. L’origine sarebbe da ricercare in un antico Cordelianum, a sua volta derivante da un presunto Cordelius. Ma non è tutto. Ancestrali echi di lontane leggende riecheggiano in questo nome, collegato alla mitica Cordela, “capitale perduta” del popolo dei Salassi, popolo di cultura celtica residente nelle nostre montagne all’arrivo di Roma. A Cordela e al suo fondatore, ossia Cordelo, figlio di Statielo, seguace di Ercole. 

Gorlach, the legend of Cordelia

Miti di viaggio, di lunghi spostamenti, di migrazioni di popoli provenienti dall’Asia Minore. In fin dei conti un po’ di verità c’è. E lo vedremo.Scriveva Silio Italico, politico e poeta romano del I sec. d.C.:“Ercole affrontò le vette inviolate: Fu il primo. Gli dei vedono stupitiCome fende nubi, fracassa alture,Doma possente rupi mai battute“.Vagava, il semidio, da Oriente a Occidente cercando fra i ghiacciai la via per i Giardini del Tramonto, dove le Esperidi avrebbero custodito gelosamente i propri frutti.

VIAGGIO ALLE ORIGINI

I miti si intrecciano in queste origini leggendarie di Aosta, alla cui base però si rileva come fosse comunque nota una presenza antica, misteriosa, difficilmente descrivibile altrimenti. Probabilmente si sapeva che in questa zona la Storia aveva lasciato testimonianze particolari, le cui origini e le cui motivazioni affondavano in un’epoca “perduta”, troppo lontana nei secoli e nei millenni perché si riuscisse a meglio contestualizzarla. Ma, col XX secolo, in un modo del tutto fortuito, sarebbero stati gli archeologi a svelare la reale identità di questo enigmatico luogo.

Ci troviamo, infatti, al cospetto dell’area megalitica, unico e prezioso scrigno di testimonianze archeologiche risalenti fino all’epoca Neolitica (V millennio a.C.). Un’area composta da un sito archeologico pluristratificato le cui testimonianze vanno dalla Preistoria al Medioevo passando, come nel miglior manuale di Storia, attraverso le Età del Rame, del Bronzo, del Ferro fino a tutta l’epoca romana, l’età tardoantica e altomedievale. Un Parco archeologico all’avanguardia che ha aperto definitivamente i battenti il 24 giugno 2016 e che, senza alcun dubbio, merita una visita! 

Un’area estremamente suggestiva e densa di storia, dove cielo e terra, uomini e dei, dialogano sin dalla notte dei tempi. Un grande, straordinario, santuario preistoricodove funzioni cultuali e funerarie si sono avvicendate e trasformate nei secoli fino all’utilizzo dell’area a fini non solo sepolcrali ma anche agricoli in epoca romana, per poi approdare (nuovamente) al contatto col divino nell’Alto Medioevo attraverso l’emblematica figura di San Martino.

Un santo scelto a ragion veduta. Martino era un soldato, nato nel 316 d.C. nell’antica Pannonia (l’attuale Ungheria) e di cui proprio nel 2016 la Chiesa ha celebrato i 1700 anni dalla nascita. Prima al servizio dell’esercito di Roma, e poi al servizio di Dio. Un santo-soldato, poi divenuto monaco esorcista e infine vescovo, che vigila e presidia: ecco perché, nella stragrande maggioranza dei casi, lo si ritrova lungo le mura delle città, in corrispondenza di castelli strategici oppure in prossimità di importanti e frequentati assi viari. Inoltre ci troviamo in un luogo dove le tracce del paganesimo erano profondamente radicate e testimoniate da eloquenti indizi probabilmente ancora noti o comunque percepiti o percepibili in epoca tardoantica. Occorreva pertanto eradicare queste antiche credenze, i cui strascichi probabilmente si protraevano nel tempo e nella società “spaventata” dalle angosce della fine dell’Impero romano. Occorreva esorcizzare luoghi del genere richiamando la forza e l’attrattività di un santo così amato dal popolo quale era, appunto, San Martino di Tours, l’apostolo delle Gallie.

L’AREA MEGALITICA

Ma non indugiamo oltre ed entriamo, varcando la soglia di questo complesso esteriormente così moderno e avveniristico che, con gli anni, diventerà un importante centro non solo museale, ma di studio e ricerca dedicato alla Preistoria alpina, un settore ancora poco conosciuto e dalle frontiere ancora in buona parte inesplorate.

L’avvicinamento al sito avviene scendendo lungo una rampa dove gli intrecci delle travi in acciaio con le strategiche aperture vetrate consentono di vivere l’azione stessa dello scendere. In una scenografia che sa quasi di archeologia industriale, si vede chiaramente che si sta “bucando” il terreno circostante e si sta andando in un luogo sotterraneo; la cappella si fa più alta e più lontana. L’Aosta dell’oggi sta lasciando il posto all’Aosta “perduta”, a quell’area senza nome avvolta dal torpore dei millenni, l’area “dalle grandi pietre”, l’area megalitica.

Sembra quasi di essere su un’astronave, in viaggio al di là del tempo e dello spazio alla ricerca di mondi solo apparentemente perduti. E non a caso era il 1969 quando questo sito venne scoperto. Giugno 1969. Un mese prima che l’uomo mettesse piede per la prima volta sulla Luna. E, davvero, percorrere questa rampa del tempo per raggiungere un luogo così insolito ed inaspettato, può per molti aspetti essere paragonato al mettere piede su un altro pianeta!

E in effetti, la stessa impressione si può avere sin dall’esterno. Forme taglienti, spezzate, che interrompono il presente per accompagnare, quasi come su una nave spaziale, in un inatteso viaggio nel più remoto passato. Forme lucide, vetrate, riflettenti e trasparenti che vogliono appositamente attrarre la luce che, sia diurna che notturna, si rivela componente fondamentale ed imprescindibile all’origine del sito e dei suoi allineamenti, vere forme “ponte” tra cielo e terra.

La rampa continua la sua discesa, le luci progressivamente si affievoliscono e ci si ritrova a 6 metri sotto terra. I colori scuri aiutano la percezione di un sottosuolo al confine con una dimensione “altra”. Bisogna prepararsi ad un salto cronologico importante.

All’ improvviso ci si ritrova in uno spazio immenso. Ci si sente piccoli piccoli in questa sorta di lunare vastità. Ci si potrebbe anche chiedere dove si è e, soprattutto, cosa si debba guardare. Le luci cambiano e sfumano; dal buio quasi totale ad un chiarore freddo, fino ad una luminosità dorata e diffusa, per poi passare ad una calda tonalità aranciata che, virando sul violetto e poi sul blu, riporta di nuovo la notte. 

E’ il susseguirsi dei giorni e delle notti, delle albe e dei tramonti, delle lune e delle costellazioni che nei millenni hanno visto la nascita, lo sviluppo, gli utilizzi e i cambiamenti di quest’area straordinaria. Un’area in origine pensata e costruita a contatto diretto col paesaggio e col cielo, ma che oggi, inserita com’è nel tessuto urbano e dotata di un deposito archeologico tanto corposo quanto fragile e vulnerabile, ha necessitato una copertura. Non ci sono solo “pietre”, c’è molto di più! E’ il più grande sito megalitico coperto d’Europa!

Stella