Storie incantate di Natale. Le Fate del Monte Bianco

Le Fate. Creature del sogno e della fantasia, nate dall’immaginazione dell’uomo che solo in questo modo poteva dare forma a qualcosa di immateriale o di inspiegabile. La Valle d’Aosta, terra di alte montagne, di nevi perenni e poderosi ghiacciai, dove Madre Natura si fa severa, implacabile ed esigente, è ricca di storie che narrano di strane creature ed esseri fantastici, benevoli o malevoli, sicuramente volubili.

Creature oniriche, impalpabili, che vivono nelle rocce, dentro le grotte, nei laghi, nelle sorgenti, nei boschi o in luoghi isolati dove le attività umane sono difficili se non impossibili. Luoghi dove le fate si nascondono sottraendosi alla vista, chiuse in un silenzio incantato che, però, se lo si sa ascoltare, a volte può lasciar sentire la melodiosa voce delle fate. Una voce simile ad un canto le cui note solo il vento sa suonare.

Il territorio del Monte Bianco vede la presenza di almeno due fate protagoniste di racconti locali, entrambe individuate in Val Veny: quella nascosta nei ghiacci della Brenva, in un luogo a monte di Plan Ponquet; ed una, forse più famosa, e forse non da sola, che ha stabilito la sua dimora nel lago del Miage.

La Fata del Lago del Miage-Courmayeur (Foto: Giuliana Cuneaz)
La Fata del Lago del Miage-Courmayeur (Foto: Giuliana Cuneaz)

Le leggende narrano che vi fu un tempo in cui, dove ora si stendono le propaggini ghiacciate della Brenva e si apre il lago del Miage, vi fosse una conca verdeggiante ricca di fiori ed erbe profumate dove le splendide fate della grande montagna amavano riunirsi e danzare.

Un giorno, però, la loro voce incantevole e la loro straordinaria bellezza attirarono l’attenzione dei demoni annidati tra le rocce aguzze di quello che veniva chiamato, non a caso, il Mont Maudit (ossia il Monte Maledetto, primo nome della “spaventosa” montagna che diventerà Monte Bianco).

I demoni iniziarono ad insidiare le fate con profferte d’amore sempre più insistenti e sgradevoli.

Le fate fuggirono inorridite e trovarono rifugio nel ventre della montagna, protette da un cerchio di magia invalicabile.

I demoni, accecati dall’ira, scossero le alte vette facendo franare massi enormi e facendo raggelare la dolce vallata in un inverno senza fine. Solo il lago del Miage resistette all’avanzata del ghiaccio e, alcuni dicono, che laggiù, sul fondo da qualche parte, le fate vivano ancora.

“Oh sorgete, soffiate impetuosi,

venti d’autunno, su la negra vetta;

nembi, o nembi, affollatevi, crollate

l’annose querce; tu torrente, muggi

per la montagna, e tu passeggia, o Luna,

per torbid’aere, e fuor tra nube e nube

mostra pallido raggio…”

 

I versi del leggendario bardo Ossian, anche noto come l’ “Omero del Nord”, dipingono perfettamente lo scenario naturale dell’alta Val Veny di Courmayeur che viene quasi ritratta dal canto ossianico: la “negra vetta” sembra infatti richiamare l’aguzzo profilo della scura Aiguille Noire e, al di là del riferimento all’autunno, spesso le serate estive ai piedi del Monte Bianco riservano temporali, vento e rincorrersi di nubi. Per non parlare dell’inverno: lungo, gelido, cristallino, che riveste la valle di una spessa e candida coltre ghiacciata, accompagnandola per mesi in un sonno ovattato ed impenetrabile. Quelle vette imponenti ed appuntite, scintillanti al sole e alla neve, sembrano davvero il regno della misteriosa regina dei ghiacci, ma anche la dimora di fate inafferrabili ed invisibili.

Pareti rocciose incombenti e tormentate, lavorate da antichi movimenti glaciali, sagomate dal vento che vi si annida e vi si rotola, accarezzate dalle piogge e levigate dalle gelate invernali. Ma c’è dell’altro.

Qui domina il silenzio, ma è un silenzio strano, che ti assale, ti avvolge, ti fa quasi il solletico, ti fa venire i brividi. Qui, tra le pieghe ghiacciate della grande Brenva, così come nelle mute acque argentate del Lago del Miage, dimorano le fate di queste montagne, signore di un regno inaccessibile e misterioso che va contemplato fermandovisi ai margini.

In pochi le sanno vedere; in pochi sanno riconoscerne la voce e l’eterea presenza. Una di queste persone è l’artista valdostana Giuliana Cunéaz, una donna la cui mente e le cui mani infaticabili sanno cogliere le sfumature dell’invisibile per dare loro nuova forma, nuova vita. Giuliana ha saputo recuperare queste antiche leggende, queste credenze popolari, riportandole nei loro luoghi: 24 in tutta la Valle d’Aosta.

Nel progetto chiamato, appunto, “Il silenzio delle Fate” (1990), ha voluto evocare queste diafane presenze attraverso un particolare percorso circolare toccando località in cui si narra che una fata sia apparsa. In ognuno di questi luoghi Giuliana Cunéaz aveva installato un leggio in ferro su cui poggiava uno spartito in marmo bianco. Su ogni spartito era riportato uno stralcio di un brano musicale composto appositamente dal musicista torinese Armando Prioglio. A causa dell’uomo e della natura, oggi molti leggi non sono più al loro posto. Riunendo i 24 brani si otteneva un’unica melodia che, mescolandosi al vento, al fruscio dell’acqua e amplificata dalla grandiosità degli scenari naturali, evocava un antico canto, melodioso e silenzioso allo stesso tempo; evoca “il silenzio delle fate”.

Aosta e la magia del solstizio d’inverno

Di pietre e di stelle. Oggi di questo voglio parlarvi. Delle stelle e delle pietre che hanno consentito di risalire alla data di fondazione di Aosta, Augusta Praetoria Salassorum.

Una città disegnata dal solstizio d’inverno!

Potrei dire che “in origine fu la pietra” che ci condusse “a riveder le stelle”. E uso non a caso il verbo “rivedere” col significato di guardare di nuovo (e meglio) la volta celeste. Un pò come avveniva in antico, quando invece l’osservazione delle stelle era usuale, diffusa, e fondamentale per determinare i tempi di semina e di raccolta; ma anche i tempi delle feste, che poi quasi sempre derivavano da celebrazioni di momenti agricoli importanti. Natura, agricoltura, usanze… tutto seguiva il calendario celeste del sorgere e del tramontare di determinate stelle o costellazioni. E già solo questa considerazione ci porta a riflettere sull’importante e stretto legame che univa le stelle e il potere.

Oggi ci siamo persi tutta questa bellezza. Ma forse non del tutto. E la fortuna ha voluto che riuscissi a ritrovare il cielo… partendo dal sottosuolo!

DIARIO DI SCAVO IN PILLOLE

Non voglio qui annoiarvi con lunghi, tecnici e dettagliati resoconti di scavo per i quali vi rimando a precise pubblicazioni, ma vi do un tempo: febbraio 2012. Vi do un luogo: Torre dei Balivi, Aosta. Vi do anche un motivo: indagini archeologiche (condotte dall’Ufficio Beni Archeologici della Soprintendenza per i Beni e le Attività culturali della Valle d’Aosta) preliminari alla posa di una cabina elettrica interrata.

Ricordi. Nel 2012 col Prof. Elio Antonello, presidente della SIA (Società Italiana di Archeoastronomia) in visita al cantiere dei Balivi.
Ricordi. Nel 2012 col Prof. Elio Antonello, presidente della SIA (Società Italiana di Archeoastronomia) in visita al cantiere dei Balivi.

La Torre dei Balivi costituisce lo spigolo  di nord-est della cinta muraria romana di Augusta Praetoria Salassorum e si trova nel punto più elevato della città romana. Deve il suo nome ai Balivi, appunto, ossia ai rappresentanti del Duca di Savoia in Valle d’Aosta incaricati della riscossione delle tasse e dell’amministrazione della giustizia. La Torre è stata sede delle prigioni regionali fino al 1984; in seguito, dopo un primo periodo di abbandono, a partire dal 2000 è stata oggetto di un lungo e complesso cantiere di studio, recupero, restauro e valorizzazione approdato, infine, alla rifunzionalizzazione del complesso in quanto sede del Conservatorio regionale.

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A partire dall’ originario piano di spiccato della torre (cioè l’antico livello del suolo da cui la torre emergeva fuori terra) fino al quinto corso di blocchi in travertino che ne compongono il paramento, si tratta dell’opera muraria originaria pertinente all’epoca di costruzione della torre, ovvero dell’epoca di fondazione della colonia: l’età augustea. Dal quinto corso in su è invece la torre medievale, frutto dei rimaneggiamenti e della sopraelevazione operata dalla nobile famiglia dei De Palatio nel corso del XII secolo. I livelli augustei, fino a questo scavo, erano sempre stati sotto terra almeno a partire dall’età tardoantica quando frequenti e poderose alluvioni portarono all’esondazione dei due rus (canali) che si incrociavano proprio in prossimità dell’angolo nord-est della cerchia muraria.

QUANDO DICI ANOMALIA…

Zoomiamo: spigolo sud-est della suddetta torre. Anomalie, strane protuberanze arrotondate; insomma, un blocco angolare diverso dagli altri. Su quella superficie c’era qualcosa che chiedeva di essere indagato.

Intanto, questa pietra occupa una posizione importante per la statica e lo scarico dei pesi della torre e non a caso è stata montata in opera con l’utilizzo di particolari incastri a “L”.

Dopo aver liberato il blocco dai depositi alluvionali che lo occludevano, ecco comparire le due facce a vista. Entrambe decorate da simboli ad altorilievo suddivisi su due o (nel caso della faccia che guarda a sud) tre registri. In entrambi i casi il registro più basso è occupato da un evidente elemento fallico. I due falli indicano lo spigolo della torre, quasi a voler accentuare la protezione di un punto potenzialmente “pericoloso” e a voler suggerire una direzione specifica: un punto all’orizzonte posto a sud dell’Est.

SIMBOLI

Cominciamo con l’esame della faccia che guarda verso Est. Dal basso è ben riconoscibile un fallo orientato Nord-Sud sormontato da un elemento frecciforme che, dopo una lunga serie di ricerche e alla luce delle considerazioni cui si è pervenuti alla fine dello studio, rappresenta verosimilmente la punta di un vomere di aratro.

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La faccia meridionale presenta anch’essa un fallo, stavolta orientato da ovest verso est, sormontato da uno strumento a forma di “Y” raffigurato in diagonale dall’esterno verso l’interno che, grazie a significativi confronti con raffigurazioni di arature sacre presenti sul verso di monete augustee delle colonie iberiche di Caesaraugusta (Saragozza) e Augusta Emerita (Merida), è stato identificato col manubrio di un aratro, seguito da un elemento falliforme di minori dimensioni; infine, leggermente al di sopra di quest’ultimo, si distingue una sorta di protome zoomorfa (cioé: la parte anteriore di un animale), presumibilmente cornuta e in posizione rampante con le zampe leggermente divaricate.

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Allora, andiamo con ordine.

Innanzitutto la presenza di simboli fallici su mura di epoca romana non deve stupire. Sono, infatti, relativamente comuni e parecchio diffusi (se ne vedono ad esempio sulle mura di antiche città laziali come Anagni o Alatri, ma si ritrovano anche sul Vallo di Adriano). Sono di solito collocati in punti-chiave come angoli sporgenti, torri e porte. Il ruolo del fallo era apotropaico (cioè: doveva tenere lontano il male). E contemporaneamente richiamava l’idea della buona sorte e della fertilità.

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TRACCE DI FONDAZIONE

Le mura erano considerate sacre ed inviolabili, in quanto riflettevano il complesso rito di fondazione delle città stesse. Tale rito, replica ideale della mitica fondazione di Roma, aveva il suo culmine nel tracciamento del perimetro della nuova colonia tramite un aratro tirato da una coppia di buoi bianchi (un bue e una giovenca) guidati da sacerdoti esperti anche nell’osservazione celeste. Solo dopo aver capito quale fosse l’orientamento astronomico più favorevole alla nascita della nuova città, si procedeva a disegnarne a terra il perimetro. La città doveva essere il riflesso del cielo in Terra.

Quindi, anche il ritrovamento di Aosta si inserisce in una ben consolidata tradizione. Su questo blocco ritroviamo l’unione di falli e aratro; o meglio, aratro e fallo si richiamano come fossero un oggetto solo. L’aratro è il fallo che apre la Terra e la rende feconda.

UNO STRANO ANIMALE A DUE ZAMPE

Rimaneva da capire e interpretare la figura animale. Sottolineo che sul blocco era riconoscibile solo la parte anteriore. E quella posteriore? Non si trattava unicamente di abrasione o degrado. Quella parte semplicemente non c’era mai stata. Sul blocco infatti non c’era proprio lo spazio utile alla rappresentazione di eventuali zampe posteriori. Se da un lato è vero che, in presenza di aratro, la prima cosa cui si pensa è un bovino, tale considerazione unita alla posizione di questo animale non davanti, ma sopra l’aratro, ci ha fatto molto riflettere. Dopo lunghe ricerche, ecco la soluzione: un Capricorno!

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Ma certo! Stiamo parlando di Aosta che all’imperatore Augusto deve nascita e nome. E a quanto pare anche altro. E’ noto infatti che il Capricorno, animale immaginario ibrido con parte anteriore caprina e coda di pesce, era la costellazione simbolo di questo imperatore.

Per capirlo dobbiamo risalire al momento in cui Augusto ascende al potere. Una auctoritas, la sua, strettamente legata all’uso intelligente di simboli facilmente riconoscibili. Una sorta di “propaganda” in cui forte era il legame tra potere e stelle; l’imperatore ne usciva nelle vesti di garante dei cicli celesti, e di conseguenza, garante dell’ordine e del benessere dei suoi cittadini. Il cielo era dunque il primo accreditamento per l’arrivo di una nuova “età dell’oro”!

IL POTERE DELLE STELLE

Un segno da sempre associato all’idea di rinnovamento è il solstizio d’inverno. Non deve perciò destare meraviglia che Augusto abbia voluto associare la sua immagine a quella del segno in cui sorgeva il Sole proprio in quel giorno, e cioè il Capricorno.

Non dimentichiamo, però, che da allora il fenomeno della precessione ha spostato il solstizio nella regione celeste compresa tra Scorpione, Ofiuco e Sagittario.

Il “potere delle stelle” augusteo era quindi il Capricorno.

Tale associazione si ritrova in numerose fonti storiche, in svariate monete imperiali (verrà poi ripreso anche da successori quali Vespasiano) e in raffinate opere artistiche. Una su tutte la nota Gemma Augustea. Qui la figura centrale, il punto di attrazione è proprio l’imperatore Augusto sulla testa del quale splende una stella (il Sidus Iulium, comparso in cielo alla morte dello zio adottivo Giulio Cesare) e fluttua il Capricorno.

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Ma attenzione. Di fatto però il Capricorno non era il segno zodiacale di Augusto (nato il 23 settembre, quindi Bilancia). Evidentemente la propaganda imperiale lo ritenne molto più adatto come icona del rinnovamento e gli astrologi di corte seppero trovare questo astuto escamotage. Ne nacquero diverse leggende. Venne altresì associato al giorno di concepimento del principe. Ma non addentriamoci in questo meandro, non ora.

Va senz’altro sottolineato come Aosta sia una delle città più emblematiche e paradigmatiche tra le diverse fondazioni augustee. Una città da manuale che ha fornito un ulteriore elemento di studio: il suo orientamento astronomico al solstizio d’inverno.

LUCI AD EST? NO, A SUD DELL’EST!

Ma perché c’entra la scoperta dei Balivi? Non è certo la “prima pietra” (come da molti è stata erroneamente e banalmente definita), ma indica il punto da cui prese avvio il tracciamento del perimetro della città, proprio perché da tradizione si cominciava dal punto più elevato e si continuava tirando l’aratro in senso antiorario (quindi rispecchiando il moto delle stelle). Non a caso i due aratri (o meglio, l’aratro e il vomere) si “inseguono” proprio in senso antiorario.

SOLE D’INVERNO

Vi ricordate che all’inizio avevo detto che le punte dei due falli indicavano un punto all’orizzonte in una direzione a sud dell’Est? Bene, per chi come me è di Aosta, è noto che quella corrisponde alla direzione da cui si vedono i primissimi chiarori nelle mattine invernali. Parlo di “chiarore”, non di sorgere del sole, quindi non di alba (astronomicamente parlando). Ma è stato il primo indizio per intuire un legame con l’inverno.

E’ stato solo grazie al prezioso aiuto scientifico del Prof. Giulio Magli, ordinario di Matematica e Archeoastronomia al Politecnico di Milano, e successivamente al supporto degli astrofisici dell’Osservatorio astronomico regionale di Lignan (in particolare i dott. Andrea Bernagozzi e Paolo Pellissier) che ne siamo venuti a capo.

Aosta è circondata da montagne e, in particolare l’orizzonte verso sud è dominato da vette molto alte: la cresta del Mont Emilius raggiunge i 3559 metri in meno di 9 km in linea d’aria dal centro della città antica. Non è cosa da poco. Un simile orizzonte tanto alto ha pesantemente influito sui calcoli celesti e in particolare sulla comparsa effettiva del Sole sulla città al solstizio d’inverno.

Capricorno-StarryNight

Calcolando l’ortogonalità degli assi viari principali, Kardo e Decumanus Maximi in rapporto all’altezza dell’orizzonte che è quasi di 17°, si è appurato che il Sole sorgeva in allineamento quasi perfetto col Kardo nei giorni a cavallo del solstizio invernale.

DIES NATALIS

In sintesi. Aosta, anzi, Augusta Praetoria Salassorum, fu progettata in modo tale che un asse cittadino puntasse al sorgere del Sole nel giorno del solstizio d’inverno e dunque anche al sorgere del Capricorno, segno prescelto dal suo fondatore, l’imperatore Ottaviano Augusto.

Oggi naturalmente la precessione ha cambiato lo sfondo delle stelle sul quale il Sole sorge tra 21 e 23 dicembre, ma non ha effetto sugli azimuth solari e la variazione dell’obliquità dell’eclittica negli ultimi 2000 anni è minima. Questo solo per dire che ancora oggi possiamo provare l’emozione di vedere il Sole spuntare puntuale dalla cresta della Becca di Nona in buon allineamento con il Kardo Maximus cittadino (oggi Via Croce di città…non a caso) sempre nei giorni a cavallo del solstizio d’inverno.

Il sorgere del sole in allineamento sul Cardo Maximus al solstizio d'inverno (Enrico Romanzi)
Il sorgere del sole in allineamento sul Cardo Maximus al solstizio d’inverno (Enrico Romanzi)

Nel 2014, anno delle celebrazioni in onore dei 2000 anni dalla morte dell’imperatore Ottaviano Augusto, l’evento è stato organizzato ufficialmente per la cittadinanza. Verso le 11 di mattina eravamo più di 150 assiepati in Croce di Città per assistere all’allineamento solare. Ecco il video di quel giorno (o meglio, della mattina successiva, senza gente), girato dall’amico Andrea Bernagozzi, astrofisico dell’Osservatorio Astronomico regionale di Saint-Barthélémy. Anzi, consentitemi di ringraziare nuovamente gli amici dell’OaVdA che hanno collaborato alla definizione di questa scoperta; oltre ad Andrea, anche l’amico Paolo Pellissier, venuto con me ad illustrare questo evento incredibile al Convegno della Società Italiana di Archeoastronomia tenutosi a Padova nell’ottobre 2014. Continua a leggere “Aosta e la magia del solstizio d’inverno”