Correva l’anno del Signore 451 d.C.; ero ancora un giovane presbitero a quel tempo, cresciuto e nutrito spiritualmente nel cenobio del santo vescovo Eusebio, in quella città di pianura circondata dalle acque chiamata Vercelli. Mio compagno di studi e di formazione, sebbene più grande, il sapiente Eustasio. Ed era proprio lui vescovo di Aosta quando, bloccato da motivi di salute, mi incaricò di rappresentarlo nella grande Milano, nostra sede metropolitana, in occasione dell’importante concilio provinciale.
Veduta attuale di Vercelli
Un incarico di prestigio col quale Eustasio mi manifestò tutta la sua stima ed il suo apprezzamento. Un onore che, tuttavia, non mancò di farmi venire i tremori per l’ansia di dover, ancora così inesperto, prendere parte ad un incontro di siffatto rilievo.
Ricostruzione di Mediolanum nel IV secolo d.C. (da Romano Impero)
Il mio nome, Grato, suona l’accento ellenico; ebbene sì, la mia famiglia paterna affonda le sue origini nella terra di Omero. Nonostante sia giovane ho molto viaggiato e ancora bambino giunsi nella sconfinata e ubertosa pianura del grande fiume Po, immenso nastro d’argento che scaturisce dalle alte vette alpine per arrivare a tuffarsi nel mare Adriatico.
Ero da poco entrato in convento quando, una notte, una di quelle dal sonno tormentato scosso da sogni ricorrenti, apparentemente illogici e non privi di angoscia, ebbi una strana visione.
Davanti a me si apriva una valle verdeggiante, solcata al centro da un ampio fiume le cui acque riflettevano un azzurro argenteo e si attorcigliavano in mille gorghi tra le rocce. Intorno a me un panorama insolito: montagne, montagne altissime ammantate di candida neve. Non lontano dal fiume, una città. Una città che doveva essere stata molto importante in passato vista l’entità dei grandi edifici che, seppure in rovina, ancora si ergevano al di sopra di un mare di povere casupole e di orti. In sogno mi sentii chiamare. La gente di quella valle mi aspettava, ma io non sapevo dove si trovavano né come raggiungerli.
Ricostruzione veduta da est di Aosta in epoca imperiale romana (da Cadran Solaire, 2012)
Questo strano sogno si ripresentò anche negli anni successivi; rimasi esterrefatto quando mi resi conto che questo sogno capitava sempre nella stessa notte, quella tra 6 e 7 settembre.
Finché, già ventenne, venni convocato dal saggio Eustasio. Doveva darmi uno notizia importante: lo avrei seguito ad Aosta.
Giunto in questa città a me sconosciuta, capii: era questa la destinazione cui ero stato assegnato dal volere divino. Quella vallata, quel fiume, quelle vette. La Vallis Augustana mi stava aspettando da tempo e finalmente vi ero giunto.
Lavorare e studiare sotto la guida di Eustasio, anch’egli di origine greca come me, era fonte continua di accrescimento intellettuale e spirituale, ma anche di arricchimento umano vista la sua immensa generosità, il suo buon cuore, la sua costante attenzione verso i più deboli e sventurati.
Spesso con lui ci si recava fuori dalle nobili e vetuste mura della città per visitare le contrade più lontane e sperdute portando la Parola di Dio, conforto e ascolto.
La gente delle campagne viveva poveramente, questo sì, ma devo dire con grande serenità e dignità. Mi piaceva molto fermarmi con loro, accettare l’invito ad entrare nelle loro umili abitazioni, condividere un tozzo di profumato pane di segale spalmato di buon burro o accompagnato da un pezzo di saporito formaggio. A volte mi veniva offerto persino un piatto di zuppa di cavolo, porri e cipolle davvero deliziosa.
Notavo che il saggio Eustasio si incupiva quando si accorgeva che molti contadini ancora mescolavano la vera fede con antiche credenze, magari recandosi a pregare in prossimità di enormi roccioni, di grotte, di anfratti piuttosto che nelle chiese e nelle cappelle. Così come spesso invocavano antiche divinità pagane se, per disgrazia, una tempesta o un’alluvione arrivavano a distruggere il raccolto. Eustasio li ammoniva severamente, ma io mi rendevo conto che più utilizzava toni veementi e meno veniva ascoltato, anzi, otteneva spesso l’effetto contrario.
Pensai così di adottare i metodi degli antichi Romani, provando ad insegnare loro che divinità apparentemente diverse potevano fondersi e convivere. Insegnai loro ad invocare il buon Dio; insegnai loro l’importanza di rivolgersi al cielo, nome stesso che racchiude in sé le radici di tante parole poi passate a designare dei e Dio. Un pomeriggio d’estate, mentre mi trovavo con loro in un piccolissimo villaggio affacciato sulla piana di Aosta, il cielo si coprì all’improvviso di fosche e minacciose nubi scure. In poco tempo tutto si rabbuiò e vidi la paura negli occhi dei contadini. Istintivamente iniziarono ad invocare antichi dei pagani della tempesta e del tuono. Io, con tutta la voce che avevo, intonai un canto al Signore. La pioggia iniziò a cadere, prima fine e poi sempre più forte. I contadini mi fissavano, temendo il peggio, ma nessuno osava andarsene perché mi vedevano lì, immobile, in mezzo al prato. Continuavo a pregare cantando, addirittura ringraziando Dio per il dono della pioggia. Finché, così velocemente come era arrivata, la tempesta quasi per miracolo si allontanò verso sud, riempiendo l’aria di brontolii e di tuoni, ma risparmiando quelle terre.
Da quel giorno si sparse rapida la voce, di villaggio in villaggio, che io ero capace di bloccare la tempesta e di sedare il temporale. Mi imitarono. Iniziarono a pregare Dio.
Da quel momento ogni volta che mi recavo nelle campagne, venivo accolto come fossi il papa, tra giubilo e festa; ogni volta la gente mi chiedeva di fermarmi a pregare con e per loro. Eustasio capì e ne fu felice.
E fu così che, dopo la morte del venerabile Eustasio, ne divenni il sostituto sulla cattedra aostana.
Tra le mie diverse attività e impegni, vi era un progetto cui ero particolarmente affezionato: la basilica intitolata a San Lorenzo, morto martire per la fede appena due secoli prima. I lavori iniziarono già con Eustasio che, però, non riuscì a vedere l’opera completata. La piccola chiesa sorgeva fuori le mura, in una zona di necropoli utilizzata sin dalla tarda epoca romana, anzi, alcuni raccontavano che anche le antiche popolazioni dei monti vi seppellissero i loro morti.
Alcune tombe di tarda età romana erano più grandi e importanti delle altre, veri e propri mausolei di personaggi di rilievo o di famiglie nobili. Si diceva fossero tombe di martiri e, di conseguenza, il potersi far seppellire vicino a loro era considerato un efficace vademecum verso la Salvezza eterna.
Ricostruzione delle due chiese funerarie di S. Lorenzo e S. Orso nel V secolo (da Cadran Solaire, 2009)
Sorgeva quindi la basilica di San Lorenzo extra muros sul lato orientale della città, vicinissima ad un’altra chiesa intitolata a San Pietro (e successivamente, ma io non potevo ancora saperlo, intitolata anche a Sant’Orso). Erano quasi allineate. Una coppia emblematica di chiese funerarie, dedicate al culto dei morti o, meglio, della Vita eterna. Contemporaneamente, sul lato ovest, sempre fuori le mura, stava nascendo una piccola basilica analoga, in un’area oltre la Porta Decumana di romana memoria.
Data al 400 d.C. la costituzione della santa diocesi di Aosta contestuale alla costruzione del primo complesso episcopale della Cattedrale, chiesa madre della città con cura d’anime. Fu poi con la sistemazione delle antiche aree funerarie fuori le mura che si pervenne alla costruzione delle basiliche funerarie tra cui, appunto, anche San Lorenzo.
Consolidati i lavori in città, ci si rivolse alle campagne procedendo alla realizzazione delle prime chiese con cura d’anime, ovvero dotate di fonti battesimali, a Villeneuve, a Morgex e a Saint-Vincent, tutte dislocate lungo l’importante arteria della Strada romana ad Gallias, la stessa che utilizzò, non molto tempo fa, il nobile vescovo Martino di Tours nella sua strenua ed indefessa missione di evangelizzazione dei pagi.
Ben presto San Lorenzo e San Pietro (cui in seguito si aggiungerà Sant’Orso) divennero un unico complesso funerario denominato Concilia Dominorum Sanctorum Martyrum.
Planimetria a croce latina del V secolo d.C. (da Cadran Solaire, 2009)
San Lorenzo presentava una forma a croce latina, sulla scorta di quanto fortemente voluto dal grande padre Ambrogio di Milano per affermare la vittoria del simbolo della Croce nella sua lotta contro l’eresia ariana. E non era un caso che i legami con la diocesi milanese fossero molto forti e sentiti anche perché Aosta, così come Vercelli, faceva riferimento alla sede metropolita di Mediolanum. Stringente in effetti la ricercata somiglianza di San Lorenzo con l’impianto della Basilica Apostolorum di Milano (che voi oggi chiamate San Nazaro in Brolo).
Ricostruzione dell’interno del V secolo (da Cadran Solaire, 2009)
Grandi edifici romani ormai in disuso e in stato di abbandono vennero utilizzati come cave a cielo aperto per la costruzione di questa come di altre chiese in città; i grandi e bei blocchi romani, già tagliati e sagomati, erano perfetti per essere reimpiegati. Ma l’azione del reimpiego dell’antico, non dimentichiamolo, non aveva solo finalità pratiche, bensì una forte valenza ideologica perché stava a significare che la nuova Aosta cristiana poggiava le sue radici sull’Aosta romana di cui si faceva chiaro e innegabile vanto.
Ricordo ancora l’atmosfera di estrema sacralità che si respirava, che si sentiva sulla pelle, quando si entrava in San Lorenzo, appena illuminata dalle lampade a olio appese al soffitto, dalla tenue luce filtrante dalle lastre di alabastro delle finestre; i marmi romani rifulgevano di nuova vita e nuovo significato in questo nuovo luogo di culto cristiano.
Vorrei raccontarvi un altro episodio assai particolare che ha poi segnato fortemente il ricordo che la gente ha mantenuto di me.
Un giorno, durante una delle mie numerose visite nel contado, mentre tenevo un’omelia venni bruscamente interrotto da urla strazianti. Una donna disperata corse verso di me, verso il resto delle persone assiepate nella piazza del villaggio urlando e piangendo: suo figlio Giovanni, un piccolo di appena 3 anni, era tragicamente scivolato dentro un pozzo lasciato inavvertitamente aperto ed incustodito. Ci precipitammo sul posto; io per primo mi sporsi oltre il bordo chiamando il bambino: piangeva e si lamentava, ma era ancora vivo. Per fortuna quel pozzo era semivuoto, sebbene assai profondo.
Non esitai e mi offrii volontario ad aiutare altri uomini. Con delle corde ci attrezzammo e a mò di scala riuscimmo a calarci e a portare in salvo il piccolo. Ritornai tenendo avvolto il bimbo tremante nelle mie vesti; sporgeva solo la testa con quei grandi occhi neri colmi di paura.
La madre lo prese e lo strinse a sè ringraziandomi in tutti i modi che conosceva. Tornai ad Aosta scortato dall’intera popolazione di quel villaggio e la mia fama presso le genti della valle aumentò considerevolmente. Non potevo immaginare che, nei secoli che seguirono, questo episodio venne a tal punto trasformato ed ingigantito nei racconti da diventare leggenda. La leggenda che vorrebbe fossi stato io a ritrovare la testa di San Giovanni Battista in fondo ad un pozzo di Gerusalemme… e infatti vengo spesso raffigurato così, con la testa del Battista in mano, semiavvolta dal mio mantello.
Si avvicinavano ormai gli anni finali di questo V secolo dalla nascita di Cristo. Giunse anche la fine dell’estate; da tempo non stavo bene, ero molto affaticato e sempre meno riuscivo a recarmi fuori città. La gente veniva a cercarmi, pur di ascoltare le mie omelie.
La notte tra il 6 ed il 7 settembre rifeci quel sogno (erano anni che non mi si ripresentava più): la grande vallata solcata dal fiume. In sogno ero tranquillo stavolta: conoscevo quel luogo ormai a me così caro. Conoscevo quelle case, quei monti, quelle persone …
Vidi Aosta dall’alto, vidi la zona delle due chiese funerarie di San Lorenzo e San Pietro, ma era diversa da quella che conoscevo. Le chiese erano cambiate: San Pietro veniva indicata dalla gente della città con un altro nome, col nome di un santo a me ignoto: Sant’Orso. Su uno spiazzo compreso tra le due chiese si ergeva una pianta monumentale: un tiglio dal tronco squarciato ma dalla folta chioma. Vidi un edifico a me sconosciuto, vero trionfo di abilità artistica nel lavorare la terracotta. Vidi che San Lorenzo aveva mutato il suo ingresso spostandolo sul lato orientale dove io ricordavo la curva dell’abside, e sottolineandolo con un portico.
La chiesa sconsacrata di S. Lorenzo, oggi sede espositiva (regione.vda.it)
Mi svegliai, disorientato; il cuore batteva all’impazzata. Cercai un sorso d’acqua, presi in mano il mio breviario tentando di ritrovare la pace. La vista era come annebbiata ed un senso di torpore presto si impadronì di me.
Il sonno giunse nuovamente e con esso, altri sogni, oppure visioni… non saprei. Mi vidi all’interno di San Lorenzo, ma improvvisamente il pavimento che conoscevo scompariva, diventava come invisibile. Sotto i miei piedi delle tombe, tante, innumerevoli tombe aperte nelle quali si vedevano i resti umani dei Cristiani qui lasciati nel sonno eterno, alcuni coi loro monili, collane, fibbie. Cristiani qui sepolti nel corso di secoli.
Alcune tombe a ridosso della zona presbiteriale (foto E. Romanzi)
Vidi degli uomini chini con pale e picconi che scavavano quelle tombe, che compilavano taccuini; li chiamavo per fermarli, ma non mi sentivano! Ad un certo punto mi voltai e vidi … il mio nome: Gratus Episcopus. Era riportato su un’epigrafe, un’epigrafe funeraria: “hic requiescit in pace...” Quella era la lastra della mia morte.
Epigrafe del vescovo Grato in San Lorenzo (foto: E. Romanzi)
Mi ritrovarono il giorno seguente, 7 settembre, sconvolto da tremori, sudori freddi, febbri altissime, in preda al delirio. Rivedevo la Grecia natia, Vercelli, il maestro Eusebio e il saggio Eustasio. Rivedevo la bellissima vallata solcata dal fiume argenteo, la Dora Baltea. Rivedevo gli occhi del piccolo Giovanni. Rivedevo lo stupore sui volti dei contadini risparmiati dalla tempesta.
Sono Grato, vescovo di Aosta. Riposo qui, nella mia amata chiesa di San Lorenzo, sotto l’ombra di questo grande tiglio, cullato dall’allegro vociare dei bimbi che giocano felici nel giardino sopra di me. Le mie spoglie mortali non sono qui, non più; ma il mio spirito e il mio nome qui rimarranno per sempre, o almeno finché ci sarà anche solo uno tra di voi che avrà desiderio e cuore di venire a farmi visita.
Due grandi occhi azzurri. Sì, questo colpiva di lei al primo incontro. Immensi, quasi di ghiaccio, ipnotici, capaci di prenderti e non lasciarti più; capaci di leggerti dentro.
Due grandi occhi azzurri, incastonati in un viso di porcellana e ombreggiati da lunghe ciglia dorate. Due gocce di cielo, lo stesso cielo che l’avrebbe accompagnata per tutta la vita.
Mia figlia Ottavia, cui questo racconto è dedicato.
Lei era Ottavia. Figlia di Gaio Ottavio e di una donna misteriosa dal nome arcaico, Ancharia; un nome di dea, una divinità del raccolto venerata sin da prima che venisse fondata Roma nelle terre che si affacciavano ad Est sul Mare Adriatico. Una donna di cui davvero poco la gente sapeva e che ugualmente poco si lasciava vedere.
Questo sicuramente compensava l’estrema notorietà del padre, un cavaliere molto in vista, discendente della gens Octavia, di cui fu il primo a divenire senatore.
Anche se fisicamente assomigliava al padre, Ottavia si sentiva assai simile alla madre nel carattere: schiva, a tratti misteriosa, molto riservata e amante dello studio. Ciò che più la attirava era lo studio del cielo, delle stelle, del loro significato e dei loro mutevoli ma ineluttabili influssi sulla vita degli uomini.
Suo padre non approvava questa sua passione e glielo ricordava spesso, ma lei, ostinata, sin da quando aveva imparato a tenere lo stilo in mano, cercava di intrufolarsi nelle sedute dei sacerdoti e di imparare come poter leggere il cielo e, attraverso di esso, aspirare a capire o ad intuire le mosse degli dei.
Sua madre, invece, donna devota e attenta custode delle tradizioni, aveva sempre apprezzato questa sua inclinazione e sempre l’aveva sostenuta; fondamentale fu l’averla introdotta in casa di un conoscente, tale Appuleio, un àugure importante, ossia uno di quei sacerdoti capaci di leggere la volta celeste interpretando il volere divino, che da subito si era affezionato a quella timida pargoletta bionda dall’ingegno acuto e dalla vivace curiosità.
Quell’incontro presto divenne consuetudine e il buon Appuleio aveva capito che Ottavia possedeva un talento fuori dal comune: la sua passione era vera e profonda e imparava molto in fretta. Con piacere iniziò a formarla nella scienza delle costellazioni e, col tempo, ad avviarla alla comprensione dei segnali che il cielo invia per dare indicazioni agli uomini.
Mia figlia Costanza e le “sue” stelle
“La bambina che giocava con le stelle”: così venne soprannominata Ottavia sin dai cinque anni d’età, con grande orgoglio di mamma Ancharia e dello “zio” Appuleio, quando spesso saliva sulla collinetta dietro casa e per ore si perdeva col naso all’insù.
Appuleio si rivelò fondamentale per lei. Se la portava appresso ogni volta che poteva insegnandole la forma e il nome delle costellazioni, il susseguirsi celeste delle stagioni, i segni fausti e quelli nefasti. Allo stesso modo le insegnò a leggere il giusto sorgere e tramontare del sole, l’orizzonte degli dei benevoli e quello delle divinità ostili; la seguiva nei suoi primi disegni e nelle sue precoci, acerbe ma brillanti intuizioni; le insegnò anche a distinguere il volo degli uccelli, qualora provenissero da est oppure da ovest.
Ottavia cresceva in bellezza, intelletto e sapienza. Le stelle, per lei ambasciatrici degli dei; aveva capito che suo compito, tuttavia, non era quello di conoscerle scientificamente, ma piuttosto quello di leggervi un messaggio e di comunicarlo correttamente agli uomini.
Amava seguire gli àuguri nel loro lavoro: era affascinata da quei sacerdoti che, puntando il loro bastone ricurvo al cielo, riuscivano a capire se un’azione andava intrapresa oppure no, se una città andava fondata e, se sì, come, con che procedura e con quale orientamento.
Era il 23 settembre del 63 a.C.: il matrimonio tra i suoi genitori era, ahimè, presto naufragato. Suo padre si era risposato con una donna nobile e influente, Azia. Da lei aveva avuto prima una figlia, cui aveva dato il suo stesso nome, e poi il tanto desiderato figlio maschio.
23 settembre 63 a. c.: alle prime luci dell’alba l’aria fu riempita dei primi vagiti di suo fratello minore: Ottaviano.
E lei, Ottavia, capì subito che quel frugoletto mingherlino avrebbe avuto un grande avvenire: lo aveva visto nelle stelle. Concepito sotto il segno del Capricorno e nato in Bilancia, Ottaviano avrebbe conquistato il mondo con arguzia, caparbietà e fine strategia politica. Sarebbe stato un uomo molto importante, un uomo straordinario che avrebbe lasciato un’impronta indelebile, nonostante le invidie e i malumori che necessariamente avrebbe provocato.
Ottaviano divenne presto il prediletto fino a che, compiuti 18 anni, venne persino adottato dal potente zio Giulio Cesare, atto che sancì l’avvio alla carriera politica di quel fratellino promettente.
Ottavia era così affezionata a Ottaviano che per lui auspicava solo il meglio; e lui, da parte sua, non appena crebbe un po’, iniziò a provare una forte ammirazione per quella sorella così “strana”, studiosa e particolare. “La bambina che giocava con le stelle”, infatti, aveva una forte influenza su di lui e Ottaviano ne cercava con piacere la compagnia chiedendole spesso di spiegargli ciò che sapeva e di raccontargli cosa vedeva nel cielo.
Gli anni trascorsero veloci e sempre più densi di avvenimenti importanti. Ottaviano svelò assai presto le sue doti e la sua scalata sociale, grazie anche al fondamentale appoggio dello zio Giulio Cesare, fu inesorabile.
Ottavia seguiva il fratello da vicino, pur restando nell’ombra. Lo consigliava in tutte le sue iniziative suggerendogli anche mosse fondamentali che lo portarono a sbaragliare definitivamente il rivale Marco Antonio e al titolo di Augusto, princeps, nel 27 a.C.
Ottaviano sapeva che Ottavia studiava le stelle per lui e coltivò grazie a lei un fortissimo interesse per la scienza celeste tanto da farvi ricorso in ogni occasione importante, aiutato anche dall’astrologo di palazzo, Macrino.
Erano gli anni in cui le legioni di Ottaviano si trovavano impegnate sul fronte nord-occidentale, distribuite lungo la catena delle Alpi, per domare definitivamente le riottose e temibili tribù galliche. Il fratello voleva portare a termine quanto iniziato dallo zio: Cesare era infatti riuscito ad usare quei monti solo come un passaggio, ma adesso era tempo che le terre dei Galli fossero rese sicure e diventassero province di Roma.
Non era semplice, per nulla. Ottavia aveva spesso messo in guardia il fratello: non tutti i passi erano buoni e gli dei non erano ancora favorevoli all’insediamento di Roma.
Inoltre non tutti i territori erano uguali: in alcuni avrebbe potuto percorrere la via della diplomazia, in altri quella del denaro, in altri invece avrebbe dovuto usare le armi.
Verso nord-ovest, ad esempio, la Via delle Gallie era stata aperta, ma la sua sistemazione e il suo controllo erano assai difficili. La popolazione che abitava l’aspra vallata della Duria Maior, come i Romani avevano chiamato il grande fiume argenteo che solcava quei monti irti di insidie, sembrava assolutamente incontrollabili. Impossibile scendere a patti! Inoltre erano divise in decine di clan con cui era un vero problema stabilire degli accordi.
Ottaviano decise di prendersi un compagno d’azione: Aulo Terenzio Varrone Murena, con cui attaccare i clan più importanti, quelli dell’area centrale, agendo su due fronti: Murena da sud e l’amico Marco Vinicio, già reduce da vittorie nella Gallia centrale e nel Vallese, da nord.
Ottaviano stravedeva per Murena e si fidava ciecamente di lui. Ottavia, invece, non era dello stesso avviso: “Attento, fratello! Ti porterà sì alla vittoria tra i monti, ma ti tradirà!”.
Fu quindi l’astuzia e la strategia di Murena a sbaragliare i Salassi (questo il nome di quelle popolazioni figlie delle rocce e caparbie padrone dei passi alpini).
Ottavia non riusciva però a condividere del tutto l’entusiasmo di Ottaviano. Murena si comportava da devoto “fratello” nei confronti di Ottaviano e si era offerto di occuparsi in prima persona delle operazioni conclusive sovrintendendo lui stesso alla fondazione della nuova colonia.
“No Ottaviano! No! Non lasciarlo fare perché non rispetterà il volere degli dei. Se sarà lui a fondare la colonia, anche le antiche divinità dei monti si ribelleranno perché lui le offenderà cercando di cancellarne il ricordo seppellendole sotto la “sua” città! E presto ti tradirà!”
Ottaviano non poteva crederle e, nonostante l’astrologo Macrino concordasse con la sorella, stava per delegare tutto a Murena. “Tradirmi, Murena…mia sorella è impazzita! No, non è possibile…”, pensava Ottaviano.
Ma ecco che un’altra autorevole voce intervenne: era Appuleio il giovane, nipote di quell’Appuleio che aveva seguito Ottavia nei suoi studi. Questo giovane era anch’egli un sacerdote influente, era un flàmine del culto del divo Giulio, il culto dedicato a suo zio Giulio Cesare che, dopo la morte, salì al cielo tra gli dei annunciato da una splendente cometa: il sidus Iulium, la stella Giulia.
Appuleio si affiancò a Ottavia e a Macrino: tutti e tre gli ricordarono l’importanza di quella fondazione per la quale sarebbe stato fondamentale orientare la nuova città alla costellazione che lui stesso aveva scelto come simbolo della sua politica e come auspicio di una nuova florida età dell’oro: il Capricorno. Non doveva sottovalutare quella zona, così strategicamente racchiusa in mezzo a vette e passi di cruciale importanza.
E fu così che Ottaviano decise di seguire tali consigli. Nel giorno indicato, gli àuguri incaricati, tra cui anche Ottavia e Appuleio, si recarono nel punto più alto dell’area individuata per disegnare la nuova città. L’alba era scura e gelida. Poi, da un punto a sud dell’Oriente, nascosta dalla mole dei monti, la prima luce fece capolino e iniziò a rischiarare il cielo.
“Non è ancora il buon momento. Aspettiamo”, sentenziò Ottavia; “gli dei vogliono che il sole sia fuori dalle alte ed incombenti montagne che chiudono l’orizzonte a sud. La città dovrà avere il suo Cardo, la via cardine che unisce il Nord al Sud, orientata sul sorgere del sole che, ad una certa ora, invaderà coi suoi raggi la sacra direzione indicata. Una volta individuato il Cardo, potremo proseguire col disegno del solco primigenio”.
Tutto avvenne come previsto. Fu una cerimonia solenne e di forte sacralità. Quando infine la coppia di bovini bianchi, muovendosi rigorosamente secondo il moto celeste, guidata e spinta dai sacerdoti, ebbe finito l’intero giro, Ottaviano si avvicinò alla sorella: “Grazie Ottavia, il tuo supporto è stato come sempre prezioso. Sai dirmi se gli dei hanno indicato un nome per questa città?”.
“Certo, fratello: Augusta Praetoria Salassorum”.
“Salassorum?!! Ma come, con tutti i problemi che ci han dato i Salassi devo anche ricordarli nel nome della colonia?”.
“Augusta Praetoria Salassorum, Ottaviano. Questo è il nome! I Salassi costituiranno un elemento fondamentale per la città, da un punto di vista sociale, religioso ed economico. Dopo gli screzi iniziali, vedrai, ti riconosceranno come loro “patronus” e contribuiranno ad un sempre migliore controllo dell’intero territorio, alla sua gestione, alla sua difesa e al suo sviluppo economico”.
Nasceva la città che si sarebbe poi chiamata Aosta, portando il nome del suo fondatore alto attraverso i secoli.
Ottaviano fece la scelta giusta: Murena, infatti, giunto al consolato insieme a lui, l’anno seguente lo tradì. La cospirazione da lui organizzata fu scoperta e Murena venne condannato a prezzo della vita.
Anche Ottavia fece una giusta scelta: le passioni in comune e la sintonia con Appuleio erano talmente tante e forti che… i due si sposarono con la benedizione di Ottaviano e, naturalmente, delle stelle!
Io a 3 anni e … il cielo d’inverno!
“La bambina che giocava con le stelle” seppe così guidare suo fratello anche in questa impresa e, chissà, forse sapeva che il luogo cruciale, quello da cui anche lei scrutò il cielo in quell’alba d’inverno (e che oggi è noto come Torre dei Balivi), prima o poi sarebbe stato ritrovato da un’altra donna: una donna che sin da bambina, oltre che con la terra, si divertiva a giocare con le stelle di cui oltretutto, guarda caso, porta anche il nome!
“Lasciare la città per finire lassù, in mezzo alle montagne… da solo… beh, del resto non ho scelta!”. Così si lamentava il giovane barone, rampollo di una nobile ed importante famiglia, costretto dai parenti a trasferirsi nel piccolo villaggio di Saint-Pierre.
“Hai ereditato l’antico maniero di famiglia, Emanuele!”, tuonava l’arcigno zio, “tuo compito è prendertene cura! Quindi, fattene una ragione e prepara i bagagli! Tra una settimana al massimo il castello di Saint-Pierre sarà la tua dimora! E vediamo se, confinato lassù, tu non metta la testa a posto!”.
Emanuele non aveva scelta. Tutta la famiglia era contro di lui.. Purtroppo negli ultimi anni non si era certo guadagnato una buona fama: conduceva una bella vita sperperando denaro in ogni possibile modo, frequentava compagnie ritenute “pericolose e inopportune”… un continuo litigio con lo zio! Forse era davvero meglio andarsene… poche comodità, pochi soldi, ma almeno sarebbe stato in pace e avrebbe fatto ciò che voleva!
Rapidamente arrivò il giorno della partenza. La diligenza correva veloce sulle strade polverose. In poco tempo le campagne lasciarono il posto al dolce profilo delle colline che vennero presto sostituite dalle alte montagne della Valle d’Aosta.
L’aria aveva cambiato profumo: Emanuele era inebriato da quella fragranza mista di pino, erba, muschio e terra. Gli sembrava che il sangue corresse con più vigore alimentato dalle brezze fresche che rotolavano giù dai ghiacciai.
All’improvviso, dopo un’ultima curva, eccolo: l’antico maniero lasciatogli dal nonno!
Veduta del castello di Saint-Pierre prima degli interventi in stile neogotico (stampa di E. Aubert, 1860)
Su un roccione svettava la vecchia torre maestra, già in stato di avanzato degrado, circondata dalle possenti mura medievali in buona parte sbrecciate. Gli edifici residenziali erano spogli (solo i mobili essenziali), bui e umidi. Emanuele sospirò:” Mio Dio… ci vorrebbero dei lavori, ma come li pago? Solo questo mi hanno lasciato e lo zio non mi da più un soldo… vedremo… per ora va ancora bene: per fortuna è estate! Chiederò nel villaggio se qualche manovale può venire a dare un’occhiata…così…giusto per non avere la neve in casa o spifferi gelati quest’inverno… “.
Tuttavia, nonostante lo sconforto iniziale, Emanuele avevo ben presto imparato ad amare quel luogo. Il paesino era carinissimo e gli abitanti avevano accolto con simpatia “quel giovane barone scapestrato e ribelle, amante della natura, fuggito dalla grande città!” (così dicevano di lui).
In una stanza col camino, dove ancora si vedevano resti di antichi affreschi e si potevano magicamente percepire gli echi delle leggendarie feste organizzate dai ricchissimi proprietari oltre 200 anni prima, Emanuele aveva creato il suo angolino prediletto.
Da subito aveva iniziato a perlustrare i dintorni: che meraviglia! Prati verdissimi, meleti, vigneti, orti e, in lontananza, boschi color smeraldo che, con le loro tonalità scure, esaltavano ancor di più il bagliore delle nevi perenni.
Quell’estate cominciata così male, si era rivelata una benedizione. Da solo, in totale libertà! Grazie al suo bel carattere, ai modi educati e, perché no, al gradevole aspetto, il giovane barone si era ben integrato e riceveva aiuto da tutti: cibo e biancheria pulita non gli mancavano!
Le quotidiane lunghissime passeggiate gli avevano fatto riscoprire e aumentare una passione che aveva da bambino: quella per la raccolta di erbe, foglie fiori. La natura così ricca e multiforme di quei luoghi avevano risvegliato in lui una profonda curiosità e in poco tempo si era creato una collezione botanica di tutto rispetto; “così, se mai un giorno dovessi tornare in città, un pò di questi luoghi verrà con me…”, pensava.
Gli era poi venuta in mente un’idea: voleva trasformare l’alta corte del castello in un suo personale giardino segreto. Un pò “giardino dei semplici” con erbe aromatiche e medicamentose; un pò giardino all’inglese con piante ornamentali capaci di creare atmosfere incantate e suggestive. Quello sarebbe stato il suo giardino, chiuso al mondo eccetto che a lui!
Una sera, al tramonto, attardandosi sulla terrazza, notò per la prima volta un fiore straordinario attaccato al muro della torre. Si avvicinò: era una specie di orchidea. Un fiore grande dai colori cangianti, insoliti: i petali erano uno diverso dall’altro, quasi a formare un arcobaleno, lucidi e setosi.
Decise di coglierlo per ripiantarlo ed eventualmente ricavarne semenza. Provò a strapparlo, ma il fiore incredibilmente si chiuse e si ritrasse.”No, devo aver sognato”, pensò, “è impossibile!”.
Ci riprovò: niente. Quel fiore si richiudeva su se stesso. Provò a reciderlo con delle forbici: niente!
Prese allora un martello e iniziò a distruggere il muro:”Verrà fuori, no!? Lo estirperò con tutte le radici!”. Risultato: il muro della torre si crepò terribilmente fino a sgretolarsi!
L’operazione aveva prodotto un’enorme voragine nel vecchio muro cadente mentre il fiore era rimasto ben incastrato nella sua pietra.
“No, ma… è impossibile!”. Emanuele non riusciva a crederci. “Che razza di pianta è mai questa?!”. Raccolse allora la pietra con la pianta dentro, deciso a portarla in casa per esporla così com’era, come fosse un oggetto esotico e meraviglioso.
La mise sul comodino accanto al letto e andò a dormire.
Ma non fu una notte come tutte le altre… Emanuele venne svegliato da un fruscio insistente, come se un insetto gli volasse sul viso. Quando aprì gli occhi rimase senza parole: dalla pietra la pianta era uscita a dismisura arrivando fino a lui e i fiori si erano moltiplicati e ingranditi fino a formare una coperta. Emanuele si alzò di scatto, ma qualcosa lo bloccava impedendogli di scendere dal letto.
Ad un tratto la coperta di fiori si mosse, si avvolse su se stessa e si trasformò in una giovane fanciulla alata.
“Ma… ma chi… cosa…chi sei tu?” balbettò Emanuele confuso e spaventato. “Tranquillo, io sono Flora, la fata della Natura. Conosco la tua passione per il mio regno, ma oggi hai fatto qualcosa di grave: ti sei ostinato ad appropriarti di un fiore assai raro e prezioso, di me! Avevo provato a farti capire che non dovevi né potervi toccarmi, ma hai insistito fino a distruggere addirittura la tua casa! Hai commesso un errore. E ora, se non vi poni rimedio, la voragine nella torre si allargherà a tal punto che tutto il castello potrebbe crollare! Vuoi che accada?”.
“No, no… certo che no… ma..e ora? Come posso rimediare? Quel fiore era talmente bello che…”;
“talmente bello che avresti dovuto rispettarlo e lasciarlo dov’era”, concluse Flora.
E continuò:” Ad ogni modo, visto il tuo amore per il mio mondo, voglio aiutarti.”. Improvvisamente la stanza si riempì di strane creature, metà uomini e metà foglie, o metà uomini e metà fiore; c’erano anche uomini-stelo, uomini-ramo.. un vero e proprio esercito di esseri del piccolo regno al servizio della loro regina, la fata Flora.
Leafman (tratto dal film animato “Epic. Il mondo segreto”)
Emanuele era sbalordito! “Loro sono i miei fedeli servitori. Ti aiuteranno a ricostruire la torre maestra, a patto che tu segua i miei ordini! Voglio una torre alta ed elegante con quattro torrette, una per ogni angolo.
Ogni torretta corrisponde ad una stagione e, a seconda della stagione, dovrai lasciarmi (con la mia pietra) nella torretta corrispondente. Nessun uomo però potrà entrarvi! Nemmeno tu! Mi dovrai lasciare all’ingresso, poi saranno i soldati-foglia a trasportarmi all’interno! Sii preciso, non farti trascinare dalla curiosità. Se un uomo dovesse entrare in una torretta, l’intero castello crollerà e per te sarebbe la rovina. Se invece ti atterrai ai patti per almeno 50 anni, il tuo castello diventerà la dimora del piccolo mondo alla portata di tutti e il tuo giardino segreto sarà dono per gli altri così che possano conoscere, scoprire, amare e proteggere il mondo di Flora”.
Emanuele non aveva altra scelta; nonostante un fondo di incredulità, obbedì alla fata Flora e, la mattina seguente, dopo una notte che gli parve lunga un’eternità, la torre non era più la stessa. Gli uomini-foglia e le donne-fiore avevano magicamente creato qualcosa di spettacolare: “ecco, ora posso dire di vivere nel castello delle fiabe”, esclamò il giovane barone.
“Non solo!”, lo corresse la fata, “puoi dire di essere un ospite speciale del regno di Flora”.
Il giardino segreto del barone divenne, col tempo, un tesoro di erbe, fiori ed essenze esotiche a disposizione di tutti. Nelle torrette nessuno mise mai piede e si narra che, ancora oggi, a seconda della stagione, il fiore-dimora della fata Flora vi fiorisca, ancorato alla sua pietra, di volta i volta con un colore ed un profumo diverso.
Ed eccoci ad #Halloween, una “festa” che personalmente non amavo e non “praticavo” fino a quando non sono diventata mamma! Così, oggi 31 ottobre, tra zucche, fantasmi, ragnatele e pipistrelli, con 2 streghette eccitatissime che si preparano a fare #trickortreat, voglio rendere omaggio a uno tra i castelli meno noti e più misteriosi della Valle d’Aosta: Montmayeur, in comune di Arvier.
Sarà un volo immaginario e immaginifico sulle labili tracce di questo misterioso signore, la cui ombra sinistra permea e ammanta il severo profilo roccioso di questa torre sospesa sul baratro…
La casa sua il signore di Baux
l’ha costruita sui sassi…
La casa sua il signore di Baux
l’ha costruita sui sassi…
Passi di mille cavalieri
segnano i suoi sentieri,
vegliano dall’alto nella notte
gelidi i suoi pensieri…
I versi della nota ballata di Angelo Branduardi ben si adattano ad illustrare questo luogo e lo spettro immanente del suo antico signore. Una musica fiera e solenne, ritmata da un progressivo aumentare di percussioni aiuta ad immaginare l’avanzata dei cavalieri in sella ai loro destrieri; una lunga fila di armigeri pare risalire l’impervio sentiero che conduce alla sommità di un’altura isolata, dal fascino sinistro. Siamo all’imbocco della Valgrisenche, una delle vallate più selvagge della Valle d’Aosta. Una vallata dai fitti boschi e dagli interminabili inverni che divide questo estremo lembo d’Italia dalla vicina Tarentaise francese. Prestando attenzione, si possono ancora udire, tra i ruderi, le voci, le grida, i rumori degli antichi abitanti scomparsi… Scomparsi, forse, in una sola notte di luna nera, improvvisamente, misteriosamente… e di loro non si seppe più nulla. Solo l’estrema ferocia attraversò i secoli, vestita di leggende e fantasmi figli della notte.
A GUARDIA DELLA SEVERA VALGRISENCHE
Da Arvier si imbocca la strada che, con ampi e frequenti tornanti, si inerpica fino ad arrivare al bivio per Grand Haury, un piccolo villaggio dove il tempo pare essersi fermato. Lassù, in alto, ecco apparire l’austero profilo della torre-mastio, risalente al XIII secolo. Pare uscita da un fosco racconto medievale questa struttura fortificata mimetizzata nel bosco, in cima a uno sperone roccioso con pareti a strapiombo; una posizione estrema, isolata, inquietante.
OSCURE LEGGENDE
Ancora oggi infatti si narra del signore di questo maniero: un uomo perfido e astuto, dalla ferocia inaudita. Un vero e proprio “nido di avvoltoi” circondato da cupe leggende, così viene descritto in numerose cronache ottocentesche, trasudanti di “dark Romantic”: si racconta di nemici uccisi, sgozzati, decapitati, mutilati e poi gettati nel baratro dall’alto della torre.
Secondo una leggenda, intorno al 1450, un conte di Montmayeur che, in lite con un cugino, era stato ritenuto colpevole dal tribunale di Chambéry, con un pretesto invitò nella sua dimora il presidente della giuria del tribunale, Guy de Feissigny; lo fece accomodare, certo, ma per…decapitarlo!. La sua testa fu quindi recapitata ai giudici di Chambéry, come “documento che mancava al processo”. Per sfuggire alla cattura il conte di Montmayeur sarebbe fuggito sulle montagne e di lui non si seppe più nulla.
Montmayeur: Uno scabro castello “primitivo”, ossia essenziale, composto da una torre circondata da mura, ben difese e arroccate in una posizione da cui si poteva vedere tutto senza essere visti. Montmayeur: una torre fatta di rocce, dello stesso color della roccia, a tratti quasi invisibile, tanto bene è mimetizzata… talvolta la si potrebbe persino credere una “torre fantasma”.
Montmayeur nacque così e tale è rimasto. Mai un rimaneggiamento, mai un adattamento… una postazione militare, lassù, in cima ad un tremendo salto nel vuoto avvolto dai boschi.
Un maniero militare, cristallizzato… quasi che, ad un certo punto, i suoi stessi proprietari siano fuggiti e mai più nessuno vi abbia fatto ritorno se non, come narrato da alcuni, le streghe della vallata nelle notti di luna nera….
Un signore terribile, quello di Montmayeur, che mostra suggestive affinità con un altro, noto e feroce signore: quello di Baux!
SOGNANDO LA FUGA DEL SIGNORE DI BAUX
I Baux: una potente famiglia feudale che, nel X secolo, si stabili’ al limite delle Alpilles, in un altopiano quasi incastrato tra le Alpi e i Pirenei, edificando sulle rocce un imponente castello, arroccato sul ciglio di un dirupo, tanto maestoso da diventare parte delle rocce stesse e da dominare l’intera vallata.
Il castello di Les-Baux-de-Provence (provence-pays-arles.com)
Roccia su roccia, il castello di Les-Baux-de-Provence lascia letteralmente senza fiato! La fortezza degli impavidi principi-guerrieri: coraggiosi al limite della sfrontatezza, ambiziosi, arroganti, forti, senza scrupoli e spesso senza pietà.
Per quasi cinque secoli i Signori di Bauxriuscirono a difendere il loro dominio, capaci di tenere testa a re, imperatori e pontefici. Tanto forti e orgogliosi da dichiararsi discendenti di Baldassarre, uno dei tre Re Magi; non a caso, per ricordare i loro reali e mistici natali, il loro stemma era rappresentato come una cometa bianca in campo rosso. Tanto impavidi e fieri da essere definiti dal poeta Mistral “Stirpe di aquile, mai vassalli”.
Les Baux de Provence
La loro storia è una lunga ed impetuosa catena di guerre, sangue e tradimenti. Una corte comunque colta, ricca e raffinata fino a quando la morte di Alix, ultima principessa della stirpe, farà estinguere il mondo dei Baux.
A metà del 1300 il visconte Raymond de Turenne diventò tutore della giovane nipote Alix de Baux, ultima principessa della città-fortezza.
Il visconte causò una guerra civile che lacerò la fama di Les Baux, soprattutto a causa della sua crudeltà. Chiamato ‘flagello della Provenza’, costringeva i prigionieri a buttarsi dal castello nel vuoto dei burroni, per semplice divertimento (stesso “hobby” del signore di Montmayeur… quest’ultimo però più sanguinario!).
Per eliminarlo, il re di Francia e il papa – per i quali Raymond aveva peraltro in precedenza combattuto – ingaggiarono dei mercenari, che però devastarono numerosi territori non coinvolti nello scontro senza riuscire nel loro intento: Raymond de Turenne riuscì comunque a scappare facendo perdere completamente le sue tracce!
Si narra che i Baux scomparvero nell’arco di una sola notte e che, già il mattino seguente, il castello era distrutto. E parrebbe anche che i Baux divennero i “Del Balzo” e giunsero nel Sud Italia al seguito di Carlo d’Angiò, insediandosi tra Campania, Abruzzo e Puglia.
E’ bello immaginare che la fortezza valdostana possa quasi essere la traccia di questa fuga, la testimonianza di un rifugio segreto, seppur transitorio, nel cuore di monti inaccessibili.
Del resto ben diceva il canonico Bethaz parlando della sua terra: «A Valgrisenche on y va ni par mer ni par terre, mais par rocs et par pierres››.
“Ci son due coccodrilli ed un orangotango; due piccoli serpenti, un’aquila reale, il gatto, il topo e l’elefante…non manca più nessuno… Solo non si vedono i due liocorni!”.
Lo so che l’avete letta canticchiando. Chi di noi non se la ricorda?? Bene, quando ci si affaccia sul mosaico superiore del coro della Cattedrale di Aosta (risalente al XIII secolo), una sequenza animalesca analoga è quella che può venire in mente. L’elefante c’è e, attenzione, qui c’è pure uno dei due liocorni, ossia un unicorno (sono la stessa cosa). Ma niente oranghi, serpenti o topi. No! Quello che ci si presenta davanti agli occhi è un ricco ed articolato campionario di bestie più o meno mitologiche, più o meno fantastiche (e più o meno terrificanti) partorite dalla fervida mente dell’uomo medievale. Questi “campionari”, avevano un nome ben preciso: bestiarii (con due -i alla fine perché l’ho scritto plurale latino).
DIMMI CHE BESTIA SCEGLI E TI DIRO’ CHI SEI...
Modello dei bestiari (potremmo dire il Bestiario dei Bestiari) è un trattato redatto in Egitto forse nel II secolo d.C. in lingua greca, e denominato Physiologos, dove si prendevano in considerazione circa cinquanta animali e si associavano a citazioni scritturali: si fondava in tal modo una tipologia cristiana dell’animale, scopo della quale era l’associazione di un’immagine zoologica e di un’idea cristologica. Per capirci: ad ogni animale veniva associata simbolicamente una qualità, un carattere, una peculiarità interpretabile in chiave cristiana. Traduzioni del Physiologos si ebbero in siriano, armeno, etiopico e naturalmente – fin dal IV secolo d.C. – in latino.
Chi si stupisce per l’esotismo della fauna simbolica medievale deve tener conto di due cose: anzitutto che gli uomini e le idee (e le immagini con entrambi) viaggiavano a quel tempo molto più che non si ritenga oggi; in secondo luogo, che fonte principale per tale fauna simbolica è appunto il Physiologos, che traeva i suoi animali essenzialmente da due libri della Bibbia, Deuteronomio e Levitico. Tuttavia la lettura allegorica degli animali andò complicandosi mediante l’uso di altre chiavi interpretative, fornite ad esempio da certe somiglianze esteriori dei vari animali, da rapporti numerici o cromatici, da elementi di tipo etimologico o pseudoetimologico (cioè relativi all’origine della parola; se due parole si assomigliavano, doveva esserci un motivo!). Isidoro di Siviglia ad esempio, trattando degli animali nel libro XII delle Etymologiae, si serviva di Plinio e del Physiologus, ma anche di Varrone, di Virgilio, di Ovidio, e fondava o accoglieva leggende (o altre ne scartava) sulla base di accostamenti che la scienza del tempo definiva etimologici, e che noi definiremmo piuttosto omofonici o pseudomofonici: ad esempio, il “castoro” si chiamerebbe così perché si “castra” (!!), eccetera…
DA ORIENTE AD OCCIDENTE. TUTTA LA ZOOLOGIA IMMAGINARIA DEL MEDIOEVO
Nel corso del Duecento, si diffuse una grande quantità di Bestiari redatti nei vari idiomi volgari. La Bibbia, Fedro, le leggende e le immagini orientali penetrate in Europa dalle culture delle steppe o attraverso i testi narranti le vicende della spedizione di Alessandro in India (e, più tardi, attraverso i racconti dei viaggiatori), le figure allegoriche desunte dai passi scritturali d’argomento profetico, i segni che comparivano o che comunque venivano segnalati nei cieli, le visioni individuali e collettive, i simboli astrologici; la “zoologia immaginaria” del medioevo non è affatto una congerie disordinata di fantasie, anche se molte ed eterogenee sono le fonti alle quali essa attinse.
Siamo dinanzi ad un linguaggio, che ha la sua grammatica, la sua sintassi, il suo svolgimento etimologico: una vera e propria avventura semantica ed iconografica. Decodificarlo è possibile: e non si rischierà così di dissacrarlo e “disincantarlo”, anzi è necessario conservare tutta la sacralità ( e anche per certi versi la magia) di queste immagini; ma soltanto un modo per comprenderlo e, per questo, apprezzarlo ancora di più.
CHIMERE, UNICORNI, IPPOCAMPI
Concentriamoci ora sul nostro mosaico. Partiamo dal centro, dove, come in una sorta di gioco ottico, notiamo un concatenarsi di cerchi e quadrati. Il quadrato: la Terra, l’ordine. Il cerchio: il Cosmo, certo, ma anche i cicli eterni di vita-morte-rinascita. Queste forme sono poi connotate dal rincorrersi di due colori abbinati: bianco e nero ( o meglio, vista la pietra a disposizione, grigio scuro). Già in questo possiamo intravedere una chiave di lettura: gli opposti, i rimandi. Bene e male; sacro e profano; propizio ed avverso; fas et nefas. Noi uomini siamo così chiamati a scegliere; siamo messi davanti ai bivi della vita, alle scelte, spesso difficili e non prive di inganni ed insidie, di fuorvianti apparenze.
IL PESCE
Restando sempre nel cerchio centrale, vediamo quali animali lo popolano. Iniziamo da quello forse più famigliare: il pesce. Noto e consolidato simbolo di Cristo, della fede cristiana. Un segno utilizzato nelle catacombe per indicare, in codice, il nome di Cristo. In greco, infatti, “pesce” si dice ιχθύς (pronuncia: ikzùs con la u stretta, alla francese). Se interpretiamo questa parola come un acronimo, il risultato è: Gesù (Iesoùs), Cristo (Kristòs), di Dio (Theoù), figlio (uiòs), Salvatore (sotèr). Eccom perché per i primi Cristiani disegnare un pesce equivaleva ad una dichiarazione di fede! Inoltre, si sa, il pesce vive nell’acqua, e l’acqua è simbolo del battesimo cristiano.
IL CAVALLUCCIO MARINO (IPPOCAMPO)
Restando nell’acqua, di fronte al pesce troviamo un ippocampo. Antichi naturalisti, tra cui Galeno e Plinio, assicuravano che le ceneri di ippocampo avessero straordinarie virtù terapeutiche. Ancora oggi il corpo fossilizzato di un ippocampo viene visto come un potente talismano. In tutto il mondo classico l’ippocampo (un vero e proprio cavallo del mare) era visto come una sorta di genio protettore e guaritore, capace anche di accompagnare le anime nell’AldiLà. E’ pertanto interpretabile come un animale che simboleggia la guida che accompagna il fedele alla Resurrezione attraverso il procelloso mare della vita terrena, una guida “metà di terra e metà di acqua” in grado di consentirgli di avvicinarsi a Dio.
L’UCCELLO
Non a caso, tra l’ippocampo e il pesce, sulla sinistra, campeggia un uccello. Il suo volo mette in comunicazione cielo e terra e, quindi, anche in questo caso simboleggia il viaggio dell’anima immortale. Ma attenzione! Il volatile qui rappresentato (e che godette di ampia fortuna tra epoca Tardoantica e Medioevo) è probabilmente una pernice. Questo animale può avere sia valenze positive (la fedeltà dell’anima a Dio) che negative( legate alle sue abitudini lussuriose..si credeva…). Quindi, tra il fedele e la Salvezza, la strada è sempre irta di insidie e di illusioni. Non a caso…
IL DRAGO
… di fronte alla presunta pernice campeggia un drago dal volto dichiaratamente satanico. Il drago è il Male, che col suo soffio venefico contamina le acque intorbidendole. Un mostro che con le sue spire stritola le sue vittime senza lasciare loro scampo. Rappresenta l’agguato del Maligno, da cui bisogna guardarsi. Sapendo appunto scegliere tra Bene e Male. Condivido con voi una mia personalissima impressione. Questo drago dall’aspetto caprino e dalla coda di pesce, a mio avviso ricorda assai da vicino il famoso Capricorno augusteo, così tanto diffuso in tutto l’impero romano. Potremmo pensare che quel simbolo del potere, naturalmente pagano, sia poi stato ripreso ed interpretato in chiave cristiana come simbolo del male? Secondo me ci può stare!
L’UNICORNO
Procediamo adesso con le quattro fiere situate agli angoli della cornice più esterna. In corrispondenza (per nulla aleatoria) col pesce, troviamo l’unicorno. Simbolo di purezza, di castità e di onestà, si narrava che questo animale potesse venire avvicinato e abbracciato soltanto da una Vergine. E, infatti, la Cattedrale di Aosta è dedicata proprio a Maria. Vi è un ulteriore livello iconologico: l’abbraccio, il contatto tra unicorno e vergine richiama anche la Santa Incarnazione. L’unicorno, simbolo di Gesù Cristo, trovo incarnazione in una Vergine: è la Santa Concezione. In più notiamo sopra la schiena dell’animale un fiore stilizzato, interpretabile come un giglio, simbolo di purezza. Nonostante le tante fantasie e leggende su questa creatura, l’unicorno appare spesso nella simbologia antica e medievale poiché considerato come realmente esistente. “Now I will believe that there are Unicorns, That inn Arabia there is one tree, the phoenix trone….”: così, nel III atto de La Tempesta, William Shakespeare associa gli unicorni e la fenice nel novero delle cose incredibili per l’uomo. Si pensava inoltre che il suo corno avesse un forte potere curativo, in grado di guarire,qualora assunto in forma di polvere, qualunque tipo di veleno. Ma come procurarselo? Fino al XIX secolo, poteva esserne acquistata una porzione presso alcune “farmacie” le quali, in realtà, commerciavano denti di un grosso cetaceo: il narvalo.
L’ORSO
E alle spalle dell’ippocampo c’è l’orso, ossia l’uomo. Si diceva che l’ippocampo deve accompagnare l’uomo verso Cristo, giusto? E infatti a quest’ultimo viene non a caso abbinato. Sin dalla notte dei tempi l’orso è avvicinato all’uomo: per il suo aspetto quando si alza in posizione eretta, per il suo amore verso i suoi cuccioli e per (si credeva) il modo di “fare l’amore” (!!). E l’uomo, come l’orso, può rivelarsi tanto buono quanto malvagio. Coraggio, forza guerriera, ma anche una furia incontrollabile che per gli alchimisti lo aveva reso simbolo della nigredo (uno stadio di “morte necessaria”, di un “tutto nero” prima della redenzione). Non dimentichiamo infatti il suo lungo letargo invernale: una specie di “morte apparente” che prelude alla “rinascita”, alla primavera, ad un nuovo inizio. E chi se non noi Valdostani, innamorati di Sant’Orso, possiamo capire tutto questo?
LA IENA
Dicevamo della natura ambigua della pernice. Ebbene, dietro di lei si può individuare un altro animale dall’indole altrettanto doppia: la iena. All’epoca si riteneva fosse addirittura una animale ermafrodita e lussurioso! Doppia natura contaminata dal Male… Inoltre nel folclore cristiano medievale si pensava che la iena potesse addirittura imitare la voce umana, spesso ingannando uomini e cani che, se rispondevano al richiamo, venivano divorati. In qualche modo rappresenta la forza dell’illusione, dei falsi idoli, da cui occorre stare alla larga.
IL GRIFONE
Animale fantastico dal becco e dalle ali d’aquila, ma dal possente corpo leonino, il grifone, raffigurato sin da epoche assai remote in tutto il Mediterraneo e nel Vicino Oriente (da dove proviene), è un altro animale dalla natura ibrida, contemporaneamente legato al cielo e alla terra. Nel mosaico può guardare in faccia, in una posa quasi araldica, proprio l’unicorno. Questo perché in lui predomina una natura benigna, è un simbolo solare: l’aquila di Dio vola fino al Sole e lei sola può fissarlo ad occhi aperti (ce ne parla anche Dante, no?!). Il corpo di leone rimanda ad un nobile felino simbolo di Dio e della Fede, ma anche di Satana. Come mai? Se da un lato Gesù viene definito “leone della tribù di Giuda” e si riteneva che i cuccioli di leone addirittura nascessero morti per ricevere il soffio vitale dalla bocca del padre, dall’altro si invocava l’Arcangelo Michele affinché liberasse le anime dei morti dalla bocca del leone… Ancora un’ambiguità, una natura cangiante eternamente e fatalmente sospesa tra il Bene ed il Male. Allo stesso tempo si trova in posizione opposta all’orso, legato alla Luna e ben ancorato sulla terra, se non addirittura sotto-terra!
FIUMI E…
Proprio sotto di noi il grande riquadro del Tigri, fiume mesopotamico e legato al Paradiso terrestre. Acqua da cui la Vita ha avuto inizio. Per omofonia, vicino a lui vediamo la raffigurazione di una testa di felino che digrigna i denti e mostra la lingua: una tigre! Quanto al significato reale di questo nome in lingua iranica, invece, è “freccia”, dovuto alla rapidità delle sue acque. Come sempre i fiumi vengono raffigurati come dei giovani semisdraiati o seduti in parte nell’acqua, spesso nell’atto di versarla da una brocca che simboleggia la sorgente. Esattamente sul lato opposto ecco l’Eufrate. Nell’angolo in alto a destra del fiume si nota una testa di toro; potrebbe rimandare al fatto che questo fiume in realtà nasce da due rami, quindi da due “corna”, oppure al nome della catena montuosa, il Tauro. Oppure ancora simboleggia la forza dirompente ed il potere fecondante delle sue acque. E’ un pò come se tutto quanto viene narrato (seppure per simboli) al centro del mosaico, abbia luogo nella Terra in mezzo ai fiumi, la Mesopotamia. Una Mesopotamia che da una parte è considerata quale “culla della civiltà”, ma dall’altra rimanda alla città di Babilonia, ovvero al peccato e all’esilio. In questo il valore del messaggio è universale. Si parla dell’Uomo, della Creazione, del Peccato e della Redenzione. Tigri ed Eufrate, entrambi fiumi dell’Eden in virtù della loro copiosità.
LA CHIMERA
Sopra il Tigri troneggia una Chimera. Creatura fantastica e quanto mai ibrida: corpo di leone sormontato da una testa di capra ma con coda di serpente. Un discorso sulla chimera potrebbe cominciare proprio dalle parole di una canzone, molto celebre, degli Anni Trenta: «Illusione, dolce chimera sei tu…». L’illusione, certo, è una chimera: ma un’espressione del genere ha senso solo nella misura in cui si è certi che la chimera sia a sua volta un’illusione. Ancora oggi usiamo il termine “chimera” per indicare qualcosa di assolutamente impossibile. forse la prima menzione della chimera risale al VI libro dell’ Iliade, e l’iconografia “classica” registra parecchie incertezze nel darne la forma; talora leone con la testa di capra, tal altra al contrario capra con la testa di leone; la coda è comunque sempre serpentina, e il nome chimaira rimanda, evidentemente, alla capra. Le chimere (così come le sirene) erano oggetto abituale della condanna dei mistici medievali: esse appartenevano a quel tipo di difformitates raffigurate sui portali e sui capitelli dei chiostri romanici con le quali se la prendevano i cistercensi: a che cosa servono queste stranezze, questi mostri, se non a turbare il monaco, a eccitarlo, ad allontanarlo dalla meditazione e dalla preghiera? In un orizzonte medievale in cui la chimera va progressivamente perdendo il suo appeal iconografico, pensate che una delle poche e rare immagini medievali della Chimera è proprio questa di Aosta!
Insomma, la tradizione medievale sembra non aver capito né ben metabolizzato il valore della Chimera, non avendo trovato per lei una valida interpretatio cristiana. E’ piuttosto la mitologia greca a darci indizi interessanti. Una lunga progenie di mostri ed esseri ibridi attraversa il Mito. E si nota un emblematico ricorrere del numero 3. Le tre Gorgoni, le tre Graie e le tre Esperidi; e che dire del terribile cane infernale Cerbero dalle tre teste?! Senza dimenticare l’enigmatica Triplice Dea, Signora della Luna, delle acque e di tutti gli stati mutevoli dell’essere. Che si possa interpretare la Chimera come l’antitesi della Trinità? E in tal caso, sarebbe davvero un’illusione..dalle conseguenze radicalmente nefaste…
L’ELEFANTE
Dall’altra parte abbiamo un elefante. Nel folclore cristiano medievale si credeva che l’elefante non potesse piegare le ginocchia, e per tale motivo doveva appoggiarsi a un albero per dormire. Se l’albero si spezzava, l’elefante cadeva e non poteva più rialzarsi. E’ quindi simbolo del cattivo cristiano, vittima del suo stesso orgoglio, di quella che gli antichi Greci avrebbero chiamato υβρις (leggi ubris, sempre con la “u” francese), ossia “tracotanza”. Un cristiano solo di facciata che, in realtà, cercando appoggio nell’albero, si rifugia in simboli pagani. Ecco, dunque, il rischio di altre illusioni. Simpatico osservare come, non potendoli vedere dal vivo, questi animali venissero raffigurati più che altro in base ai cartoni di bottega desunti dai bestiarii enciclopedici e spesso modificati, per non dire “personalizzati”: qui il nostro pachiderma ha un corpo esile e delle zampe troppo lunghe, oltretutto con zoccoli bovini!
E I FUNGHI?
Tutta questa complessa scena è a sua volta racchiusa da un’elegante cornice fitomorfa composta da trifogli e … funghi! Il tutto alternato a cerchi concentrici. Questi ultimi rimandano ai cicli celesti, all’ordine universale regolato e garantito da Dio. I trifogli sono la Trinità, quella vera… si pensi a San Patrizio!
E infine eccoli, i funghi! Si tratta di un elemento decisamente insolito, una ricercatezza! Il fungo vive nell’umido, quindi ha bisogno di acqua (di Vita), ma a ben vedere nasce dalla decomposizione organica. E’ una forma di vita che si genera dalla morte. Quindi questi funghi altro non sono che un simbolo di immortalità.
Un monito divino (attenti alle illusioni), un messaggio di eternità e di speranza. Tutto questo sotto i vostri occhi, sotto i vostri piedi, ma al cospetto di Dio! Il potere delle immagini.
Il signore, ormai abbondantemente superata la metà della sua vita, si alzò dallo scranno intagliato e lentamente si incamminò verso la balconata del loggiato. Un loggiato magnifico, di gusto classico, le cui colonne riecheggiavano antichi volumi di gusto imperiale romano. Ma allo stesso tempo un loggiato gentile, aereo e luminoso, aperto su una campagna ondulata e verdeggiante, ricamata di frutteti e vigneti, punteggiata di villaggi tra i quali dominava il centro di Pinerolo, cittadella – fortezza sempre più strategica per gli scambi e le relazioni tra Italia e Francia.
Qui, nelle giornate limpide, vedeva la sagoma appuntita del Monviso svettare all’orizzonte. Là invece, dall’altra parte, a Varey, in lontananza si delineava il profilo massiccio di quello che da tutti era chiamato Mont Maudit. In un certo senso anche lui si riteneva una sorta di tramite tra questi due Paesi e l’aver deciso di trascorrere gli ultimi anni in questo luogo forse non era dovuto ad un semplice caso. Anzi, proprio non lo era! Così come, del resto, nulla nella sua vita era dovuto al caso…
Mais où sont les neiges d’antan ?
Sì, il signore, ricordando quel verso del poeta maledetto François Villon, nato quasi nei suoi stessi anni ma già prematuramente scomparso, spontaneamente andò col pensiero ai suoi trascorsi, alla sua gioventù.
Mais où sont les neiges d’antan ?
Questo refrain della “Ballade des dames du temps jadis” inserita all’interno dell’opera di Villon divenuta rapidamente celebre come “Testament“, ben si adattava al suo presente. In quel suo amato rifugio, in quella dimora chiamata “Torione” che da un poggio guardava verso le mura di Pinerolo, il nobile signore riposava e scriveva; pensava e scriveva; ricordava e scriveva.
Appoggiato alla balaustra il signore respirò a lungo mentre il suo sguardo celeste indagava la campagna e l’orizzonte sfumato nei toni caldi del tramonto. Anche lui era intento a redigere le sue ultime volontà e inevitabilmente i ricordi affioravano. La sua vita era costellata di eventi importanti. Lui stesso era un uomo assai importante e a suo modo decisamente potente, pur non avendo mai maneggiato un’arma in battaglia.
Mais où sont les neiges d’antan ?
Dove sono? Dove sono le nevi di un tempo? Dov’è la mia giovinezza? Il signore si scoprì scosso dall’emozione nel considerare quanto quella campagna assomigliasse al paesaggio di Varey, nel Bugey, a lui così familiare e così tanto caro.
Il suo cuore mai avrebbe potuto dimenticare quelle dolci colline, quei boschi, quel clima mite accarezzato dalle brezze di laghi non lontani, quei toni delicati. Terzogenito di un’illustre ed antica famiglia, fu lì che vide la luce. Oltre alla terzogenitura fu la sua precoce e fervida intelligenza a spingere il nobile padre Amedeo a ritenerlo assai adatto alla carriera ecclesiastica. E così, ancora adolescente, si ritrovò in seminario a Lione. E da qui a Losanna e poi ad Avignone. Da Torino a Roma…una formazione continua e decisamente arricchente. Ma la sede che più di tutte sentì davvero sua fu una sola: Aosta. A questa città legò strettamente il suo nome e la sua figura di mecenate.
Mais où sont les neiges d’antan ?
Era l’estate del 1509. Era tardo pomeriggio e l’aria si era appena rinfrescata. Il nobile signore apprezzava quella dolce ora che si approssimava ai vespri e amava intrattenersi nel loggiato. A volte, se chiudeva gli occhi, quasi gli sembrava di essere affacciato sul cortile del suo amato castello valdostano di Issogne. Quasi gli sembrava di ricordare il fervere dei lavori, lo sciamare delle maestranze, il vociare dei piccoli Philibert, Jacques, Charles e Louise, figli del cugino Louis e a lui affidati. Quanto amava quel piccolo giardino al’italiana impreziosito da un angolo dedicato alla coltura dei “semplici”… Un prezioso e appartato cameo nel cuore del castello, con le aiuole ben disegnate e sapientemente curate, con fiori meravigliosi ed essenze aromatiche. Già, la corte di Issogne… Quanto potente era il messaggio che lui aveva voluto imprimere in quel luogo. Quella corte doveva essere il perenne insegnamento per i discendenti di casa Challant. Era densa di simboli. Simboli di nobiltà, di fierezza aristocratica, di potenza. Simboli di amore e auspici di buona sorte.
Mais où sont les neiges d’antan ?
La neve. Anche lui aveva sempre amato la neve, quella fredda ma delicata coltre bianca che tutto ammantava di ovattato silenzio. E in Valle d’Aosta, in quella terra dolce e severa allo stesso tempo circondata da vette altissime, lui ne aveva vista e calpestata davvero tanta. Gli venne da sorridere pensando a quanto si divertivano i suoi nipotini rincorrendosi e scivolando sul tappeto bianco che ricopriva il giardino di Issogne…
Un soffio di vento più fresco del solito lo portò a stringersi nel mantello. Quel gesto gli ricordò immediatamente gli inverni a Sant’Orso, in quel chiostro così denso di sacralità, mistero e divina immanenza. Di chiostri nella sua vita ne aveva frequentati diversi, di qua e di là delle Alpi. Ma due su tutti erano rimasti scolpiti nel suo cuore: Sant’Orso, primo fra tutti, e il chiostro della Cattedrale di Aosta che nacque proprio sotto i suoi ancora giovani ma saggi occhi. Un piccolo chiostro prezioso e raffinato, luminoso nelle iridescenze cangianti del marmo grigio-argento e dell’alabastro appena dorato. Su uno di quei capitelli era riportato il suo nome, insieme a quelli di altri canonici committenti dell’opera. Era il 1460 e Giorgio aveva poco più di 25 anni. Un grande futuro lo aspettava.
Mais où sont les neiges d’antan ?
Il signore lentamente si voltò e tornò a sedersi. Il suo sguardo correva sulle sue ultime volontà. Quel documento era ancora lungi dal considerarsi terminato. Aveva bisogno di riflettere, di meditare, di pregare soprattutto. Ascoltava il suo respiro, il battito del suo cuore, cullato dai rumori della campagna. Una terra operosa e fertile; villaggi animati e vivaci. Città ricche, strade sicure. Questo da sempre era stato il suo sogno, il suo progetto. Questo era il buon governo che volle raffigurato anche nelle lunette del porticato basso di Issogne.
La pace. Era la pace la vera signora di tutto. Solo in tempo di pace i soldati potevano riporre le armi e trascorrere il tempo a bere e divertirsi. Solo in tempo di pace si poteva andare tranquillamente dal sarto alla ricerca di stoffe preziose. In tempo di pace i magazzini erano pieni e la gente poteva vendere e comprare: ortaggi, frutta, carni, salumi e quelle grandi forme di buon formaggio d’alpeggio che lui tanto apprezzava sulla sua tavola…
Per scrivere le sue volontà, Giorgio doveva prima di tutto aver ben chiaro in mente cosa davvero avrebbe lasciato, e non solo in termini meramente materiali, ma anche culturali, identitari, sociali.
“Princes, n’enquerez de sepmaine Ou elles sont, ne de cest an, Qu’a ce reffrain ne vous remaine: Mais ou sont les neiges d’antan ?”
E con questo ritornello sempre in mente, il nobile priore decise di allegare al suo testamento una breve autobiografia. Sì, voleva trasmettere ai suoi posteri gli avvenimenti più significativi e salienti della sua vita e voleva indicare loro in quali luoghi e in quali dettagli avrebbero potuto ritrovare il suo pensiero e la sua personalità.
Era stato ed era ancora un grande uomo, un mecenate, una mente aperta e lungimirante. Aveva visto le più grandi città. Aveva frequentato le eleganti corti padane. Aveva studiato nei più prestigiosi atenei. Aveva conosciuto illustri intellettuali e fini politici.
Di tutto questo voleva lasciare esplicita testimonianza. Fu così che l’inchiostro iniziò a scorrere sul foglio bianco. Il nobile priore cominciò a delineare una sorta di itinerario alla ricerca di se stesso. Una sorta di mappa per chi avrebbe voluto ripercorrere la “sua” Valle d’Aosta.
“Bene, direi che potrei iniziare da qui”, pensò. “Era, appunto, il 1460…“
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Il nobile Giorgio iniziò a vergare il foglio; si fermava spesso. Quindi per un attimo chiuse gli occhi cerulei ormai stanchi per l’età ma ancora vividi, accesi di quella luce tutta particolare che da sempre aveva contraddistinto il suo sguardo. Occhi grandi, di un azzurro chiarissimo ma non acqueo; un azzurro che ricordava la vastità del cielo, di quegli orizzonti che lui non si stancò mai di sondare, cercare, indagare. Ecco, sì, il suo era uno sguardo indagatore. Molto spesso gli avevano detto che i suoi occhi emanavano regalità, incutevano rispetto se non talvolta persino una sorta di timore. Il suo portamento era regale. Il suo incedere lento e diritto lo faceva apparire persino più alto ed accentuava la sua innata eleganza.
Quasi un sovrano. Gli veniva da sorridere… non avrebbe ambìto a tanto (o forse sì?), ma sicuramente nel suo campo era un solido punto di riferimento. Regalità. Una qualità forse derivatagli, oltre che dall’educazione ricevuta, anche da quel suo carattere, da quella sua naturale indole “leonina”. Non era forse solo una casualità se la prima luce che quegli occhi videro fu quella del 1 agosto 1439, sotto la costellazione del Leone, segno del Sole e della nobiltà.
Sguardo fiero e severo, seppur non privo di indulgenza e magnanimità. Mascella forte e volitiva, indice di carattere tenace e attitudine al comando. Capelli castano scuro che ancor più esaltavano il suo incarnato diafano. I suoi ritratti di profilo ben si allineavano alla ritrattistica aristocratica all’epoca in voga, derivata dallo studio di quella imperiale romana i cui nobili profili attraversarono le più ampie latitudini geografiche veicolati sulle monete e ben si impressero nelle consuetudini e nell’immaginario comune.
Si sentiva già nell’aria il profumo della primavera. Correva l’anno 1460 e lui era da poco giunto ad Aosta, entrando, ad appena 20 anni, nel Capitolo della Cattedrale.
Vi era un’atmosfera di grande fermento perché il nuovo chiostro, dopo quasi un ventennio di lavori, stava per essere consegnato dalle maestranze ed inaugurato dal nobile vescovo Antoine de Prez.
Fu l’anziano canonico François Rosset che gli raccontò le vicissitudini della fabbrica del chiostro. Lui, infatti, era presente al momento della stipula del venerabile patto tra il Capitolo della Cattedrale e il magister Petro Bergerii de Chamberiaco. Era l’8 giugno del 1442.
In quel giorno ormai lontano, otto canonici della Cattedrale stipularono il contratto per la ricostruzione del chiostro capitolare con questo importante architetto savoiardo, sebbene l’inizio vero e proprio dei lavori prese avvio nel marzo 1443, quando era vescovo Johannes de Pringino.
Il rapporto di lavoro con il Berger non andò a buon fine, pare per lungaggini e spese eccessive, tanto che l’architetto transalpino sparì presto dalla circolazione. Si procedeva a rilento e, nel frattempo, cambiarono pure le maestranze. Ancora nel 1456 si sottolineava lo stato di degrado del vecchio chiostro romanico così come di altri edifici del complesso capitolare. Venne così ufficialmente istituita la Fabbriceria della Cattedrale. Capo cantiere divenne il “lathomus” Marcellus Gerardi di Saint Marcel.
Giorgio aveva conosciuto personalmente questo Marcellus e ne aveva pubblicamente riconosciuto e apprezzato le indubbie doti artistiche. La sua finezza nel plasmare i blocchi di alabastro cristallino che avrebbero costituito i capitelli del chiostro era davvero notevole.
Il nobile Giorgio si soffermò un istante. Mentre la brezza del tramonto accarezzava l’edera del giardino accesa di porpora e arancio, guardando le colline pensò ancora al suo glorioso passato.
Effettivamente c’erano tre siti che meglio di altri potevano riassumere le maggiori fasi della sua vita, e tutti e tre si trovavano nella sua petrosa ma tanto amata Valle d’Aosta, terra natia dei suoi avi, la nobile e potente casata dei siri di Challant.
Innanzitutto la Cattedrale di Aosta: la sua gioventù, il periodo dei grandi sogni, delle forti ambizioni.
Quindi il Priorato di Sant’Orso: il trionfo della sua maturità, il luogo che forse più di altri rappresenta la sua doppia identità transalpina e la sua raffinata apertura culturale.
Infine il castello di Issogne: icona della sua filosofia di vita, delle sue gesta, delle sue speranze nel futuro, dei suoi auspici… Una dimora sontuosa che doveva fungere da costante insegnamento e monito servendo, allo stesso tempo, da riflessione tanto sulla vita quanto sulla morte. Una senilità che altro non è se non la fulgida ed autorevole sintesi di una vita straordinaria.
“Ebbene”, pensò, “chi vorrà trovare il mio nome scolpito su uno di questi capitelli dovrà accedere al chiostro dal lato sud, direttamente dalla porta di collegamento con la navata nord della Cattedrale. A sinistra dell’ingresso, dopo il capitello recante il nome del canonico Ludovicus de Sancto Petro, ecco il “mio”: Dominus Georgius de Challant canonicus.
20 anni. Appena 20 anni e il mio nome, il nome della mia casata, veniva scolpito in quella pietra brillante, per sempre. La mia carriera era agli inizi, ma sapevo che mi aspettavano grandi successi. Sapevo che avrei fatto grandi cose nella mia vita; me ne ritenevo capace.
E non finisce qui. Entrate in Cattedrale e raggiungete il presbiterio dedicato a Santa Maria Assunta. Lì resterete abbagliati dall’eccezionale eleganza dei magnifici stalli gotici, vero capolavoro di ebanistica, opera di due scultori capaci di modellare il legno con tale fervore da conferirgli un cuore eternamente pulsante, un respiro, un’anima. 61 stalli realizzati dalle sapienti mani di Jean Vionin di Samoens e di Jean de Chetroz. Questo splendore venne portato a termine nel 1469.
Naturalmente io non potevo mancare, essendo anche tra i committenti. Salite verso la testa della fila di sinistra e procedendo verso la navata, immediatamente dopo la raffigurazione di San Pietro, troverete quello da me donato riconoscibile innanzitutto grazie allo stemma della mia casata: “d’argento al capo di rosso con filetto nero in banda” sorretto da un angelo. Un angelo assai particolare che ritroverete anche altrove se saprete aguzzare la vista. Lo schienale vede la rappresentazione di re David. Un sovrano, dunque. Un indizio di aristocrazia che già poteva far intuire l’estrazione sociale di chi quello stallo aveva donato. Un re votato alla fede e amante, cultore, delle arti. Sì, in qualche modo, in quel devoto re David, era come se ritrovassi un pò di me.
Che anni furono quelli… Il Quattrocento vide il trionfo delle più importanti committenze artistiche che mutarono il volto della cattedrale anselmiana.
L’antica chiesa dedicata a San Giovanni Battista, la cui grande abside aggettava verso ovest, venne definitivamente demolita e il bel mosaico romanico con animali fantastici spostato nella zona presbiteriale a monte di quello, immenso, dedicato allo scorrere sempiterno dei mesi. Il corpo della navata di Santa Maria veniva allungato verso ovest di due campate e completamente voltato con una nuova copertura a crociera costolonata che andò a ricoprire quella lignea precedente nonché resti di affreschi molto antichi che, ormai, non rispondevano più al gusto della Chiesa.
Fu così che, ad occidente, si diede avvio al ripensamento di una nuova facciata che, però … purtroppo, io non vidi mai terminata.
Sempre nel coro il noto ed apprezzato scultore Stefano Mossettaz aveva creato un magnifico soffitto decorato adatto ad inquadrare in maniera decisamente scenografica la tomba di Francesco di Challant. Al grande orafo fiammingo Jean de Malines, inoltre, venne affidato l’incarico di portare a termine la monumentale cassa per le reliquie di San Grato, oltre a bastoni processionali, cibori, calici per la sagrestia…
Per non parlare delle vetrate del deambulatorio dove ai piedi della Vergine e di San Giovanni, i due dedicatari della Cattedrale, figurava nuovamente il mio stemma: sotto i piedi dell’Assunta sorretto da una coppia di angeli; sotto il Battista dal grifone e dal leone”.
Ecco, il signore poteva davvero affermare che la grande e vivace Fabbrica quattrocentesca della grande Cattedrale aostana ben sintetizzava la sua gioventù, fatta di studio, di preghiera, certo, ma anche di entusiasmi, di stimoli culturali, di voglia di scoprire, di sfide.
Tornò quindi a sedersi. Si strinse ancor più nel mantello. Ormai le ombre della sera si erano allungate e le prime stelle della notte facevano capolino in lontananza. Era ora di rientrare. Avrebbe proseguito domani, auspicando che, durante la notte, il Signore lo aiutasse nel nitore dei ricordi e gli desse la forza e la salute per redigerli.
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Un’insolita quanto densa coltre di nebbia avvolgeva la bella piana della Dora Baltea. Le vetuste mura di Aosta, costellate di torri, in buona parte rivestite di caseforti e dissimulate dalle dimore nobili su di esse arroccate, bucavano la caligine dichiarando la ricchezza e la potenza di questa città.
Il raccolto borgo di Porta Sant’Orso si rivelava come un prezioso cameo, vivace ed animato. Botteghe artigiane si susseguivano lungo la via e il continuo vociare dei mercanti difficilmente avrebbe potuto far credere che proprio lì, alle spalle della prima fila di edifici, si celava un luogo di grande silenzio e profonda contemplazione, l’Insigne Collegiata dei Santi Pietro e Orso.
Un’angusta stradella sfiorava i possenti piedi a scarpa delle mura e dei torrioni angolari; alzando lo sguardo immediatamente si veniva come ipnotizzati da quell’antica torre difensiva romanica ora divenuta campanile che dall’alto dei suoi 46 metri sorvegliava le umane vicissitudini.
Ma era solo dopo aver varcato l’alto muro di cinta che ci si ritrovava nel cuore di un complesso architettonico di abbagliante e disorientante bellezza.
E, il nobile priore poteva andarne fiero, quella bellezza era opera sua, del suo ingegno, della sua volontà. Correva l’anno 1468 e Giorgio di Challant veniva eletto Priore di Sant’Orso al posto di Humbert Angley, che diventava così suo vicario.
Ora che i lavori erano terminati, Giorgio poteva soffermarsi e godere di quel capolavoro che tanto di lui sapeva raccontare.
Sul piccolo cortile si apriva un elegante loggiato le cui arcate richiamavano antichi modelli romani sebbene leggermente ribassate; al di sopra di esse grandi finestre crociate ridondanti di decorazioni e poi, a salire, ancora fregi ricchi di preziosi altorilievi e poi ancora, al di sopra di tutto, lo svettare severo di quell’inconfondibile torre ottagonale di gusto prettamente borgognone. Tuttavia quel che forse più di ogni altro elemento colpiva i visitatori e aveva impressionato gli stessi confratelli, era quel materiale così inusuale per Aosta: il cotto!
Cotto che al nobile Giorgio piaceva moltissimo. Nei suoi numerosi viaggi in Italia lo aveva visto così spesso, così ben lavorato, così ampiamente utilizzato… Quel caldo colore aranciato, quella gentile porosità, quell’odore di terra umida, così particolare… tutto questo incontrava appieno il suo gusto e il suo desiderio di personalizzare il “suo” Priorato. Quell’edificio avrebbe dovuto parlare di lui, della sua nobile stirpe, delle sue illustri radici, delle gloriose alleanze. Avrebbe dovuto dichiarare una volta di più la doppia identità di quella sua amata terra di confine, di raccordo e di scambio tra mondo padano e mondo transalpino.
La nebbia mattutina si era pian piano dissolta, vaporizzata dai primi tepori solari. Quel velo lattiginoso era progressivamente scomparso consentendo una visione più nitida di quel luogo straordinario. Rilucevano le cornici ogivali delle finestre aperte sul prospetto nord e al primo piano della torre; finestre così simili a quelle del castello sforzesco di Milano… Un tocco voluto di esibita nobiltà, così come nella profusione di araldica affacciata sul cortile “scrigno”.
Stemmi priorali dipinti e in cotto; chiavi di volta conformate nella riconoscibilissima cifra Challant, sia nella loggia al pianterreno che nelle gallerie del piano nobile.
Osservando, dal basso verso l’alto, la facciata nord, si potevano riconoscere, in sequenza: lo stemma Challant completo, col ceffo di cinghiale, le ali di basilisco (figura mitologica simile ad un draghetto il cui nome richiama sovranità unita all’immortalità, anche noto come “re dei serpenti”) e le due colombe con le pergamene srotolate (filatteri), quindi lo stemma di casa Savoia con lo scudo torneario sormontato dal ceffo di leone alato e il motto “FERT”, e infine, più in alto, lo stemma del Papato con le due chiavi incrociate e la mitra.
L’altra facciata riportava, ai lati di una grande finestra del primo piano, lo stemma di Giorgio col bastone priorale seguito da quello del suo predecessore (e ora vicario) Humbert Angley.
Al pianterreno le radici di Giorgio di Challant: lo stemma Challant-Varey affiancato a quello relativo all’alleanza matrimoniale con i nobili De La Palud, la famiglia di sua madre Anne.
La sua storia era tutta lì. Le sue ambizioni, i suoi progetti, la sua potente personalità erano lì, in quel cortile rosso di cotto e acceso di colori sgargianti come il giallo ocra, il verde, l’azzurro… quei colori non sarebbero sopravvissuti all’impietoso scorrere del tempo, ma tutto il resto sì, e sarebbe forse diventato ancora più straordinario.
Quei nuovi volumi erano un potente biglietto da visita, portavano la firma di Giorgio di Challant.
E questo era “solo” l’esterno. Una volta entrati nell’edificio e raggiunta la galleria del secondo piano esposta a nord, si sarebbe rimasti letteralmente abbagliati dagli accesi cromatismi e dalle raffinate scene affrescate nella cappella.
Una pietra preziosa avrebbe brillato di meno. Le Petit Paradis: intimo e raccolto, ma non per questo meno raffinato e pregevole, luogo di meditazione e preghiera. Ma anche luogo di autocelebrazione ed espressione di ideali cortesi.
Sotto un cielo blu cobalto punteggiato da piccole stelle d’oro, sul fondo della stanza risplende una magnifica Madonna in trono, avvolta da preziose vesti damascate bordate d’oro e incoronata da un grande diadema tempestato di pietre preziose. Il delicato incarnato è ravvivato dal rosa delle guance ed esaltato dai lunghi capelli scuri. Sulle sue ginocchia siede il Bambino Gesù, nudo, con in mano il globo crociato. Entrambi guardano verso il nobile Giorgio inginocchiato che, a sua volta, rivolge lo sguardo verso di loro, in preghiera, vestito di porpora. Nessuno saprà mai che in quella dolce ma aristocratica Madonna bruna potrebbe forse celarsi il ricordo di sua madre Anne De La Palud.
In effetti corre una certa aria di famiglia tra i due, anzi tra i tre perché del Bambino il priore ha gli stessi vivi occhi chiari che, insieme a quei capelli castani rafforzano, per così dire, il muto ma intenso dialogo che sembra persino andare oltre la preghiera e la devozione.
Rivolgendo poi lo sguardo verso le due lunette della parete meridionale si riconoscerà il santo protettore ed eponimo del nobile priore. San Giorgio, prode cavaliere difensore dei deboli e difensore della fede. Rappresentante dei valori cavallereschi, San Giorgio (morto martire agli inizi del IV secolo d.C.) fu adottato dai Crociati come loro patrono.
Oniriche città murate e turrite si ergono a dominio di una spoglia e lunare campagna; uno stagno “grande quanto il mare” ospita il drago, temibile bestia pestifera affamata di giovani vite umane; la principessa, figlia del sovrano del luogo e vittima designata: esile, diafana ed elegante, cerca persino di fermare l’impeto di Giorgio affinché non muoia insieme a lei, divorato dal mostro. Ma San Giorgio, protetto a sua volta dalla Croce, incede coraggioso ed uccide la bestia. La Fede cristiana che uccide il Male, il demonio.
Conseguita questa vittoria, San Giorgio riesce a convertire al Cristianesimo tutta la popolazione ed il re del luogo (si diceva ben 20.000 persone!), scena raffigurata nella lunetta accanto.
Il nobile priore volle così omaggiare il suo santo protettore e contemporaneamente se stesso celebrando i suoi valori e la sua etica. Un nobile impavido, armato di solida fede e di grandi ideali.
Sul lato opposto, ai lati della finestra, i due titolari della Collegiata: San Pietro e Sant’Orso, quest’ultimo col bastone diaconale così come rappresentato anche sul capitello del chiostro a lui dedicato. Segue la scena dell’Annunciazione sorvegliata, al di sopra della finestra in posizione centrale, da Dio Padre.
Infine, la parete d’ingresso dove, accanto alla porta, si trova la Maddalena penitente, inginocchiata accanto al suo eremo roccioso, completamente nuda, vestita solo dei suoi lunghissimi capelli biondi. Una scelta assai particolare questa…
La Maddalena, controversa figura di donna. Ma chi si cela dietro quella misteriosa figura femminile? Una peccatrice, certo… ma forse non è tutto qui. Raffigurata a lato di quell’antro oscuro, di quella grotta aperta nella roccia, lei, così diafana e luminosa nonostante il suo essere macchiata dal peccato… potrebbe persino ricordare una dea pagana! Vicino ad un ingresso al sottosuolo, a richiamare antichissimi e forse mai del tutto sopiti culti pre-cristiani devoti alla Madre terra, a perdute dee della fertilità, a quel femminino sacro tanto seducente e ammaliante e per questo strenuamente combattuto e represso.
Qui nella cappella il priore Giorgio volle contrapporre una Maddalena nuda e sola, lontana tra le rocce, ad una Madonna sfarzosa e rilucente davanti alla quale lui stesso si inginocchia, seppur con uguali dimensioni. Una giovane donna bionda, avvolta nella sua chioma, additata comunemente come meretrice, qui trattata come una sorta di antica divinità della natura o come un’insolita ed emblematica “Eva” primogenitrice, un etereo ed ancestrale femminino divino contrapposto fortemente ad una Madonna, sempre giovane ma madre: bruna, luminosa, aristocratica.
Che vi sia una sorta di dichiarazione d’intenti? Io voglio combattere le ombre pagane; voglio che quelle divinità ritornino per sempre negli antri dai quali gli uomini volevano farle uscire. Combatterò, come San Giorgio, nel nome di Maria.
“Chissà” – pensava il nobile Giorgio – “chissà se mai qualcuno si accorgerà che l’unica donna mora in questo oratorio è la Madonna… mia madre…”.
Assorto in preghiera Giorgio vedeva quel volto sempre più splendente, sempre più vicino, vivo, palpitante… finché credette di avere un’allucinazione: la Madonna si accese di un fremito di vita. Il divin Bambino prese a muoversi su quelle ginocchia materne, a sorridere… sì, ne era certo.. entrambi gli stavano sorridendo. La Madonna tese una mano verso di lui; “Giorgio”, quel nome sembrò quasi un sospiro, un alito di vento, una carezza dell’anima… “Giorgio, sei un grande uomo e saprai cambiare il mondo. Il tuo nome verrà ricordato nei secoli a venire. Io ti sono accanto”.
La voce, quella voce… era proprio la voce di sua madre Anne. Giorgio non poteva credere a quel che stava accadendo, l’emozione era illogica, irrazionale, incontenibile, inspiegabile. Il cuore accelerò il suo battito. Ad un tratto la vista gli si offuscò e quell’immagine divenne evanescente. Tutto intorno a lui si muoveva… All’improvviso si ritrovò nella navata centrale della chiesa Collegiata, ma era disorientato da elementi che non riconosceva.
Gli apparve di fronte una sagoma di donna luminosa, ma stavolta non era Maria. La sagoma brillava di una luce lunare, fredda, intermittente. Piano piano prese maggiore consistenza… pallida, esile, diafana, bionda. I lunghi capelli le svolazzavano intorno al corpo creando una strana aureola; poi la giovane donna allargò le braccia, quasi dovesse spiccare il volo, balzò verso l’alto, al di sopra del presbiterio. Improvvisamente, in un bagliore indescrivibile, si accartocciò su stessa, divenne un bozzolo racchiuso nei capelli.
Quando la luce sparì, Giorgio vide una statua in pietra ai piedi di un Crocifisso, entrambi come sospesi a mezz’aria. Quella statua raffigurava una donna penitente dalla chioma inconfondibile; ma certo, era lei, la Maddalena!Eppure quella statua lui non l’aveva mai vista, non era a conoscenza della sua esistenza… chi l’aveva richiesta? Chi l’aveva realizzata? Era così insolita, diversa dalle statue che era abituato a vedere… E quel Crocifisso? Anche di quello non aveva memoria… Sì, era la chiesa di Sant’Orso, eppure era diversa…
Tutto riprese a girare, sempre più vorticosamente, finché…
Nel suo letto il nobile ed anziano priore si svegliò di soprassalto. Era stato un sogno. Il Priorato, Aosta, Sant’Orso… quei luoghi a lui così cari; quei luoghi per lui così emblematici, unici, speciali. Luoghi che, tuttavia, continuavano ad essere permeati da una sacralità antica e pervasiva, difficile da eliminare del tutto. Li aveva rivisti e rivissuti in sogno, sotto lo sguardo gentile di quella straordinaria Madonna bruna.
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“Zio Giorgio! Zio! Dai, vieni a giocare con noi!!”, “Zio, zio… guarda! Guarda come salto in alto adesso!”… Eh, sì, Giorgio ricordava assai nitidamente quelle voci allegre e le risate argentine dei suoi adorati “nipotini” (in realtà cugini di secondo grado, ma era più semplice così).
I piccoli Philibert, Jacques, Charles e Louise, figli del cugino Louis e a lui affidati, erano la sua speranza, rappresentavano il futuro suo e dell’intera casata Challant. Quanto amavano giocare e rincorrersi nel cortile e nel giardino del castello di Issogne…
Già, Issogne… volendo quasi parafrasare questo nome: “il sogno”!
Un sogno fattosi realtà per il nobile priore. E certo non poteva immaginare che, a distanza di secoli, gli stessi abitanti del paesello intorno alla dimora lo avrebbero proprio chiamato così: “il castello dei sogni!”.
Sin dalla prima volta in cui aveva visto l’antica, ormai obsoleta, casaforte medievale fatta erigere dall’antenato Ibleto, signore di Verrès, sui resti di una ancora precedente casaforte di proprietà vescovile, aveva capito le potenzialità di quella dimora circondata da prati, non lontana dal fiume e dirimpettaia dell’avita fortezza di Verrès.
Morto il cugino Louis, padre dei suoi “nipotini”, Giorgio si impegnò al massimo per ottenere una dimora di raffinato gusto aristocratico, al passo coi tempi e con le eleganti corti padane da lui visitate in occasione dei suoi frequenti viaggi. Ogni parete, ogni stanza, ogni loggiato doveva esprimere l’elevata cultura, le ambizioni, i valori della sua dinastia.
Come in un potente abbraccio denso di significato, il cortile era avvolto su tre lati da pareti interamente rivestite da affreschi il cui insieme rispondeva al nome di “Miroir pour les enfants de Challant“. Quelle pareti, come un efficace libro di storia, avrebbero perennemente raccontato agli eredi Challant, quali fossero le loro nobili origini, le loro radici. E, non in ultimo, a quale importante compito fossero chiamati mantenendo sempre alto il nome di questa nobile famiglia.
Era tutto, infatti, un trionfo di araldica, un fitto e coloratissimo susseguirsi di stemmi e blasoni rappresentanti, oltre ai numerosi rami della casata, i tanti matrimoni e le proficue alleanze.
Al centro del cortile, una fontana. Ma non una fontana qualsiasi. Fu questo il dono che lui volle fare all’amato nipote Philibert nel giorno delle sue nozze con Louise d’Aarberg. Un albero, un ibrido tra quercia e melograno, simboleggiante la robustezza e la solidità del casato unita alla fecondità e al proliferare di eredi che si auspicava nei secoli a venire. La quercia, simbolo di forza eterna. Il melograno, frutto già sacro alla dea Giunone, simbolo dell’utero femminile ricco di ovuli fecondi; simbolo di matrimoni forieri di nuovi giovani virgulti.
Sui rami, qua e là dissimulati, dei draghetti (che piacevano così tanto ai piccoli!). O si trattava forse di basilischi, lo stesso animale mitologico presente nel suo stemma personale? Figure animali chiamate ad allontanare il male e l’invidia dei nemici, rappresentando al contempo l’immortalità di questa stirpe (quasi) regale.
E, per finire, la forma della vasca: un ottagono. Come fosse un fonte battesimale, simbolo di vita eterna, di rinnovamento e di rinascita nel segno della purezza dell’acqua.
E poi, il giardino. Uno scrigno prezioso. Piccolo, ma delizioso giardino all’italiana, con aiuole ben curate e geometriche, ricche di essenze variopinte e profumate, di fiori ed erbe aromatiche. Il tutto composto in un ricercato hortus conclusus cinto da mura decorate da affreschi con figure di saggi e di eroi evocanti le virtù della tradizione antica.
Dal suo “Torione” pinerolese, il nobile Giorgio, decisamente affaticato, scrutava l’orizzonte avvolto nelle ombre violacee del vespro. Respirava a pieni polmoni l’aria profumata di erba e terra proveniente dalla campagna circostante. Chiudeva i grandi occhi azzurri e si perdeva nei ricordi.
Issogne, il castello dei suoi sogni, della sua famiglia. Ricordava il fervere dei lavori, l’andirivieni costante e frenetico della maestranze, la curiosità dei villici e dei locali che, appena potevano, curiosavano fugaci oltre il grande portone d’accesso aperto nella torre orientale, proprio con affaccio sulla piccola ma vivace piazza del villaggio.
Ricordava i frequenti sopralluoghi al cantiere, i consigli ai capimastri, gli scambi di idee e di proposte con artisti e botteghe; e quel “maitre Colin” così talentuoso e creativo! Gli era piaciuto da subito!
Il bel portico al pianterreno, illuminato dalla luce del vicino cortile, doveva rappresentare il trionfo della pace e del “buon governo”: i soldati a riposo, le botteghe ricche di mercanzie, le donne al mercato, l’abbondanza… E, su tutto, raffigurato al centro delle volte a crociera, lo stemma degli Challant.
Le cucine, gli ambienti di servizio, la sala da pranzo…E come non ricordare quella gustosa e profumata zuppa di pane, cavolo e formaggio che preparava Enrietta, la sua cuoca preferita?!
Ma, innanzitutto, la “Salle Basse”, o “Sala di Giustizia”, che Giorgio volle affrescata con un finto colonnato in cui si alternano colonne lignee, di cristallo e di alabastro, arricchito da stoffe preziose e affacciato su paesaggi di gusto nordico con graziosi villaggetti e città con curiose case a graticcio, una miriade di personaggi occupati nelle più varie attività, stormi di uccelli in volo e insolite scene di commercio fluviale, da un lato, su uno scorcio dominato da una fortezza simile a quella di Verrès e dalla Città di Gerusalemme, sull’altro.
Gli veniva ancora da sorridere se ripensava all’espressione dei piccoli quando videro le navi dipinte sulla parete…
non ne avevano ancora mai viste davvero e Giorgio augurò loro di viaggiare molto e conoscere il mondo quanto più possibile, per arricchire la loro cultura e, soprattutto, per aprire le loro menti. Per quanto gli era possibile, compatibilmente coi suoi numerosi impegni. voleva essere lui ad istruire i piccoli, personalmente! In sua assenza si era premurato di individuare dei precettori referenziati e di alto livello. Solo e sempre il meglio per i discendenti di casa Challant!
Sulla parete di fondo, di fronte agli scranni dei giudici, una scena di soggetto mitologico: il giovane principe troiano Paride al cospetto di tre dee: Athena, Afrodite e Hera. “Molti penseranno immediatamente al famoso giudizio”, pensò tra sè il colto priore, “ma c’è dell’altro! Chissà se rifletteranno sul fatto che Paride, in questa scena, sta…dormendo! Ebbene, sì! E’ un sogno! Un monito, un avvertimento da non trascurare… pena la rovina!”.
Ma fu quella giovanile e istintiva intemperanza che, ahimé, diede inizio alla decennale ed epica guerra cantata da Omero.
Quanto occorre ponderare ogni singola scelta, anche quella apparentemente più scontata… quanta attenzione per saper correttamente distinguere tra verità e calunnia, tra realtà e finzione, divincolandosi tra insidiose menzogne costruite ad arte e falsi adulatori…
Già, quante volte nel corso della sua vita aveva dovuto stare in guardia, diffidare, soppesare, valutare le persone che gli stavano davanti e le parole che dicevano… Spesso le apparenze erano ingannevoli e beffarde. Spesso persino chi ritenevi amici si rivelavano infidi serpenti. Oppure poteva anche capitare il contrario: persone cui non avresti attribuito la minima fiducia che riuscivano a sorprenderti con gesti ed azioni encomiabili, e magari senza pretendere nulla in cambio!
E poi sorrise ancora pensando all’espressione del piccolo Philibert, il maggiore dei “nipotini” quando lo condusse a vedere il suo oratorio al secondo piano del castello, immediatamente al termine dei lavori. Ancora si sentiva l’odore dei pigmenti stesi di fresco. “Oh zio, un piccolo smeraldo istoriato!”, esclamò Philibert, abbagliato dal verde acceso che dominava in quel piccolo ambiente. “Ma quello sei tu! Zio, ma tu sei meglio dal vivo!!”.
Rise di gusto il nobile Giorgio e ringraziò per il bel complimento! “Qui nel dipinto sembri più vecchio…”, aggiunse il nipote. Giorgio allora gli illustrò le scene raffigurate (Crocifissione, Deposizione e Compianto), gli insegnò a riconoscere i santi osservando quali particolari oggetti recassero o quali altre creature eventualmente li accompagnassero.
Philibert rimase colpito da Santa Margherita e dal drago che l’aveva inghiottita ma dal quale lei, con l’aiuto di Dio, era riuscita ad uscire viva e vegeta! Giorgio nutriva, inoltre, una particolare attenzione verso la figura della Maddalena e qui, nel suo oratorio privato, ben la si riconosceva ai piedi della croce, ammantata dai suoi lunghi capelli biondi.
Una figura decisamente intensa, ricca di sfumature; una donna in cui peccato e redenzione, lussuria e santità si mescolavano misteriosamente; una peccatrice che, tuttavia, si era guadagnata un posto speciale nella vita e nel cuore di nostro Signore Gesù. Una figura da molti ecclesiastici rifiutata, additata, quasi temuta o utilizzata quale esempio di peccato; eppure… eccola, affranta, distrutta da un dolore senza limite, piangere la morte terrena del figlio di Dio. Nella Maddalena, Giorgio vedeva l’umanità intera.
E quella volta in cui, già anziano, era tornato ad Issogne per assistere alla posa del magnifico altare della cappella del primo piano. Una vera meraviglia. Affacciandosi dalla penombra del viret, attraverso il gioco di bussole e porte, rimase immediatamente colpito dal bagliore dorato del polittico in stile borgognone al centro del quale spiccava la scena della Natività. E le ante, così come gli affreschi alle pareti, sempre opera di quel maître Colin che già aveva illuminato coi suoi affreschi magistrali il porticato del pianterreno.
Che atmosfera, quell’anno stesso, la messa di Natale, in presenza dei suoi famigliari, davanti a quel gioiello tardogotico, risplendente nella sua solenne sacralità.
Che atmosfera, quell’anno stesso, la messa di Natale, in presenza dei suoi famigliari, davanti a quel gioiello tardogotico, risplendente nella sua solenne sacralità.
Perso nei ricordi e nei pensieri, si accorse quasi per caso che le ultime luci del tramonto erano ormai svanite, lasciando il posto alla notte, dominata da una luna incredibilmente grande e vicina, così luminosa da oscurare le stelle. Una notte terribilmente fredda, ammantata da uno strano silenzio… tutto sembrava ovattato, come se nevicasse… E, in effetti, nel pomeriggio aveva nevicato. La campagna pinerolese stava vestendo gli abiti invernali e risplendeva in quella fredda notte di fine dicembre. I rumori erano così vaghi, lontani…
Il nobile priore pensò fosse giunto il momento di ritirarsi in casa e andare a riposare.
Si stese sotto una coltre di coperte che pareva pesare come un cumulo di pietre. Si girava e si rigirava, ma i pensieri si affollavano nella mente. Nulla da fare. Proprio non c’era verso di prendere sonno.
Si alzò nuovamente. Gli pareva di soffocare; uscì nel loggiato e si sedette. La sua intensa vita continuava a passargli davanti agli occhi: luoghi, volti, gesti, momenti…
Si ricordò che doveva terminare il suo testamento. Si diresse allo scrittoio e lo estrasse da un cofanetto a doppio fondo nel quale lo aveva racchiuso. Lo lesse e lo rilesse più volte. Chissà se quelle sue volontà avrebbero trovato le orecchie giuste, ma soprattutto la mente e l’animo davvero capaci di ascoltarle e metterle in pratica pensando al bene di tutti e non al proprio tornaconto. Chissà se i suoi eredi sarebbero stati in grado di dare giusto seguito a quelle parole lasciate per iscritto. Prese il documento, dell’inchiostro, e tornò nel loggiato, il suo posto preferito. Quasi bastava la luce della dea Diana per accompagnare la sua scrittura…
Tutto ad un tratto ebbe come un sussulto; la sensazione come di un violento pugno allo stomaco, un dolore lancinante lo attanagliò, una stretta feroce gli serrò la gola. Il cuore prese a battere all’impazzata. Provò a chiamare soccorso, ma la voce non usciva. Le gambe non reggevano più, si aggrappò con tutta la forza che aveva alla balaustra del portico, cercando aria, cercando sollievo… Tutto intorno a lui girava vorticosamente. Perse l’equilibrio e, cadendo, urtò sedia e tavolino che caddero a loro volta; il rumore attirò un servitore dal pianterreno. Costui si precipitò in casa chiamando a gran voce le inservienti e il cerusico, che in quei giorni soggiornava al “Torione” in modo da essere pronto ad ogni evenienza.
Trovarono il nobile Giorgio in preda al delirio, madido di sudore, agonizzante… Stringeva forte nelle mani un foglio; non c’era verso di prenderglielo… Lo portarono di peso fin sul suo letto. Il priore a stento respirava e a stento riusciva ad aprire gli occhi.
“Anne! Anne, presto! Corri! Portami acqua calda e biancospino!”. Udendo quel nome, a lui così caro, il priore aprì gli occhi. Il suo sguardo incrociò il giovane volto di una cameriera, di nome Anne, accorsa per prestare aiuto con quanto richiesto dal cerusico.
Il nome e… quel volto, la pelle chiara, i grandi occhi azzurri, i lunghi capelli scuri… “Madre…madre!”, ansimò il priore, “siete qui!”. Tutti si guardarono, attoniti… stava perdendo il senno!
“Madre, Madonna del Petit Paradis“… Le espressioni dei presenti si fecero ancor più interrogative. “Tenete, solo voi potete prendervi cura di quanto scritto. Tenetelo voi, ma, vi prego, non datelo a nessuno! Tenetelo finché non sarete ad Aosta, in quel sacro luogo a me caro… Portate questo scritto fino lì e, quando sarete lì, riponetelo, in un luogo sicuro. Chi verrà, saprà. Ma solo chi avrà la capacità di capire, lo troverà. Qui ho scritto le mie volontà; qui ho raccontato la mia vita. Qui, infine, ho vergato le mie conoscenze…”.
Pose quindi il rotolo nelle mani della giovane servitrice, che, non capendo, si guardò intorno cercando aiuto e supporto. Il cerusico, interpretando le parole del nobile Giorgio, non solo suo illustre paziente, ma decennale amico, chiuse con la cera di una candela quel rotolo e lo timbrò col sigillo riportato sull’anello del priore che, per quanto gli era ancora consentito, riuscì persino ad abbozzare un sorriso, quasi per ringraziarlo.
La notte era alta. Ma, all’improvviso, quella grande luna che tutto illuminava del suo raggio d’argento, scomparve. Il buio più fitto avvolse la campagna. Non si sa da dove né come, ma una densa coltre di nubi aveva occultato la dea della notte. Il silenzio, se possibile, era ancora più intenso. Una folata di vento entrò furtiva dalla finestra; le candele si spensero, tutte contemporaneamente. Era il 30 dicembre 1509. Il nobile Giorgio esalò l’ultimo respiro.
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Il giorno seguente il cerusico accompagnò la giovane cameriera, designata ambasciatrice dal priore, fino al luogo sacro a lui caro. Spiegò al nuovo Priore l’accaduto e, nonostante un iniziale sospetto, le venne consentito di accedere, accompagnata dal cerusico, fino alla soglia del Petit Paradis.
Effettivamente, per quanto fosse semianalfabeta e assai timorosa, la giovane ancella si accorse immediatamente di una straordinaria somiglianza; una somiglianza che la fece sentire “accolta”, ancor più orgogliosa di essere stata scelta quale depositaria di una tale importante missione.
“Anne“, la chiamò il cerusico, “deposita il documento nel luogo che a tuo avviso può ritenersi il più adatto e sicuro”. La giovane, che oltretutto portava lo stesso nome della madre di Giorgio di Challant, si guardò attentamente intorno.
Notò una sorta di piccola nicchia ai piedi dell’affresco raffigurante la Madonna in trono. Una specie di sportellino quasi mimetizzato dall’ingombro della grande mensa d’altare. Lo indicò e guardò il cerusico, chiedendo un’ultima volta conferma e autorizzazione. Da lontano, il Priore in carica sorvegliava il tutto; sapeva cos’era successo e si fidava del noto e sapiente cerusico, uomo di fiducia del nobile Giorgio. Sorvegliava ma in modo discreto; tutto doveva svolgersi così come Giorgio aveva indicato prima di morire.
La fanciulla, ora più sicura, rivolse un’ultima volta gli occhi a Maria e all’allora giovane Giorgio di Challant. Aprì lo sportellino, vide che celava un doppiofondo ricavato ancor più all’interno della parete: lì depose il documento. Una volta richiusolo con grande accuratezza, si fermò a pregare il buon Dio chiedendo la sua protezione.
Le ultime volontà del nobile Giorgio erano dove lui voleva che fossero:nel luogo sacro a lui così caro.
Lì sarebbe rimasto per molto tempo. Nessuno proferì mai parola in propositoné fu mai messo nulla per iscritto.
Ancora oggi ci si domanda che fine possa aver fatto quel testamento…
Finalmente sono riuscita a vedere in replica la prima puntata del programma Stanotte a Napoli, condotto dal sempre ineccepibile Alberto Angela. La puntata è stata trasmessa la sera del 25 dicembre su RaiUno, ma me l’ero persa…ahimé!
Che dire… un fantastico viaggio notturno tra i vicoli, le piazze e l’atmosfera di una città meravigliosa e poliedrica, fatta di sogni e realtà, di luci e di ombre, di angeli e demoni.
Una città plurimillenaria e dalla caleidoscopica identità che, davvero, mai come in questo caso, si fa perfetta icona del Barocco!
L’intera puntata, infatti, è un inno a questo straordinario momento culturale e sociale. Non solo artistico: il barocco ha segnato un’epoca di passaggio importantissima, quello all’età moderna, all’uomo moderno.
Dalla grandiosa Piazza del Plebiscito al sontuoso Palazzo Reale; dall’eccezionale Tesoro di San Gennaro alla struggente, affascinante e misteriosamente magnetica Cappella Sansevero passando dalla Certosa di San Martino fino a quel trionfo di colori e suggestioni che è il chiostro del Monastero di Santa Chiara.
In tutto questo, cesellato in una notte magica e avvolgente, si staglia protagonista il barocco napoletano, dove un’opulenta ed esasperata bellezza si intreccia ad un costante memento mori: goditi la vita! Godi il più possibile di ogni emozione e piacere, perché la vita è breve e fugace.
Trionfi dorati, affreschi sontuosi e voluttuose sculture si mescolano e si confondono tra teschi, scheletri, clessidre e orologi. Questa la doppia anima di un periodo in cui i contrasti si sublimano sospesi tra culto della giovinezza, esasperata ricerca dello stupore e della meraviglia, e latente monito di morte.
Ecco, in una simile cornice, ancora di più si capisce quanto il Barocco esprima lo spirito partenopeo in cui una costante celebrazione della vita, della bellezza e dell’amore si pone come antidoto e potente amuleto, tra fede, scongiuri e scaramanzia, per un’idea di morte che, per quanto presente e ineludibile, si cerca di limare e confondere.
Insomma, uno stile che bene esprime tanta parte dell’indole mediterranea! Si pensi alle diverse declinazioni che assume tra continente, isole, mari e litorali: dal ridondante barocco spagnolo che potentemente ha plasmato quello napoletano e quello siciliano, altrettanto ricco e raffinato sebbene meno sovraccarico, a quello francese: elegante e prezioso, fino a quello sabaudo piemontese, più algido e ordinato. Tanti modi di vivere, esprimere e interpretare un vero e proprio stile di vita, flessibile e mutevole a seconda delle latitudini e dei contesti.
E’ vero, un po’ per tutti gli stili è così, ma (almeno per me) nel Barocco è più evidente, più palpabile e sicuramente avvolgente. Può essere stordente e sovrabbondante, così come inaspettatamente sobrio e formale, giocato su molteplici geometrie esterne che nascondono altrettanti inattesi trionfi affrescati e decori all’interno. Un gioco, anzi, un “inganno” quest’ultimo, che bene si apprezza in almeno altre due importanti dimore barocche valdostane, il castello Vallaise di Arnad e Palazzo Roncas nel cuore di Aosta.
Château Vallaise di Arnad (regione.vda)La galérie des Femmes fortes di Château Vallaise (S. Bertarione)Palazzo Roncas ad Aosta prima dell’inizio dei lavori esterni (S. Bertarione)Il loggiato del piano nobile di Palazzo Roncas (S. Bertarione)
L’importante era stupire, destare meraviglia!
Bene, direte voi, e cosa c’entra il castello di Aymavilles?
C’entra eccome! Quelle quattro iconiche torri merlate unite da ampi e luminosi loggiati vanno a comporre un edificio strano e insolito: un castello diverso che riesce a distinguersi da tutti gli altri manieri valdostani.
Quella sua doppia identità, quel suo essere ambivalente e anfibio, inaspettatamente sospeso tra Medioevo e Barocco, ne fa, fin dal primo sguardo, una dimora affascinante e ipnotica.
Il castello di Aymavilles visto da nord-ovest (C. Pizzato)
Le logge e gli stucchi barocchi si insinuano tra le robuste murature medievali e rinascimentali ammorbidendole, mimetizzandole e avvolgendole tra le spire di un palpitante organismo plastico e vitale.
La finestra a crociera del XV secolo annegata nelle murature settecentesche (S. Bertarione)
La ruvida pietra trecentesca si fonde con i nuovi candidi intonaci e gli stucchi leggiadri; le nobili ma severe finestre crociate vengono immerse e nascoste in nuove murature più ampie e ariose.
Il castello quattrocentesco inglobato nella successiva dimora barocca (S. Bertarione)
La primigenia fortezza si trasforma in un ricco e raffinato palazzo di delizie incastonato in un parco terrazzato che rimodula e riveste gli antichi fossati difensivi.
Le torri medievali rivestite dall’elegante abito barocco (S. Bertarione)
I beccatelli dell’edificio quattrocentesco all’interno del nuovo palazzo. Ciò che prima era fuori, ora si trova all’interno (S. Bertarione)
E così, anche su questo poggio circondato da vigneti nel cuore delle montagne valdostane, la magia barocca giunge a permeare un’austera turrita dimora ingentilendola e impreziosendola, adeguandola ai gusti del nuovo tempo e della nuova aristocrazia, senza tuttavia annullarla o tradirla. Certo, a prima vista può sembrare strano, può forse persino destare critiche o perplessità, come del resto accadde alla viaggiatrice inglese Elisa Robinson Cole che nel suo A Lady’s Tour round Monte Rosa (1859)lo definisce “francamente brutto”.
Altrettanto negativo il parere espresso da William Brockedon nel suo Journal of excursion of the Alps (1833) che cita quasi distrattamente il castello definendolo un “edificio di cattivo gusto”.
Qualcuno direbbe “nel bene o nel male, l’importante è che se ne parli!”. Beh, oggi noi non possiamo che parlarne nel bene, ravvisando persino un accento di contemporaneità in questa miscela di gusti, epoche e tendenze; in questa creatura architettonica decisamente ibrida, “meticcia”, esotica, un po’ come Palazzo Madama a Torino che, a seconda di come e dove lo guardi, offre sempre un volto diverso.
La regale e ibrida bellezza di Palazzo Madama a Torino (foto L. Acerbi)
Un edificio allo stesso tempo severo ma raffinato, forte e gentile, tetragono e fatato. Un castello delle favole? Forse, in parte, ma non del tutto! E’ un racconto barocco, il suo… fatto anche di apparenze, di meta-significati, di artifici retorici e di ricercate perifrasi. Ecco, in un castello come quello di Aymavilles, è pure possibile che, alla fine, la principessa nella torre sia anche la strega! Ed è oltremodo affascinante!
Castello di Aymavilles, prospetto sud. L’ingresso. (C. Pizzato)
Un’accoglienza quasi regale con una cancellata e una strada in salita; quasi un tempio in cima ad un’altura. Un ampio giardino di gusto vagamente transalpino e un portone incastonato da colonne e stucchi di fattura ticinese.
Le decorazioni in stucco del portale d’accesso (S. Bertarione)La scritta in tedesco sull’architrave d’ingresso (C. Pizzato)
E già qui cominciano le domande: come mai una scritta in lingua tedesca? E perché sottolineare che questo castello appartiene “ a me e a coloro che mi succederanno”? Quali le ragioni di Joseph-Félix de Challant? Forse un voler affermare, una volta per tutte, che lì i padroni di casa erano gli Challant? Una sorta di imperativo imprimatur alla trionfale rinascita di cotanta dimora (e ricchezza)?
Alzando lo sguardo, un orologio. Dipinto, finto, con ore fissate per sempre su quella facciata. Un orologio barocco le cui lancette segnano un’ora che non cambierà mai: le 11,10.
L’orologio dipinto in facciata (S. Bertarione)
Come mai? Cosa si cela dietro la raffigurazione di un oggetto “feticcio” dell’epoca barocca? Perché proprio le 11,10? Scritte in numeri romani, con XI e II che potrebbero ricomporre un XIII: che sia un accenno al secolo in cui nacque quel luogo fortificato? Oppure, sommando 11 e 10,si avrebbe un 21, corrispondente all’età in cui, in epoca barocca, si riteneva iniziasse “la fleur del’âge”, ossia quella giovinezza così celebrata e osannata da divenire quasi oggetto di culto e che si contrapponeva alla paura del vecchio e, soprattutto, della morte?
Oppure potrebbe nascondere una data… chi lo sa! Le ipotesi si sommano e si accavallano in questo “trompe l’oeil” d’ingresso che, a modo suo, inganna bloccando lo scorrere del tempo.
E questa disorientante altalena temporale continua all’interno dove, più o meno dissimulato, il fantasma del castello medieval-rinascimentale appare e scompare, mostrandosi e ritraendosi tra finestre, scale, intercapedini e solai.
Tra sale, salotti e stanze; tra scale, torri e soffitte, ecco anche spuntare, qua e là, l’immagine della Morte che, sotto forma di scheletro, ricorda a tutti che, prima o poi, ricchi o poveri, si andrà (definitivamente) da lei.
La Morte e il suo monito (S. Bertarione)
Senza trascurare il tocco esotico dovuto alle pitture e alle curiosità volute nell’Ottocento da quel personaggio originale e sfuggente, colto e viaggiatore, che fu il conte Vittorio Cacherano Osasco della Rocca Challant che in questa dimora radunò un tal numero di oggetti, cimeli, opere d’arte e reperti da renderla un enorme cabinet de merveilles.
Una collezione che, stando agli archivi, doveva risultare straordinaria, capace di stupire e ammaliare gli ospiti del conte. Una collezione andata, ahimé, dispersa con la sua morte…
Oggi queste antiche meraviglie sono state idealmente riportate al castello grazie ad un’altra importante collezione: quella dell’Académie Saint-Anselme, un’associazione valdostana di studi storici e scientifici fondata a metà Ottocento.
E così, tra oggetti preistorici, salassi e romani; tra lucerne, bracciali, anfore e monete; tra suppellettili liturgiche provenienti da chiese oggi scomparse o radicalmente trasformate, questa collezione, a suo modo, traccia una linea del tempo che, pur nel suo evolvere, qui viene materializzata e cristallizzata.
Come in un gioco di scatole cinesi, la dimora stessa rivive e misura il suo tempo mentre l’uomo che vi si addentra si trova ad attraversare insospettate stanze temporali.
L’uomo misura il tempo che, a sua volta, misura l’uomo. Ma qui a Aymavilles il tempo è bloccato: quel grande orologio è finto. Quelle 11,10 non passeranno mai.
E qui scatta quel sottile incanto, o forse inganno, squisitamente barocco, di una bellezza tenacemente conservata sotto la sua preziosa campana di vetro, lottando contro il tempo, lottando contro quella vanitas tanto ammaliante e seducente, quanto fragile ed evanescente.
Ebbene, credete di ingannare il tempo, ma ne resterete ingannati!
“Là dove c’era l’erba ora c’è… una città-aaa”; credo che questo refrain vi sia noto… chi non ha mai cantato o anche solo ascoltato questo famosissimo brano del grande Adriano Celentano?
Presentato a Sanremo nel 1966, subito non riscosse grande successo, anzi, una canzone che si faceva portavoce di una problematica socio-ambientale all’epoca pareva “stonata” tra le note più famigliari tipicamente festivaliere di fiori, amori e cuori sospirosi.
E invece, il pubblico la premiò! E ancora oggi risulta quanto mai attuale, non è vero?
Ebbene, accompagnati dall’inconfondibile voce nasale del “ragazzo della via Gluck”, oggi vorrei portarvi con me in passeggiata lungo via Saint-Martin-de-Corléans, un’arteria decisamente trafficata che ai più risulta sgradita e sgradevole; insomma, mi potreste dire, ci sono così tante belle passeggiate da fare sia in città che fuori, e tu proprio qui ci vuoi portare?!
Allora, un piccolo passo indietro.
Non nego che anch’io non abbia mai visto questa strada in maniera tanto “amichevole”: marciapiedi stretti o “a macchia di leopardo”, palazzoni, rumore, auto che sfrecciano di continuo, rumori, lavori di varia natura, pochi negozi “accattivanti”… sì, ecco, non certo un luogo adatto al quieto passeggiare… Eppure…
Sarà che da quando sono uscita dall’ospedale, ho percorso per 2 anni questa via 2 volte a settimana per andare alla “Ex Maternità” a fare la mia buona riabilitazione.
Sarà che spesso ad accompagnarmi stato è mio suocero, l’arch. Alessandro Acerbi, classe ’41 (che ci ha lasciato nell’agosto dell’anno scorso e che ricordo con immenso affetto), che ogni volta mi raccontava storie e aneddoti di un’Aosta che non c’è più, o che forse aspetta solo di essere ritrovata, conosciuta e raccontata.
Sarà che tutti i suoi racconti mi hanno incuriosito al punto da andare a cercare i due volumi dell’arch. Giuseppe Nebbia dedicati all’Aosta moderna e contemporanea per approfondire alcuni aspetti e verificare certi dettagli.
E infine, sarà che vorrei tanto che questa strada così ricca di testimonianze riuscisse a rivivere e ad essere percorsa a piedi per accompagnare aostani e non fino a quel luogo speciale, anch’esso in buona misura incompreso e criticato sebbene ricco di storia e di opportunità; quel luogo senza tempo, oltre il tempo, in cui lo scorrere dei millenni ha cristallizzato le pieghe più intime del vivere umano: l’Area Megalitica di Saint-Martin-de-Corléans.
Perciò, via, si parte! Cominciamo dall’incrocio tra via Martinet, viale Ginevra e, sulla sinistra, via SMdC (d’ora in poi la abbrevio così che mi viene più rapido… inoltre tenete conto che ormai o scrivo solo con la sinistra quindi, abbiate pazienza..). Proprio qui sorge, incombente e monumentale, Palazzo Stella, progettato dallo studio del famoso architetto milanese Giò Ponti, cui si deve anche il palazzo del Cral Cogne, nei primi anni ’50.
Esattamente di fronte l’Ospedale “Umberto Parini”, voluto dall’Ordine Mauriziano in sostituzione del precedente edificio situato in piazza Deffeyes, dove ora si eleva Palazzo regionale. Il complesso nacque su campi prima occupati, a ovest, dalla cascina Bibian, e a est dalle propaggini settentrionali dell’area cimiteriale di Santo Stefano, utilizzata fino all’attivazione del nuovo cimitero monumentale realizzato alla periferia occidentale del capoluogo, progettato dall’arch. Egisippo Devoti e inaugurato il 6 novembre 1930.
Un’area di sepoltura quella lungo viale Ginevra, un tempo evidenziata dall’oratorio goticheggiante di Saint-Jean-de-Rumeyran ( situato all’incirca dove oggi c’è la pensilina dei bus) e che, alla luce delle più recenti indagini archeologiche, affonda le sue radici assai prima del “secolo breve” o delle epoche medievali. La nota e discussa sepoltura sotto tumulo di pietre del cosiddetto “guerriero celtico” si data infatti alla Prima Età del Ferro, ma altri ritrovamenti rimanderebbero persino alla precedente Età del Rame. Tuttavia non è questa la sede per addentrarci in cantiere, anche perché saranno gli archeologi che vi lavorano a darne notizia quando lo riterranno opportuno. Lasciamo perciò momentaneamente da parte il risuonare dei carnyx celtici e torniamo tra presente e recente passato.
L’ospedale, dicevamo. Progettato nel ’39, venne inaugurato nel ’41 e terminato nel ’42. Un impianto netto, sobrio e geometrico, di puro stile razionalista, sebbene la forma quasi a spirale possa conferirgli un movimento ulteriore, per alcuni baroccheggiante, per altri quasi futurista. Orientato secondo l’asse eliotermico garantiva il massimo soleggiamento, ulteriormente amplificato dai grandi terrazzi e ben arieggiato grazie alle notevoli altezze interne. Pare che in origine vi fosse la volontà di creare non solo un semplice ospedale, ma un centro specializzato nella cura della tubercolosi.
Procediamo fino all’angolo con via Monte Solarolo dove, sul lato sud, sorge il poderoso ed elegante Palazzo Lucchini, uno dei primi condomini della città, eretto nel 1948.
Continuiamo fino alla rotonda davanti alla banca BNL; sul lato opposto della strada,al civico 72, notiamo un raffinato villino anteriore agli anni ’30 dall’entrata sottolineata da una coppia di leoni ed impreziosita da un triplice livello di portico frontale.
Ecco, d’ora in poi immaginiamoci di essere nei primi anni del XX secolo arrivando al massimo agli anni ’50 quando l’originaria strada sterrata che attraversava campi, orti e giardini, venne poi trasformata in un asse stradale di moderna concezione adatto al nuovo traffico veicolare e funzionale al progressivo ed inesorabile sviluppo urbano di un’Aosta operaia e militare.
Militare, appunto. Una città ritenuta strategico baluardo al di qua delle Alpi sin da epoca romana, tra la fine dell’Ottocento e gli anni ’40 del Novecento vide ancor più enfatizzata questa sua marziale identità con la costruzione, a più riprese, delle caserme e dei quartieri annessi.
Cominciamo per correttezza e completezza dalle caserme Beltricco e Testafochi, oggi rimodellate per essere trasformate in villaggio universitario, affacciate su Piazza della Repubblica (amichevolmente nota come “Piazza della Lupa”), un tempo Piazza d’Armi del Plot, su cui svetta la Casa Littoria, terminata nel 1938.
Il nucleo primigenio è l’edificio intitolato ad Aldo Beltricco, costruito al centro dell’area militare in questione tra il 1886 ed il 1887, giocato sul contrasto, sia materico che cromatico, delle modanature in mattoni e delle larghe specchiature in intonaco.
Il complesso della Testafochi prevedeva , oltre all’edificio principale aperto sulla piazza tuttora esistente, anche due corpi laterali ( le palazzine Zerboglio e Urli) distrutte per lasciare il posto ad altrettanti edifici di gusto contemporaneo che ospiteranno le future aule ed alloggi universitari.
Tornando su via SMdC, ai civici 85-87, troviamo le caserme “Cesare Battisti”, il cui corpo principale si data al 1939. Altra emblematica testimonianza dell’anima militare di Aosta, l’Aosta che diede appunto il nome al valoroso battaglione alpino, unica Medaglia d’Oro nella Grande Guerra: ” Ca cousta l’on ca cousta, Viva l’Aousta !(Monte Solarolo, 25-27 ottobre 1918).
Sul lato opposto della via, al civico 86, si erge un’elegante palazzina a 3 piani con balconcini sfalsati e tetto a padiglione anteriore agli anni ’30.
Proseguendo, al civico 132, occhieggia tra gli alberi, isolata in un giardino come una gemma preziosa, Villa Brezzi. Progettata dalla Società Ansaldo nel 1919 e in seguito realizzata negli anni 1922-24 in concomitanza della realizzazione del Quartiere Operaio denominato poi “Cogne”, era destinata ai massimi dirigenti della Cogne Acciai Speciali. Un fabbricato allo stesso tempo elegante ed austero, mosso da avancorpi, logge e bay-window, ancora dotata di una portineria collocata all’ingresso. Venne soprannominata dagli Aostani “Villa Brezzi” dal cognome dell’allora direttore degli stabilimenti Cogne, l’ing. Brezzi. Oggi è la sede della sezione valdostana dell’ANA.
Superiamo quindi la zona delle caserme fino a raggiungere la rotonda di via Monte Grivola. Qui sorge un’altra graziosa abitazione di inizio Novecento: Villa Silva. Restaurata recentemente conserva la poesia e la leggiadria del suo aspetto originario, ulteriormente rievocato dai cantonali in bugnato a contrasto con la tonalità pastello dell’intonaco e la nitida geometria delle specchiature; bella e particolare l’apertura semicircolare della lunetta superiore.
Continuando a passeggiare arriviamo nella zona “Gagliardi” dove si trovano la “Casa Gagliardi”, palazzina d’abitazione al civico 236, a 4 piani, sempre con balconcini sfalsati con belle balaustre in ferro battuto e notevole tetto a padiglione. Poco oltre l’edificio noto come “ex clinica Gagliardi”, costruita sempre negli anni ’30 e attiva come struttura sanitaria generica sin dai primi anni ’40. Rimase in funzione, anche come succursale della Maternità (che verrà realizzata a breve distanza nei primi anni ’50) fino all’inizio degli anni ’80 quando poi chiuderà.
Giungiamo quindi all’incrocio con Viale Conte Crotti, intitolata al conte Edoardo Giovanni Crotti di Costigliole, nato in quel di Saluzzo (CN) il 21 ottobre 1799. Appartenente ad una tra le più antiche famiglie nobili della zona, secondogenito del conte Alessandro intendente generale di Nizza (dal 1819) e di Marianna de La Chavanne, savoiarda. Un viale chi si nomina spesso, ricco di attività commerciali e con negozianti ed imprenditori dal vivace spirito di iniziativa. Sicuramente una zona che meriterebbe maggiore attenzione e che potrebbe trarre giovamento,così come l’intero quartiere di SMdC, dalla presenza dell’Area Megalitica coperta più vasta d’Europa!
Inoltre forse non tutti sanno che si viale Conte Crotti prospetta un condominio progettato dall’arch. Carlo Mollino, realizzato tra 1951-53, che riprende, seppure in senso orizzontale anziché verticale, le peculiarità della “Casa del Sole” a Breuil-Cervinia.
Ma prima proviamo a conoscere più da vicino questo conte Crotti, la cui bella cappella funeraria di famiglia si erge al centro dell’antico Cimitero di Sant’Orso distinguendosi per il suo ricercato stile goticheggiante di fine Ottocento.
Avviato alla carriera militare ed entrato assai giovane nel Liceo imperiale di Genova, ne uscì sottotenente, effettivo dal 21 giugno 1815. Luogotenente dal 1819, capitano dal 1825, direttore dei cadetti all’Accademia militare di Torino, abbandonerà la carriera militare nel 1839 con il grado di maggiore. Il 28 luglio 1838 re Carlo Alberto gli aveva conferito motu proprio il titolo di conte, trasmissibile ai discendenti maschi. Acquistò dal cognato conte Passerin d’Entrèves una tenuta sul promontorio di Beauregard presso Aosta, stabilendovisi nel 1850: vi esplicherà notevoli opere caritative e s’impegnerà nella locale amministrazione rendendosi portavoce di un ambiente fortemente tradizionalista e clericale. In Aosta fondò una Société de bon secours per abolire la mendicità ed il vagabondaggio: annessa alla collegiata della città, l’opera cadrà in seguito alla soppressione di quella per le leggi ecclesiastiche piemontesi del 1854. Venne inoltre nominato direttore dell’Ospizio di Carità e ne ottenne il patrocinio di Vittorio Emanuele che nel 1857 lo insignì di medaglia d’oro (“Al conte Edoardo Crotti di Costigliole, saggio e zelante amministratore d’Istituti di beneficenza”). Affiancò quindi il vescovo Mons. A. Jourdain nell’istituzione dell’asilo Principe Amedeo ( ancora visibile il busto del conte Crotti sulla facciata della scuola dell’infanzia in via Anfiteatro, 1). A più riprese fu membro del Consiglio comunale di Aosta e nel 1857 fu eletto come deputato di Quart al Parlamento Subalpino.
S’impegnò a fondo per rappresentare alla Camera la situazione valdostana perorando la costruzione della ferrovia Ivrea-Aosta o, in alternativa, il miglioramento della strada nazionale attraverso la vallata: ne faceva dipendere la rivitalizzazione di quella economia, in specie dell’industria mineraria e dei traffici con Francia e Svizzera: ottenne il voto favorevole della Camera il 30 luglio 1870, al termine di un lungo dibattito e malgrado l’opposizione dei ministri dei Lavori pubblici e delle Finanze.
Morì adAosta il 25 settembre 1870.
Ecco dunque comparire sulla nostra destra il grande fabbricato oggi denominato “Ex Maternità”, dove i primi vagiti si son fatti sentire fino alla metà degli anni ’80, quando poi tale destinazione passò al Beauregard, nato invece originariamente come istituto geriatrico. Le forme sobrie, le grandi finestre a luci multiple e gli avancorpi dall’andamento semicircolare rimandano agli anni ’50, periodo cui risale anche il Dispensario Antitubercolare di via G. Rey.
Superate le scuole medie “E. Martinet” ecco apparire il monumentale complesso dell’ Area Megalitica, giocato su forme che vogliono staccarsi dall’ambiente circostante proprio per sottolineare la presenza di qualcosa di diverso e di molto speciale. Forme taglienti, spezzate, che interrompono il presente per accompagnare, quasi come su una nave spaziale, in un inatteso viaggio nel più remoto passato. Forme lucide, vetrate, riflettenti e trasparenti che vogliono appositamente attrarre la luce che, sia diurna che notturna, si rivela componente fondamentale ed imprescindibile all’origine del sito e dei suoi allineamenti, vere forme “ponte” tra cielo e terra.
Un complesso diverso, è vero, ingombrante, è vero, strano e poco famigliare (almeno per noi e per le nostre famigliari latitudini socio-geografiche), ma decisamente particolare, comunque capace di colpire e destare stupore e curiosità. un complesso che racchiude il cuore neolitico e non solo di Aosta, della Valle, finanche delle Alpi nord-occidentali: difficile, forse oscuro, “misterioso”, ma per questo assolutamente stimolante.
Tuttavia non così elevato ed invadente da oscurare la bellezza, tanto essenziale e semplice quanto emozionante, della vicina cappella romanica intitolata a San Martino, ricca di storia e pregna di significati, tra fede, leggende e folklore.
Dagli enigmatici reperti dell’Area Megalitica fino alla chiesetta di Saint Martin per poi approdare all’altra inattesa verticalità tronco-piramidale della cosiddetta “Pagoda”, la nuova chiesa parrocchiale del quartiere, per un vero e proprio viaggio nella storia e nella spiritualità a cavallo tra cielo e terra, tra mondo dei vivi e Aldilà sulle tracce del passaggio del “soldato di Cristo”, dell’ “Apostolo delle Gallie”, San Martino appunto.
Un santo che attraversò più volte l’Europa del IV secolo d.C. e il cui Cammino, la Via Sancti Martini, lungo ben 2500 km, unisce l’attuale Ungheria (terra natale di Martino) alla Francia, a Tours, dove fu vescovo e dove riposano le sue spoglie. Un Cammino dal 2005 dichiarato, come la Via Francigena, Itinerario Culturale d’Europa, e che attraversa anche la Valle d’Aosta raggiungendo la Francia dal colle del Piccolo S. Bernardo. E ad Aosta passa esattamente da qui, dal quartiere di Saint-Martin-de-Corléans!
Ebbene, che altro dire se non che “Là dove c’era l’erba, ora c’è…” una zona di Aosta tutta da scoprire, passo dopo passo, con sguardo attento, curioso, privo di pregiudizi ma desideroso di capire.
Via Saint-Martin-de-Corléans, una nostra “via Gluck” dove fortunatamente non è rimasto solo cemento muto e sterile, ma, anche al di là di forme architettoniche poco comprensibili a prima vista, un importante e pluristratificato capitolo della nostra storia, cittadine e regionale.
Non ho messo foto (ringrazio di cuore gli amici Luciano David e Sandra Moschella per la bella immagine di copertina!) perché, nonostante le abbia fatte, mi piacerebbe che chi legge questo mio post, provasse ad andare di persona, attraversasse la città davvero a piedi, con calma, per trovare ciò di cui parlo e, magari, inviarmi foto e darmi informazioni aggiuntive o suggerirmi altri spunti interessanti!
Era aperta campagna.
In epoca preistorica immaginatevi innanzitutto il fiume, la nostra Dora Baltea, più grande, vasta, com ampie zone paludose; e poi terreni in pendenza e piccole “motte” di origine glaciale da cui dominare il paesaggio. Un tempo in cui questo luogo venne scelto come area prima sacra e poi anche funeraria. Un luogo speciale dunque, non credete?
In epoca romana solcata dall’arteria nord-occidentale diretta al passo dell’Alpis Graia con aree cimiteriali, ville rustiche, fattorie, campi coltivati. Poi l’epoca medievale, un primo piccolo agglomerato di casupole, la cappella lungo la strada.
E poi l’inarrestabile scorrere dei secoli, la progressiva crescita della città, il moltiplicarsi delle sue funzioni e l’inspessirsi del suo tessuto socio-culturale.
Era aperta campagna. Immaginatevi tra fine Ottocento e anni Trenta la bellezza di questi villini di famiglia, non distanti dalla città ma circondati da giardini, orti e campi. Villini isolati splendenti nelle loro eleganti architetture, segno di un raffinato vivere campestre.
E poi quella stretta strada sterrata si allarga e diventa sempre più trafficata: carri, carrozze, diligenze, auto…sempre di più! E’ “la città che sale”, che cresce, che si muove, che si nutre di se stessa. Ma nulla è scomparso per sempre… cercatelo “là dove c’era l’erba!”.
Abbiamo festeggiato, ieri, il Ferragosto che in Valle d’Aosta coincide con la Festa delle Guide alpine, di quegli uomini e quelle donne per cui l’ascesa è ragione di vita, mestiere, passione. Guide poste sotto la protezione della Vergine Assunta al cielo. Salire, superare rocce, strapiombi e crepacci. Superare le forre e le creste bucando le nuvole. Arrivare lassù, in vetta, dove la terra e il cielo si toccano. Dove l’umano e il divino si sfiorano.
Valle celebra e omaggia le sue valorose guide alpine, capaci, appunto, di ascendere, di salire verso le vette accompagnando e proteggendo i loro clienti. Guide alpine che oggi iniziano a contare anche su presenze femminili.
#Donne coraggiose ed ardite; #donne curiose e avventurose. Donne che, coi loro abiti ingombranti, i corsetti e i cappelli a tesa larga, han saputo compiere viaggi lunghi ed estenuanti, scalare montagne, superare valichi e colli, in barba ai benpensanti, agli stereotipi e … agli uomini!
Le donne, per secoli, sono state solo le mogli degli alpinisti, quelle che dovevano stare a casa ad aspettare. Per troppo tempo i monti e le donne sono stati contrapposti in virtù di stereotipi e pregiudizi per cui, il gentil sesso, mai e poi mai avrebbe potuto avvicinarsi alle alte quote, per ovvi motivi fisici e mentali. Addirittura, nel XVIII secolo, alcuni medici ritenevano che se una donna avesse provato a salire una montagna, lo sforzo sarebbe stato talmente grande che le avrebbe provocato sterilità. Figuriamoci.
Eppure donne e montagna in un certo senso si somigliano: entrambe esigono una conquista, entrambe sono tanto belle e desiderate quanto spesso inaccessibili. Donne e montagna in realtà sanno dialogare, instaurando una relazione fatta di forza e di rispetto in cui, oltre ai muscoli, serve soprattutto la testa.
Quattro passi nella storia
L’alpinismo al femminile ha iniziato a profilarsi sin dal XVI secolo, quando le prime timide compagini di nobili e avventurose signore si legavano in cordata per affrontare i severi pendii innevati coi loro pesanti gonnelloni.
Marie Paradis
Tuttavia è stato grazie ad una certa Marie Paradis, chamoniarde DOC, che per la prima volta la cima di una montagna (e che montagna, dato che si trattava niente meno che di Sua Maestà il Monte Bianco!) venne associata ad un’alpinista, o meglio, ad un’ascensionista donna. Era il 14 luglio del 1808, Marie aveva 30 anni e gestiva una locanda in quel di Chamonix. Le finanze languivano. Così lei, per necessità economiche e per desiderio di gloria, decise di azzardare un’impresa fino ad allora impensabile per una donna: scalare il Monte Bianco. Vi riuscì, seppure in seguito i pettegolezzi e le maldicenze si sprecarono. In ogni caso, da quella volta, lei divenne “Marie du Mont Blanc”.
Henriette d’Angeville
E cosa vogliamo dire dell’ardimentosa Henriette d’Angeville che, il 4 settembre 1838, col suo nutrito seguito di guide e servitori, col suo particolare abbigliamento e i suoi tanto discussi pantaloni imbottiti stretti in vita e alle caviglie (fu uno scandalo: una nobildonna in braghe!) riuscì, con una vera e propria spedizione, a salire in vetta al Bianco? Henriette annotò la sua impresa nel famoso Carnet Vert, preziosa testimonianza della sua ineccepibile e “tutta femminile” organizzazione. Leggendo questo suo dettagliato resoconto, davvero basta poco per lasciarsi conquistare dalla tenacia di questa viaggiatrice solitaria che, senza remore, andò dritta sull’obiettivo.
Jane Freshfield
Nata il 5 luglio 1814, al secolo Jane Quinton Crawford convolò a nozze all’età di 25 anni col ricchissimo Henry Ray Freshfield, procuratore legale alla Bank of England nonché rampollo di un’illustre dinastia di avvocati londinesi (peraltro ancora oggi attivi nel campo con uno stuolo di associati). Nel 1845 vide la luce il loro unico figlio, Douglas William Freshfield, che, oltre a seguire le orme paterne laureandosi in legge a Oxford, coltivò la passione per i viaggi e l’avventura, ma soprattutto per la montagna trasmessagli dalla mamma. A soli 16 anni, il giovane Douglas conquistò la sua prima cima: il Monte Nero, in Valmalenco.
Jane infatti rivestì un ruolo significativo nella storia del movimento alpinistico femminile grazie alla sua prolungata e attiva frequentazione delle Alpi dal 1854 al 1862 in seguito a cui scrisse due libri: “Alpine Byways Or Light Leaves Gathered in 1859 and 1860“, Longman Green Longman&Roberts, (London 1861) e, l’anno successivo presso lo stesso editore, “A summer tour in the Grisons and Italian Valleys of the Bernina”.
Lady Freshfield ci descrive i luoghi, la gente, le usanze, senza tralasciare, con genuino piglio anglosassone, ciò che non incontrava il suo gusto o che la lasciava perplessa. I suoi racconti sono corredati dai disegni dell’amica e compagna di viaggio Charlotte Gosselin: non fotografie ma vere e proprie istantanee piene di arte e di emozione.
Eliza Robinson Cole
“Sono certa che ogni signora, benedetta da una discreta salute ed attiva e che abbia il senso del pittoresco e del sublime, possa effettuare il tour del Monte Rosa con grande piacere e pochi inconvenienti e che tutte quelle che lo faranno porteranno con sé un bagaglio di deliziosi ricordi a consolazione dei giorni futuri. Due o tre ore nelle sale mal ventilate di un’affollata galleria d’arte saranno senz’altro più stancanti di una camminata di otto ore nella pura e rinvigorente aria di montagna. Allo stesso tempo voglio comunque mettere in guardia le signore dall’intraprendere, senza un adeguato allenamento un viaggio lungo e difficile… Lo sforzo del cavalcare e del camminare per diverse ore dovrebbe essere sperimentato con un po’ di anticipo, iniziando dapprima con facili escursioni giornaliere”.
Così scriveva Eliza Robinson Cole, dopo aver raccontato in più di 400 pagine le sue esperienze di donna alpinista, alla fine del suo libro “A lady’s tour round the Monte Rosa” edito a Londra nel 1859. In epoca Vittoriana, dal 1837 al 1910, le donne inglesi hanno lasciato le loro testimonianze di viaggio in più di 1400 testi dimostrando un senso di avventura e di adattamento paragonabile a quello dei loro compagni.
Pubblicato a Londra per la prima volta nel 1859 il “Viaggio di una signora intorno al Monte Rosa” racconta in maniera dettagliata i viaggi effettuati intorno al Monte Rosa e nelle valli italiane di Anzasca, Mastalone, Camasco, Sesia, Lys, Challant, Aosta e Cogne in una serie di escursioni negli anni 1850-56-58. A metà Ottocento, in Italia più che in altri Paesi, l’esperienza della Cole era senza dubbio fuori dal comune; per una donna non era usuale viaggiare a piedi o a dorso di mulo per superare passi alpini o avventurarsi in valli pressoché selvaggi salendo erti sentieri. Spesso la Cole racconta di aver dovuto scendere dalla cavalcatura per superare sentieri troppo impervi e pericolosi e di aver proseguito il viaggio a piedi al pari degli uomini suoi compagni di viaggio che, peraltro, sono nominati solo raramente ed in modo molto rapido nel diario. Del marito, citato solo con l’iniziale H., non sappiano pressoché nulla se non la sua appartenenza al prestigioso Alpin Club.
Lady Cole, inoltre, descrive con precisione gli indumenti e le calzature più adatte suggerendo alle donne anche i possibili accorgimenti per rendere più sicuro ed agevole il cammino in montagna. Curioso l’espediente dei piccoli anelli fissati sul vestito nei quali passare un cordino per sollevare l’abito all’altezza desiderata velocemente e con un solo gesto.
Lucy Walker
Altra donna eccezionale fu Lucy Walker, sorella del celebre Horace, conquistatore delle Grandes Jorasses nel 1868. Lei acquisì fama per essere stata la prima donna a scalare il Cervino nel 1871, raggiungendo la vetta lungo la cresta Hörnli. Ma questa fu solo una, seppure forse la più nota, delle 98 scalate che Lucy compì nelll’arco della sua vita. Ecco, con Lucy abbiamo realmente un primo, fulgido esempio di vera alpinista donna, un’alpinista “con l’apostrofo”, come dice Erri De Luca.
Margherita di Savoia
Donna forse non bellissima ma sicuramente carismatica, colta e affascinante, Margherita fu sempre una regina molto amata dal popolo e dagli intellettuali. Amava moltissimo la montagna e rese consuetudinari i suoi lunghi soggiorni estivi a Gressoney-Saint-Jean, in Valle d’Aosta, dove ancora oggi si può visitare il suo fiabesco castello, realizzato tra il 1899 ed il 1904.
Margherita amava questi monti dove la natura selvaggia le consentiva di essere se stessa lontana dal protocollo e dalle aspettative di corte; dove la lingua germanica la faceva sentire a casa, dato che la madre era Elisabetta di Sassonia. Quand’era qui, nonostante il suo castello fosse davvero la pietrificazione dei suoi sogni, lei trascorreva molto tempo in mezzo alla gente e soprattutto adorava le passeggiate e le ascensioni in montagna.
Donna robusta, alta e in ottima forma fisica raggiunse, pur abbigliata di tutto punto, con gonnellone, corpetto e cappello, i 4554 metri della Capanna a lei intitolata (la Capanna Regina Margherita), sulla Punta Gnifetti, il rifugio più alto d’Europa!
Ritratto della regina Margherita di Savoia col costume di Gressoney
La regina Margherita raggiunge la Capanna a lei intitolata a 4554 metri di quota
Maria José di Savoia
Senza dubbio forte e determinante fu la figura del padre, re Alberto I, sovrano del Belgio e appassionato alpinista, ad instillare in Maria José l’amore per la montagna.
L’ultima sovrana d’Italia, la bionda “regina di maggio” nutriva una profonda passione per la natura severa ed autentica delle montagne, in particolare quelle valdostane. Una regione, la Valle d’Aosta, dove ebbe modo di recarsi assai spesso, a cominciare da quel gennaio 1930 che la vide ospite a Courmayeur col neo-sposo Umberto II in luna di miele sugli sci. Giovani, bellissimi ed elegantissimi. Raffinatezza e sobrietà anche sulle piste.
La coppia reale sugli sci a Courmayeur per la luna di miele – 1930 (dal libro “Umberto e Maria José di Savoia. Escursioni e soggiorni in Valle d’Aosta”, di M. Fresia Paparazzo)
Una piccola terra di roccia e boschi dove Maria José si rifugiava per le vacanze estive coi principini: base al Castello Reale di Sarre e, da lì, via per gite ed escursioni, anche in campeggio, come quella volta in alta Val d’Ayas!
Ma non dimentichiamo che la regina dagli occhi di ghiaccio fu anche una validissima alpinista che riuscì a salire in vetta al Monte Bianco e al Cervino conquistandosi la stima delle guide alpine, l’amore della popolazione locale e la ribalta della cronaca.
La sua eleganza misurata e per nulla vistosa viene sempre sottolineata dalla stampa. Assolutamente #allamoda nell’estate del 1937 quando si perde ad osservare col cannocchiale il paesaggio delle Cime Bianche: una camicetta bianca ed un paio di pantaloni molto ampi leggermente scampanati, parrebbe in “Principe di Galles”, tagliati sotto il polpaccio e trattenuti in vita da una fusciacca.
Maria Josè alle Cime Bianche (dal libro “Umberto e Maria José di Savoia. Escursioni e soggiorni in Valle d’Aosta”, di M. Fresia Paparazzo)
Un’ultima curiosità: Maria José fu la prima ad utilizzare scarponi tecnici con suola in Vibram abbandonando quelli con suola chiodata!
Gli anni ’50 e il boom della vacanza in montagna
“Oh, la belle chose qu’une belle femme sur le sommet d’une montagne!” (M.Morin, Les femmes alpinistes, 1956).
Veniamo quindi ai favolosi anni ’50, quelli della rinascita, del boom economico, dell’occhiolino alle mode made in USA, dell’utilitaria, della Vespa, delle vacanze…
Ecco, appunto, le vacanze degli Italiani. Non solo mare, certo, ma anche montagna!
E come far passare in maniera davvero POP l’idea che la montagna è bella, distensiva, salutare e adatta a tutti? Ovvio! Creando manifesti pubblicitari in cui protagoniste sono loro, le #donne! Bellezze da copertina; forme pronunciate, labbra rosso fuoco, capelli ondulati e sguardi da gatta! Sorrisi abbaglianti illuminano le affiches turistiche dell’epoca; artisti come Gino Boccasile firmano pubblicità entrate nel mito!
Bellezze sulla neve, in funivia, in mezzo ai prati… Bellezze sui monti insomma!
E ancora oggi cerchiamo queste immagini “vintage”, simbolo di felicità e benessere, di vacanze spensierate e splendidi paesaggi!
Bianca aveva 17 anni e abitava a Courmayeur da sempre. Frequentava il liceo linguistico del paese e l’anno prossimo avrebbe avuto la maturità. Amava molto studiare: conoscere tante lingue diverse le apriva la testa ma anche il mondo! Viaggiare … un grande sogno da sempre! Ma ugualmente aveva una forte passione per l’arte, la storia… conoscere il passato la incuriosiva e la affascinava; forse l’aveva ereditata dalla nonna archeologa, chissà! Ed era stata proprio la nonna a raccontarle innumerevoli storie e leggende non solo sul suo paese, ma su tutta la Valle d’Aosta. Ben presto aveva iniziato a incuriosirsi sui tanti castelli, torri, caseforti che punteggiavano quelle montagne. Finché un giorno, ancora bambina, le chiese; “Ma, nonna, e qui a Courmayeur? Non c’era un castello?”. “Certo che c’era, Bianca! Solo che purtroppo oggi non esiste più… si trovava nei pressi della chiesa, sai? La sua mole incombeva sull’attuale piazzetta del Brenta e sovrastava una via Roma, un tempo chiamata via Margherita di Savoia, assai più stretta di quella che percorriamo adesso!
Il condominio Brenta, così chiamato dal nome del suo costruttore, fu realizzato nei primi anni ’60 dopo aver tragicamente distrutto, raso al suolo, il precedente albergo, sorto a sua volta sulle vestigia del castello (o forse piuttosto una casaforte) risalente al XIII secolo”, le aveva spiegato la nonna scuotendo la testa. Roba da far drizzare i capelli! Nessun vincolo, nessuno scavo preventivo, niente di niente su un’area dalla storia così intensa! E quante volte la nonna le aveva raccontato dei nobili De Curia Majori, dei La Cort, dei Piquart de la Tour, dei Malluquin… insomma, di quelle antiche famiglie che nei secoli del Medioevo avevano stabilito la loro residenza ai piedi di un temuto ed invalicabile Monte Maledetto, non ancora Bianco, popolato da streghe e fate, da giganti e demoni, insomma da tutte le molteplici forme della paura dell’uomo davanti all’immensa e sovrastante forza della montagna.
Gli anni erano passati. La sua amata e divertente nonnina era partita per le nuvole (come diceva lei…) lasciandole tutti i suoi racconti e quella voglia di scoperta e di mistero!
Aveva 17 anni e, come già faceva da un paio d’anni, l’estate cercava sempre qualche lavoretto per “arrotondare”. E a Courmayeur il lavoro non mancava! Era fine luglio, per l’esattezza il 27 (festa patronale di San Pantaleone). Quell’anno, però, avrebbe perso la “veillà” perché di sera doveva fare la baby-sitter.
Una coppia di turisti l’aveva contattata per badare al piccolo di 5 anni dalle 19 alle 24. Perfetto! Nessun problema! E a pensarci bene, se non fosse stata troppo stanca, sarebbe anche riuscita a raggiungere le sue amiche! Bianca amava i bambini e conosceva un sacco di giochi da fare insieme! Questa famiglia abitava al condominio Brenta. Caspita! Ne sentiva parlare fin da quando era piccola ma non ci era mai entrata! Non sapeva perché, ma si sentiva insolitamente agitata. Appena entrata, quel vano ampio e semi buio avvolto nel silenzio le mise un pò di inquietudine. Non volle prendere l’ascensore e, salendo le scale fino al 4° piano, le venne spontaneo guardarsi attentamente intorno, quasi alla ricerca di un qualche indizio del castello scomparso (“magari qualche pietra, qualche stipite…”- pensava – memore dei racconti della nonna). Ma niente!
Improvvisamente un botto alle sue spalle. Bianca si voltò di scatto. Sembrava che qualcuno avesse chiuso bruscamente una porta, ma… non vide nulla né sentì nessuno. Era quasi arrivata. Una raffica di vento gelido la fece rabbrividire. Eppure, da dove poteva essere entrata? Non vedeva finestre aperte e, oltretutto, era un luglio decisamente caldo… Era assorta nei suoi pensieri quando la porta davanti a lei si aprì: “Bianca, è lei? Posso darti del tu?”. Bianca sobbalzò; “Sì, sì… mi scusi… io non… certo! Sono in anticipo!”. “Perfetto! Hai fatto bene! Il piccolo Giovanni non vedeva l’ora che arrivassi. Entra pure che ti mostro la casa…”.Giovanni era un bel bimbo paffutello coi capelli rossi e un paio di grandi occhi blu! Fu un vero piacere stare con lui e Bianca riuscì presto ad incantarlo con i racconti della nonna.
Ma uno su tutti fece centro! “Un castello?! Questa casa?! Coi soldati, i cavalieri… Ti prego, portami a vederli da vicino!”. “Ma no, Giovanni… non è possibile… non esistono più! Dobbiamo accontentarci di immaginarli, proprio come nelle favole…”, cercò di spiegargli Bianca.”Ma no! Secondo me li troviamo! Dai, giochiamo al castello! Saliamo sulla torre!”. “Quale torre? Dici sul balcone?”; “No! Ho sentito mio papà che parlava di una soffitta! Sù, nel sottotetto! Dai, andiamo a vedere com’è?! Per favore!! Resterà il nostro segreto!”.
Curiosa com’era, Bianca acconsentì e i due salirono fino all’ultimo piano. Tuttavia nulla lasciava supporre la presenza di una soffitta… “Giovanni, mi sa che dobbiamo…”; “Bianca! Vieni, presto! C’è una porta!” esclamò il bambino. Bianca si avvicinò. “Ma, è tutto buio, Giovanni…”. “No no! Tranquilla! Ho il mio portachiavi con la torcia!”. La piccola porta era dura e arrugginita; evidentemente non veniva aperta da tempo! Bianca tirò con tutte le sue forze e, finalmente, con sinistri cigolii, riuscì ad aprirla.
Come un fulmine Giovanni si lanciò sù per le scalette e ben presto Bianca ne perse le tracce. “Giovanni! Giovanni, dove sei?! Sù, non fare scherzi, eh?! Dai, per favore… non farmi preoccupare! Vieni fuori!”. Ma Giovanni non rispondeva… Bianca sentiva dei passi, delle risate soffocate, ma nulla più. Procedeva nell’oscurità con cautela, sudando freddo nel timore che fosse accaduto qualcosa al bambino e continuando a chiamarlo. Ad un certo punto intravide una lama di luce che penetrava da un abbaino socchiuso. Lo spalancò e sentì l’aria fresca della sera.
Uscì su un terrazzo; “Dai, esci sù! Ti ho trovato!… ehi…”. Guardandosi attorno con più attenzione si accorse che il panorama intorno a lei non era il solito… O meglio, le montagne sì, certo, ma… il paese, la “sua” Courmayeur, non c’era più… Era davvero in cima ad una torre che svettava su un villaggio di poche case avvolte nelle ombre della notte.
Poco distante, la sagoma del campanile rivaleggiava in altezza superando i tetti dell’edificio su cui lei si trovava… “Eccomi! Ti sei spaventata?”. Bianca aguzzò lo sguardo. Ma davanti a lei non c’era il bimbetto che credeva.
“Giovanni…?”.”Sì, sono Giovanni De Curia Majori. E’ un onore averti mia ospite. Da tempo aspettavo di trovare qualcuno abbastanza sensibile da farmi tornare qui, nel mio castello… nella mia amata dimora perduta. Ma un modo per darmi pace, c’è! Ho bisogno che tu mi accompagni nelle segrete! Là avevo nascosto un amuleto: un gioiello di famiglia cui tengo moltissimo e che non ho mai avuto modo di recuperare. Devo assolutamente riprenderlo. Solo così mi quieterò!”.
Bianca era sconvolta. Credeva di sognare. Ma quel giovane uomo elegante dai capelli rossi le si avvicinò prendendola per mano. “Le… segrete? Ma, quali segrete?”, balbettò la ragazza incredula. “Dai, scendiamo!E’ l’unico angolo che non è stato distrutto…per fortuna!” E fu così che Bianca si trovò a seguire il nobile Giovanni De Curia Majori attraverso le sale di quell’antica dimora.
Mura spesse e finestre crociate con sedute interne; solai bassi e grosse travi di legno; le cucine al pianterreno coi grandi camini e un fortissimo odore di fumo e carne arrostita. Attraversarono velocemente la corte interna del maniero. Bianca si fermò solo un attimo e si rese conto di quanto assomigliasse alla piazzetta porticata dove passeggiava da sempre. Più piccola, circondata da mura, ma con un breve portico che dava accesso ai magazzini e alle stalle. Si infilarono nell’angolo opposto e, giù per un ripido viret (scala a chiocciola), raggiunsero i sotterranei. Erano assai più ampi di quanto lei potesse pensare. Giovanni la precedeva con una torcia.
Arrivò davanti ad una sorta di cassaforte a muro chiusa da un elaborato lucchetto. La aprì e ne estrasse un sacchetto di velluto giallo e grigio. “Eccolo! Finalmente!”. All’interno vi era un prezioso ciondolo d’oro a forma di scudo con un leone rampante in argento e rubini. “Ma, è lo stemma di Courmayeur!”, esclamò Bianca. “Esatto! Dovevo rientrarne in possesso. Ma finora nessuno era stato in grado di capire e di sentire la mia presenza. Hanno raso al suolo il mio castello. Solo questo angolo di segrete è rimasto, ma è invisibile ai più… Ma ora saliamo. Ci aspettano!”.”Ci aspettano?! E chi? Non sono ancora finite le sorprese stanotte?!”, commentò una Bianca sempre più esterrefatta.
Questa volta, però, per salire non dovettero attraversare la corte, ma imboccarono un’altra ripidissima scala a chiocciola che si avvitava vertiginosamente all’interno di una stretta torretta circolare. Bianca faticava non poco a star dietro a Giovanni… Tentò di fermarsi per un momento, si voltò e con stupore vide che dietro di lei… non c’era nulla! Il vuoto! La scala scompariva mano a mano che si saliva! “Eccoci al piano nobile, Bianca! Qui si trova la mia sala delle udienze. Entro per primo. Ti farò chiamare!”.
Bianca non riuscì nemmeno a rendersi conto di dove fosse, che una voce cupa e tonante la chiamò. Entrò, ma…Davanti a lei si apriva un vasto salone affrescato che, grazie a tre finestre a crociera, si affacciava sulla corte interna. La ragazza vi si avvicinò per guardare e notò immediatamente che la corte non era già più quella da dove era passata poco prima con Giovanni. Solo la forma vagamente trapezoidale era quella; i loggiati si aprivano su tutti i lati e grandi vasi in terracotta decoravano un grazioso giardino interno pavimentato in acciottolato.
“Benvenuta, madamigella Bianca! Ero davvero curioso di fare la sua conoscenza!”. A Bianca venne spontaneo mettersi sull’attenti. “Sono il nobile Roux Favre, vice Balivo di Aosta! Questa ora è la mia dimora nell’abbraccio delle più alte montagne della Valle.” Era un omone alto e grosso, dai capelli rossi e ricci, il viso rubizzo illuminato da due acuti occhi azzurri e un sorriso largo. “Avverte un accento forestiero, vero? Sono di origini elvetiche infatti; la mia famiglia ha le sue radici nel vicino Vallese. Ma prego, mi segua! Con immenso piacere le mostrerò la dimora. Sa, dispongo di tali ingenti ricchezze che ho potuto rilevare l’intero feudo di Courmayeur e possiedo un’altra casaforte rustica nel ridente villaggio di Dolonne”.
Roux (non avrebbe potuto chiamarsi in altro modo, del resto) era dilagante! Parlava come un fiume in piena e si capiva subito di che pasta era fatto: un leader dal carisma travolgente! Bianca passò per le stesse sale viste prima con Giovanni, ma erano diverse! Diversi i soffitti: non più travi in legno, ma volte a unghia e ad ombrello. Un maggior numero di camini, ma più piccoli. E, al piano nobile, persino una piccola galleria ingentilita da decori dipinti e stucchi. Scesero nell’elegante corte proprio nel momento in cui una splendida carrozza trainata da due cavalli, uno bianco e uno nero, entrava dal grande cancello.”Bene”, esordì Roux Favre, “ecco il futuro proprietario del mio palazzo: il barone Pierre-Léonard Roncas! Anche lui di origini vallesane… eh, buon sangue!! Un uomo che si è fatto da solo, sai? I suoi nonni erano semplici macellai! Poi suo padre ha avuto la fortuna, la possibilità e l’intelligenza di studiare e diventare un medico affermato, molto noto in Aosta. E lui, beh… in Valle non esiste un uomo più ricco e potente! Ti dico solo che è il Primo ministro e Consigliere di Sua Eccellenza il Duca di Savoia… e non occorre dilungarsi oltre, mia cara!”
Bianca attese che la carrozza si fermasse, curiosa di vedere un personaggio così importante di cui aveva sentito parlare più di una volta. La porta si aprì. Con incedere autoritario scese il potente barone Roncas: un bell’uomo, alto e snello, avvolto in un elegante mantello di velluto blu, il volto semi-coperto da un cappello piumato a tesa larga. Il barone alzò lo sguardo su di lei scrutandola da capo a piedi con occhi affilati e indagatori. Bianca si voltò per cercare supporto nel sorriso bonario di Roux, ma … era sparito! “Madamigella Bianca, i miei omaggi! E’ rimasta colpita dai miei destrieri, nevvero? Sono bestie magnifiche! Quello bianco, maschio, si chiama Apollo; mentre la femmina, scura come la notte, Diana. Immagino lei conosca i divini gemelli dell’Olimpo, il Sole e la Luna! Non a caso i simboli da me scelti per il mio stemma famigliare il cui emblematico motto è “Omnia cum lumine”. Lei conosce il latino, vero?”
Bianca era nervosa come in un’interrogazione a sorpresa senza aver studiato! Quell’uomo le metteva soggezione… “Sì, un pò… vuole dire, mi pare, “ogni cosa con lume”, ..vero?!” balbettò la ragazza. “Bene, signorina. Noto che almeno le basi ci sono! Sì, “ogni cosa con lume”! Il lume di un fine, acuto e lungimirante intelletto: fulgido in pieno giorno e ugualmente capace di illuminare le tenebre. Quelle dell’ignoto, dell’inganno, della menzogna… Sa, il mio ruolo richiede una mente vigile, svelta e strategica! Ma, prego, mi segua, inizia a far fresco…”. Bianca lo seguì e subito notò che l’ambiente d’ingresso era di nuovo cambiato: più ampio e prezioso con un grande scalone che portava al piano superiore.
Il barone Roncas si accorse dello stupore di Bianca:” Sì, ho fatto abbattere due tramezzi e ampliare l’accesso principale eliminando quell’angusto e scomodo viret, decisamente obsoleto! Le mie dimore devono rispecchiare la mia figura e il mio gusto!”. Bianca trovò un minimo di coraggio:” Barone, sa, proprio 3 anni fa ho visitato il suo palazzo di Aosta: è stupendo, raffinato…non credevo…”.
“Esatto!”, irruppe il barone, ” sobrio all’esterno, ricco e trionfale all’interno! E, mi dica, cosa l’ha colpita di più?”. “Beh, gli affreschi a grottesche! Mi hanno sorpresa! Non se ne vedono molti qui in Valle, anzi… inoltre soggetti mitologici,vedute di paesi esotici, marine… davvero inaspettato! E sono rimasta incantata dalle raffigurazioni astrologiche del loggiato superiore. Subito credevo fossero sbagliate perché i segni zodiacali non rispettano l’ordine canonico, ma poi mia nonna mi ha illustrato una sua ipotesi interessante e suggestiva…”
“Ah, sì?”, chiese il barone decisamente incuriosito, “e sarebbe?”. “Beh, io non la so spiegare bene, ma, ecco, secondo la nonna quei segni, disposti in quell’insolita sequenza, avrebbero in realtà indicato un quadro astrale ben preciso…
“Sono felice che, nei secoli, qualcuno abbia colto questo messaggio, oscuro a chi si sofferma sulla superficie, ma interpretabile da chi riconosce la multiforme forza dei simboli. Nulla è a caso! Tua nonna non mancava certo di fine intuito…Avrei voluto conoscerla!”
Al ricordo della nonna, Bianca si emozionò e guardò fuori dalla finestra. Poi, improvvisamente si sentì chiamare:” Benvenuta mademoiselle, necessita di aiuto?” Bianca si voltò. Il barone era sparito e l’androne d’ingresso era ancora una volta cambiato! Aveva perso quell’aura di eleganza e ricercatezza; tutto era decisamente più sobrio e spartano.
Di fronte a lei un sacerdote la guardava sorridente; indossava un’insolita tunica rossa decorata da una grande croce bianca e oro sul petto.”Ma, io, ecco… il barone Roncas…”. “Certo mademoiselle, il barone Roncas è stato proprietario dell’edificio tempo fa. Poi lo ereditò l’unico figlio, il barone Pierre-Philibert Roncas, quindi passò alla di lui figlia che, seguendo il suggerimento del nobile marito, lo vendette al nostro Ordine”.”Ordine? Ma quindi adesso è … un convento?”, chiese Bianca disorientata.
“Oh, no, mademoiselle! L’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro, fondato ben 2 secoli orsono, nel 1572, da Sua Eccellenza il duca Emanuele Filiberto di Savoia – nostro Gran Maestro – ha natura religioso-militare; siamo una “sacra milizia” i cui valori si ispirano all’insegnamento dell’antica valorosa Legione Tebea! In questo luogo ci occupiamo di servire Casa Savoia con un valido presidio in un luogo tanto impervio quanto assai strategico. Nel contempo offriamo supporto e ospitalità ai pellegrini, ai viandanti, ai bisognosi…”.
“Ah, non…sapevo, ecco…io sono un pò confusa e…”; “Non si preoccupi, la faccio accompagnare da una consorella in una camera dove poter riposare. Quando si sentirà meglio, potrà scendere nel refettorio per la cena, se vorrà”.
E così, accompagnata da una suora silenziosa, Bianca attraversò nuovamente quel nobile e vasto edificio, sempre considerevole, curato e pulito, ma privo della particolare impronta artistica voluta dal barone Roncas. A questo punto era ancor più curiosa. Sarebbe scesa per cena! Si rinfrescò il viso, si aggiustò i capelli e si diresse verso il refettorio.
Tuttavia, già nelle scale qualcosa non era più come prima: si sentiva un allegro vociare, della musica e un profumo di buon cibo. I corridoi erano tutti illuminati con mobilio ricercato in stile “rétro” (secondo lei, naturalmente…), dei graziosi salottini dalle tinte pastello e dalle forme panciute che, nel salire, non c’erano affatto! Alle finestre splendidi tendaggi damascati color cipria e un numero imprecisato di comò con altrettante lampade deliziose a forma di fiore o in vetro multicolore. Il vocìo era sempre più forte. Giunta sulla porta della sala da pranzo rimase senza parole.
Quello sembrava in tutto e per tutto un hotel, un magnifico ed elegantissimo hotel. Tavoli riccamente preparati e imbanditi. Donne elegantissime con abiti straordinari che lei aveva visto solo sui libri o, si ricordava, nei quadri di Giovanni Boldrini. Un’atmosfera da sogno. e lei si sentiva un pesce fuor d’acqua coi suoi jeans, la felpa e le sneakers… Stava per andarsene quando: “Signorina, posso esserle d’aiuto? Ha smarrito qualcosa?” Bianca si trovò di fronte un uomo sui cinquant’anni dall’aspetto curato e molto elegante. “Buonasera, io sono Michel-Joseph Ruffier, proprietario di questo hotel: l’Hotel de l’Union! Mi hanno informato del suo arrivo; so che ha dovuto affrontare un viaggio lungo e faticoso. Se posso esserle utile, al suo servizio!”
Bianca si sentì immediatamente a suo agio e confessò il suo imbarazzo nel non avere abiti adeguati. “Non si preoccupi. Posso provvedere io, se mi consente… La affido a Jeanne: ha delle mani d’oro e saprà trovare la soluzione più adatta!”. Jeanne era una cameriera “factotum” dell’hotel, nonché bravissima sarta! Avrà avuto circa 30-35 anni, bassina, paffutella e con una massa di ricci color rame che scappavano ribelli fuori dalla cuffia. Le stette subito simpatica!
“Una signorina bella come lei starà benissimo con tutto! Mi segua”. E in men che non si dica, Bianca si ritrovò vestita come una principessa: un abito sontuoso azzurro polvere lungo fino ai piedi; morbidissimo con balze e pizzi, la vita strettissima fasciata da un largo nastro di raso blu, e impreziosito da una stola impalpabile. Jeanne le aveva anche acconciato i capelli raccogliendoglieli in un alto e gonfio chignon decorato con nastri e piume.
“Ah ragazza mia, ti guarderanno tutti!” cinguettò Jeanne soddisfatta. Bianca la guardò bene in viso: quegli allegri occhi blu, il naso spruzzato di lentiggini, i ricci rossi… le sembrava che, bene o male, tutti i personaggi incontrati in quella serata unica e surreale, avessero dei tratti comuni.”Forza! Cosa fai lì tutta imbambolata?! La cena ti aspetta!”, la esortò Jeanne spingendola nel corridoio. Investita dalla luce e dalla musica, Bianca dovette riconoscere di sentirsi particolarmente a suo agio in quegli abiti e in quel luogo; “Eh, sì – pensò – in un posto così verrei volentieri in vacanza. Certo, non è un hotel 5 stelle come quelli di adesso, ma… ha un fascino, una raffinatezza e un’atmosfera impareggiabili!”.
Un bel ragazzo sui vent’anni, distinto, e dai modi educati, ad un certo punto le si avvicinò e, in un francese incerto, la invitò a ballare. Bianca arrossì e, per toglierlo dall’imbarazzo, essendosi accorta di quale fosse la sua lingua madre, gli rispose senza titubanze in inglese. Il ragazzo restò piacevolmente sorpreso. I due iniziarono a danzare; la serata era splendida, anzi, letteralmente magica.
Le disse di chiamarsi John, unico figlio di un ricco lord delle Midlands, di avere 24 anni e di essere partito per un Grand Tour in Italia. Era rimasto talmente colpito dalla grandiosa, imponente, ancestrale bellezza di quelle montagne, da volersi fermare il più possibile per conoscerle a fondo. Era a Courmayeur, ospite dell’Hotel de l’Union già da 2 settimane e affermava di trovarsi davvero bene. L’hotel disponeva di tutti i conforts possibili, e il paese era “pittoresco” e delizioso, circondato da una natura “selvaggiamente romantica”.
John era molto diverso dai ragazzi che conosceva e Bianca cadde vittima di un immediato colpo di fulmine! Quella sera avrebbe dovuto durare un’eternità. Uscirono nel cortile. Bianca notò ulteriori cambiamenti. Non era più circondato da mura, ma lungo la strada c’era un’elegante cancellata in ferro battuto. Ricche carrozze stazionavano nei pressi del locale loro riservato dov’era anche possibile ricoverare i cavalli e prendersene cura (cibo, strigliatura, cambio o riparazione dei ferri).
“Ti andrebbe una passeggiata?”, le propose John. E come rifiutare? Anzi, essendo lei del posto, era entusiasta di poter ri-scoprire il suo paese insieme a lui. Quant’era diverso!
La chiesa si stagliava sull’unica piazza quasi in solitaria. Poche semplici case e i servizi essenziali. Altri fantastici alberghi come l’Hotel de l’Ange, sviluppato su più edifici disposti a “L” e dotato di un favoloso giardino d’inverno con padiglione danzante.
“E’ meravigliosa questa Courmayeur”, disse Bianca; “ma tu lo sei mille volte di più”, rispose John fissandola negli occhi. “Se questo è un sogno, non svegliatemi più!”, pensò Bianca abbandonandosi al suo abbraccio.
A notte fonda, quando ormai tutte le feste erano terminate e il paese era avvolto nel silenzio, i due fecero ritorno all’Hotel. Un ultimo bacio con la promessa di rivedersi il giorno dopo a colazione. John si frugò in tasca e ne estrasse un piccolo libretto: “Questo è il mio taccuino, tienilo a ricordo del nostro incontro” e ci infilò dentro un bocciolo di rosa colta all’esterno. Bianca, stordita ed estasiata, entrò nella sua stanza ma… ecco, era di nuovo diversa! Un arredo moderno e colorato; sul tavolo un giornale di “Benvenuto” con tanto di data: 27 luglio 1958.”1958?! Ma come?”.
Bianca corse alla finestra: infatti il cortile era nuovamente cambiato: l’ingresso era sottolineato da una colorata tenda parasole; sulla piazzetta tavolini, dondoli, sedie a sdraio con grandi vasi di gerani ovunque. Aveva bisogno d’aria e aprì. A ulteriore conferma del periodo, Bianca vide 3 auto parcheggiate nei pressi di un “Auto-Garage”: una Lancia Flaminia, una Giulietta Spider e una Ferrari 250 Gt (le conosceva bene perché le auto d’epoca erano la passione di suo nonno!).
Nel cortile udì parlottare due camerieri:” Eh, ormai l’Union non funziona più! E’ antiquato e la gente preferisce altri alberghi, magari con solarium, giardino, piscina… eh, ho già sentito dire che presto chiuderanno definitivamente!”.”No! No! John! “, disperata Bianca provò ad uscire dalla camera ma la porta era bloccata. Alla fine, stremata, si accasciò sul letto tra le lacrime.
“Bianca…Bianca…”. La ragazza aprì gli occhi a fatica. “Sì?… chi è adesso?”. “Siamo noi. Scusaci, abbiam fatto più tardi del previsto… e’ quasi l’1 di notte!”. Bianca si destò: era nell’appartamento del Brenta, vestita coi suoi abiti, col piccolo Giovanni addormentato con lei sul divano. La testa le girava all’impazzata!
“Ah, no si figuri… tanto dormivamo da un pezzo…”. Chiudendosi quindi la porta alle spalle, Bianca aveva un certo timore a scendere quelle scale: cosa sarebbe successo ancora? Se almeno avesse potuto riabbracciare John…avrebbe voluto dirgli tante cpse!
Finalmente uscì in piazzetta dove la veillà era ancora nel vivo. I locali erano pieni e c’era gente ovunque. Ma lei non aveva nessuna voglia di fare festa, voleva solo andare a casa. Troppe emozioni e non poteva credere che fosse stato solo un sogno. Cercò nello zainetto il suo cellulare, ma trovò un’altra cosa: “Non… non è possibile! E’ il taccuino di John!! Oddio, ma allora…” Era persa in queste folli considerazioni che quasi non si accorse che stava per andare a sbattere contro la sua amica Cinzia. “Ehi! Ma ci vedi?! E’ da un pezzo che ti sto chiamando! Dai, vieni con noi a fare un giro? All’Ange si balla ancora e devo presentarti un tipo da urlo!”
“Oh no, Cinzia, grazie ma sono stanca morta! Preferisco andare a casa…dai!”.”E sù! Non hai 80 anni, dai! Solo 10 minuti!”. “Ok, ma davvero 10 minuti, eh?!”
Cinzia la prese sottobraccio e la trascinò all’Ange dove impazzava la disco-dance; “Vieni, c’è un gruppetto di ragazzi stranieri e tu sai bene l’inglese! Devi darci una mano!”
Bianca la seguì controvoglia. “Bianca, ti presento Andrew, William e John! Arrivano da Leicester, nelle Midlands!”. “John?! Midlands?!” – pensò Bianca sobbalzando.
Mise a fuoco quel ragazzo dai capelli rossi e dagli occhi blu…non era possibile, era proprio lui, il “suo” John! Bianca gli porse la mano inebetita, incapace di dire una sola parola. Ma ci pensò lui, in uno stentato italiano: “Piacere Bianca, non so perché ma mi sembra di conoscerti già…forse ti ho incontrata nei miei sogni?”
I suoi amici esplosero a ridere allungandogli sonore pacche sulle spalle. Ma Bianca sapeva, in cuor suo, che stava dicendo la verità e gli rispose: “Lo penso anch’io. Evidentemente abbiamo fatto lo stesso sogno…“