Cime rocciose, burroni, strapiombi, torrenti impetuosi e ampie zone paludose: questa era la Valle d’Aosta, quello spicchio di Transpadana che le valide armate legionarie si trovarono a dover obbligatoriamente domare, organizzare e gestire per poterlo finalmente attraversare.
“Il legato Aulo Terenzio Varrone Murena non amava particolarmente quelle terre. La neve, che in alcuni momenti dell’anno pareva soffice albume d’uovo montato; le immense distese verdi come smeraldo che si perdevano all’orizzonte; il silenzio […]”. (da “La legione occulta dell’impero romano” di R. Genovesi).
Sì, il silenzio: un silenzio strano, che quasi tappava le orecchie, rotto solo a tratti dal sibilo di quel vento gelido e feroce che rovesciava giù da nord, da quella valle che si diceva “Valle Fredda”. Le province alpine: ecco cos’erano.Il regno delle rocce, dei ghiacci e delle aquile. Terre strategiche, abitate da popoli sfuggenti che facevano delle montagne le loro roccaforti inespugnabili e che trasformavano quella Natura, per loro così famigliare, in una vera e propria arma.
Ma l’esercito, le legioni, dovevano passare. A tutti i costi. Le legioni avrebbero superato quegli infidi crepacci, quegli scuri burroni e quelle forre scoscese. Avrebbero superato le fitte foreste di pini e i cangianti boschi di betulle. E la paura. Le Alpi spaventavano la maggior parte dei soldati, soprattutto quelli provenienti dalle campagne laziali e dalle coste tirreniche, non avvezzi a simili luoghi e a simili temperature; in particolare la neve li terrorizzava, quella neve che, incontrollata, rovinava a valle con boati tremendi. Le compagini di stirpe gallica e pannonica, invece, erano più preparate al gelo e alla fatica delle lunghe marce.
Eporedia era stata fondata nel 100 a.C. ed era diventata una città-baluardo, un’utile “testa di ponte” per penetrare in quella valle di roccia solcata dall’imprevedibile Duria Maior. Quella valle abitata da tribù imprendibili, quasi degli spiriti capaci di vivere in perfetta simbiosi con le montagne, con le caverne, con il vento. Ecco, sì, quasi figli di quel vento e di quelle rocce, i Salassi dominavano i transiti verso le Gallie. Impossibile passare senza pagare un caro prezzo, o in soldi, o in sangue. I Salassi, nascosti in villaggi pressoché irraggiungibili, mimetizzati tra i pascoli e nelle morene. Lassù, come nidi d’aquila, tutto vedevano e tutto controllavano. Invisibili ed imprevedibili, in una notte potevano sbarrare un passaggio creando slavine, distruggendo ponti. Loro che tra quelle gole sapevano muoversi con agilità anche nel buio più nero. Capitava, infatti, a volte, dal fondovalle, di vedere degli sciami luminosi, fugaci, muoversi rapidamente, come fuochi fatui, lungo le pareti di roccia. Erano loro: i Salassi, i signori delle vette.
Ma l’imperatore voleva il passaggio. Un ordine inappellabile. I Salassi sarebbero scesi a patti? I vari clan disseminati nelle impenetrabili vallate di quella terra, si sarebbero messi d’accordo? Si sarebbe trovato un compromesso? O sarebbero stati scontri e rappresaglie continue? Non importava; si sarebbe affrontata ogni situazione. Ormai non si poteva rimandare: doveva essere avviata la costruzione di una strada militare e commerciale che fosse sicura e funzionale. Quella sarebbe diventatala Via delle Gallie.Nonostante tutto.
E lì. nel cuore di quella cintura di monti, sarebbe nata una nuova città. Nonostante tutto!
Metti una passeggiata ad Aosta. Ma non una passeggiata qualsiasi. Una di quelle che ti portano a scoprire la città, la sua anima, ma soprattutto la sua storia. Una storia che qui si fa plurimillenaria. Lasciatevi dunque alle spalle la rassicurante cortina muraria di epoca romana. Lasciate la monumentale Augusta Praetoria e avventuratevi verso ovest. Attraverserete zone forse ancora poco note della città; i quartieri delle caserme, quelli residenziali, quelli più popolari. Arriverete così a Saint-Martin-de-Corléans. Nucleo del quartiere la graziosa chiesetta romanica dedicata a San Martino. Al di là di un’apparenza forse poco accattivante, è questo un luogo davvero straordinario, dove leggenda, storia e credenze popolari si mescolano e si sovrappongono tra sacro e profano, a cavallo tra mondo pagano e mondo cristiano.
SAINT-MARTIN-DE-CORLÉANS. UN QUARTIERE DAL NOME INTERESSANTE
Il nome stesso di questo quartiere ci catapulta in questa dimensione strana e disorientante. Perché “de Corléans”? Cosa significa? In primo luogo parrebbe ormai comprovato che “Corléans” sia un prediale di matrice romana, intendendo con “prediale” un nome indicante un lotto di terreno, una proprietà fondiaria. L’origine sarebbe da ricercare in un antico Cordelianum, a sua volta derivante da un presunto Cordelius. Ma non è tutto. Ancestrali echi di lontane leggende riecheggiano in questo nome, collegato alla mitica Cordela, “capitale perduta” del popolo dei Salassi, popolo di cultura celtica residente nelle nostre montagne all’arrivo di Roma. A Cordela e al suo fondatore, ossia Cordelo, figlio di Statielo, seguace di Ercole.
Gorlach, the legend of Cordelia
Miti di viaggio, di lunghi spostamenti, di migrazioni di popoli provenienti dall’Asia Minore. In fin dei conti un po’ di verità c’è. E lo vedremo.Scriveva Silio Italico, politico e poeta romano del I sec. d.C.:“Ercole affrontò le vette inviolate: Fu il primo. Gli dei vedono stupitiCome fende nubi, fracassa alture,Doma possente rupi mai battute“.Vagava, il semidio, da Oriente a Occidente cercando fra i ghiacciai la via per i Giardini del Tramonto, dove le Esperidi avrebbero custodito gelosamente i propri frutti.
VIAGGIO ALLE ORIGINI
I miti si intrecciano in queste origini leggendarie di Aosta, alla cui base però si rileva come fosse comunque nota una presenza antica, misteriosa, difficilmente descrivibile altrimenti. Probabilmente si sapeva che in questa zona la Storia aveva lasciato testimonianze particolari, le cui origini e le cui motivazioni affondavano in un’epoca “perduta”, troppo lontana nei secoli e nei millenni perché si riuscisse a meglio contestualizzarla. Ma, col XX secolo, in un modo del tutto fortuito, sarebbero stati gli archeologi a svelare la reale identità di questo enigmatico luogo.
Ci troviamo, infatti, al cospetto dell’area megalitica, unico e prezioso scrigno di testimonianze archeologiche risalenti fino all’epoca Neolitica (V millennio a.C.). Un’area composta da un sito archeologico pluristratificato le cui testimonianze vanno dalla Preistoria al Medioevo passando, come nel miglior manuale di Storia, attraverso le Età del Rame, del Bronzo, del Ferro fino a tutta l’epoca romana, l’età tardoantica e altomedievale. Un Parco archeologico all’avanguardia che ha aperto definitivamente i battenti il 24 giugno 2016 e che, senza alcun dubbio, merita una visita!
Un’area estremamente suggestiva e densa di storia, dove cielo e terra, uomini e dei, dialogano sin dalla notte dei tempi. Un grande, straordinario, santuario preistoricodove funzioni cultuali e funerarie si sono avvicendate e trasformate nei secoli fino all’utilizzo dell’area a fini non solo sepolcrali ma anche agricoli in epoca romana, per poi approdare (nuovamente) al contatto col divino nell’Alto Medioevo attraverso l’emblematica figura di San Martino.
Un santo scelto a ragion veduta. Martino era un soldato, nato nel 316 d.C. nell’antica Pannonia (l’attuale Ungheria) e di cui proprio nel 2016 la Chiesa ha celebrato i 1700 anni dalla nascita. Prima al servizio dell’esercito di Roma, e poi al servizio di Dio. Un santo-soldato, poi divenuto monaco esorcista e infine vescovo, che vigila e presidia: ecco perché, nella stragrande maggioranza dei casi, lo si ritrova lungo le mura delle città, in corrispondenza di castelli strategici oppure in prossimità di importanti e frequentati assi viari. Inoltre ci troviamo in un luogo dove le tracce del paganesimo erano profondamente radicate e testimoniate da eloquenti indizi probabilmente ancora noti o comunque percepiti o percepibili in epoca tardoantica. Occorreva pertanto eradicare queste antiche credenze, i cui strascichi probabilmente si protraevano nel tempo e nella società “spaventata” dalle angosce della fine dell’Impero romano. Occorreva esorcizzare luoghi del genere richiamando la forza e l’attrattività di un santo così amato dal popolo quale era, appunto, San Martino di Tours, l’apostolo delle Gallie.
L’AREA MEGALITICA
Ma non indugiamo oltre ed entriamo, varcando la soglia di questo complesso esteriormente così moderno e avveniristico che, con gli anni, diventerà un importante centro non solo museale, ma di studio e ricerca dedicato alla Preistoria alpina, un settore ancora poco conosciuto e dalle frontiere ancora in buona parte inesplorate.
L’avvicinamento al sito avviene scendendo lungo una rampa dove gli intrecci delle travi in acciaio con le strategiche aperture vetrate consentono di vivere l’azione stessa dello scendere. In una scenografia che sa quasi di archeologia industriale, si vede chiaramente che si sta “bucando” il terreno circostante e si sta andando in un luogo sotterraneo; la cappella si fa più alta e più lontana. L’Aosta dell’oggi sta lasciando il posto all’Aosta “perduta”, a quell’area senza nome avvolta dal torpore dei millenni, l’area “dalle grandi pietre”, l’area megalitica.
Sembra quasi di essere su un’astronave, in viaggio al di là del tempo e dello spazio alla ricerca di mondi solo apparentemente perduti. E non a caso era il 1969 quando questo sito venne scoperto. Giugno 1969. Un mese prima che l’uomo mettesse piede per la prima volta sulla Luna. E, davvero, percorrere questa rampa del tempo per raggiungere un luogo così insolito ed inaspettato, può per molti aspetti essere paragonato al mettere piede su un altro pianeta!
E in effetti, la stessa impressione si può avere sin dall’esterno. Forme taglienti, spezzate, che interrompono il presente per accompagnare, quasi come su una nave spaziale, in un inatteso viaggio nel più remoto passato. Forme lucide, vetrate, riflettenti e trasparenti che vogliono appositamente attrarre la luce che, sia diurna che notturna, si rivela componente fondamentale ed imprescindibile all’origine del sito e dei suoi allineamenti, vere forme “ponte” tra cielo e terra.
La rampa continua la sua discesa, le luci progressivamente si affievoliscono e ci si ritrova a 6 metri sotto terra. I colori scuri aiutano la percezione di un sottosuolo al confine con una dimensione “altra”. Bisogna prepararsi ad un salto cronologico importante.
All’ improvviso ci si ritrova in uno spazio immenso. Ci si sente piccoli piccoli in questa sorta di lunare vastità. Ci si potrebbe anche chiedere dove si è e, soprattutto, cosa si debba guardare. Le luci cambiano e sfumano; dal buio quasi totale ad un chiarore freddo, fino ad una luminosità dorata e diffusa, per poi passare ad una calda tonalità aranciata che, virando sul violetto e poi sul blu, riporta di nuovo la notte.
E’ il susseguirsi dei giorni e delle notti, delle albe e dei tramonti, delle lune e delle costellazioni che nei millenni hanno visto la nascita, lo sviluppo, gli utilizzi e i cambiamenti di quest’area straordinaria. Un’area in origine pensata e costruita a contatto diretto col paesaggio e col cielo, ma che oggi, inserita com’è nel tessuto urbano e dotata di un deposito archeologico tanto corposo quanto fragile e vulnerabile, ha necessitato una copertura. Non ci sono solo “pietre”, c’è molto di più! E’ il più grande sito megalitico coperto d’Europa!
Metto sempre una bella musica come sottofondo quando lavoro: mi aiuta nella concentrazione e soprattutto nell’ispirazione. Ebbene, le note del pianoforte di Yann Tiersen hanno cominciato ad insinuarsi nel mio animo risvegliando emozioni e ricordi di un altro viaggio #OltreConfine.
E stavolta è un #OltreConfine molto vicino e famigliare. Un territorio limitrofo affascinante in cui storia e geografia assomigliano alle nostre mescolandovisi e fondendovisi. Una terra “sorella”, “fuori porta” da sempre in sottile equilibrio tra Italia e Francia sul filo delle vette montane.
Una terra da poco violentata da una terribile catastrofe naturale che ha devastato il Col di Tenda e che merita di riacquisire presto il suo importante ruolo di transito e “liaison”. Nello specifico voglio parlarvi di un villaggio che mi è rimasto profondamente impresso nell’animo: Saorge.
Uno di quei meravigliosi villaggi abbarbicati, “les villages perchés” come li chiamano i “cugini d’Oltralpe”, appollaiato sul suo imprendibile nido di roccia a 50 km da Ventimiglia, lungo l’impervia e selvaggia valle del Roya, nella regione del Mercantour.
Terra strana questa del Mercantour. Terra di fate e di streghe. Terra di demoni e di sciamani. Terra gitana e provenzale; sabauda e mediterranea… sospesa in un equilibrio sempre un po’ precario tra Italia e Francia, letteralmente appesa al Colle di Tenda. Vi avevo già raccontato di una mia esperienza di archeo-trekking in questa zona “meravigliosa”: la Valle delle Meraviglie, appunto, il regno del dio della tempesta!
Ho avuto modo di andare a Saorge tre estati fa, e ancora oggi, se chiudo gli occhi, inizio a sentire “La Noyée” di Yann Tiersen diffondersi per quelle viuzze strette, sinuose, serpeggianti tra case alte e strette, avvinghiate le une alle altre, tra ombra e luce, tra portici e piazzette. Inizio a sentire un profumo tutto particolare nell’aria, un profumo fatto di sale, di mare, di sabbia, di rocce cotte dal sole, di erbe aromatiche, di rosmarino, di timo e di rose.
Arrivare a Saorge è come trovarsi in un mondo immaginario. Si percorre questa strada antica, ricalcata con un nastro di asfalto su un percorso quasi millenario, l’antica Via del Sale inizialmente tracciata dai Conti di Ventimiglia nel lontano 1178 e poi messa in sicurezza alla fine del 1500 dal lungimirante Carlo Emanuele I di Savoia che, dopo essersi impossessato di Tenda, vide in questo collegamento un’ ardua ma imprescindibile via d’accesso al mare. E tale rimase.
La Via del Sale, che poi nel 1800 prese a chiamarsi Reale Strada, collegava Nizza ai monti e poi, dal Colle di Tenda, si spingeva nella provincia Granda piemontese. Probabilmente da qui trae origine la passione dei Piemontesi per le acciughe e per… la Bagna Cauda!! Quale pesce, infatti, poteva conservarsi al meglio sotto sale per così lungo tempo e per un così impegnativo viaggio se non le care vecchie acciughe? E quanto bene faceva assumere sale iodato e pesce azzurro a quelle popolazioni sempre racchiuse tra i monti che, in cambio, fornivano formaggi e burro!
Dicevo, un nastro d’asfalto stretto e spesso aggettante sul vuoto con panorami “imprenables” (sempre come dicono i Francesi) sulla Valle della Roya che corre sotto, incassata nelle rocce che piombano verticali nelle sue gelide e vorticose acque.
Si arriva e già per parcheggiare bisogna essere dei prestigiatori e… degli alpinisti! Sperando che i freni dell’auto non decidano di dare forfait proprio oggi, ci si addentra in questo borgo spettacolare.
A distanza di 2 anni io e Leo usiamo ancora l’espressione “alla Saorge” o “è un tipo un po’ Saorge” per definire personaggi decisamente originali, un po’ zingari, un po’ “Woodstock”, un po’… Saorge, appunto!
Tutti sorridenti, molti scalzi, con vestiti insoliti e sgargianti, tutti un po’ chiassosi ma divertenti! Queste strade dal sapore prettamente medievale: strette, ombreggiate da due file di case in stile ligure, alte, coloratissime, con le persiane che si possono aprire solo in basso.
Foto tratta da mafenetresurlemidi
E musica. Musica da ogni angolo, da ogni piazzetta. Quel giorno c’era anche un mercatino di artigianato e prodotti tipici locali: una meraviglia! Conservo ancora il vasetto di quello strepitoso miele alle nocciole e del profumatissimo miele alla lavanda!
Saorge, ossia San Giorgio. Il ricordo di questo santo cavaliere uccisore di draghi si conserva nei resti di un castello aggrappati con tenacia ad un promontorio roccioso che dall’alto domina il villaggio e si protende sulla paurosa forra sottostante. Mi fa venire in mente alcuni castelli catari in rovina visti tra Carcassonne e Perpignan… Da lassù, voltandosi verso il paese lo si può abbracciare tutto a volo d’uccello: un grappolo di case colorate appese non si sa bene come le une alle altre e contemporaneamente attaccate quasi per magia ad un pendio improbabile. L’antico tracciato della Via del Sale correva intagliato nel banco roccioso e solo i muli riuscivano a percorrerlo con dei pesi addosso. Pensate che fu solo così che nel XVII secolo si riuscì a trasportare a Saorge lo splendido organo barocco fatto realizzare da maestri artigiani pavesi (sì, avete capito bene, a Pavia!!), e che, dopo essere arrivato al porto di Nizza, doveva raggiungere la bella chiesa di Saint Sauveur.
Una chiesa dall’esterno quasi anonimo, una facciata nuda, geometrica sebbene irregolare, con un unico elemento colorato che si distingue: la cuspide del campanile conformata a bulbo e rivestita in tegole a scaglia policrome. Ma l’interno è stupefacente: un trionfo di rosa e azzurro, di stucchi e decori in legno dorato. Effetto sorpresa! Già, perché Saorge si trova anche sul tracciato di un altro importante itinerario che intreccia cultura, arte, fede: le Chemin du Baroque!
Poi, ecco quell’inconfondibile languorino… ora di pranzo! Troviamo posto in un simpatico e colorato dehors “in salita” ricavato in un vicolo. Fuori da questo curioso “bistrot- épicerie” un paio di grandi lavagne scritte a mano raccontano i piatti del giorno. Una giovane cameriera super tatuata e molto truccata esce armata di un sorriso disarmante e ci fa accomodare.
E’ fatta: due “tourtes” alle verdure con semi di sesamo e papavero e una grande insalata con frutta: sì, insalate miste, pomodori, olive nere e verdi, pesche, arance e anguria! Tutto squisito e sapientemente accompagnato da un fresco vinello bianco fruttato giunto in tavola sfuso in una vecchia bottiglia di spesso vetro giallo-verde (tipo quelle dell’olio…).. Nel frattempo un gattone pigro rosso tigrato ci studiava da lontano in attesa di qualche bocconcino mentre un micetto tutto bianco si strusciava contro le gambe della sedia per farsi coccolare.
Nel pomeriggio si riprende la passeggiata; destinazione chiesa romanica della Madonna del Poggio, X secolo! L’unica chiesa così antica, in puro e raffinato stile romanico lombardo della vallata… un sogno! Uno spicchio di Medioevo selezionato, poetico, basico, essenziale.
Quest’abside ricamata di archetti pensili e questo campanile allungato, dotato di ben sette livelli di quadrifore e trifore cieche, incorniciati in questa campagna apparentemente nuda, in un silenzio rotto dal frinire delle cicale e dei grilli, in un’aria dorata che ti scaldava anche l’anima. Peccato fosse chiusa, ma vi assicuro che già la sola visita dell’esterno ci ha riempito di soddisfazione.
Attaccata a questa chiesa una piccola cappella con la facciata rivestita di affreschi quattrocenteschi: vicino all’entrata un cartello “proprietà privata” e infatti la cappella si trova praticamente attaccata ad una villa che, pur seminascosta dagli alberi, non nega la sua bellezza aristocratica… chissà chi sono i proprietari!
Ma non sapevamo che il bello doveva ancora venire…
Inforchiamo una ripida salita in acciottolato senza nemmeno un angolo d’ombra… per fortuna un sottile venticello bastava a tenerci sù il morale! Destinazione: Monastero dei Francescani Osservanti, XVII secolo, monumento appartenente al Patrimoine National.
Ci avviciniamo, siamo noi due e una coppia di turisti inglesi. Intorno, quel silenzio che solo gli assolati pomeriggi d’estate sanno regalare. Un cartello recita che la prima visita guidata sarebbe partita da lì ad una mezz’ora: aspettiamo, anche perché altrimenti non avremmo avuto modo di entrare!
La facciata giallo chiaro con specchiature color mattone profilate di bianco, sobria nel suo gusto pur barocco, si erge su un prato cinto da alti alberi che incorniciano il panorama mozzafiato sul villaggio. Una fontana dà il benvenuto.
In quest’atmosfera sospesa attendiamo che il portone si apra. Ed ecco che l’ora giunge; lo sbalzo tra esterno ed interno è scioccante, sia per il passaggio luce-ombra che per lo sbalzo caldo-freddo! Nel frattempo gli aspiranti visitatori sono aumentati e veniamo contingentati in un corposo gruppetto di circa 15 persone. Un ragazzo giovane ci accoglie sorridente, gentilissimo: sarà lui la nostra guida.
Entriamo nella corte interna, illuminata da ben nove meridiane dipinte tra XVII e XIX secolo. Ciò che immediatamente ci colpisce è venire a sapere che oggi, questo monastero non è più abitato da monaci, ma è utilizzato come “casa di ispirazione” per artisti, siano essi musicisti, poeti, scrittori, attori, sceneggiatori… Loro possono restare lì per creare, per coltivare la loro vena creativa, gratuitamente! Ricambiano l’ospitalità facendo visite guidate del monastero e arricchendo le serate della comunità con incontri, conferenze, concerti, a seconda del loro personale talento… ma non trovate sia semplicemente meraviglioso? In più si occupano della manutenzione ordinaria della casa facendo le pulizie e curando l’orto..
devo dire che questo sarebbe un modo efficace, intelligente e oculato da adottare anche da noi per salvare siti analoghi dal degrado e dall’abbandono… A questa notizia io e Leo ci siamo guardati; e non c’è stato bisogno di dirsi nulla… quanto avremmo voluto fermarci lì a scrivere! Ancora oggi, ogni tanto, sospiriamo pensando alla pace, al silenzio e soprattutto a quella particolare atmosfera “fuori dal tempo” del Monastero do Saorge.
Giunti sul retro, mentre lo sguardo si perdeva tra gli ortaggi dell’orto, le vigne e poi sù, verso un fondo di vallata laterale che più impenetrabile non si potrebbe immaginare, un tuono improvviso annuncia l’arrivo repentino di un temporale estivo. Il cielo di colpo si fa scuro e si riempie di nuvoloni color antracite, spessi e gonfi di pioggia.
Per circa un quarto d’ora ce ne stiamo lì, sotto un porticato secentesco affacciato su una natura rigogliosa, con le narici ormai sature di aromi e profumi e nelle orecchie solo la voce tintinnate della pioggia. Poi tutto passa. Tutto rapidamente si consuma e torna a splendere un sole d’arancio che volge al tramonto.
In lontananza, verso il mare, il fantasma di un arcobaleno; sotto di noi le fosche gole del Roya ruggiscono indispettite dal temporale. E noi lì, come in una bolla, sorpresi e travolti dall’incontenibile voglia di raccontare quel posto, di non andarcene, di stare lì, liberi, un po’ zingari e un po’ mistici, un po’ Francesi e un po’ Italiani, sotto l’ombra diruta del castello di Saorge.
Oggi #OltreConfine si spinge davvero “oltre”! Si va oltre il Mediterraneo per raccontarvi un viaggio straordinario in un luogo avvolto dalla magia che si rivela piano piano, dischiudendosi tra sabbie dorate e rocce dalle incredibili sfumature. Oggi si va in Giordania!
Arrivo a Wadi Mousa sotto un cielo di sabbia: il Ghibli, vento del deserto, imperversa sulle case e riempie le strade tingendo tutto di ocra gialla. Sono in Giordania.
Wadi Mousa (S. Bertarione)
La mattina seguente tutto brilla sotto un sole già alto alle prime ore del mattino; un’aria chiara e tiepida fa presagire il calore della giornata. Si va a Petra. La mitica Petra, città carovaniera, svelata al mondo dall’esploratore anglo-svizzero Johann Burckhardt nel 1812 in occasione di un viaggio da Damasco al Cairo. Gli dissero che quelle montagne erano impenetrabili e molto pericolose e, proprio per questo, lui ci volle entrare.
Si travestì da mercante musulmano forte della sua conoscenza dell’arabo. Spiegò che doveva assolvere ad un voto fatto ad Allah e riuscì a conquistare la fiducia delle genti beduine che abitavano nelle antiche cavità nabatee.
L’autobus ci lascia in un ampio parcheggio reso abbagliante dalla luce; da lì ci si incammina, tutti in fila. E’ strano: c’è gente, è vero, ma sembra di essere soli. Forse perché la fantasia inizia a lavorare in maniera sempre più incalzante astraendoti dalla realtà …
Petra dalle Tombe reali
Sei alle porte di un deserto; un deserto insolito, un deserto di roccia, dove luci accecanti si alternano a vere e proprie gallerie d’ombra.
Un deserto cangiante dove il millenario lavorare di acque, terra e vento ha letteralmente dipinto il paesaggio con incredibili nuances di rosa, arancio, rosso e violetto, talvolta striati di giallo, di bianco o di un viola talmente intenso da assomigliare al blu indaco.
Come in un onice. I colori del deserto giordano
Il sentiero si inoltra nella valle fino ad insinuarsi in una sorta di corridoio dalle alte pareti rocciose, un corridoio che si fa sempre più stretto e scuro: è il Siq!
Si tratta di una vera e propria via d’accesso alla mitica Petra, misteriosa città dei Nabatei, ricco popolo di queste terre. Un popolo di intraprendenti commercianti e di coraggiosi guerrieri.
I resti di un attacco d’arco lasciano immaginare l’antica (e scomparsa) porta d’accesso del Siq. In basso ancora ben riconoscibile il canale di scorrimento delle acque che riforniva la città.
E la strada pare scendere ed insinuarsi sempre di più nel ventre di roccia di un deserto avvolgente e palpitante. Poi, nell’ombra, tutti incanalati in un passaggio davvero angusto, una fessura di luce appare in lontananza.
Una breccia lascia intravedere uno spicchio di facciata architettonica completamente permeata di luce arancione..o meglio, di una luce che varia a seconda delle ore del giorno. Dal tenue rosa dell’alba, all’arancio carico del mezzogiorno fino al porpora infuocato del tramonto. E’ El Khasneh al Faroun. Il Tesoro del Faraone.
Vera icona di Petra questo monumento, voluto dal sovrano nabateo Areta III (I secolo a.C.), colpisce e stordisce per la sua quasi inspiegabile meraviglia. Scolpita nella parete rocciosa, solida ma facile da lavorare, quest’imponente architettura si erge in tutta la sua maestà: una scalinata consente di raggiungere una terrazza da cui partono sei colonne corinzie. Ai lati le figure dei Dioscuri. In alto, al centro, troneggia un elegante frontone decorato da raffinati ed esili girali vegetali alternati a kantharoi (vasi da simposio). Quindi una sorta di semi-attico decorato a rosette sorregge un secondo livello colonnato dove la creatività e l’eclettismo architettonico toccano vertici inimmaginabili. Al centro una pseudo- tholos (tempietto circolare)cieca scandita da colonne, sempre corinzie tra le quali risaltano (seppur molto danneggiate) delle figure umane interpretabili come divinità. Quella in facciata pare reggere una cornucopia e connotarsi, quindi, come dea dell’abbondanza. Ai lati della tholos, sul fondo, emergono i profili di due figure divine alate. In primo piano, invece, due porzioni di colonnato cieco decorate, forse, da trofei d’armi, sorreggono un timpano spezzato. Il tutto decorato sempre da motivi vegetali e dentelli. Una sovrabbondante ma ben studiata ricchezza decorativa densa di significato.
Petra. El Khasneh al tramonto (S. Bertarione)
Tempio? Tomba? Monumento celebrativo? Cenotafio? Le ipotesi sono ancora aperte affollandosi, sostituendosi e contraddicendosi continuamente.
Ma Petra non finisce qui. Petra era una città…immensa! Le tombe punteggiano quasi interamente le pareti rocciose intorno alla via principale…ritagliate e scolpite quasi cercando volutamente un’armonia con le onde colorate delle rocce. E poi il grande teatro con l’ampia cavea ricavata nel grembo della montagna. E poi ancora i resti svettanti del cosiddetto “Tempio di Dushara” importante dio nabateo della montagna, poi ribattezzato dai beduini “Qasr-al-Bint-Faroun”, “il palazzo della figlia del faraone”. IUn edificio importante anche perché uno dei pochissimi costruiti e non scavati nella roccia. In cima all’arcone d’accesso un sottile filo di conci lapidei disegna ancora l’arcata originaria meravigliando per come possano resistere così apparentemente sospesi, fragili…
E poi sù… sù per l’impervio e assolato sentiero fino a El Deir, il Monastero: un’altra incredibile tomba “sorella” del Tesoro, simile per impostazione ma ben più sobria nel decoro.
Petra. El Deir, il Monastero (S. Bertarione)
Tutti cercano di indurti a salire a dorso di mulo, ma meglio usare le proprie gambe e risparmiare l’inutile fatica a quelle povere bestiole..tutte decisamente sottopeso oltretutto!
Un sito che è stato abitato fino a non tantissimi anni fa… e che ancora oggi vede qua e là gruppi di nomadi venditori di souvenirs.
Si possono riuscire a scattare foto davvero suggestive..anche immortalando una dolcissima bimba beduina che gioca,
Petra. Bimba beduina
o quasi ipnotizzati dal profilo senza tempo di un uomo figlio di queste sabbie, avvolto in candide vesti, mentre scruta un orizzonte lontano… un orizzonte dove, forse, ancora si odono le voci dei principi nabatei.
Oggi #OltreConfine vi porta verso nord, oltre la cortina montana che separa la Valle d’Aosta dal Vallese svizzero. Dalle cime dove la neve sosta per almeno 6 mesi l’anno, planeremo su un fondovalle incorniciato di vigneti dove risplende Martigny, vera capitale culturale di questo grazioso cantone elvetico, non a caso gemellata con Vaison … “la Romaine”, ça va sans dire!
La storica ed eroica strada romana delle Gallie, da Aosta saliva affrontando gli impervi tornanti che conducevano al Summus Poeninus (il colle del Gran San Bernardo, o “il Grande” come familiarmente viene indicato in Valle d’Aosta)) da cui si “scollinava” per raggiungere l’attuale Martigny (Forum Claudii Vallensium) per poi proseguire alla volta di Magonza (Mogontiacum) e Treviri (Augusta Treverorum). Fermiamoci dunque a dare un’occhiata archeologica a questa graziosa cittadina del Vallese! Guardate, merita davvero!
Ricostruzione di Forum Claudii Vallensium (la Martigny romana)
Questa città elvetica può vantare oltre 2000 anni di storia. Stando a quanto ci racconta Giulio Cesare in merito alle sue campagne contro gli Elvezi, doveva essere un oppidum (centro fortificato) dei Veragri, nominato Octodurus. Fu proprio qui che le truppe cesariane subirono una sonora sconfitta nel 57 a.C.! In seguito, sotto l’imperatore Claudio (I sec. d.C.) la città divenne Forum Claudii Vallensium, capitale della provincia delle Alpes Poeninae.
I Galli Veragri controllano l’avanzata delle truppe di Cesare. Battaglia di Octodurus del 57 a.C. (ricostruzione grafica nel museo locale)
Forum Claudii Vallensium fu quindi creata negli anni tra 41 e 47 d.C. sviluppata su 3 file di 6 insulae ciascuna con l’area forense al centro. Da sempre un importante e strategico snodo commerciale di indubbio valore viabilistico nonché militare. Caratteristiche che condivide con la non lontana Aosta del resto. Città sentinelle dei valichi alpini.
Le tante e ben conservate vestigia di epoca romana valgono il viaggio! Scoprirete siti come il fanum, tempio di origine gallica ritrovato nell’area dove oggi sorge la Fondation Gianadda (i suoi resti corrispondono al quadrilatero in muratura proprio al centro del complesso): assolutamente imperdibile il museo gallo-romano locale! #DaVedere
Il centro della Fondation Gianadda: il quadrilatero in muratura è quanto ci resta dell’antico tempio gallico
La città è anche conosciuta per il suo Anfiteatro romano, costruito intorno al 100 d.C. e oggetto di importanti interventi di valorizzazione. Ultimati da non molto, questi lavori hanno provvisto l’antico edificio di spettacolo di 3 nuovi ordini di gradinate (reversibili e indipendenti dalla struttura antica) per consentire a più persone di presenziare alle di norma numerose manifestazioni estive. Inoltre sono state collocate statue bronzee raffiguranti gli imperatori romani che, più di altri, hanno fatto la grandezza di Martigny LA ROMAINE: Cesare, Augusto e Claudio.
Vi segnalo inoltre la cosiddetta Domus del Genio domestico, così battezzata in seguito al ritrovamento di una statuetta di Lare (nota divinità protettrice della casa) al suo interno. Datata al II secolo d.C. è una dimora decisamente lussuosa, appartenuta senza troppi dubbi ad un personaggio di spicco della comunità; presenta un bel peristilio (giardino circondato da portici), un triclinium, balnea privati, hortus e frutteto.
Non lontano dalla Fondation Gianadda si trovano anche i resti di un mitreo risalente al II sec. d.C., l’unico santuario dedicato al dio Mitra aperto al pubblico in tutta la Svizzera. Ne abbiamo anche uno ad Aosta, ma nel sottosuolo dei giardini di Via Festaz… quindi, non visibile! L’esemplare di Martigny doveva essere un edificio decisamente impressionante ed austero: un corridoio conduce alla grotta sacra chiamata spelaeum, cuore del culto mitraico, dominata da una scena di tauroctonia in cui il dio Sole Invincibile (Sol Invictus) uccide il Toro col pugnale.
Il Tepidarium delle Terme romane di Martigny
E sempre in prossimità della Fondation Gianadda, in Rue du Forum, vi segnalo il sito del Tepidarium delle antiche Terme romane, musealizzato e valorizzato nel 2011. Il testo del passo del De Bello Gallico relativo alla difficile battaglia di Octodurus contro Veragri e Sequani (andata male per Roma) domina il fondale di questo particolare allestimento creato appositamente per dare risalto ai resti della vasca dei bagni tiepidi, assolutamente ben conservata e facilmente leggibile nelle sue caratteristiche tecniche, compreso il sistema di riscaldamento dell’acqua. Infine due copie di teste in bronzo di Cesare e Claudio ricordano i due personaggi che più di altri hanno inciso nella storia della città e del suo territorio.
In particolare sottolineo che la testa dell’imperatore Claudio riproduce quella messa in luce dagli scavi condotti nel teatro di Vaison-la-Romaine, splendida cittadina francese del Vaucluse (Provenza) ricca di testimonianze romane, gemellata con Martigny di cui vi ho raccontato nel post precedente.
Ercole e Apollo citaredo. Con queste due meravigliose statue il gemellaggio è stato consolidato e suggellato nel 2015. Plasmate in candido e brillante marmo di Paros, queste sculture furono rinvenute nel luglio del 2011 in occasioni di interventi di riqualificazione del quartiere “des Morasses” a Martigny. Ricordo perfettamente la profonda invidia che tale ritrovamento suscitò in tutti noi archeologi valdostani… I “vicini di casa”, infatti, possono vantare un patrimonio di statuaria, sia lapidea che bronzea, che noi purtroppo non abbiamo. “La più importante scoperta di opere d’arte antica dal 1883, ossia da quando vennero ritrovati i grandi bronzi di Martigny!”, esclamò l’amico archeologo vallesano (oggi in pensione) François Wiblé.
Apollo citaredo, realizzato nel I sec. d.C., e Ercole (con la sua inconfondibile leonté) datato al II sec. d.C., dovrebbero provenire da un atelier del Mediterraneo orientale e, probabilmente, decoravano una grande sala del complesso termale privato relativo alla lussuosa domus nel cui contesto furono individuate. Una scoperta mozzafiato!
Sapientemente esposte nel ricco Museo archeologico locale, queste due divinità sprigionano un fascino magnetico.
Per non tacere, poi, della splendida statuetta marmorea di Venere, anch’essa ritrovata a Martigny nel 1939, replica dell’Afrodite di Cnido di Prassitele, figura ammirevole nella perfezione delle sue forme, che, nello splendore della sua nudità, si appresta al bagno. Prestigioso oggetto che ornava una domus del Forum Claudii Vallensium.
Non c’è che dire: l’epoca romana segna un momento decisamente fausto per questo antico centro transalpino. Quando ci andrete, consigliamo di seguire la bella Promenade archéologique, segnata e illustrata da pannelli esplicativi, che vi accompagnerà alla scoperta dei numerosi siti cittadini:
Con la cristianizzazione, Martigny diventa uno dei primi centri episcopali di Svizzera e la città riesce ancora oggi ad affascinare i visitatori coi quartieri storici de La Batiaz (così chiamato dal castello che lo domina) e del Vieux-Bourg.
Concludo ricordando la presenza, ad una manciata di km da Martigny, la splendida e antichissima Abbazia di Saint Maurice d’Agaune, fondata da San Sigismondo, re dei Burgundi, nel 515 d.C. e di cui, nel 2015, si sono festeggiati i 1500 anni! Sigismondo, miracolosamente toccato dalla grazia divina, decise di venire a chiedere perdono dei suoi peccati sulle tombe dei martiri della mitica legione Tebea, soldati dell’esercito romano convertitisi al Cristianesimo, primo su tutti, San Maurizio che, coi suoi fedeli compagni, venne martirizzato proprio in questo luogo nel III sec. d.C.
Il complesso dell’Abbazia visto dall’alto
Nel 380 d.C., San Teodulo, primo vescovo di Martigny, rende onore a questi martiri facendo deporre le loro spoglie in un santuario apposito ai piedi della roccia di Agaunum, antico insediamento e luogo sacro dei Celti indigeni.
Qui ingenti e complesse campagne di scavo hanno permesso di riportare in luce questo millennio e mezzo di vita monastica con resti architettonici che vanno dal IV al XVII secolo d.C.! Una rarità! Un vero gioiello assai ben valorizzato la cui visita, almeno per me, ha occupato più di 2 ore! Imperdibile anche il Museo del Tesoro con preziosi oggetti di arte sacra (oltre 100!) che vanno dall’età merovingia ai giorni nostri.
Decisamente notevole il cosiddetto vaso, o bicchiere, di San Martino: un meraviglioso cammeo dalle sfumature cangianti tra azzurro e blu scuro intagliato a regola d’arte con scene a tema funerario, interpretate come la morte di Marco Claudio Marcello, nipote prediletto di Ottaviano Augusto e suo successore designato. A lui Augusto, infatti, concesse di sposare la figlia Giulia nel 25 a.C.
« Heu, miserande puer, si qua fata aspera rumpas, Tu Marcellus eris. »
« O, giovane degno di pietà, se solo tu potessi rompere il tuo fato crudele, Tu sarai Marcello »
(Virgilio, Eneide)
Un cursus honorum rapido e folgorante; ambizioni, progetti e gloriose previsioni che, ahimé, si infransero in maniera tanto rapida quanto misteriosa nel 23 a.C., in piena ascesa. Un’oscura e sorda antipatia correva tra Marcello e Agrippa, braccio destro di Augusto, nonché con Tiberio. Marcello si spense per un’ignota malattia non ancora ventenne.
Un oggetto originariamente di epoca romana imperiale successivamente reimpiegato e arricchito da una preziosa incastonatura in oro, granati e pietre dure. La leggenda narra che questo vaso cadde dal cielo nelle mani di San Martino per raccogliere il sangue dei martiri tebani. Secondo la versione storica potrebbe aver fatto parte delle ricche donazioni da parte del burgundo Sigismondo.
Da qui passa la Via Francigena e l’Abbazia, da sempre, costituisce una tappa di tutto rilievo dove risanare corpo e spirito.
E prendendo infine la via del ritorno, nel lasciare Martigny, sarà impossibile non notare la grande statua bronzea del “Minotauro” al centro della rotonda di Avenue de la Gare.
Un’opera contemporanea ma che sintetizza non solo la storia millenaria di questa graziosa cittadina, ma evoca potentemente, quasi a suggellarne il ricordo, la grande testa del “Toro tricorne”, il pezzo più celebre e suggestivo dei Grands Bronzes di Martigny trovati, come si accennava, nel 1883 nell’area della basilica forense.
Il Toro tricorne, creatura del mito in cui un animale carico di significato sin dalla notte dei tempi, simbolo di forze e virilità, si carica di un’ulteriore valenza legata al mondo sacro e culturale gallo-romano. Eh sì, i 3 corni rappresentano la triade sacra dei Galli: Lugh (il dio degli dei), Dagda (dio druidico del cielo) e Ogma (dio della Guerra). Il 3 è IL numero per antonomasia: 3 le spirali unite del triskelès (simbolo di vita e rigenerazione continua), 3 i volti della Dea (figlia, madre e sposa). 3: creazione, crescita, perfezione.
Altro esemplare straordinario è “le taureau tricorne d’Avrigney” (I sec. d.C.) trovato nel 1756 nell’omonima località francese della Borgogna.
Il culto del toro tricorne presso i Galli, anche contestualmente alla romanizzazione, è sempre stato profondamente radicato ed è attestato in modo diffuso soprattutto tra Svizzera e Francia. Quello di Martigny è forse l’esemplare più monumentale, grandioso e celebre. Troneggiava nella basilica del foro, là dove, pare, sorgeva anche un luogo di culto dedicato alle divinità autoctone, sapientemente inglobate e incluse nel pantheon ufficiale come spesso accade.
Che fosse proprio questo toro il protettore dell’antica Octodurus…difficile a dirsi, ma … dicono i Vallesani, senza dubbio era un fantastico esemplare della razza d’Hérens, la forte e combattiva razza bovina tipica della zona!
E anche su questo aspetto i Valdostani, con le vacche castane locali, le “Regine“, non sono certo da meno! Regine, quasi dee, di una sorta di radicata e sentita, comunque pacifica e spontanea, caratteristica dell’indole di questi animali, “tauroctonia” istintiva che spinge queste razze a combattere per definire il capo branco, la Reina dell’alpeggio.
Una sorta di “culto” per questi animali, emblemi di forza ma anche di fertilità e nutrimento, che accomunano un’altra triade: Valle d’Aosta, Alpi francesi e Alpi svizzere!
Queste magnifiche giornate, più miti e più lunghe, la luce diversa, gli alberi in fiore, i prati sempre più verdi mi hanno fatto tornare alla mente una terra che io adoro: la Provenza!
#OltreConfine ci porta in Vaucluse nella splendida civitas di Vaison-la-Romaine che, come in un perfetto quadro impressionista, incastonata in un paesaggio pennellato nei toni del giallo ocra, del lavanda, del verde e dell’azzurro, si apre tra le colline e la pianura attraversata dal torrente Ouvèze.
Vigneti, uliveti, campi di lavanda e girasoli… colpi di luce talvolta accecanti in questa terra meravigliosa dove spesso si vorrebbe non solo trascorrere una vacanza, ma un’intera vita.
Le case rosate di Vaison emergono nella piana dominata dal Gigante di Provenza, quel Mont Ventoux cantato dal Petrarca (dopo aver ripreso fiato perché, a quanto dice, la salita lo sfiancò!): verso nord scruta le vette alpine; verso sud, strizza l’occhio alle onde mediterranee: tra monti e coste, dalle nevi alle onde seguendo antichi tracciati preistorici, protostorici, romani e medievali che hanno disegnato un sorprendente e vasto territorio liaison tra Italia e Francia.
Siamo nel dipartimento del Vaucluse, dicevamo, nella terra che in antico corrispondeva alla provincia romana della Gallia Narbonense. Vaison-la-Romaine, ossia Vasio Vocontiorum, civitas foederata di Roma, ci restituisce oggi l’area archeologica aperta al pubblico più vasta e meglio conservata di Francia: ben 15 ettari a cielo aperto armonicamente inseriti in un contesto urbano e paesaggistico dalla bellezza quasi commovente. Tutta la poesia della dolce Provenza con oltre 2000 anni di storia alle spalle!
Vasio (derivante probabilmente da una radice celtica col significato di “sorgente”): forse un oppidum della tribù celtica dei Galli Vocontii, in merito ai quali l’enciclopedista “tuttologo” Plinio il Vecchio cita un particolare vino dolce e leggermente effervescente davvero squisito! Ci racconta che i Vocontii conservavano il segreto di conferire a questo vino la giusta effervescenza, pare, lasciandolo per lungo tempo nell’acqua fredda dei torrenti…Che sia l’antenato dello champagne?!
I Vocontii fanno la loro comparsa nel IV secolo a.C. calando da nord; la regione a loro piace molto (non mi sorprende!) e decidono di stabilirvisi creando due “capitali”: Vasio, appunto, e Lug (attuale Luc-en-Diois). Roma conquista queste terre tra il 125 ed il 118 a.C. e, in breve tempo, le due cittadine diventano i centri più floridi dell’intera Narbonense, come del resto ci racconta lo storico Pompeo Trogo.
L’Ouvèze, in passato navigabile, divide la città in due parti: la città alta, nata nel Medioevo intorno al severo maniero dei conti di Toulouse, vero gioiello rimasto apparentemente fermo al XIII-XIV secolo! E la città bassa, sorta e sviluppatasi sui resti del centro romano che, tuttavia, dopo le campagne di scavo di inizio Novecento, per ben 15 ettari fanno bella mostra di sé tra le case, accanto alle chiese, nei giardini…
Il centro moderno è a dir poco delizioso. Domina una calda e rassicurante luce rosa-dorata che accende i colori degli innumerevoli vasi e balconi ridondanti di fiori. Piccoli vicoli ombreggiati conducono a piazzette “gioiello” spesso con fontana, sempre rivestite di fiori. Negozi carinissimi e ristorantini accattivanti occhieggiano tra piante di pomodori, aglio e cipolle; i profumi del timo, dell’origano e dell’immancabile lavanda vi accompagneranno ovunque!
Ma iniziamo a dedicarci all’aspetto più strettamente culturale.
La mia visita era partita con l’area della Villasse, corrispondente ad un ricco quartiere residenziale (con magnifiche domus) e commerciale (con botteghe e porticati). Le tabernae si aprono su un tratto del Kardo Maximus diretto alle vicine terme. Degne di interesse due dimore patrizie: la Domus del Busto d’Argento e la Domus del Delfino. La prima, costruita all’inizio del I sec. d.C., raggiungeva una superficie totale di ben 5000 mq ed è la più vasta ed imponente dimora romana di tutta Vaison al momento messa in luce. La seconda, così chiamata in seguito al ritrovamento di un piccolo delfino in marmo, venne abbellita ed ingrandita nel corso del II secolo d.C.; sul retro, lato sud, uno splendido giardino con piscina. Residenze di lusso, senza dubbio!
Altro sito imperdibile è quello chiamato del Puymin. In posizione leggermente sopraelevata, ospita altre dimore di pregio, un santuario e, udite udite, un fantastico edificio teatrale!
2000 i mq di superficie (solo parziale!!) ad oggi noti per la Domus dell’Apollo laureato, con un tablinum incredibile dal pavimento a marmi policromi affacciato sul peristilio. Per non parlare dell’immensa Domus della Pergola che raggiunge i 3000 mq (e anche questa non è stata scavata del tutto!). Il nome le deriva dal pergolato che caratterizza un amplissimo triclinium estivo affacciato sulla corte centrale. Una zona sud prettamente residenzial-suntuaria (dotata anche di balnea privati) ed una a nord dalle funzioni rustiche e di servizio (un pò come nella Villa della Consolata di Aosta).
E ancora, la visita prosegue con un vasto ed arioso santuario costituito da un periptero porticato aperto su un giardino con vasca centrale. Da qui si può accedere ad un quartiere artigianale.
Ma il “pezzo forte” del Puymin è lui, il teatro! Tutelato come “monumento storico” sin dal 1862, si tratta di un superbo esemplare di epoca claudia realizzato scavando il versante settentrionale della collina del Puymin, cosa che ha assicurato al teatro un’ubicazione al riparo dai venti e, allo stesso tempo, fresca ed ombreggiata. Ulteriormente oggetto di abbellimenti nel II e nel III d.C., si pensa venne distrutto dopo l’emanazione dell’editto di Onorio nel 407 d.C. quando tutte le statue di dei e imperatori che ne ornavano la scaenae frons furono abbattute e/o volutamente sepolte. Durante il Rinascimento del teatro si conoscevano soltanto due arcate, uniche testimoni della grandezza passata. Oggi la cavea con le sue 32 gradinate è stata radicalmente ricostruita, ma il teatro è vivo e vissuto, splendida sede di eventi, spettacoli e manifestazioni.
Terra di Provenza. Una terra dove “romano” (in francese “romain”), va a braccetto con “romanico” (in francese “roman”). Due termini che nel gallico idioma sono separati e distinti solo da una semplice “i”. Due aggettivi che rievocano due epoche imprescindibili, due culture sfavillanti che forse qui più che altrove hanno saputo avvicinarsi e fondersi. Non di rado infatti accade che una cattedrale romanica altro non sia che il magnifico risultato, architettonico ma anche fortemente ideologico e simbolico, di sapienti e mirati reimpieghi dell’età di Roma.
E anche a Vaison vi consiglio di visitare la suggestiva cattedrale di Notre Dame de Nazareth col suo poetico chiostro; un luogo dello spirito dove fermarsi a guardare fuori ma soprattutto dentro di sé. Un luogo di silenzio e di pace dove la luce potente del Sud si infrange tra le arcate e le colonnine rimbalzando sulle bifore e saltellando sulle mostruose creature che ornano stipiti e portali.
Il chiostro di Notre Dame de Nazareth (S. Bertarione)
E ancora il Museo Archeologico “Theo Desplans”. Non grande ma assai curato, luminoso, coinvolgente e con reperti di notevole interesse che ben raccontano i fasti passati di una cittadina dall’economia fiorente e vivace, per quanto vi sia esposto meno della metà di quel che ci si aspetterebbe… Ci viene detto, infatti, che nei secoli le collezioni sono andate disperse e che reperti provenienti dagli scavi di Vaison sono finiti in tutti i musei di Francia e anche oltre oceano! A tale proposito un’associazione locale ha creato un sito che consente di sapere dove questi si trovano e dove andarli a ricercare.
Sala della statuaria
Vaison, Vasio Julia Vocontiorum. Una perla di Provenza che ben fa il paio con la forse più conosciuta Orange. Una terra dai forti contrasti dove il mare si perde nei monti e l’azzurro si confonde col verde, dove la dolcezza dei campi fioriti quasi improvvisamente lascia spazio alla rude severità delle rocce calcaree e dei manieri arroccati. Contrasti che, forse, stando a recenti studi storici, si possono persino ritrovare nella prosa del grande storico Tacito di cui si vociferano origini galliche. In effetti, a ben pensarci, la sua lucida analisi di un impero che pur nella sua struttura centralizzata doveva saper fare i conti con l’elemento “barbaro” forse è frutto di un gallo romanizzato piuttosto che di un autoctono romano purosangue… chi lo sa…
Vi lascio quindi con questa poesia di Provenza e con questi colori negli occhi; ma soprattutto con la voglia di trascorrere delle “vacanze romane” molto particolari nella terra che venne a buon titolo definita sempre dal nostro amico Plinio “Italia verius quam provincia”.
Eccoci al terzo appuntamento di #OltreConfine. “Petites pastilles d’escapades” come direbbero i Francesi. “Pillole di viaggio” per oltrepassare i confini, per ora solo col pensiero e con un desiderio di viaggiare che aumenta ogni giorno di più!
Eh sì, lo so… viene subito quella certa acquolina in bocca, vero? Perché non appena nomini “Alba” sono innanzitutto queste le cose che vengono in mente… tartufo, battuta di fassona, un trionfo di carni squisite, di formaggi profumati, di vini eccezionali…per non parlare del risotto al Barolo (ne vado matta!), delle gentili nocciole locali e… insomma un vero “Bengodi”!
Ma a queste immancabili leccornie non possiamo non abbinare l’interesse per la storia e l’arte di questa cittadina gioiello, rossa di cotto, calda ed accogliente. Dopo alcuni giri lungo le strade del Barolo e del Barbaresco punteggiate da manieri e sontuose dimore barocche, decidiamo di trascorrere una giornata ad Alba.
A 50 km a nord-est di Cuneo, Alba sorge sulla riva destra del Tanaro, in prossimità della sua confluenza col torrente Cherasca, in un’ariosa e verdeggiante conca pianeggiante bordata da dolci colline coltivate a vigneto. Un sito abitato sin da epoca preistorica; le prime tracce di insediamento, infatti, risalgono al Mesolitico (10.000-6.000 anni a.C.): piccoli gruppi dediti alla caccia e alla pesca. Effettivamente questa particolare posizione la rendeva quanto mai appetibile…
Addentriamo nelle vie del centro storico dove un’infilata di bei palazzi medievali e barocchi ci accompagnano lungo tutto il percorso. Portici (quanto adoro i portici!), facciate in cotto ricche di decorazioni, chiese dai prospetti curvilinei, torri (non a caso Alba è anche chiamata “città dalle Cento Torri“!), campanili e immancabili (nonché imperdibili!) vetrine debordanti di mille golosità!
“Alba ha 8.000 anni di storia e il territorio che la circonda è ricco di sorprese. Vieni a scoprirle!”
Merita senz’altro una visita il museo civico di archeologia e storia naturale “Federico Eusebio”, situato nella luminosa corte del complesso dell’antico convento della Maddalena.
Le sue sale ospitano il retaggio della millenaria storia cittadina, fin dai suoi esordi risalenti al VI millennio a.C. (il villaggio preistorico è stata una stazione fondamentale del Neolitico del Nord Italia) per giungere ai suoi periodi di maggiore splendore, come quando sotto la dominazione romana assunse il nome di Alba Pompeia, o come quando, negli ultimi secoli del Medioevo fu Libero Comune.
Langhe all’Alba della storia
E’ qui, nel territorio dove sorgerà Alba, che si ha testimonianza della più antica colonizzazione del Piemonte meridionale datata agli inizi del Neolitico (6.000-5250 a.C.) con stretti e frequenti contatti coi vicini Liguri. Vivace l’attività agricola con coltivazioni di farro, orzo e frumento contestualmente al recupero di macine e macinelli.
Con l’epoca protostorica, Età del Bronzo antico (2.200-1.700 a.C.), notiamo significative analogie con Aosta. Anche qui è stato individuato un santuario in cui con tutta probabilità venivano venerate le spoglie mortali degli antenati o comunque di personaggi di rango elevato assai in vista nella società del tempo. Ci colpisce in particolare una sepoltura particolare detta “del Guerriero”, databile tra Bronzo medio e recente, quindi tra 1700 e 1300 a.C.; sicuramente una presa di possesso del territorio che anche nelle sepolture privilegiate dichiarava l’importanza e la forze dei clan, dell’élite guerriera locale.
Dalle “case degli antenati” del Neolitico e dell’Età del Rame, fino alle armi dell’Età del Bronzo (pugnali, spade), arriviamo all’Età del Ferro: siamo nella propaggine nord-orientale del territorio del popolo dei Bagienni (anticipo che Augusta Bagiennorum sarà tra le prossime mete #OltreConfine!)
Fu il console Gneo Pompeo Strabone, padre del più noto Pompeo Magno, a fondare Alba Pompeia. Siamo dunque in piena età repubblicana, ma purtroppo le fasi della città relative a questo suo periodo delle origini non sono note. E’ invece la fase augustea quella che ha restituito il maggior numero di resti; è con Ottaviano Augusto, infatti, che questo centro viene monumentalizzato e dotato di un perfetto impianto urbanistico ed architettonico.
Ma perché “Alba”? Non perché c’entri il colore bianco, ma perché questo termine di origine ligure indica l’insediamento principale di un certo territorio; pensiamo, infatti ad ALB-enga, l’antica ALB-ingaunum, o a Ventimiglia il cui nome antico era, non a caso, ALB-intimilium…
Una posizione privilegiata che in breve tempo rese Alba un centro strategico per gli scambi commerciali, un ponte importante tra il Mar Ligure e le Alpi, tra il Mediterraneo e la piana del Po.
A questo si aggiunga l’efficiente e capillare rete stradale romana in cui le vie principali si affiancavano ad un incredibile reticolo di strade secondarie, assai spesso ricalcate su precedenti piste conosciute ed utilizzate sin dalla Preistoria.
La città romana presenta una forma irregolarmente ottagonale; quasi al centro di uno spazio urbano suddiviso in 52 insulaesorgeva il foro nelle cui vicinanze si trovavano le terme ed il teatro.
Che fosse una città ricca ed opulenta è facile intuirlo: il museo dipana un’abbagliante sequenza di lacerti di pavimenti marmorei multicolori, di affreschi parietali straordinari, di frammenti di statuaria monumentale e non solo… per non parlare dei corredi funerari, del vasellame ceramico e vitreo, dei monili, dei gioielli, dei cippi funerari elegantemente decorati e le tante, tantissime, iscrizioni i cui nomi e i cui titoli aiutano a ritrovare gli albesi del tempo.
Due sono le cose che più di tutte tenevo a vedere e che, come mi aspettavo, sono rimaste impresse nella mia mente. Innanzitutto l’incredibile affresco col Capricorno e i delfini proveniente dalla ricchissima domus di via Acqui. Sebbene la didascalia presente al museo parli di “animali marini fantastici”, io mi permetterei di azzardare che si tratta, senza troppi dubbi, di un Capricorno, mitico animale dalla doppia identità marina (coda di pesce) e terrestre (protome cornuta), se non addirittura dalla tripla identità in quanto trattasi di costellazione, quindi anche celeste!
Sarà che negli ultimi anni di Capricorni ne ho studiati davvero tanti… ma mi sentirei di averne trovato un altro e decisamente notevole! Capricorno, simbolo dell’imperatore Augusto, accompagnato da delfini, non a caso mammifero marino scelto dal fidato Agrippa.
Altro elemento di forte attrattiva per me era la nota testa colossale raffigurante una divinità femminile diademata. Questa testa venne ritrovata nel 1839 nei pressi del Duomo (zona forense quindi). Purtroppo ad Alba si trova una copia poiché l’originale è esposto al Museo di Antichità di Torino…peccato… ma presto anche Augusta Taurinorum sarà protagonista di #OltreConfine! Tuttavia, al di là di complesse vicissitudini storiche, ritengo sia assolutamente importante che i pezzi, soprattutto se così rilevanti e in qualche modo “rari”, tornino nel luogo dove furono scoperti!
Si tratta di una statua di culto realizzata con la tecnica detta dell’acrolito, ossia con diversi materiali; la testa, in lucente e prezioso marmo greco, andava inserita in un corpo realizzato in altro materiale, magari con altro colore per accentuare il contrasto tra le carni e le vesti. Si data tra la fine del II sec. a.C. e l’inizio del secolo seguente.
Quello sguardo rivolto verso l’alto, il possente collo leggermente ritorto, le corpose ciocche di capelli a fatica trattenute dal diadema, ma soprattutto quella bocca piccola ma carnosa leggermente socchiusa quasi stesse sussurrando antiche litanie, portano direttamente ai canoni stilistici di età ellenistica. Un sogno…
Quando si potrà, dedicate un week-end ad Alba, vi stupirà! E non solo per la sua straordinaria enogastronomia o per la sua accogliente atmosfera, ma anche per le ricche testimonianze del suo lungo e variegato passato, così come per il suo sottosuolo! Ebbene sì, non potete perdervi la visita di Alba sotterranea insieme agli archeologi!
Alba, capitale delle Langhe, un vero scrigno di arte e di storia da vivere… con gusto e “sottosopra”!
Il secondo appuntamento #OltreConfine è arrivato. Oggi si parte per la Svizzera; 3 ore e 3/4 di viaggio da Aosta in direzione Basilea per raggiungere la riva sud del Reno, su cui si affaccia la graziosa cittadina di Augst, l’antica Augusta Raurica.
A poca distanza dal centro attuale sorgono i resti dell’insediamento romano: un vero museo a cielo aperto, immerso nel verde e percorribile a piedi lasciando l’auto in comodi parcheggi nei pressi del museo.
In pratica il sito coincide con la colonia romana e, accanto alle vestigia originali di diversi edifici e la facilità di lettura dell’impianto antico, vi sono anche domus realizzate ex novo al fine di ricostruire le abitazioni dell’epoca, arredate, affrescate e assolutamente fruibili: un vero divertimento per grandi e bambini desiderosi di vivere e “toccare con mano” le atmosfere e gli ambienti di 2000 anni fa. Stesso discorso per alcune botteghe, per il forno o per il mulino: tutto è utilizzabile e in scala 1:1. Ci si può entrare e si possono usare gli oggetti messi lì a disposizione (riproduzioni fedeli di oggetti d’uso antichi). Un bel modo per rendere l’esperienza culturale un divertimento alla portata di tutti; per rendere il passato un pò più… presente!
Lungo le strade dei bei diorami aiutano a immedesimarsi nella quotidianità e nella gente che quelle stesse vie percorreva al tempo dei Romani. E non è escluso ci si possa imbattere in togati o in matrone, così come in servi intenti a fare la spesa o in soldati a riposo… sembrano uscire dai diorami, prendere vita all’improvviso nei pressi di una fontana e sbucare da dietro un angolo. Augusta Raurica vive!
L’evento che esalta al massimo questa vivace “romanità elvetica” è però il Römer Fest, che di norma si tiene nell’ultimo week-end di agosto. Rievocazioni, sfilate militari legionarie, combattimenti gladiatorii, rappresentazioni teatrali, danze, musiche… e ancora: cucina romana, mercatini, ateliers per famiglie e chi più ne ha, più ne metta! La storia e la cultura classica all’insegna del divertimento e dell’intrattenimento. Una ricetta sempre valida ed apprezzata.
MA ORA UN PO’ DI STORIA
La colonia di Augusta Raurica venne fondata da Lucio Munazio Planco, proconsole della Gallia Comata, nel 44-43 a.C. (quindi ancora in età cesariana) con l’intenzione di insediarvi dei veterani e di acquisire uno strategico luogo “cerniera” sul Reno a difesa dalle incursioni germaniche. Tuttavia, in assenza di fonti archeologiche riferibili a questa prima fase di impianto, ad oggi i resti della colonia sono attribuibili unicamente alla fase augustea, quando viene rifondata da Ottaviano Augusto col nome diColonia Pia Apollinaris Augusta Emerita Raurica. Si presume che, a fronte della notizia della fondazione, i tempi e la situazione fossero in realtà talmente travagliati, che la deduzione vera e propria si compì solo successivamente, con la sopraggiunta pax augustea.
Sicuramente possiamo affermare che una forte spinta culturale verso la progressiva crescita monumentale della città sia da ricercarsi nell’inaugurazione della strada del Gran S. Bernardo, avvenuta probabilmente nel 47 d.C. sotto l’imperatore Claudio. E’ infatti questa la strada che, diretta al Reno, costituisce il Kardo Maximus di Augst, mentre il Decumanus era dato dall’arteria stradale che, dalla Gallia, raggiungeva il Danubio e, da qui, le province pannoniche.
Augusta Raurica era quindi un centro di transito obbligato, al centro dei traffici commerciali e degli spostamenti di truppe tra Italia, Gallia Belgica, Gallia Narbonense e Germania Superior.
L’abitato si distende lungo il pendio della bella collina di Schonbül verso il Reno. Il foro venne realizzato proprio sullo spiazzo che occupa la sommità di questa altura, a nord-est dell’abitato. Non si trova quindi al centro esatto dell’incrocio tra Cardo e Decumano, ma leggermente spostato verso nord al fine di sfruttare al meglio le caratteristiche del paesaggio valorizzando i luoghi più rappresentativi della città.
Alle pendici occidentali trovano posto il teatro (la cui cavea guarda ad ovest) e un santuario di origine celtica poi trasformato dai Romani in un tempio esastilo (cioè con 6 colonne sulla fronte), alzato su podio monumentale e circondato da un temenos (ossia un recinto sacro) aperto verso l’antistante teatro. Come si nota una testimonianza della religiosità autoctona, non cancellata ma ripresa e valorizzata.
Un imponente complesso che pone in relazione un luogo di culto segnato da una lunga tradizione indigena ed un luogo di spettacolo, cui si aggiunge una sorta di foro secondario a sud del tempio: 3 edifici collegati da un viale fiancheggiato da botteghe.
Passiamo al foro. Si presenta qui nell’ormai famigliare schema tripartito (come ad Aosta). Una zona sacra ad ovest, costituita da un tempio (situato nel punto più elevato) circondato da un portico a “U” aperto su una piazza centrale con file laterali di botteghe. A differenza di Aosta, però, sull’altro lato rispetto al tempio, trova posto una grandiosa basilica al cui centro, verso l’esterno, si apre una curia a pianta semicircolare di cui ancora oggi restano vestigia considerevoli. Ad Aosta la basilica non è stata ancora individuata con assoluta certezza, ma si suppone (a ragion veduta, sulla base di diverse occasioni di scavo nelle cantine e ritrovamenti puntiformi nella zona) si trovi sul lato ovest del foro. Quindi non sotto l’attuale Via De Tillier, bensì sotto Via Croce di Città. Una basilica aperta sul Cardo Massimo.
Per lungo tempo si è creduto che anche il tempio del foro di Augst fosse circondato da un sistema di criptoportici, ma questa ipotesi venne poi smentita nel 1995; si tratta di fondazioni piene e rialzate.
Il complesso forense di Augusta Raurica (da college.ecj23.org)
Merita, infine, un accenno il Museo di sito. Sono qui esposti molti oggetti (naturalmente una selezione del milione e mezzo di reperti ritrovati in situ!), assolutamente notevoli e corredati da un apparato informativo moderno e ricco. Voglio evidenziare in particolare lo straordinario tesoro di argenteria, uno dei più corposi ed importanti dell’epoca tardoantica.
Silver Treasure – Roman Museum – Augusta Raurica
In tutto 270 oggetti tra piatti, vassoi, ciotole, posate, monete e altro ancora per un totale di ben 58 kg di argento puro! Un tesoro il cui valore, per l’epoca, si dice corrispondesse alla paga di 230 legionari! Sicuramente appartenuto a personaggi di rango elevatissimo e assai vicini all’imperatore, con forte probabilità alte cariche militari, verso la metà del IV sec. d.C. (epoca di gravi turbamenti dovuti a continue lotte intestine e alle pressioni dei popoli germanici) venne interrato a scopo precauzionale. Uno dei piatti riporta (un caso quasi unico!) il nome dell’artefice, Paisylypos di Tessalonica. Il tesoro, esposto assi bene, da solo vale la visita del museo.
Da Aosta ad Augst. Dalle frontiere alpine alle strategiche rive del Reno lungo le vie dei commerci e delle legioni.
Cari amici di #Archeologando, da tempo ormai non riusciamo più a viaggiare! E così, proviamo a farlo coi nostri ricordi e racconti. Inauguro oggi la rubrica #OltreConfine!
Mi piacerebbe cominciare accompagnandovi alla scoperta (a meno che non ci siate già stati, e allora diventa un simpatico “amarcord”) di alcune “Aoste sorelle” del circondario.
Tutte quelle città fondate da Ottaviano Augusto di cui portano il nome e l’impronta. Inizieremo con quelle che, come Aosta, ancora oggi si chiamano così. E non andremo molto distanti, pur varcando i confini nazionali (somma trasgressione!). Ma siamo nell’impero romano, e quindi il problema non sussiste(va)!
La prima “sorellina” che vi invito a visitare si trova a circa 2 ore e mezza di auto da Aosta, poco più di 220 km. Dobbiamo andare neldépartement numero 38, l’Isère. Una città che oggi viene spesso confusa con la nostra Aosta, soprattutto per colpa di un prosciutto! Lì, infatti, viene prodotto un crudo marchiato “Aoste” che però nulla ha a che vedere col Jambon de Bosses-Vallée d’Aoste che, oltretutto, è anche un DOP!
Avete già capito? Si tratta dell’attuale graziosa cittadina di Aoste, l’antico Vicus Augustus (denominazione attestata dalle numerose epigrafi della zona).
Benché non ci sia stata tramandata dalle fonti l’anno esatto di fondazione, si ipotizza di poter collocare la nascita di questo insediamento negli anni tra il 16-13 a.C., quando Augusto si recò a Lugdunum (Lione) per organizzare l’apparato amministrativo delle province galliche. Effettivamente risalgono a questo periodo i depositi archeologici più antichi rinvenuti nel sito, in particolare l’interessante forno per ceramiche di cui vi dirò tra poco.
La cittadina conosce, lungo l’intero I secolo d.C., un momento di notevole ricchezza e prosperità, essenzialmente dovuta alle tante e floride attività commerciali ed artigianali presenti. Tale vitalità si mantiene almeno fino al IV d.C.
Intanto il nome: “vicus“, che sta ad indicare un gruppo di case disposte lungo una strada, una sorta di agglomerato viario. In Gallia i vici erano comunque dotati di specifica identità giuridica e amministrati attraverso un capoluogo che, nel caso in oggetto, era rappresentato dalla non distante città di Vienne, Colonia Julia Viennesis, capitale del territorio occupato dal popolo degli Allobrogi.
Vicus Augustus (o più comunemente Augustum) è riportata anche da documenti quali la Tabula Peutingeriana o l’Itinerarium Antonini. Era quindi un importante snodo di traffico, ubicato al centro di assi viari molto frequentati che univano la Gallia Transalpina alla Gallia Cisalpina, i monti e il mare, i grandi fiumi e le vaste pianure.
Si deve poi all’archeologo Stephane Bleu l’individuazione di una piattaforma sopraelevata di circa m 300 x 160 situata dove oggi sorgono la chiesa e il municipio, quindi nel cuore dell’abitato. Scavi passati qui condotti hanno restituito fusti di colonne ed epigrafi al genius dell’imperatore. Si sarebbe pertanto tentati di ravvisarvi il centro monumentale, magari composto da un tempio e da un mercato.
L’elemento che emerge maggiormente è la quantità di forni per ceramica: ben 9! Uno di questi, situato nei pressi di una casa rifugio per anziani, è stato oggetto di valorizzazione in un’area verde. Si può entrare e vedere la struttura del forno col piano di cottura forato e le scale dirette alla fossa di argilla.
Gli ateliers dei vasai dominano la scena artigianale del vicus. A questo si aggiunge la quantità straordinaria di anfore e vasi in genere rinvenuta nella zona e ben rappresentati nel locale Museo archeologico.
Il territorio era fortunato. Sono presenti, infatti, ben due tipi di argilla, diversamente utilizzate dai mastri vasai dell’antica Aoste. Una più calcarea e resistente alle sollecitazioni meccaniche per la produzione di vasellame da tavola; un’altra, refrattaria, per quello da cucina e da fuoco.
Ma i vasai di Aoste erano riusciti a specializzarsi soprattutto nella produzione di un oggetto: il mortaio. Numerosi infatti quelli contrassegnati dalla scritta Atisii, una famiglia di notabili allobrogi. Almeno tre di loro risultano proprietari di figlinae nella zona. I mortai di Aoste sono stati ritrovati un pò tutte le province occidentali dell’impero romano, anche in aree esse stesse produttrici di ceramiche (e di mortai). Era forse legato alla preparazione di un cibo particolare? O forse rientrava in circuiti commerciali molto ben controllati dagli Atisii? Sono comunque tre le aree di commercializzazione privilegiate: l’altopiano elvetico, la valle della Saona e la via del Reno. Certamente i grandi fiumi si rivelavano assi di circolazione delle merci assai utilizzati.
Stando ai ritrovamenti, è noto che ad Aoste si producevano anche vetro e oggetti in metallo. In più era un vivace centro di scambio e mercato. Vi è poi una sorta di produzione “di nicchia” costituita da un gruppo di anfore di piccole dimensioni, forse legate ai “grands crus” allobrogi, a quanto pare molto apprezzati anche a Roma!
E’ l’enciclopedista Plinio il Vecchio, nel libro XIV della sua Naturalis Historia, a descrivere un ceppo di uva nera chiamata “allobrogica” o ancora “picata” (traducibile come “resinato”, “piccante”), assai adatta ai climi freddi e capace di maturare anche durante le gelate. Chissà che non vi sia qualche “parentela” con uve attuali valdostane; è comunque curiosa la somiglianza etimologica con la qualità “picotendro”, no?! Anche se è il Fumin quello dall’aroma più “pepato”… Agli esperti di viti chiedo di approfondire!
Tra gli dei più venerati, accanto a quelli ufficiali del pantheon romano, ve ne sono di locali “romanizzati”. Tra questi quello il cui culto risulta maggiormente e più capillarmente diffuso (come del resto un pò in tutta la Gallia) è Mercurio, protettore delle strade, dei viaggi, dei mercati e dei mercanti. I suoi attributi ricorrenti sono lo stambecco (!) e il galletto (!!). Perché ho messo dei (!!)? Ma non vi vengono in mente gli animali “totemici” identificativi della Valle d’Aosta? Non vi viene in mente l’esercito di galletti tradizionali che fanno bella mostra di sé nella Fiera di Sant’Orso e in tutte le vetrine di negozi di artigianato?! Per non parlare dello stambecco… insomma, vi ho fatto venire qualche curiosità?
Ulteriore curiosità: da Beaucroissant, cittadina poco a nord di Grenoble, proviene un’epigrafe in cui Mercurio è associato all’epitetoArtaios, ossia un’associazione ad una divinità autoctona degli orsi (in greco antico, non a caso, ἄρκτος (leggi arktos) è “orso”) e della caccia. Il risultato è una sorta di “Mercurio Ursino”. Unite questa suggestione ai simboli di cui sopra e… viene voglia di andare oltre, no?!
Un’ultima menzione la merita il Museo Archeologico di Aoste. Piccolo ma molto curato, ricco e coinvolgente. In effetti rimarrete stupiti dalla ricchezza e varietà delle sue collezioni, soprattutto inerenti ritrovamenti di epoca romana (anzi, “gallo-romana”!). Dopo Vienne e Saint-Romain-en-Gal è un sito di tutto rispetto assolutamente da visitare.
Il museo è un’istituzione molto attiva; diversi gli ateliers rivolti ai più piccoli e alle famiglie. Non mancano inoltre manifestazioni di rievocazione storica in costume, sempre molto simpatiche e apprezzate!
E con questo mi sentirei di chiudere questo primo post sulle “Aoste”. Abbiamo quindi visto la piccola ma super interessante Aoste.. quale sarà la prossima? Non vi dico niente se non che saremo nuovamente oltre confine! Buon viaggio, allora!
Nel piccolo borgo adagiato sui prati del fondovalle tutti aspettavano con ansia l’arrivo della primavera. Già da oltre vent’anni, infatti, gli inverni erano più lunghi e freddi che mai. Lì, ai piedi dei grandi monti boscosi dove comunque le ombre usavano attardarsi più a lungo rispetto ad altri luoghi della valle; Lì, nel villaggio raggomitolato tra le braccia pietrose della montagna, si sapeva che il sole faticava ad allungare i suoi raggi.
Ma da oltre vent’anni c’era un problema che gli abitanti non sapevano risolvere…
Vi fu un tempo, infatti, in cui con l’inizio di ogni primavera, con lo scioglimento delle nevi, dalle sorgenti nascoste nella foresta iniziava a sgorgare, copiosa, l’Acqua Verde!
Le Acque Verdi di Saint- Marcel (centrovalledaosta)
Un’acqua magica, che portava salute e prosperità, che faceva fiorire i campi e germogliare i raccolti. Un’acqua che, si narrava, era il magico dono di una fata generosa e potente: la fata Everda, la cui misteriosa dimora era da sempre custodita dalla folta vegetazione dei boschi.
Da oltre vent’anni, però, l’Acqua Verde non scorreva più. Il piccolo borgo di Saint-Marcel si stava lentamente spopolando…. chi resisteva le aveva provate tutte, ma della sorgente non vi era più traccia! La foresta, un tempo amica e accogliente, si era fatta ostile, scura e insidiosa. Chi vi si addentrava rischiava di non fare ritorno! Cos’era successo?!
Da oltre vent’anni, non solo l’Acqua Verde era sparita, trasformandosi in un maleodorante rigagnolo paludoso, ma anche il bel castello dei Signori del luogo era caduto in rovina. Con la morte dell’ultimo proprietario, infatti, il castello era passato in mano alla famiglia della perfida moglie: gente avida e assetata di potere.
In breve tempo l’eredità era stata letteralmente spazzata via e quel castello abbandonato, perché non più ritenuto all’altezza del rango e della ricchezza dei suoi nuovi abitanti che, mai amati, si erano da subito accaniti contro la gente del villaggio.
Avevano distrutto tutto! Avevano abusato del loro potere per sfruttare il territorio all’estremo, senza alcun rispetto per la natura! Avevano persino tentato di impossessarsi dell’Acqua Verde per venderla…ma senza riuscirvi! L’Acqua Verde era scomparsa. Il castello abbandonato, lasciato ai rovi e alle ortiche. Il paese nella miseria.
Anche quella volta, tutti speravano che qualcosa cambiasse; solo la vecchia Marcella, la saggia del villaggio, sentiva che non era ancora giunto il momento… e per questo veniva additata e ritenuta una porta-sfortuna!
Un pomeriggio, sul tardi, l’anziana donna passeggiava lungo quello che un tempo era il ruscello dell’Acqua Verde. Ad un tratto, ai piedi del grande castagno secolare, intravide un fagottino adagiato tra le felci. Si avvicinò con cautela e… “Oddio! Ma… è un neonato!”-esclamò incredula.
Prese quel fagottino tra le braccia: sembrava in buona salute, il colorito era roseo. Il piccolo fece un paio di smorfiette, socchiuse gli occhi e accennò un sorriso. La vecchia Marcella, che non aveva avuto figli, pensò fosse un dono del cielo e portò il bimbo a casa.
Apprestandosi a cambiarlo, però: “Ma sei una femminuccia!” esclamò Marcella, ancor più felice! Ma non credette ai suoi occhi quando si accorse di un particolare: sotto il piedino sinistro c’era una macchia… una voglia molto particolare!
“Il segno! Allora tu sei… E sei capitata a me! Dovrò educarti… ma soprattutto, piccola, dovrò difenderti!”, le disse la vecchia Marcella accarezzandole il visino. “Il segno di chi cammina sulle rocce, il segno di un’antica stirpe che si credeva perduta! Ti chiamerò Sylvette, perché sei figlia del bosco e lì ti ho trovata!”. La piccola sgranò due enormi occhi turchesi e sorrise allungando la manina verso “nonna” Marcella. La attendeva un destino importante!
Mia figlia Ottavia
Ma cosa aveva visto Marcella? Di che segno parlava? Era il cosiddetto “piede di strega”: una voglia a forma di piede sotto il piede, appunto! Una voglia che aveva la stessa forma di una strana impronta che si credeva fosse stata lasciata da una strega (o secondo altri una fata) secoli e secoli addietro sopra un enorme masso da tutti ritenuto magico! Sullo stesso masso una miriade di fori circolari che si pensava fossero stati lasciati dal bastone di quella misteriosa creatura, inafferrabile spirito delle rocce e delle miniere!
Il masso con coppelle e “impronta di piede” nel villaggio di Seissogne (SaintMarcel)-(www.archeosvapa.eu)
La fata era buona, ma gli uomini ne avevano paura e perciò lei si era rifugiata nel cuore della montagna. E infatti quei cunicoli segreti, illuminati da colori incredibili quasi come se fossero accesi da luci nascoste, erano creduti la sua misteriosa dimora.
La miniera di Servette (Saint-Marcel)
La scomparsa dell’Acqua Verde si pensava fosse un chiaro segnale che la fata se ne era andata, offesa per sempre! Ma adesso quella neonata poteva cambiare molte cose… se solo…
Passarono gli anni. Sylvette era un’adolescente molto sveglia, intelligente e curiosa. E anche molto bella! L’anziana Marcella l’aveva educata e istruita passandole tutte le sue conoscenze ma mettendola sempre in guardia:”Non girare mai scalza, mi raccomando! Non mostrare mai il tuo piede! A nessuno!”. Sylvette era obbediente, ma in cuor suo proprio non capiva il motivo di quel divieto…
Giacomo, il giovane figlio del borgomastro era poco più grande di Sylvette: bello e aitante, era corteggiato da tutte le ragazze della contrada…tutte, tranne quella che a lui interessava davvero: la bellissima, sfuggente, misteriosa Sylvette!
Suo padre lo aveva più volte messo in guardia su quella strana ragazza: “Non si sa nemmeno di chi sia figlia! E’ una trovatella raccolta nel bosco da quella pazza di Marcella! Sarà una strega come lei… stanne alla larga!”.
Immaginando Sylvette (wattpad)
Ma più il padre insisteva, e più lui proprio non riusciva a levarsela dalla testa. Finché un giorno la seguì di nascosto: Sylvette aveva imboccato il sentiero nel bosco, si era fermata davanti al grande castagno forato e lì si era tolta le scarpe (certa di essere sola!). Poi aveva proseguito inerpicandosi sù per le rocce più agile di un camoscio!
Il giovane Giacomo faticava a starle dietro – “ma dove diavolo sta andando?!”, si chiedeva sospettoso. Sylvette giunse in un posto nel bosco noto come Eteley, “il campo delle stelle” – come le aveva insegnato Marcella – e lì si fermò. Si sedette su una strana protuberanza tonda sporgente dalla parete rocciosa e chiuse gli occhi. WE fu in quel momento che Giacomo vide il suo piede!
macine-SaintMarcel (AndarperSassi)
“Ma che diamine!…”. “Allora sei tu! Sei la strega delle miniere! Aveva ragione mio padre! E’ colpa tua! Restituiscici l’Acqua Verde, maledetta!!”, le urlò a squarciagola il ragazzo, totalmente fuori di sè.
Sylvette, terrorizzata, cercò rifugio all’interno di una galleria che si infilava nel ventre della montagna. Giacomo la inseguì, ma non avendo la stessa agilità, né conoscendo l’oscura galleria, precipitò in una voragine che per magia si richiuse immediatamente sopra la sua testa.
Sylvette aveva osservato la scena esterrefatta, senza parole! Si avvicinò con cautela al punto in cui Giacomo era precipitato e toccò la roccia venata di turchese.
La galleria si illuminò improvvisamente. Le rocce splendevano d’azzurro, giallo oro e viola acceso. La voragine si riaprì e ne uscì un vortice di nebbia azzurra che, poco a poco, prese la forma di una donna.
“Eccoti Sylvette. Sei giunta a me. Ora hai l’età giusta. Sono Everda, la strega (come mi chiamano gli uomini che non sanno) delle miniere! Io non sono una strega; sono lo spirito protettore di questi luoghi e dei tesori che custodiscono. Per anni uomini senza scrupoli hanno torturato la natura e le montagne accecati dalla peggiore delle illusioni: il denaro e il potere! Finché non verrà posta mano al castello al cui interno si cela la porta che conduce alle sorgenti dell’Acqua Verde, vivranno miserabili e senza speranza!
“Ma io cosa posso fare, Everda?” – chiese Sylvette disorientata.
Everda le mostrò il suo piede:” Tu sei come me, sei una figlia delle rocce! Se riuscirai a convincere il popolo del paese a darti ascolto e a restaurare l’antico castello, potrai aiutarmi a ridare loro l’Acqua Verde. Sarà difficile, ma qualora ne avessi bisogno, mostra questo amuleto: è un granato color rubino. E’ il segno della pietra, è il gioiello dimenticato! Forse, e sottolineo forse, capiranno… Buona fortuna figlia mia!”.
granato grezzo
E la saggia Everda scomparve in un vortice di luce turchese. La galleria tornò buia e silenziosa.
Tornata in paese Sylvette fu accolta da una gran confusione. Qualcuno aveva visto il giovane Giacomo seguirla nel bosco senza fare ritorno.
Venne aggredita dal borgomastro:” Maledetta strega! Cos’hai fatto a mio figlio?! Lo sapevo che avresti portato sciagure! Avrei dovuto cacciarti molto tempo fa! Tu e quella vecchia pazza che ti ha cresciuta!”.
“Ma no… Marcella non…”. Sylvette non riuscì a finire la frase che, spintonata, venne condotta verso le prigioni. “No! Se mi imprigionate non potrò aiutarvi! Io posso salvare vostro figlio e tutti voi! Io posso far tornare l’Acqua Verde!!” – urlò Sylvette. “Portatemi al castello! Per favore!” – supplicò.
Sollevata di peso, tutti indicavano il suo piede e la maledicevano; fu in quel momento che Sylvette mostrò l’amuleto. “E questo? Questo non vi dice nulla? Siete davvero diventati tanto sciocchi? Avete dimenticato il vostro passato?”.
Tutti urlavano,. Ma nel frastuono generale si levò, incredibilmente, la voce tonante del borgomastro:” Il granato! Il granato magico! L’amuleto dei nostri antenati, maestri cavatori e abili intagliatori. Il segno del popolo delle macine di pietra! Come fai ad averlo?!”. E allora, sceso il silenzio, Sylvette con voce ferma disse:” Seguitemi e capirete”.
Si recò quindi al castello, ormai ridotto a rudere: scuro, vuoto, pericolante. Alcuni lo credevano persino maledetto e abitato da fantasmi. Sylvette vi entrò, leggera come un gatto. Il borgomastro provò a seguirla, ma il pavimento scricchiolava paurosamente e una trave si spezzò sotto il suo peso. Capì che non avrebbe potuto proseguire. I suoi occhi incrociarono quelli di Sylvette; solo allora si rese conto di quanto quelle due gemme turchesi brillassero anche nel buio. E si fidò. “Per favore, ciò che più mi sta a cuore è che tu riporti a casa mio figlio!”.
Sylvette sorrise e come un’ombra scivolò tra le macerie infilandosi nei sotterranei del maniero.
Si trovò davanti ad una parete di roccia: nel mezzo una protuberanza tonda a lei nota. “Eccola! La macina!”. E incastrò il granato rubino nel foro al centro della macina. Quest’ultima scricchiolando cominciò a girare fino a che si bloccò: si aprì un varco tra le rovine. Sylvette vi si addentrò. Dal fondo una luce turchese si fece sempre più viva e avvolgente. La ragazza si ritrovò nel cuore di una miniera; tutt’intorno la roccia brillava di mille colori e sfumature preziose.
Miniere turistiche di Saint-Marcel (foto di Fabio Marguerettaz)
Continuò a camminare. Si voltò per vedere il varco da cui era entrata, ma non c’era più! Proseguì: iniziò a udire delle voci e nella semi-oscurità iniziò a distinguere delle figure umane;: erano tutti quelli che negli anni si erano avventurati alla ricerca delle sorgenti dell’Acqua Verde, mossi però da fame di ricchezza. Ora, sorvegliati da Everda, lavoravano legati nel cuore della miniera accatastando macine su macine. Ad un tratto Sylvette riconobbe anche Giacomo. Lui non lavorava con gli altri, ma era stato imprigionato sotto l’Acqua Verde: poteva respirare, era vivo, ma addormentato!
Non appena lo vide, Sylvette sfiorò l’acqua che per magia evaporò. Il giovane si risvegliò di soprassalto; vide Sylvette e si mise a piangere. I due si guardarono. Non servirono altre parole. “Ti aiuterò, Sylvette! Conta su di me!”-le disse Giacomo abbracciandola.
“Sono qui per liberarvi, amici!” – esordì la ragazza – “Sarete presto a casa, ma dovrete impegnarvi tutti per ricostruire il castello e rispettare le ricchezze della natura! Solo così tornerà l’Acqua Verde, il benessere e la felicità!”.
L’intero paese aspettava, assiepato intorno al castello… all’improvviso un chiarore: e uno dopo l’altro i compaesani smarriti uscivano dai detriti del maniero crollato, sani e salvi! Ne uscì anche Giacomo, abbracciato alla sua Sylvette. Il padre lo accolse in lacrime. “Da domani tutti qui! Lavoreremo uniti e il castello risorgerà tornando anche più bello di prima! E sarà nostro, di tutta la comunità! Sarà la dimora della nostra storia!”.
Il castello di Saint-Marcel oggi (lavori in corso) – centrovalledaosta
In breve tempo il castello di Saint-Marcel tornò al suo antico splendore. Niente più streghe né fantasmi. Niente più miseria o superstizione.
Le Acque Verdi di Saint-Marcel (da mapio.net)
L’Acqua Verde era tornata a scorrere, i campi a fiorire, i raccolti a germogliare. La magica porta delle sorgenti custodita nei sotterranei del maniero, protetta dalla magia di Everda e del misterioso granato rubino.