San Martino. Quel santo-soldato che attraversò la Valle d’Aosta

“No, proprio no… Questa vita non fa per me. Non ce la faccio più! Prima o poi dovrò decidermi e prendere una decisione radicale, definitiva!”. Questi e altri pensieri affollavano la mente del giovane soldato che, pensieroso e solitario, si aggirava in sella al suo cavallo lungo le mura della città di Samarobriva, importante città commerciale e militare della Gallia Belgica. Era novembre. Un vento freddo carico di umidità soffiava da giorni, incessante, da nord, dalla terra di Albione, portando con sè un forte odore di mare. Quel giorno una pioggia battente stava imperversando sulla città. Il terreno era già una distesa fangosa.

Stretto nel suo caldo mantello di lana il giovane soldato si accorse che stava perdendo sensibilità alla punta delle dita dei piedi e delle mani. “Che freddo… forse è meglio rientrare all’accampamento. Magari riesco a riflettere anche seduto accanto al fuoco, anziché continuare a gelare qui fuori!”.

Ad un tratto uno strano fagotto attirò la sua attenzione. Un groviglio di poveri cenci, un paio di gambe seminude magrissime e di braccia quasi scheletriche: un uomo, in evidente stato di sofferenza, se ne stava rannicchiato contro le mura, vicino alla porta d’ingresso della città. Il giovane soldato si avvicinò. L’uomo, sui trent’anni ma apparentemente più vecchio, ebbe giusto la forza di alzare gli occhi cerchiati da profonde occhiaie viola verso di lui; socchiuse le labbra, come volesse parlare, ma non ne aveva la forza. Da quel misero cencio consunto con cui tentava di ripararsi dai rigori del clima, probabilmente un vecchio sacco sdrucito, estrasse una mano ossuta e la tese verso il giovane a cavallo.

Costui non indugiò oltre. Scese dal destriero, decisamente meglio bardato del poveretto a terra, e con un colpo netto di spada tagliò a metà il suo caldo mantello invernale di lana cotta per condividerlo con l’uomo sfinito dal gelo e dalla fame. Glielo posò delicatamente sulle spalle e lo chiuse. Passò una mano amica su quel volto e pronunciò parole di conforto.

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Quegli increduli occhi incavati improvvisamente si accesero: lacrime di commozione illuminarono lo sguardo azzurro di quel poveretto che riuscì ad alzarsi, ad accennare un inchino e baciare la mano generosa che gli aveva mostrato pietà e carità.

Felice, il giovane soldato rientrò al campo. Ma quell’incontro aveva fatto scattare qualcosa di molto particolare dentro di lui. Mentre rientrava alla sua tenda, sapeva che da quel momento la sua vita sarebbe cambiata.

“Martino! Martino! Ma dov’eri finito?!”. La voce squillante di Marcello, suo amico da sempre e compagno d’arme, lo ridestò.

Il giovane ebbe come un sussulto. “Martino… questo è il mio nome. Mi venne dato da mio padre, il valoroso comandante della legione di stanza nella Colonia Claudia Savariensium, nella lontana provincia di Pannonia. Lì vidi la luce. Un padre autoritario, severo, esigente. Un padre che vedeva in me un grande guerriero, un valoroso soldato al servizio di Roma, quale lui per tutta la vita era stato e con sommo onore. Mi ha cresciuto così, secondo la sua volontà, avviandomi al mestiere delle armi. Avviandomi al culto del dio Mithra, dio nato dalla roccia, figlio del Cielo e della Terra; avevo già assistito a diversi Misteri, ma qualcosa di non spiegabile mi impediva di sentirmi parte di quel gruppo, di quel culto del quale, invece, lui era da sempre un fervente seguace, un adepto, uno di quelli che erano ormai giunti oltre la sesta porta, quella di Giove, la porta bronzea. Ne restava solo una, la settima, quella di Saturno, per raggiungere il grado iniziatico maggiore.

E l’ho sempre seguito, lungo le infinite strade dell’Impero, ad ogni angolo del mondo, in province sconosciute e terre straniere. Ho passato l’infanzia nei pressi della città di Ticinum (che, mi pare, oggi voi chiamate Pavia), e sempre al seguito di mio padre ho viaggiato in buona parte delle province continentali del grande Impero di Roma.

Cammino

Ed eccomi qui, ora, non più soldato di Roma ma al servizio di Cristo Gesù. Ripenso a quell’episodio accaduto alle porte di Samarobriva… un episodio che mi ha segnato per sempre. Dopo aver abbandonato l’esercito non ho più avute notizie di mio padre. So che la legione ha fatto ritorno in Pannonia. Il vescovo Ilario mi ha battezzato e ora mi sento un uomo nuovo! Ho deciso di tornare a Sabaria, dai miei genitori: voglio condividere con loro questa mia nuova condizione. Voglio che anche loro conoscano la fede in Cristo e vengano battezzati. Mio padre sarà sicuramente un osso molto duro e del resto è ancora profondamente offeso con me… ma con mia madre credo di avere margine di riuscita…

In questo inverno gelido in cui mi vedo costretto a viaggiare, eccomi in questa valle prima a me sconosciuta. Ho superato quasi per miracolo il colle dell’Alpis Graia scendendo fino al villaggio di Ariolica tra infiniti pericoli e rischi. Una natura impervia, infida, seppur dotata di un suo fascino inspiegabile. Il mio passato nell’esercito mi ha temprato; sono rotto a tutto! Ma queste montagne non state affatto semplici da superare.

Da Ariolica, dove ho riposato e mi sono ben rifocillato, ho guadagnato il fondovalle insieme ad alcune guide locali, in gruppo con alcuni mercanti. Ho visto paesaggi straordinari dove il genio militare romano ha saputo realizzare opere incredibili pur di arrivare ad ottenere una strada degna di questo nome. Le strade dell’impero… sono uno degli elementi che han fatto la potenza di Roma!

Anche in queste terre di confine, strette da gole vertiginose tra rocce, strapiombi e torrenti impetuosi, circondate da boschi impenetrabili, la strada romana è un punto di riferimento, una certezza.

Eccomi ad Augusta Praetoria: la vedo in lontananza, con le sue mura e le sue torri. Ne ho sentito parlare sin dalle terre galliche, come di una città bellissima, ricca, vivace, ma che da alcuni anni a questa parte soffre di un progressivo declino. La gente che la abitava se ne sta allontanando, non sentendosi più così sicura come una volta. Le scorribande di popoli stranieri stanno iniziando a farsi sempre più violente e ripetute. Eppure l’imperatore Costantino solo alcuni decenni fa ha proceduto ad un vasto intervento di monitoraggio e manutenzione delle arterie stradali, anche di questa via che collega la Transpadana alle Gallie, un asse viario decisamente strategico!

Ma ormai la sera è vicina, le ombre della notte si allungano rapidamente e il freddo è già pungente. Mi fermerò in questo sobborgo alla periferia occidentale della città; vedo un gruppo di case, una fattoria. Vedo che ci sono luci, proverò a chiedere ospitalità.

“Ma cosa fate in giro a queste ore? Chi siete? Andate via! Non abbiamo nulla, siamo povera gente! Quel poco che avevamo ci è stato portato via, o dai barbari o dalle tasse dell’imperatore! Andate via! Cercate alloggio in città piuttosto!”.

La voce che aveva risposto al suo bussare dalla fattoria era nervosa, concitata… Martino provò a spiegare chi era, che non voleva nulla se non un pagliericcio e un tetto per la notte e che avrebbe pure pagato per quella generosità! Ci volle tutto l’impegno per convincere l’uomo ad aprire la porta, ma alla fine ci riuscì.

“Che Dio sia con voi, fratello”, salutò Martino. “Dio? E quale? Giove? Mithra? Asclepio? Ercole? o forse qualche misterioso dio egiziano? Come lo chiamano… Serapide?.. ne avete talmente tanti… ma nessuno che mostri un pò di bontà e di carità nei confronti della povera gente!”, esclamò l’uomo visibilmente contrariato.

“L’unico Dio, fratello. Il Dio della Carità, dell’amore e della condivisione”. L’uomo lo fissò perplesso. Non capiva quelle parole né mai le aveva sentite… “Mah, cos’è un culto nuovo? Una nuova bugia? Ah, sì… quello autorizzato e ufficializzato da Costantino, giusto? Noi siamo gente semplice, gente che vive nei campi e si spacca la schiena tutti i giorni! Noi siamo legati alle nostre antiche tradizioni, quelle che ci hanno insegnato i nostri padri e i padri dei nostri padri, da sempre”.

Martino lo ascoltava con grande attenzione e interesse, senza sbottare o mostrare fastidio. L’uomo se ne accorse e gli diede fiducia. “Ma voi, chi siete? Da dove venite?”. Martino allora gli raccontò della sua vita, dei suoi lunghissimi viaggi, dei tanti posti che aveva visto e del perché stava tornando in Pannonia. Colui che lo aveva accolto in casa infine si presentò: “In città mi chiamano Darius, ma il mio vero nome è Daro, il figlio della quercia”. E fu così che, davanti al fuoco e con un piatto di zuppa, giunse infine il sonno ristoratore.

La mattina dopo Martino si svegliò di ottimo umore, pronto a ripartire. Chiamò l’uomo che lo aveva ospitato, ma in casa non c’era nessuno. Uscì. Davanti a lui si stendeva un’ampia campagna ondulata; in lontananza, verso sud, il baluginare del fiume e, all’orizzonte, le due altissime vette che dominavano la valle. La notte aveva lasciato un velo di ghiaccio su ogni cosa. Ad un tratto udì delle voci provenire da un campo più a nord. Si incamminò in quella direzione. un gruppetto di uomini e donne era raccolto intorno ad una grande quercia. Tutti mormoravano. Una nenia incomprensibile, quasi una melodia, si diffondeva nell’aria.

“Martino, buongiorno! Vieni, unisciti a noi!”. Il suo ospite lo stava chiamando. Martino venne quindi presentato alla piccola comunità, evidentemente incuriosita e in parte non priva di sospetto.

“Vieni Martino. Qui siamo tutti parenti, amici, sodali. Qui siamo tutti eredi dell’antico popolo di queste montagne. Quel popolo capace di muoversi veloce sugli strapiombi rocciosi anche nel buio più nero. Quel popolo che adorava le rocce, il cielo, gli alberi. Un popolo molto antico in grado di vivere in simbiosi perfetta con la natura senza bisogno di stravolgerla e piegarla alle sue necessità. Questo luogo, che ai più appare come un povero grappolo di catapecchie fuori dalla bella Augusta Praetoria, è in realtà un luogo sacro. Vedi questa grande quercia? ha centinaia di anni, è qui da sempre, dal tempo del non-tempo, da quando il Mito era Storia. E’ la nostra memoria, il simbolo della nostra identità”.

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Martino era rapito dall’eloquio appassionato di Daro; voleva capire, conoscere. Tuttavia non voleva rinunciare alla sua missione e iniziò col raccontare loro dell’episodio del mantello tagliato e delle visioni che ne seguirono. Di come tutto questo aveva cambiato la sua vita e il suo destino.

La gente di Daro lo ascoltava, capiva che Martino era un uomo buono e non era lì per far loro del male.

“La tua storia è bella e toccante, Martino. Questo tuo dio ti ha scelto, ti ha mandato messaggi importanti. Ma noi non lo abbiamo ancora incontrato. Per noi ciò che conta è il cielo stellato sopra le nostre teste, la madre terra che ci nutre, l’eterno ciclo di vita e di morte rappresentato dallo scorrere eterno delle stagioni e dal girare degli astri. In molti hanno già tentato di distruggere questa quercia. Invano. Noi siamo disposti a difenderla con ogni mezzo. Questo albero, Martino, affonda le sue radici assai in profondità. Noi conosciamo questo terreno, lo coltiviamo e sappiamo i tesori che racchiude. Questo terreno ogni tanto ci restituisce frammenti di grandi pietre piatte, alcune hanno persino un volto! E la grande quercia sorveglia queste pietre e gli spiriti che le abitano. Questo è un luogo diverso da tutti gli altri, Martino. I Romani ci hanno impiantato una delle loro necropoli; qui nulla può essere costruito senza il volere degli antichi dei. La quercia lo impedisce. Qui c’è la nostra città perduta, sai?

“Ma, come si chiama questo luogo, Daro?”, chiese Martino.

“Gli abitanti della città lo chiamano Cordelianum. Per noi sarà sempre Cordela, la città degli antenati, la città delle grandi pietre“.

“Nessuno ne ha mai scritto perché la nostra tradizione è quella di raccontare a voce e memorizzare. Nostro compito sarà proprio quello di non perdere mai questa memoria, ma anzi di tramandarla ai nostri figli, nipoti, discendenti. Sono tempi assai duri, questi caro Martino, ma noi non demorderemo. La gente che vuole ascoltare la voce delle pietre si sta rarefacendo. L’angoscia di questo volgere di anni, la crisi dell’autorità imperiale, le continue migrazioni di popoli sconosciuti e spesso nemici, non aiutano questo genere di ascolto ma piuttosto la ricerca di una via di fuga, spesso solo un abbaglio temporaneo. Noi invece abbiamo deciso di cercare rifugio nel nostro passato, nelle nostre credenze, e le proteggeremo ad ogni costo”.

Martino decise di fermarsi in quel sobborgo ancora un pò. Da una parte Daro era uomo saggio e amava stare ad ascoltarlo, ad imparare; in quel piccolo popolo Martino ritrovava persino briciole di quella antica religione che ricordava praticata nelle campagne della Pannonia e della Gallia, ma che nessuno gli aveva mai spiegato davvero. Dall’altro gli sembrava di essere tornato a Siccomario, il modesto villaggio alla periferia di Ticinum dove aveva trascorso gli anni tra infanzia e adolescenza. Eh, già… proprio una vita in periferia la sua. E lì, alle porte occidentali di Augusta, stava riscoprendo una volta di più sebbene in modo ancora diverso, tutto il senso e il valore di quel suo “essere in periferia”. La sua missione erano le periferie, lì doveva stare! Lì serviva la sua parola.

Quella sera Daro condusse Martino in visita ad una donna molto anziana, considerata la saggia del clan. La donna aveva infatti espresso il desiderio di conoscere personalmente questo insolito viaggiatore che si muoveva da est a ovest attraverso l’impero. E soprattutto che aveva storie così diverse da raccontare!

“Prego, entrate pure”. La voce della donna era sottile ma profonda; Martino si accorse subito che riusciva a toccare le corde dell’anima. Quando la vide restò colpito da quello sguardo indagatore, quegli occhi di cui non si vedeva la fine, dal taglio affilato e incorniciati da ciglia ancora lunghe e nerissime nonostante l’età.

” Io sono Maricca. Molte lune sono passate da quando aprii per la prima volta gli occhi al mondo. Ho visto molte cose. E sento che tu sei un uomo buono, venuto a portarci importanti novità”. Martino era ammaliato. Raccontò a Maricca la sua storia; ad un certo punto lei gli disse: “Ho visto queste cose. E so che quanto dici corrisponde a verità. Tu vuoi far conoscere la tua fede e questo è legittimo. Ma fallo con rispetto, in punta di piedi. Non distruggere le tradizioni degli antichi. Noi non siamo spiriti malvagi e siamo disposti ad ascoltarti. Qualcuno potrà e vorrà seguirti da subito; altri no, ma probabilmente i loro figli o i loro nipoti, sì. Sarà il tempo a decidere”.

Martino era senza parole. Quella donna sembrava conoscerlo molto più di quanto non credesse…

Quella stessa sera il piccolo popolo di Daro e Maricca si radunò alla luce di un grande falò vicino alla quercia secolare; erano venuti ad ascoltare Martino. E il giovane soldato di Cristo parlò loro della sua fede, del messaggio di salvezza, di resurrezione, di vita eterna. E si rese presto conto che quegli stessi concetti non erano poi così lontani dalle loro credenze. Erano un’altra forma dell’eterno ciclo di vita-morte-rinascita. Martino cercò quindi di adottare una strategia già spesso utilizzata in passato dai Romani: il sincretismo. Una parola difficile, certo, ma che racchiudeva una profonda saggezza.

Martino cercò di utilizzare sapienti parallelismi, andando ad illustrare innanzitutto i punti di contatto tra le due fedi e spiegando loro che, in fin dei conti, il suo Dio era rintracciabile nella natura stessa. Il popolo di Cordela però non capiva come potesse essere uno solo vista la molteplicità di aspetti del mondo naturale… e non capiva come il figlio di un Dio avesse potuto decidere di morire per gli uomini anziché salvarli direttamente intervenendo in maniera più… “divina”, appunto. Ma Martino provò a spiegare loro che la divinità del gesto era proprio quello: morire per mostrare che si sarebbe risorti.

Alla fine Martino si trattenne a Cordela per diverso tempo; il tempo necessario ad imbastire, autorizzato dalla saggia Maricca, una sala di adunanza nella quale sarebbe stata esposta una croce. Questa sala venne costruita intorno alla grande quercia, a voler rappresentare l’incontro dei due mondi, senza danneggiare minimamente la quercia naturalmente!

La partenza fu dolorosa. Martino avrebbe tanto voluto fermarsi, ma non poteva! La sua missione lo avrebbe portato ad attraversare terre sconfinate fino a tornare in Pannonia per poi ritornare ancora…avanti e indietro per portare la novella del Signore.

CONTRO IL DIAVOLO SULL’ANTICO PONTE

Attraversò così tutta la valle Baltea seguendo l’efficientissima strada romana delle Gallie, incontrando uomini, villaggi, soldati; superando torrenti, orridi, paludi…

Sempre ricorderà la sua tappa nel villaggio sulle sponde del torrente Lys… un incontro decisamente “diabolico”. Al suo arrivo vide che solo una traballante passerella in legno univa le due sponde dell’impetuoso torrente Lys il cui transito si rivelava sempre pericoloso, ancor di più quando il corso d’acqua era gonfio e rabbioso per le troppe piogge o per lo scioglimento delle nevi. Ma la popolazione aveva bisogno di passare, e di farlo spesso…Mercanti, contadini, pellegrini, soldati…in tanti dovevano superare l’imprevedibile Lys e quella maledetta passerella spesso mieteva vittime innocenti.

Approfittando di questo bisogno, il Maligno si era insinuato nella comunità e accontentò la popolazione costruendo, nell’arco di una notte, un ponte meraviglioso: alto, solido, possente. Un ponte che sicuramente avrebbe saputo contrastare le onde di piena del Lys. Ma in cambio chiese una ricompensa importante: un’anima. Almeno una. E sarebbe stata di colui che per primo sarebbe transitato sul “suo” bellissimo ponte. E anche per gli abitanti di Pont-Saint-Martin, l’aiuto di Martino si rivelò fondamentale. Fu lui a far passare, per primo, sul ponte, un cagnolino; e quindi fu l’anima della bestiola ad essere “sacrificata” per salvare la gente del posto.

Insomma: storia, fede e leggenda si mescolano perfettamente ancora oggi nel Carnevale di Pont-Saint-Martin dove il nome stesso del paese si deve ad un ponte del I secolo a.C., costruito dal genio romano sulla via verso le Gallie, tuttora splendido e utilizzato.

Ponte romano di Pont-Saint-Martin (da www.guideaostawelcome.it)
Ponte romano di Pont-Saint-Martin (da http://www.guideaostawelcome.it)

Alcuni anni dopo Martino si trovò a ripassare da Cordela. Trovò ancora Daro, assai anziano e malato, divenuto guida spirituale del gruppo che aveva abbracciato la parola di Martino. Purtroppo non trovò Maricca che, nonostante l’ascolto e la comprensione, non aveva voluto abbandonare la fede degli avi, ma che volle farsi seppellire sotto un cumulo di pietre appena all’esterno della sala “comune”.

Anche in quell’occasione Martino si fermò alcuni giorni con loro e, quasi fosse un miracolo, nonostante si fosse agli inizi del mese di Samhain, in quei tre giorni pareva di essere in primavera! Quell’uomo, ex soldato di Roma, era destinato alla santità! Di lì a breve divenne l’acclamato vescovo di Tours, l’illustre apostolo delle Gallie!

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Da quella volta sono trascorsi molti secoli. E molte cose sono cambiate. L’antica Cordela, rimasta sepolta dallo scorrere del tempo e dagli eventi, è tornata a far parlare di sè e al suo nome ha unito il ricordo di Martino: Saint-Martin-de-Corléans!

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La sala assembleare voluta da Martino e Daro fu trasformata nel Medioevo in una piccola chiesa col suo campanile; e così la potete trovare ancora oggi.

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Chissà se lì sotto ancora resistono le antiche radici della grande quercia…. probabilmente, sì!

Sicuramente quella che oggi chiamiamo Area Megalitica è un luogo dove poter vivere e toccare l’ancestrale e potente rivelazione della sacralità.

 

Stella

2 pensieri riguardo “San Martino. Quel santo-soldato che attraversò la Valle d’Aosta

  1. Mi sono imbattuta per caso qualche giorno fa su un vostro racconto poi l ho perso. Oggi questo grandissimo DONO sono nata ad Aosta, ma da sempre vivo nel Lazio. GRAZIE, perché mi aiutate a conoscere meglio la nostra splendida Valle e le sue antiche storie. 😘❤️

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