Un’antica chiesa disegnata dalla Luna e protetta da una montagna sacra. L’Abbazia di Saint Maurice d’Agaune (CH)

Ad un mesetto dalla Pasqua vorrei suggerirvi una breve ma spero interessante gita “fuori porta” nel vicino Vallese svizzero, ad una manciata di km da Martigny: Saint Maurice d’Agaune, l’antica Agaunum, centro dei Galli Veragri. Un luogo assolutamente strategico, già noto ai Romani, che qui avevano creato uno snodo viario e militare lungo l’asse di collegamento tra Roma e le regioni germaniche.

E proprio a Pasqua è il momento migliore per visitare la splendida e antichissima Abbazia di Saint Maurice d’Agaune, fondata da San Sigismondo, re dei Burgundi, nel 515 d.C. e di cui nel 2015 si sono festeggiati i 1500 anni!

Sigismondo, miracolosamente toccato dalla grazia divina, decise di venire a chiedere perdono dei suoi peccati sulle tombe dei martiri della mitica legione Tebea, soldati dell’esercito romano convertitisi al Cristianesimo, primo su tutti, San Maurizio che, coi suoi fedeli compagni, venne martirizzato proprio in questo luogo nel III sec. d.C.

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Il complesso dell’Abbazia visto dall’alto

Già prima del burgundo Sigismondo, nel 380 d.C., San Teodulo, primo vescovo di Martigny, rende onore a questi martiri facendo deporre le loro spoglie in un santuario apposito ai piedi della roccia di Agaunum, non solo semplice insediamento abitativo, ma anche importante luogo sacro dei Celti indigeni. I Romani, precedentemente, vi avevano ricavato sia una necropoli che un ulteriore santuario dedicato alle Ninfe dell’acqua. Il complesso voluto da Sigismondo venne quindi danneggiato da una terribile incursione longobarda nel 574 d.C.; seguì una terza chiesa poi ancora ampliata. Finché, sul finire dell’VIII secolo d.C., si realizzò una quarta chiesa ancora più grande e connotata dalla particolarità di avere l’abside ad Occidente anziché, come di solito, ad Oriente.

Ma i guai non erano finiti: appena un secolo più tardi l’intero complesso fu nuovamente vittima della barbarie saracena. Quindi, nell’XI secolo fu ancora ricostruito dall’abate Burcardo I che volle, come emblematico ingresso monumentale alla chiesa, un originale campanile-nartece.

Qui ingenti e complesse campagne di scavo (tra cui le più significative condotte dall’archeologo Louis Blondel negli anni ’40 – ’60 del secolo scorso) hanno permesso di riportare in luce questo millennio e mezzo di vita monastica con resti architettonici che vanno dal IV al XVII secolo d.C. … una rarità!

Un denso ed intricato sovrapporsi di architetture sempre volute, costruite e ricostruite addosso a quello sperone roccioso impregnato di antica sacralità. Un baluardo naturale che, però, fu anche la causa di una devastante rovina.

Nel 1611, infatti, proprio da lì si staccò quell’enorme macigno che distrusse completamente la bella chiesa romanica obbligando i monaci a farne costruire una nuova ma con diversa collocazione, ruotata di 90° sebbene sempre adiacente alla parete rocciosa. Quello che si vede oggi è lo scavo aperto tra la parete rocciosa e l’edificio seicentesco che risulta privo di facciata, poiché è inglobata nella roccia.

Della prima chiesa del IV secolo solo poche tracce sono, ahimè, giunte fino a noi e con fatica riconosciute e rilevate da Blondel. Ad ogni modo, oltre a datarla grazie al metodo del Carbonio14 agli anni compresi tra 380 e 390 d.C., è stato anche possibile calcolarne l’orientamento, elemento assai curato e al quale si prestava sempre grande attenzione. Insomma, questa prima chiesa (quella del vescovo Teodulo per capirci) risulta allineata sull’orizzonte locale con il sorgere della Luna piena al lunistizio estremo superiore, evento che, negli anni della presunta costruzione, era associato alla Luna piena il 22 dicembre del 386 andando così a coincidere col solstizio d’inverno, un momento astronomico (come si è già osservato più volte) decisamente ricercato e carico di aspettative per i popoli dell’Antichità. 

In quell’anno, il 386 d.C. appunto, la Luna sorgeva verso le 15:40 sull’orizzonte astronomico e appariva dietro la montagna ben visibile nel cielo circa due ore dopo, nel momento in cui il Sole stava tramontando. Che impatto straordinario doveva essere vedere quel grande disco luminoso spuntare dietro il profilo aguzzo ed incombente della montagna…

La chiesa voluta da Sigismondo, invece, parrebbe allineata verso il tramonto del Sole nel giorno della festa di San Maurizio, ossia il 22 settembre: “Agaune Natalem sanctorum Mauricii“.

Decisamente rilevante, inoltre, come l’antico edificio battesimale burgundo, oggi non più visibile ma di cui sono state rilevate ed analizzate le tracce in fondazione, risulti allineato al sorgere del Sole del 19 aprile del 515 d.C.: Pasqua!

Siccome si tratta di una ricorrenza mobile, è difficile dimostrare, in assenza di testimonianze scritte incontrovertibili, che la prima pietra sia stata posata proprio in quella circostanza, ma alcuni studi recenti dimostrano come in diversi casi di fondazione di battisteri (e non solo) ricorrano allineamenti analoghi.

Per chi desiderasse approfondire l’argomento, segnalo l’interessante articolo della dott.ssa Eva Spinazzè dal titolo “Un Santo, una Pasqua e un lunistizio a Saint Maurice d’Agaune, pubblicato negli Atti del Convegno “Il Cielo in Terra ovvero dalla giusta distanza” promosso dalla Società Italiana di Archeoastronomia e tenutosi a Padova nel 2013.

 

Allora, vi va di andare a vedere di persona?

Vi troverete davanti ad un vero gioiello assai ben valorizzato la cui visita, almeno per me, ha occupato più di 2 ore! Imperdibile anche il Museo del Tesoro con preziosi oggetti di arte sacra (oltre 100!) che vanno dall’età merovingia ai giorni nostri.

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L’interessante sito archeologico annesso all’Abbazia

Da qui passa la Via Francigena e l’Abbazia, da sempre, costituisce una tappa di tutto rilievo dove risanare corpo e spirito e respirare tutto il sacro della roccia, dell’acqua, del Sole e, soprattutto, della Luna.

Stella

Tra Francia, Svizzera e Aosta … attenzione! Megaliti in città!

Possono spuntare dove meno te l’aspetti! E non soltanto nel folto di una foresta, nel mezzo di una distesa verdeggiante o in cima ad un’impervia scogliera avvolta nella leggenda… No! I megaliti possono comparire anche in pieno centro! Da un giorno all’altro, uscendo di casa, potresti imbatterti in un megalite ben piantato in mezzo alla strada! E pensate che, in alcuni luoghi, molti sostengono che siano caduti dal cielo, proprio come una pioggia di mega-meteoriti! Qualcuno, Oltralpe, si è trovato l’auto letteralmente sfondata!

Auto colpita da un misterioso megalite in centro a Parigi- da lebonbon.fr
Auto colpita da un misterioso megalite in centro a Parigi- da lebonbon.fr

“Per Toutatis!! Che danno!” e di chi è la colpa? All’inizio di aprile sono state diverse le città francesi a registrare simili incredibili accadimenti! Parigi, Lione, Nantes, Lille…

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Quella mattina la gente non riusciva a credere ai propri occhi… E sì che i “cugini” transalpini sono ben più abituati di noi ad avere a che fare coi megaliti, ma così…forse era troppo! Solo dopo lo sbalordimento iniziale han fatto mernte locale e con un pizzico di lucidità in più hanno capito!

Era il 1 APRILE!!!

Un’idea straordinaria! Uno “scherzo” tra il ludico e il culturale che ha sorpreso tutti e ha attirato l’attenzione e l’interesse verso un nuovo parco divertimenti a tema “megalitico”, anche se non proprio scientificamente corretto dato che, pur essendo tali megaliti dei prodotti di statuaria preistorica datati tra il 3000 ed il 2000 a.C. circa (dipende dai luoghi), questo nuovo parco ha come protagonisti due vero eroi, anzi quasi dei Super Eroi per i Francesi: avete capito? Asterix e Obelix!

 

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E’ il Parc Astérix dove è astata appunto da poco inaugurata la nuova attrazione “Attention Menhirs!”: un’esperienza 4D immersiva dove sentirsi davvero dei “piccoli” (ma non troppo) novelli Obélix!

Certo ad alcuni “puristi” simili attrazioni fanno storcere il naso, ma al di là della genialità dell’operazione di street marketing attuata per pubblicizzarlo, questo parco divertimenti gioca interamente sulla storia degli antichi Galli e, si sa, “nos ancêtres les Gaulois” coi Francesi funzionano sempre! Allo stesso tempo si è fatto ricorso ai menhirs che, al di là di Obéluix, hanno stimolato una dilagante curiosità anche da parte di chi, fino a quel momento, aveva vissuto tranquillamente anche senza sapere di cosa si trattasse… Ebbene sì, uscire di casa al mattino e trovarsi un menhir in mezzo alla strada ha scatenato un effetto “sasso nello stagno” suscitando curiosità verso questo genere di reperti preistorici con gran gioia dei tanti siti megalitici di Francia (Bretagna su tutti!).

E divertirsi imparando si può! Certo i parchi a tema sono “non-luoghi” del puro divertimento ma è il tema protagonista che ci interessa. E i megaliti, queste “grandi pietre” ammantate di mistero, singole o più spesso allineate, anche a decine, o centinaia come a Carnac, riescono sempre, nella loro essenzialità, per altro così vicina a certi linguaggi dell’arte contemporanea, a lasciarci senza parole, forse disorientati ma senza dubbio affascinati.

I megaliti, i silenziosi ed enigmatici “volti” della Preistoria, riescono a “sfondare” ancora oggi, nel 2019 d.C. quando potremmo dirci abituati a tutto e forse fin troppo bersagliati da messaggi ed immagini.

I megaliti, invece, nel loro naturale color grigio pietra, a volte scabro e nudo, a volte incredibilmente decorato e ricco di dettagli, pur senza parlare, anche laddove privi di particolari prolisse didascalie, anche se in mezzo al nulla, riescono a dirci qualcosa, a far comunque sentire una silenziosa voce di grandiosità, potenza e sacralità!

Una voce reboante quella che ha scosso gli amici vicini di casa del Vallese svizzero tra l’aprile 2017 e l’aprile 2019.

Sempre loro, i megaliti! E anche stavolta: #MegalitiinCittà!

In tal caso la città è Sion, già nota ai cultori “megalitomani” per la scoperta, avvenuta nel luglio 1961, del sito preistorico del “Petit-Chasseur“, così chiamato dal nome della via lungo cui si affacciava. Un sito di rinomanza internazionale i cui ritrovamenti (tombe dolmeniche, menhirs, stele antropomorfe) hanno funto da base di partenza per numerosi studi scientifici, confronti e approfondimenti sul megalitismo alpino. Una straordinaria necropoli preistorica utilizzata dal 2900 al 500 a.C.!

Allineamenti di "copie" ricostituiti a Sion (le nouvelliste.ch)
Allineamenti di “copie” ricostituiti a Sion (le nouvelliste.ch)

Un’area archeologica urbana, inserita oggi in un quartiere amministrativo-residenziale dove una parte del sito è stata ricostituita ma che non è più il vero sito a suo tempo scoperto. Infatti le stele e i vari corredi nonché alcuni dolmen sono stati ricollocati, pur con una musealizzazione d’effetto, presso il Museo cantonale del Vallese.

Sala delle Stele al Museo cantonale del Vallese
Sala delle Stele al Museo cantonale del Vallese

Una sistemazione che oggi, dopo gli ultimi incredibili ritrovamenti avvenuti proprio a Sion, ha scatenato polemiche sottolineando che, in questo modo, quasi si trattasse di un’installazione contemporanea, Sion rischia di perdere memoria e coscienza dei suoi tesori!

Quali sono questi recenti ritrovamenti? Metti un movimentato cantiere urbano per la realizzazione di un grande parcheggio pluripiano nel quartiere “Don Bosco”, in pieno centro e, come per il fratello maggiore del “Petit-Chasseur”, occupato da edifici residenziali e scuole.

La prima fantastica scoperta è avvenuta ad aprile 2017 con la tomba del guerriero accompagnata da altre sepolture complete di ricco corredo.

 

Una necropoli celtica sotto cui giaceva la seconda incredibile scoperta avvenuta nel giugno 2018: un dolmen con, al suo interno, un centinaio di deposizioni datato al III millennio a.C.!

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E già così ce n’è d’avanzo! Eppure il sito del “Don Bosco” non aveva ancora finito di rivelare i suoi tesori. Ecco uscire, a settembre 2019, due poderose stele antropomorfe dalla superficie decorata: collane, cinture e pendenti spiraliformi!

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Ed ecco che, poche settimane fa, viene scoperta la terza grande stele … un sito decisamente strepitoso! Come trovare ed aprire un forziere preistorico i cui tesori hanno ulteriormente implementato il già notevole patrimonio cittadino!

Disegno ricostruttivo dell'area dolmenica (www.vs.ch)
Disegno ricostruttivo dell’area dolmenica (www.vs.ch)

Insomma, non c’è molto da aggiungere… In Francia hanno scherzato ma i megaliti possono davvero apparire e sbalordire anche in centro città!

E così è stato anche ad Aosta! Inizia ad essere nota, infatti, l’eccezionale Area Megalitica rinvenuta nel quartiere di Saint-Martin-de-Corléans nel giugno 1969 di cui quest’anno si celebreranno i “primi” 50 anni!

La più vasta area megalitica COPERTA d’Europa estesa su una superficie totale di ben 18.000 mq! Un sito imperdibile per chi viene ad Aosta capace di regalare emozioni insolite anche in virtù di un contenitore avanguardista, futuribile, dal sapore potremmo dire quasi “spaziale”.

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Una sorta di cittadella fortificata in pietra verde e vetro apparentemente inaccessibile, così voluta per sottolineare il distacco con quanto la circonda e la notevole specificità dei resti preistorici (ma anche protostorici e romani) presenti al suo interno.

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Un sito “gemello” del Petit-Chasseur di Sion ma anche, in buona parte, del Don Bosco! Un’area talmente vasta e complessa che ha richiesto un quarantennio di scavi, studi e ricerche nonché un notevole impegno per progettarne e realizzarne la copertura. Che poi solo copertura non è, anzi! E’ un sito rimasto al suo posto musealizzato ed “emozionalizzato” ad hoc!

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 Un sito che, a differenza degli esempi elvetici, ha restituito anche le rare e fragili tracce di rituali di aratura propiziatoria datati al V millennio a.C.!

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Per non dilungarsi, poi, sulle 46 stele antropomorfe, molte delle quali decorate, in buona parte già esposte nel sito ma che, a lavori terminati, quando si mostreranno tutte insieme, lasceranno i visitatori paradossalmente “muti come pietre”, anche se invece le pietre, loro, parlano eccome!

Testimonianze impossibili da asportare (anche perché spostandole le si priverebbe di senso) e troppo delicate per esser lasciate alla mercé degli elementi e dell’inquinamento.

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Per tutti i dettagli dell’Area Megalitica aostana vi rimando ad altri post del blog; in questa sede, infatti, voglio insistere sulla presenza dei #MegalitiinCittà! Che se ci pensiamo, resta sempre qualcosa di insolito e difficile da gestire perché trattasi di reperti davvero assai complicati da individuare (spesso, soprattutto se in cantieri edili senza opportuna sorveglianza archeologica scambiati per mere lastre di pietra), da scavare (il rischio fratture non è secondario), da interpretare (i “misteri” su chi rappresentino sono ancora molti e forse tali rimarranno) e da comunicare al grande pubblico (spesso si sente dire “non sono che grosse pietre..”) ahimé!

E’ decisamente più “facile” quando invece “appaiono” in natura dove l’intorno stesso, incontaminato e selvaggio, li valorizza senza bisogno d’altro. E in effetti, quando si parla di cromlech, dolmen o menhir, la nostra mente vola a Stonehenge, a Carnac o alle possenti tombe dei Giganti sarde…

Ma, facciamocene una ragione, i #MegalitiinCittà esistono eccome! Van trattati coi guanti di velluto e, di pancia, o li ama o li si ignora… ma col tempo, cercando di capirli, si può arrivare ad apprezzarli perché, pur nella loro ingombrante sobrietà, indicano l’estrema importanza e l’ancestrale sacralità del luogo che li ha restituiti!

Megaliti in città! Meraviglia, fascino, stupore. Le grandi pietre della Preistoria che riescono a farsi spazio tra condomini, strade trafficate, scuole e negozi. 

Fare attenzione? Sì, certo! Ma per trattarli bene!

Stella

 

E i Preistonauti sbarcarono ad Aosta. Area Megalitica:l’eterno sorgere dei millenni

“Capitano!! La navicella ha un guasto! Stiamo perdendo quota… sempre più rapidamente! Abbiamo incontrato una terribile tempesta magnetica… Cordylus non ce la fa! Presto, presto… urgente piano di evacuazione! Tutti alle scialuppe di coda!”

Una tempesta. Piogge di meteoriti e polveri incandescenti stavano investendo la navicella spaziale Cordylus. L’equipaggio, pur se ben addestrato e avvezzo a viaggi rischiosi e non privi di incognite, era sopraffatto dall’agitazione. Le mappe erano completamente saltate e il suono martellante dell’allarme era intollerabile. Il loro viaggio, e soprattutto l’esito della missione era drasticamente compromesso. Solo il Comandante, Lythicus, riusciva a mantenere i nervi saldi e continuava ad impartire ordine affinché i suoi uomini potessero mettersi in salvo nonostante la concitazione generale.

“Forza, presto! Tutti nelle scialuppe! Piano evacuazione avviato! E che la forza di Akronos ci assista!… 3, 2, 1: ESPULSIONE IMMEDIATA!”.

Fu un attimo. La navicella Cordylus, che in tanti viaggi e tante missioni aveva trasportato gli uomini di Lythicus, esplose in migliaia di frammenti simili a stelle luminose. Fortunatamente le scialuppe riuscirono a staccarsene in tempo, ma volteggiavano come impazzite perché quella maledetta, terribile e devastante tempesta magnetica aveva mandato completamente in tilt i comandi di bordo. Lythicus, però, riusciva a comunicare telepaticamente coi suoi e a guidarli: non dovevano assolutamente separarsi e solo i vecchi comandi manuali avrebbero potuto supportare la caduta.

L’atterraggio fu brusco ed impattante. Le scialuppe subirono danni irreversibili. Fu Lythicus ad uscire per primo dalla sua. Si guardò intorno, leggermente stordito, con un forte dolore al fianco destro. La testa gli girava, la vista era ancora in parte annebbiata e il cuore batteva all’impazzata. Chissà dove erano precipitati. Che luogo era mai quello?

Cercando di riordinare i pensieri, dopo essersi assicurato che i suoi uomini stessero bene, o meglio, che fossero tutti vivi, il comandante si sedette e, con la testa tra le mani, provò a riflettere sul da farsi. Non voleva perdere quella missione. Non poteva permetterselo! Il suo pianeta, Akronos, era in grave pericolo: una profonda crisi aveva portato subbuglio nella sua gente. Se non avesse portato a termine l’incarico affidatogli, Akronos sarebbe stato divorato dal caos delle ere e dal turbine della non-memoria. Tutti i ricordi, le tradizioni, tutto sarebbe andato perduto, sommerso nelle profonde acque dell’imperscrutabile oceano senza nome, avvolto da nebbie invalicabili.

Il grande re di Akronos, il nobile Aeternum, lo aveva scelto tra altri per inviarlo alla ricerca di un luogo. Un luogo sacro dove il potere della stirpe degli uomini si era manifestato nei secoli in forme e linguaggi di volta in volta diversi, ma che nessuno sapeva esattamente dove fosse. Il sovrano, con l’aiuto del potente sciamano Daimon, gli aveva consegnato una profezia:

” Troverai una terra cinta da vette eternamente rivestite di ghiacci e candide nevi. Vette che arrivano finanche a sfiorare la volta celeste. Una terra solcata da un tormentato e grande fiume d’argento. Una terra dove persino i limi sono argentei e riflettono la luce della Luna. In quella terra le stelle diventano pietra e assumono silenzioso volti di dei. In quella terra il suolo confonde la vista come fosse fatto di onde marine. In quella terra le Ombre si allungano potenti e si intrecciano tra enigmatici e misteriosi allineamenti. In quella terra, dove ti imbarcherai su una nave di pietre, un sol giorno può durare millenni”.

Questa profezia risuonava nelle orecchie di Lythicus e gli batteva in testa come un martello incessante.

Si alzò e cercò un’altura per avere la visuale più ampia. I fumi delle scialuppe distrutte si mescolavano alla nebbia e all’umidità. Il freddo attanagliava le ossa. Udiva, come ovattati, i lamenti dei suoi uomini e ne percepiva lo smarrimento e la paura. Quella terra appariva ostile.

Ad un certo punto uno squarcio di luce: davanti a lui si ergeva un edificio monumentale, scintillante, quasi fosse fatto di vetro. Forme a lui ignote ma che trasmettevano un senso di potenza, quasi fosse una sorta di reggia aliena. Due imponenti corpi di fabbrica divisi da una strada, circondati da un paesaggio simile ad una città ma… disabitato e silenzioso.

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Scese dalla collinetta e radunò l’equipaggio. Si divisero in due squadre ed iniziarono a perlustrare la zona. Davanti ai loro occhi si dispiegava uno scenario decisamente disorientante. Certo, quella doveva per forza essere una città, ma sicuramente da poco era successo qualcosa di terribile. Solo questa immensa reggia di vetro e pietra verde si ergeva al di sopra delle abitazioni; a parte un’altra costruzione, più piccola, proprio accanto.

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Quella Lythicus la conosceva: si trattava di una chiesa, un luogo sacro per gli uomini del pianeta Terra. Che poi, da quell’antico pianeta proveniva anche la stirpe di Akronos che da lì era fuggita quando il passato rischiava di venire fagocitato e distrutto, quando la Memoria iniziava ad essere dimenticata. Lo sentiva come un “nostos“, come una sorta di ritorno a casa… ma chissà in quale area della Terra erano finiti.

Queste riflessioni, passi circospetti e, piano piano, le nuvole si alzarono lasciando comparire una montagna a sud. Anzi si trattava di una coppia di montagne, una muraglia di rocce e neve che cingeva quella città a meridione.

Vista Becca di Nona

Quando la luce del giorno fu piena, si accorsero di essere osservati: gruppi spauriti di persone si erano radunati qua e là, armati alla bell’e meglio, visibilmente provati da fame e stenti. Ne videro altri che uscivano dal sottosuolo; altri che scendevano dalle alture circostanti.

“Chi siete?” – chiesero quegli uomini. Lythicus, che aveva la facoltà di interpretare ogni lingua, rispose: “Giungiamo dal pianeta Akronos, la nostra navicella Cordylus è esplosa nel cielo e abbiamo dovuto atterrare in emergenza. Veniamo in pace. Siamo i cercatori del passato. Siamo Preistonauti. Ma non sappiamo dove ci troviamo”.

“Preistonauti? Mai sentiti! Il pianeta Akronos… ma non è quello dove molti uomini emigrarono anni addietro?”.

“Sì, noi ne siamo i discendenti. Ma il pianeta è allo sbaraglio. Dobbiamo ritrovare la nostra identità affinché le epoche storiche ritrovino il loro ordine. Stiamo cercando un luogo sacro assai particolare, ma… la tempesta magnetica ci ha fatto perdere la rotta”.

” Beh, qui vi trovate in quella che tutti chiamano Aosta. E’ una città antichissima, ma allo sbaraglio, come il vostro pianeta. Per fortuna è rimasta in piedi la chiesetta che vedete laggiù; è il nostro unico punto di riferimento.”

” Ma… e l’edificio monumentale accanto alla chiesetta?”. “Quello? E’ come una fortezza. Racchiude un luogo molto particolare. Nessuno ci vuole più entrare. Tutti ne hanno paura. Nessuno lo capisce. Si dice che emani energie negative… non so.

Tutto era cominciato bene; ma si tratta di centinaia di anni fa! Sì, circa 250 anni fa  (pare fosse il 1969 della nostra era), venne ritrovato dagli uomini che vi videro un’area sacra, un luogo dal potere antichissimo dove stirpi perdute avevano lasciato le loro tracce. Pietre, grandi pietre con la faccia appena abbozzata, armate e vestite con abiti strani… di più non so. Sta di fatto che nessuno oggi riesce più ad accedervi; si è perso l’ingresso! Secondo noi solo entrandovi si potrà spezzare il malvagio incantesimo in cui è caduta la nostra città. Ma la paura è troppa, amico mio di Akronos… Quelli (pochi) che ci hanno provato o non ne sono più usciti oppure son diventati pazzi!”

Lythicus pensò a lungo e meditò su quel luogo così particolare ed imperscrutabile, avvolto nel mistero e temuto dagli uomini. Condivise i suoi pensieri con l’equipaggio e tutti cercarono tra i loro ricordi e le loro conoscenze un modo per entrare in quella roccaforte di vetro e pietra apparentemente inaccessibile.

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Decisero di iniziare con accurati sopralluoghi lungo l’articolato perimetro dell’area. Niente, sembrava davvero privo di accessi!

La mattina seguente Lythicus rimase colpito dal riflesso della grande montagna a sud che si specchiava sulla lucida parete dell’edificio senza porte. Il suo occhio notò per la prima volta dei resti di una scritta… sì, sulla parete rivolta a sud un tempo c’era una scritta accompagnata da strani segni circolari. Ma era troppo in alto. Coi suoi costruì una scala e raggiunse quegli strani segni consumati dal tempo.

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La luce radente lo aiutò nell’impresa. Riconobbe così cinque segni circolari allineati che formavano una leggera curvatura. Riuscì poi ad individuare questa scritta “S–nt –r-in -e Co—an-“.

“Ne sapete qualcosa? O almeno, a qualcuno di voi ricorda qualcosa?” chiese Lythicus alla gente del luogo. Tutti si guardavano sconcertati… “Bisognerebbe chiedere al vecchio della chiesa… è tremendamente anziano tanto che nessuno sa esattamente quanti anni abbia. Ormai la chiesa è diventata la sua dimora; non ne esce mai! Provate!”.

Lythicus e i suoi andarono a cercare questo anziano. “Salve stranieri! Sapevo della vostra presenza in città. E sapevo che non avreste tardato a cercarmi. Qui nessuno sa nulla della nostra storia più antica. La nostra distruzione è anche colpa loro e non se ne rendono conto, miserabili!”. “Chi sei, anziano?”, chiese Lythicus. ” Il mio nome vi suonerà…come dire… famigliare! Mi chiamo… Kordylus!”.

Lythicus e i suoi, increduli, strabuzzarono gli occhi. “Kordylus??!! Ma è il nome della nostra navicella perduta!”. “Lo so. Così come sapevo che prima o poi sareste arrivati. I miei avi fuggirono da Aosta e trovarono rifugio su un altro pianeta; solo mia nonna, all’epoca incinta di mia madre, rimase qui accanto al suo uomo che non voleva andarsene. Mia madre nacque qui. E io pure. Ci sentiamo i custodi di questo luogo e sono sicuro che presto risorgerà! Il mio è un nome antico, un nome di famiglia che ci passiamo di generazione in generazione”.

“Ma, allora, tu sai come entrare nel grande edificio Kordylus?”. ” Certo. Ma non posso farlo da solo. Ho bisogno di un valido aiuto. Ho bisogno di qualcuno che, fino ad oggi, ancora mancava. Quel qualcuno sei tu Lythicus, perché conosci il passato e sei in grado di riordinarlo. Perché sai leggere ed interpretare i segni delle antiche civiltà. Perché hai una missione da compiere, vero?”.

“Eh… sì… tu conosci tutte queste cose, vecchio! Come le sai?”. I due si fissarono intensamente e.. si riconobbero! Non ci fu più bisogno di altre parole”.

Kordylus aprì allora un grosso baule; ne tirò fuori un medaglione su cui era disegnata una spirale. “Questa è una forma ancestrale, Lythicus. Una forma disegnata da Madre Natura. Una forma che rappresenta l’acqua, la terra, la vita. La forma delle ammoniti fossili, delle conchiglie figlie dei mari, dei petali dei fiori. La spirale è il nostro DNA. La spirale indica l’eternità”.

Lythicus prese il medaglione tra le mani e fissava quella linea concentrica come ipnotizzato. “Prendi anche questo.” Kordylus gli porse un frammento di corno di bue semicarbonizzato; “ti servirà!”.

“E i segni sulla parete sud dell’edificio? Tu sicuramente sai interpretarli, giusto?”. ” Sì, ma solo tu sei riuscito a notarli e riportarli alla luce. Saint-Martin-de-Corléans! E’ questo il nome di quest’area. E’ anche il nome di questa vecchia chiesetta che, tenace, sola resiste a questi tempi sconvolti e confusi! I cinque segni rievocano gli allineamenti. Quel luogo fu sacro agli uomini che ci precedettero e che qui costruirono cattedrali il cui soffitto era nient’altro che la volta celeste”.

“Ma come mai questa gente ne ha così paura?”. “Si ha paura di ciò che non si conosce. Se avessero voglia di sapere anziché fermarsi alle apparenze, allora la paura svanirebbe. Ma tale iniziativa deve nascere da loro, non può essere imposta. Solo così le porte del Tempo si apriranno e la città ritroverà il suo Passato ricominciando a vivere”.

La notte servì a Lythicus per elaborare il piano. Ma una strana sensazione gli fece sorgere il dubbio che forse quel luogo poteva servire anche a lui. La profezia di Daimon si ripeteva nella sua testa.

” Troverai una terra cinta da vette eternamente rivestite di ghiacci e candide nevi. Vette che arrivano finanche a sfiorare la volta celeste. Una terra solcata da un tormentato e grande fiume d’argento. Una terra dove persino i limi sono argentei e riflettono la luce della Luna. In quella terra le stelle diventano pietra e assumono silenziosi volti di dei. In quella terra il suolo confonde la vista come fosse fatto di onde marine. In quella terra le Ombre si allungano potenti e si intrecciano tra enigmatici e misteriosi allineamenti. In quella terra, dove dovrai trovare una nave di pietre, un sol giorno può durare millenni”.

Alle prime luci dell’alba Lythicus si avviò verso la roccaforte imprendibile di Saint-Martin-de-Corléans. Si fermò davanti ai resti dell’antica scritta e puntò il medaglione contro di essa. Non appena i primi raggi di sole colpirono la parete, il riverbero si specchiò nel medaglione che, a sua volta, si riflettè sulla parete di lucida pietra verde.

E una porta si aprì!

Lythicus entrò immediatamente, si voltò, ma la porta si richiuse immediatamente alle sue spalle. Si ritrovò immerso in un’avvolgente penombra che quasi gli dava come un senso di sonnolenza, di pesantezza. Non volle tuttavia cedere a quella insolita sensazione e cercò di capire da che parte doveva andare. Riconobbe un corridoio in leggera discesa; su un lato quel che restava di antiche vetrate gli diede un riferimento: serviva a scendere nel sottosuolo, proprio accanto alla chiesa.

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I suoi passi rimbombavano nella semi oscurità. Inconsciamente si rese conto di tenere in mano il medaglione come se fosse una torcia fino a che, stupito, si rese conto che quel medaglione emanava luce davvero! Si accorse di una serie di porte, e capì, da come erano fatte, che erano delle “timegate”, delle porte del Tempo, come aveva detto Kordylus la sera prima: “le porte del Tempo si apriranno…”. Una dopo l’altra le superò tutte, compiendo un viaggio che lo condusse dalla sua epoca fino ad un passato remoto, un passato in cui la Storia ed il Mito si fondevano e si confondevano, un Passato che molti non avevano saputo leggere, né capire.

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Ecco, all’improvviso una vasta distesa si aprì davanti a lui. Al centro una costruzione di pietra si ergeva al di sopra di una piattaforma di pietrame più minuto. Ma Lythicus era lontano… non vedeva bene, non capiva… si sentiva come atterrato nuovamente su un pianeta sconosciuto; un naufrago approdato non si sa bene come su un’isola aliena e disorientante.

No, da lì non avrebbe individuato la strada. Doveva trovare un punto elevato e guardare dall’alto per avere una mappa, diciamo, da cui partire. Si accorse di alcune scale e di corridoi rialzati tutti intorno a lui. Ma tutto era come disequilibrato; era come muoversi nel grosso relitto di una nave naufragata. Sinistri scricchiolii, rumori lontani, vacillamenti delle strutture… Non senza fatica riuscì a portarsi al piano più alto da cui godere di una vista panoramica su quel luogo inaspettato.

Si affacciò dalla balconata e… rimase senza fiato! La terra non era piana, ma solcata da tracce profonde e parallele, “simili a onde marine”.

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Perché il suolo era inciso in quel modo? Chiuse gli occhi e si concentrò cercando tra le sue conoscenze di Storia: un’aratura! Ma certo! Quel suolo era stato consacrato per mezzo di un’aratura in tempi in cui l’agricoltura era ancora una conquista “recente” e il buon raccolto era considerato il frutto della benevolenza delle forze sotterranee. Un buon raccolto significava una forte stirpe ed una solida comunità.

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Vide poi tutt’intorno gli allineamenti di cui gli aveva parlato Kordylus. Alcuni buchi più grandi e profondi; altri più piccoli e, tra questi, alcuni di forma quasi circolare e altri di forma più o meno rettangolare. Da nord-est verso sud-ovest: questa era la direzione prescelta.

Allineamenti

Una direzione che richiamava il moto del sorgere del sole in estate. Certo, l’estate: la stagione dell’abbondanza, del trionfo della Natura! I buchi più grandi erano dei pozzi, ma non vennero utilizzati per l’acqua, bensì per deporre nel sottosuolo offerte alle divinità ctonie, quelle che muovevano le forze del ventre della terra e potevano far germogliare i semi.

Fermandosi a meditare concentrato sulle singole tracce, Lythicus poteva visualizzarne le origini, l’identità e la funzione. Si avvicinò quindi ai buchi circolari più piccoli; osservandoli con attenzione vide che sul fondo di uno di essi vi era un frammento di corno bovino bruciato. Capì e vi depose il corno che gli aveva dato Kordylus: una sequenza luminosa si accese ai suoi piedi e dei fasci tubolari si innalzarono dai buchi verso il cielo. Il soffitto, fino a quel momento buio, si accese di centinaia di luci cangianti che mutavano colore ed intensità: dal bianco argenteo, lunare, fino al rosso infuocato del tramonto, continuando a ripetersi all’infinito. Era il respiro dei millenni che si muoveva intorno a lui e pervadeva quell’immenso spazio punteggiato di… grandi pietre!

La scia luminosa dei fori circolari ad un certo punto si spense per spostarsi sulla sequenza delle fosse rettangolari da cui si ersero enormi lastre di pietra sagomate a forma d’uomo, alcune appena accennate, altre più definite. La luce invase un corridoio parallelo e Lythicus rimase senza fiato: davanti ai suoi occhi si paravano, maestose ed enigmatiche, ben 46 grandi stele di pietra da cui emanava luce vera. Volti silenziosi, immutabili, avvolti da un’aura di ancestrale sacralità.

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“In quella terra le stelle diventano pietra e assumono silenziosi volti di dei.”

Quasi incredulo, tremante, si avvicinò ad una di queste e vide che sulla sua superficie era riportato un doppio medaglione a spirale.

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Non ebbe più dubbi: il destino, il caso, aveva voluto che l’esplosione del Cordylus paradossalmente li portasse proprio nella giusta destinazione! Era quella la terra indicatagli dalla profezia di Daimon: e lì avrebbe trovato la nave di pietra che avrebbe portato in salvo gli abitanti di Akronos… ma dove?

Si avvicinò ad un’altra stele e ne osservò le armi: quel pugnale, era decisamente… uguale al suo! Quella forma particolare dell’impugnatura semilunata… ma certo! Prese il suo, che portava sempre alla cintola, e lo avvicinò a quello raffigurato sulla pietra: i due pugnali si “riconobbero” e si illuminarono. Dal suo un raggio puntò verso la grande costruzione lapidea al centro dell’area.

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Lythicus si incamminò su quel corridoio di luce e raggiunse quello strano cubo con una sorta di oblò d’ingresso dal quale, però, lui non riusciva a passare. Girò intorno a quello strano cubo e le sue facoltà gli fecero capire che si trattava di una tomba; una tomba fatta con grandi pietre e che aveva contenuto i corpi di molti uomini, ma anche di donne e bambini. Una tomba di clan. Una tomba che, a distanza di millenni, ancora riusciva ad esprimere la forza e la potenza di un gruppo di uomini. Scavalcò i lastroni laterali per entrarvi. Non appena vi fu dentro gli parve che la terra sotto di lui si muovesse… era forse un capogiro? No, la terra aveva preso davvero ad ondeggiare! Era come il … mare… un mare di terra! Ad un certo punto la costruzione di pietra iniziò a sollevarsi su quelle strane onde e lui ne era come il nocchiero in tolda!

La prua appuntita prese a muoversi verso una direzione precisa: si stava dirigendo a nord-ovest, verso la terra delle lunghe Ombre eterne.

Fu così che Lythicus, senza neppure rendersene conto, si ritrovò oltre il tempo e lo Spazio al cospetto di re Aeternum che, felice, lo accolse e gli riservò tutti i massimi onori. Lythicus aveva salvato Akronos dall’autodistruzione! Aveva restituito la Memoria ai suoi abitanti. Lythicus, da quel momento, detto “il Grande”.

E ad Aosta? Nessuno quella mattina si accorse di nulla. Tutto si era svolto come se non avesse occupato altro che lo spazio di un sogno. Un sogno di cui al risveglio tutti in città si erano già dimenticati. La sede dell’area megalitica brillava al sole e, nonostante fosse ancora mattina presto, si stava formando una lunga coda all’ingresso. La fama di quel sito si era diffusa; dopo un primo momento di difficoltà e di incomprensione ora veniva gente da ogni parte per visitare quel luogo così insolito.

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Si conclude così il viaggio appassionante di Lythicus (e nostro) alla scoperta di questa complessa area megalitica ritornando, a ragion veduta, sul continuo rincorrersi di vita e morte, riassunto alla perfezione dalla nitida eternità della pietra che qui domina incontrastata. Vita e morte che ritornano nell’archetipica figura di San Martino, qui venerato santo eponimo del quartiere, portatore di luce e combattente delle tenebre.

La profezia si è avverata. Gli uomini hanno ritrovato memoria ed identità perdendo le loro cupe paure e la loro ritrosia.

E voi, non vi va di provare l’emozione di un viaggio da Preistonauti in quel luogo dalle grandi pietre dove un sol giorno può durare millenni?

Stella

 

 

 

 

 

Castello di Graines. La bambina, il cavaliere e la matita incantata

Caterina aveva otto anni. Abitava in un grazioso villaggio in alta Val d’Ayas, ai piedi di montagne mozzafiato, tra prati e boschi. Caterina amava molto andare a scuola e adorava disegnare. Ogni attimo di tempo libero prendeva un foglio, le sue matite e iniziava a volare con la fantasia. La nonna le raccontava spesso storie e leggende e lei si divertiva a fantasticare su quelle streghe, quei diavoli, i folletti, i principi, i draghi… non avrebbe mai smesso!

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Le piaceva immaginare come sarebbe stato vivere in un castello, indossando vestiti eleganti e sontuosi, innamorata di un principe bellissimo e coraggioso!

I suoi genitori, però, lavoravano duro; non era semplice mandare avanti la stalla, seguire il bestiame, i campi, la produzione di burro e formaggi… E lei, la maggiore di quattro figli, doveva saper fare un po’ di tutto, studiare e naturalmente badare ai tre fratellini. Che stanchezza! Ecco che il disegno, per il quale oltretutto era molto dotata, era la sua unica valvola di sfogo. Doveva solo stare attenta a non perdere la cognizione del tempo, altrimenti suo papà la richiamava all’ordine con modi, diciamo, bruschi…

Un pomeriggio, infatti, il papà le aveva detto di scendere in paese per alcune commissioni, tra cui andare dal calzolaio a far riparare le scarpe invernali.

Lei era andata ma… il calzolaio le aveva detto che ci sarebbe stata un’oretta da aspettare e così… beh… Caterina si era messa a girovagare nei dintorni, poi si era seduta su una panchina e aveva iniziato a passare il tempo nel modo a lei più congeniale: disegnando!

Una, due, tre ore erano passate e ormai era quasi buio! Solo in quel momento Caterina si rese conto del pazzesco ritardo che aveva accumulato! Si precipitò alla bottega del calzolaio, ma era già chiusa! Corse più veloce che poteva per tornare a casa e, quando aprì la porta, fu accolta dai suoi genitori preoccupati e arrabbiatissimi; con loro c’era anche il calzolaio che, non vedendola tornare, pensava fosse a casa.

“Ora basta, Caterina!!”, urlò il padre, “stai davvero esagerando! Ne ho abbastanza dei tuoi disegni e della tua perenne distrazione! Ma quando imparerai a stare coi piedi per terra?!” e, detto questo, le prese dallo zaino fogli e matite e glieli lanciò nella stufa; “e per un bel pezzo, stanne certa, di matite e roba simile non se ne parla!”, tuonò infine il papà.

Trascorsero alcuni giorni, ma Caterina, pur obbedendo in silenzio ai genitori, non era più la stessa; aveva perso il sorriso, non aveva più voglia né di parlare né di mangiare.

Una sera in cui era più triste del solito, andò a letto prestissimo e crollò sfinita in un sonno profondo.

“Ehi, ehi, Caterina! Caterina mi senti? Sono qui, in fondo al tuo letto!”.

La bambina aprì gli occhi e… ai suoi piedi era seduto un nano! Ma certo, era proprio un nano! Piccolino e cicciottello con una lunga barba bionda, due occhietti verdi vispi e furbi e ai piedi uno splendido paio di sabots d’oro!

”Sei triste, vero, Caterina? Eh, io lo so perché!”, disse il nano avvicinandosi; “guarda, so come aiutarti. Lascio sotto il tuo letto una sacca: domattina aprila e vedrai! Stai serena, piccola! E non smettere di credere ai tuoi sogni!”.

La mattina seguente, di buon’ora, Caterina si svegliò; si sentiva strana, quasi non riuscisse a svegliarsi del tutto… “Che strano sogno che ho fatto!”, pensò, “chissà se c’è davvero qualcosa sotto il letto!”.

Caterina si chinò e… un sacchetto di velluto verde giaceva in attesa che lei lo trovasse.

“Allora era vero! Cosa ci sarà qui dentro?”; la bimba aprì freneticamente il sacchetto e vi trovò … “Una matita!!”. Sì, dentro c’era una matita, una sola, più lunga e più spessa delle normali matite, tutta dorata. La mina era davvero spettacolare: aveva dentro tutti i colori dell’arcobaleno! “Wow! Che meraviglia! Voglio provarla subito!”.

Caterina prese allora un pezzo di carta e vi disegnò un gattino. Il gattino risultò di colore arancio, come se quella matita sapesse a quale colore lei stesse pensando…

Si voltò un attimo e “Miao miao…!!”, Caterina vide con grande stupore che il micio era vero! Era uscito dal foglio e aveva preso vita: “Oddio! Ma è una matita magica! Non ci posso credere!”.

Provò a disegnare un vaso di fiori e dopo alcuni istanti esattamente quel vaso coi colori cui lei pensava faceva bella mostra di sé sul davanzale della finestra.

Caterina era fuori di sé dalla felicità ma sapeva che doveva tenere tutto nascosto, altrimenti sarebbe stato un bel guaio!

Da quel giorno ogni momento di solitudine era buono per disegnare ciò che desiderava: cagnolini, farfalle, bambole, ma anche vestiti, scarpe, torte e biscotti!

Tutto però veniva accuratamente nascosto: guai se i suoi genitori l’avessero scoperta! E guai se la notizia si fosse diffusa…

Un giorno, però, mentre guardava le mucche al pascolo, venne allarmata dall’abbaiare del cane: un vitello era scivolato in un dirupo e si era ferito.

Caterina fu assalita dal panico: cosa poteva fare’ Lassù non c’era nessuno!

Decise di provare a disegnare una lunga corda annodata attorno al vitello e agganciata ad una carrucola. Funzionò! Il marchingegno si materializzò e il povero animale fu in salvo! Però aveva una zampa rotta… Solito sistema: disegnò il vitello con tutte e quattro le zampe sane: il risultato non tardò ad arrivare!

“Per fortuna non mi ha visto nessuno!”, sospirò la bambina, ma… qualcuno invece aveva assistito alla scena!

Sulla via di ritorno Caterina incontrò una vecchietta: era disperata!

“Oh povera me… povera me… sono disperata! Chi mai potrà aiutarmi? Oh che sciagura! Sono rovinata!”

Caterina si fermò e le chiese cosa fosse accaduto.

“Sono una sarta. Avevo ricevuto ordini importanti! Avevo finito ieri di confezionare abiti meravigliosi… E’ scoppiato un terribile incendio e ho perso tutto! Come faccio?! Sono rovinata!”.

Caterina ci pensò un po’ su e, buona com’era, offrì il suo aiuto alla nonnina. “Tu?! Aiutarmi? Ma sei solo una bambina… come puoi aiutarmi?”, disse la vecchietta.

“Non preoccuparti. Domattina verrò qui e tu mi accompagnerai a casa tua dove si trovava il tuo laboratorio”.

Il giorno dopo le due, come d’accordo, si incontrarono all’incrocio del vecchio noce e la vecchina accompagnò Caterina a casa sua. Cammina, cammina… non si arrivava mai!

“Ma, scusi signora, è ancora molto lontano?” chiese la bimba iniziando a preoccuparsi.

“No. No… forza! Sei giovane! Cosa dovrei dire io allora?!”.

Un’ultima ripida salita e giunsero su un altipiano arido e roccioso; tutt’intorno le rovine di quello che doveva essere stato un grande edificio… “E’ questa casa tua?” chiese dubbiosa Caterina; “sembrano rovine molto antiche e non vedo traccia di incendi recenti… dove siamo?!”.

La vecchietta, che le dava le spalle, improvvisamente aprì le braccia e si voltò: un violento turbine nero la avvolse, il suo viso si trasformò in una maschera diabolica con gli occhi rossi e la donna divenne altissima, circondata da nuvole nere e fiamme. Una risata raggelante riempì la vallata.

“Sciocca bambina! Sono la potente strega del lago di Villa! Per secoli ho dovuto nascondermi in fondo alle scure acque del lago, privata del mio castello! Ma ti ho vista! Ho visto il potere della tua matita magica! E ora quella matita sarà mia per sempre! E potrò riavere il mio castello e tornare a dominare incontrastata la valle! Come nei secoli passati prima che arrivasse quel dannato cavaliere che mi ha relegata nel lago!”.

Il lago di Villa (Comune di Challand-Saint-Victor))
Il lago di Villa (Comune di Challand-Saint-Victor))

In men che non si dica la strega fu addosso a Caterina e, immobilizzatala con un incantesimo, le rubò il sacchetto con la preziosa matita.

Caterina non poteva muoversi né urlare. La strega prese la matita e iniziò a disegnare il suo castello, solo che … non ne era capace! Proprio così, lei non aveva il dono di Caterina e i disegni non restavano sul foglio: dalla matita uscivano solo righe nere e brutte chiazze disordinate.

Il castello di Villa (comune di Challand-Saint-Victor)
Il castello di Villa (comune di Challand-Saint-Victor)

“Maledizione!”, urlò la vecchia furiosa, “Che magia è mai questa?! Ma non importa: ora tu disegnerai per me! Obbedisci! Altrimenti ti trasformo in una rana e ti caccio in fondo al lago!”.

Ma Caterina era molto intelligente e non priva di furbizia. Iniziò a disegnare ma chiese alla strega di non guardare, altrimenti la matita non avrebbe funzionato. E così, avendo ascoltato con attenzione la storia della strega, anziché disegnare il castello, iniziò a delineare sul foglio il profilo di un prode cavaliere.

Fu così che, non appena ebbe finito, in lontananza si udì un nitrito e all’orizzonte apparve lui, il prode cavaliere.

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“Maledetta ragazzina! Mi hai ingannata!” urlò la vecchia tentando di trasformarla in una rana. Ma i suoi gesti erano disordinati e frettolosi e così non fece altro che trasformare pietre e cespugli in rospi gracidanti.

Nel frattempo giunse il cavaliere che, rapidamente, mise davanti alla strega uno specchio: in questo modo lei stessa fu vittima della sua magia. Tornò ad essere rana e venne scagliata, stavolta per sempre, in un gorgo sul fondo del lago di Villa.

“Complimenti Caterina! Sei stata davvero coraggiosa!”, disse il cavaliere, “per ricompensarti vorrei aiutarti ad esaudire il tuo grande sogno. Non vorresti forse un castello tutto tuo? Un castello disegnato da te’”.

“Oh, certo! Sarebbe bellissimo, ma… dove? Io… come faccio?”, chiese ancora confusa la piccola.

“Non preoccuparti! Vieni, dai, salta sul mio destriero. Ti accompagnerò nel luogo migliore dove, vedrai, abita un amico che già conosci!”.

Stretta al cavaliere Caterina si godette quella fantastica cavalcata; le sembrava di volare sui prati, di accarezzare le chiome degli alberi, di riuscire ad afferrare il vento e toccare il sole.

Giunsero quindi su una collina, un’altura che dominava tutte le vie che, provenendo dai colli intorno, si congiungevano nel fondovalle non lontano dal villaggio di Brusson.

Scesa da cavallo la bimba si guardò attorno: che posto magnifico! Poi guardò nuovamente il cavaliere e si accorse di un particolare: “Ops, ma il tuo mantello è tagliato! E’ stata la strega?”.

“No, piccola”, sorrise il cavaliere, “è così da molti molti secoli; io stesso lo tagliai dividendolo a metà per aiutare un mendicante a riscaldarsi. Io mi chiamo Martino e ho attraversato più volte l’intera Europa per liberare le terre da demoni e streghe. Questo luogo è strategico, da qui si può controllare l’intera vallata: un castello serve proprio!”.

“Ehi voi due! Ci sono anch’io, eh?! Questa collina è casa mia!”; il nano! Ma certo! Era proprio il nano dagli zoccoli d’oro che aveva regalato la matita magica a Caterina!

“Le leggende narrano che qui sotto vi sia un immenso tesoro… in realtà è casa mia! E da qui, da un punto segreto che conosco solo io, si può accedere alle nostre straordinarie miniere d’oro!”, spiegò il nano. “Mi chiamo Greno! Piacere di rivedervi!”.

“Bene”, riprese il cavaliere Martino, “disegna ora il tuo castello, Caterina!”.

La bimba lasciò correre la sua fantasia e la matita fece il resto. Ecco che intorno a loro presero forma alte mura merlate, edifici, una cappella. Il punto più alto restò vuoto.

“Quassù, esattamente sopra l’ingresso della mia dimora sotterranea, devi piantare la tua matita”, disse Greno, “come fosse un albero!”.

Caterina lo fece, ma pareva non succedere nulla.

“Non avere fretta, piccola”, la rassicurò il cavaliere, “ora vai a casa. Questa notte resterò io qui a sorvegliare. Domattina avrai il tuo castello! Abbi fiducia!”.

Greno fece tre salti sbattendo gli zoccoli e, in un battibaleno, Caterina si ritrovò nel suo letto… ma com’era possibile?

“Sei ancora sveglia?”, chiese sua mamma aprendo la porta, “forza, dormi, che domattina dobbiamo partire presto per il mercato!”.

Sfinita da una giornata incredibile, Caterina sprofondò in un sonno pesantissimo, Quando si svegliò era ormai l’alba e sentiva i suoi genitori che trafficavano tra la cucina e la stalla.

Il castello di Graines (Foto: Enrico Romanzi)
Il castello di Graines (Foto: Enrico Romanzi)

“Caterina, ti abbiamo lasciato il latte sul tavolo! Sbrigati a far colazione!”, disse il padre. Caterina andò in cucina, si sedette e mentre sorseggiava il suo latte, il suo sguardo fu attratto da un libro che non aveva ancora visto. Parlava dei castelli della Valle d’Aosta. Lo sfogliò curiosa e, fatalmente, il libro si aprì sul “Castello di Graines”… era il suo! Come segnalibro, una luccicante matita dorata…

Stella

Un omaggio non solo all’affascinante castello di Graines ma all’intera Val d’Ayas in questo mio racconto.

La bimba si chiama Caterina in ricordo dell’impavida Caterina di Challant che qui si asserragliò in occasione della guerra contro il cugino Giacomo.

Il nano si chiama Greno, come appunto il villaggio di Graines. Un nano, leggendario custode e abitante delle miniere  d’oro di cui questa vallata è ricca.

San Martino, cavaliere, soldato dell’impero romano il cui Cammino, di valenza europea alla stregua della Via Francigena, attraversa la nostra regione e il cui culto è assai diffuso in Valle d’Aosta. Uno dei luoghi emblematici è appunto la cappella castrense di Graines (castrum Sancti Martini).

Ammantato di magia il non lontano castello di Villa, culla d’origine della famiglia Challant, le cui rovine dominano dall’alto lo splendido Lago di Villa, Riserva naturale protetta.

Buona lettura a tutti!

 

 

Il Castello di Aymavilles. La sabbia magica

Molti anni fa una famigliola giunse nel villaggio di Amavilla, un grazioso borgo allo sbocco della valle di Cogne. La famigliola giungeva da un paese molto lontano e il viaggio era stato assai lungo. Non fu facile inserirsi, soprattutto per la lingua diversa e le altrettanto differenti abitudini.

Il piccolo Paolo aveva 7 anni e ancora non si era fatto nuovi amici. Timido e riservato faceva fatica ad adeguarsi a tutte quelle novità. Il papà e la mamma erano sempre impegnati al lavoro e lui si annoiava parecchio.

Un giorno in cui era più annoiato del solito decise di esplorare da solo quel nuovo paese; prima girovagò per le strade e per i vicoli del villaggio, poi iniziò ad allontanarsi sempre di più, sempre di più, finché non si trovò in un luogo stranissimo. Ripide pareti di roccia color argento facevano capolino qua e là nel mezzo di una fitta vegetazione: alberi e cespugli stavano piano piano ricoprendo un luogo incredibile: “Cavoli, sembra pietra lunare!”, esclamò stupito il bambino.

Aymavilles. Le cave di marmo abbandonate (da Wikipedia)
Aymavilles. Le cave di marmo abbandonate (da Wikipedia)

Intorno a lui scopriva blocchi di pietra dalle forme geometriche, alcuni spaccati altri ancora integri, con un colore grigio-azzurro quasi brillante. Paolo si perse ad esplorare quel posto così strano e non si accorse che presto si fece buio.

“Oh no… e adesso?! Come faccio a tornare a casa?!”. Il bimbo provè a tornare sui propri passi ma inciampò e proprio in quel momento si alzò un turbine di vento che gli fece entrare della sabbia negli occhi: “Ah! Che male! Non vedo più niente!”. Paolo provò a strofinare gli occhi, ma più lo faceva e più la sabbia penetrava. Incominciò a piangere e a chiamare il suo papà, gridando aiuto. Ma più piangeva e più la sabbia si cementava incollandosi alle ciglia finché formò un tappo sui suoi occhi.

Stremato dalla paura e dal freddo, dopo alcune ore Paolo crollò addormentato.

I suoi genitori, angosciati, lo avevano cercato tutta la notte ma non si erano spinti fin lassù; riuscirono a ritrovarlo solo al mattino. Paolo era vivo, ma i suoi occhi non si aprivano. Neppure il dottore sapeva cosa fare. E più Paolo piangeva, più il terribile tappo di sabbia si inspessiva.

Passarono alcuni giorni finché nel villaggio iniziò a circolare la voce che il conte stava tornando dal suo ennesimo viaggio. Era il nobile conte Vittorio, colto e raffinato proprietario di quelle terre.

Giunto in paese si informò sulle eventuali novità accadute in sua assenza ed un servitore gli parlò della povera famigliola di stranieri che viveva in una contrada isolata tra i boschi; gli disse anche del bimbo e della strana malattia agli occhi che lo aveva colpito dopo essersi smarrito nella vecchia cava di marmo abbandonata.

Il conte era noto per la sua estrema curiosità e per le sue incredibili conoscenze che spaziavano dalla storia alla geografia, dall’arte alla geologia, dalla filosofia alle scienze. La sua dimora infatti, dove quasi nessuno aveva mai potuto mettere piede se non espressamente invitato, si diceva fosse uno straordinario museo di bellezze e preziose rarità che lui raccoglieva in giro per il mondo in occasione dei suoi numerosi viaggi.

Il conte Vittorio Cacherano Osasco della Rocca Challant (da Wikipedia)
Il conte Vittorio Cacherano Osasco della Rocca Challant (da Wikipedia)

E fu così che il conte Vittorio si fece accompagnare a casa del piccolo Paolo. I due affranti genitori rimasero letteralmente senza parole ma una fiammella di speranza riaccese i loro cuori.

“Ebbene, ditemi, dov’è il piccolo? Posso vederlo?”, chiese il conte. Giunto vicino al letto di Paolo, si sedette, e lo guardò a lungo. Poi lo svegliò: “ Paolo, posso raccontarti la storia dei miei viaggi?”. Il bambino rimase meravigliato: finalmente qualcuno che non veniva lì per piangere e compatirlo. Finalmente qualcuno che cercava di distrarlo e farlo divertire, di farlo sognare!

“Oh sì, per favore! Ma … chi sei?”. “Sono un uomo che viaggia molto e che ha sempre voglia di conoscere il mondo, con tutte le sue differenze e curiosità”.

E il conte iniziò così a raccontare. Il viaggio in giro per l’Europa, i misteriosi manieri inglesi, le immense cattedrali francesi, i villaggi della verde Germania… E poi ancora le assolate lande spagnole, lo sfarzo di Madrid, la magia di Siviglia, e poi verso ovest, fino in Portogallo, fino alle colonne d’Ercole, fino all’infinito spumeggiante oceano. E ancora la Grecia, terra del mito, dove ogni albero e ogni pietra sprigionano il fascino senza tempo di una storia antichissima. L’Egitto, terra magica e affascinante, con le sue piramidi e le enigmatiche sfingi metà uomo e metà leone. E le Indie dai mille colori, profumate di spezie. E l’Oriente coi suoi straordinari alberi di pesco, i giardini curati come gioielli, quasi cesellati, dove le donne sembrano delicate bambole di porcellana…

Paolo non credeva alle sue orecchie, totalmente rapito dai racconti del nobile Vittorio, stava viaggiando con la fantasia e gli sembrava di vedere davvero tutti quei luoghi lontani. Aveva smesso di piangere, anzi, rideva.

E avvenne che, come per miracolo, rise talmente tanto che il tappo di sabbia si spaccò e cadde: Paolo vedeva di nuovo!

La felicità generale era indescrivibile; il conte aveva salvato il piccolo.

Uscendo disse: “Paolo, ora rimettiti del tutto. Tra una settimana manderò un mio servitore a prenderti: sei mio gradito ospite! A presto”.

Paolo iniziò un entusiasta conto alla rovescia; chissà che palazzo incredibile aveva il conte! Non stava più nella pelle!

E il giorno tanto atteso giunse: il servitore del conte fece salire il bimbo su una meravigliosa carrozza condotta da una coppia di magnifici cavalli bianchi dai nomi decisamente insoliti: Aimone e Amedeo.

“Eccoci piccolo, siamo arrivati!”.

Paolo scese e con suo grande stupore si trovò…nel nulla! Ebbene sì, era in cima ad una collina affacciata sul fiume e circondata di giardini e vigneti. Un posto senza dubbio molto bello, ma… il palazzo dov’era?!

“Benvenuto caro Paolo! Sono felice che tu sia qui!”. La voce ferma del conte rimbombò alle sue spalle. Paolo stava per fargli mille domande, ma il conte lo fermò immediatamente: “Non chiedermi nulla, Paolo. Fa quel che ti dico. Tieni, ti do un secchiello e una piccola pala. Vicino a me c’è della sabbia. Costruiscimi un castello, per favore, come piacerebbe a te!”.

Paolo non capèiva, ma sentiva che quel gioco avrebbe riservato una sorpresa! Riempì il suo secchiello pèiù volte, pressando bene la sabbia umida e realizzò quattro belle torri tonde. Poi le unì tra loro per creare un edificio che, infine, circondò con una cinta di difesa e un fossato.

“Ecco! Ho finito!”, esclamò Paolo soddisfatto.

“Mmmhh…direi un ottimo lavoro, Paolo! Solido ed elegante allo stesso tempo! Ora apri questa scatola: c’è un regalo per te!”.

“Un regalo?!! Wow!”, Paolo scartò il pacco con frenesia, pieno di entusiasmo. “Cos’è, un cannocchiale?”, chiese disorientato.

Il caleidoscopio
Il caleidoscopio

“Più o meno. Si usa come un cannocchiale, ma…guarda dentro!”.

Paolo avvicinò l’occhio a quel tubo leggero e colorato e… davanti a lui esplosero incredibili giochi di colori scintillanti dalle forme più diverse! “E’ un caleidoscopio”, disse il conte, “fa vedere ciò che di norma non si vede…fa sognare e volare con la fantasia. Ma su, non smettere; continua a girarlo e vedrai ancora più cose!”.

Paolo girava quel sorprendente caleidoscopio e ad un certo punto i colori lasciarono il posto ad immagini di luoghi incredibili, paesaggi ed edifici che sembravano usciti dal mondo delle fiabe.

“Ora guardati intorno”, disse il conte.

E fu così che Paolo si ritrovò ai piedi di un bianco edificio con quattro possenti torri agli angoli; una monumentale scalinata di marmo lucente conduceva ad un portone tutto decorato. “Vieni, seguimi!” lo spronò il nobile Vittorio. Una volta entrato Paolo credette di essere arrivato nel paese dei suoi sogni: intorno a lui ogni parete, ogni stanza, raccontava di un luogo, di un viaggio…

Un castello "caleidoscopico" da scoprire (collage di foto di Stella Bertarione)
Un castello “caleidoscopico” da scoprire (collage di foto di Stella Bertarione)

Tutte le stanze erano diverse tra loro dando l’impressione di essere non solo in un altro paese, ma anche in un altro tempo con atmosfere antiche o di epoca medievale. E ovunque erano esposte le mille e mille rarità collezionate dal conte. Il bimbo era rimasto senza fiato e non avrebbe mai più voluto uscire da lì!

“Hai visto cosa si può fare con la sabbia, Paolo? L’importante è che sia sabbia magica; ma la vera magia che serve è quella dei nostri sogni! Benvenuto quindi nel mio palazzo, il magico castello di Aymavilles!”.

Stella

Ringrazio di cuore l’amico Enrico Romanzi per la bella immagine di copertina. Per il piccolo Paolo mi sono ispirata al figlio di nostri cari amici che abitano proprio ad Aymavilles.

I due destrieri che tirano la carrozza del conte portano i nomi dei due esponenti di casa Challant che hanno fatto sì che il castello acquisisse l’aspetto così particolare che conserva ancora oggi nonostante alcuni rimaneggiamenti successivi.

Castello di Cly. Il sortilegio delle tre lune

Il tempo scorreva lento nella valle della Dora, scandito dal ritmo delle stagioni e dei lavori nei campi. Dal fondovalle, il maniero dei ricchissimi signori di Cly si vedeva assai bene. Sin da lontano si scorgeva la sagoma della possente torre quadrangolare costruita direttamente nella roccia.

Nobile famiglia di uomini d’arme quella dei Cly, ramo collaterale dei potenti Visconti di Aosta, il cui feudo si estendeva a cavallo del Cervino prolungandosi fino al di là delle montagne in terra straniera. Un feudo incredibilmente vasto e decisamente strategico per il controllo di vie commerciali all’epoca molto frequentate; vie che riuscivano a passare attraverso colli e ghiacciai in punti che oggi non esistono forse nemmeno più.

Per decenni i signori di Cly si erano mostrati benevoli verso i loro sudditi, garantendo loro protezione e non facendo mai mancare cibo e lavoro. Ma fu con l’arrivo di Bonifacio che la situazione iniziò a peggiorare: avido e meschino, Bonifacio non si faceva scrupoli e non provava compassione per nessuno. Il tutto precipitò tragicamente quando il potere finì nelle mani di suo figlio Pietro, tanto bello quanto crudele.

Era un giovane uomo di sfolgorante bellezza: alto, muscoloso, capelli neri come la notte e occhi di un verde “raggelante”. Occhi capaci di far crollare chi lo fronteggiava, capaci di incutere timore, incapaci della minima pietà. Occhi di serpente: ipnotici e letali.

Erano dunque anni turbolenti, segnati dalla prepotenza e dalla collera di Pietro di Cly, che con la sua incredibile arroganza non si fermava di fronte a nulla, non riconosceva alcuna autorità se non la sua e percorreva i suoi possedimenti seminando panico e devastazione. Dopo aver sperperato rapidamente l’eredità paterna in giostre, tornei e feste solo per esibire la sua ricchezza e la sua prestanza fisica, aveva iniziato a razziare i villaggi, taglieggiare i viaggiatori e le carovane di mercanti, persino a sequestrare uomini importanti chiedendo cospicui riscatti, circondandosi di delinquenti e criminali ai quali offriva protezione.

Un giorno durante una delle sue abituali scorrerie, raggiunse una casupola isolata che, si diceva, fosse abitata da un’anziana sola, da molti ritenuta una saggia veggente, da altri considerata in odore di stregoneria. Persino i suoi malavitosi compagni avevano un certo timore ad avvicinarvisi.

Il Castello di Cly (Foto di Emi Dattolo-LYTD11)
Il Castello di Cly (Foto di Emi Dattolo-LYTD11)

“Femminucce! Ecco cosa siete! Vili conigli! E io che vi dò pure da mangiare! Avete paura di una nonnetta dunque? Venite con me o giuro che stasera le vostre teste rotoleranno giù dalla torre! Codardi che non siete altro!”.

Giunsero quindi davanti a questa povera casa. La porta era socchiusa, le galline razzolavano nell’aia e un gattone scuro sonnecchiava sul davanzale della finestra. Pietro scese da cavallo e per primo si fiondò all’interno. La stanza era nella penombra e sul fuoco c’era un grande calderone al cui interno ribolliva una zuppa. “Che puzza! Per Giuda, vecchia, ma cosa mangi! E rovesciò il pentolone a terra con stizza.

L’anziana sedeva placida in un angolo scuro e non sembrava affatto scossa o spaventata- “E quindi così vuoi dimostrare la tua forza, Pietro di Cly, al pari di un monellaccio di strada!”, sibilò l’anziana guardando a terra senza smettere di lavorare la lana.

“Ma come osi parlarmi così vecchia strega?! Pagherai con la vita la tua sfrontatezza! Anzi, mi seguirai trascinata dal mio cavallo, ti rinchiuderò nelle oscure segrete del mio castello e darò fuoco a questo porcile che tu chiami casa! E guardami quando ti parlo!!” gridò il feroce signore.

Pietro si avventò sulla donna e le strinse la gola. Lei allora alzò lo sguardo su di lui, ferma e immobile come fosse di pietra. in quel momento Pietro rimase bloccato da quegli occhi: uno nerissimo e uno di un celeste chiarissimo, quasi bianco.”

“Che tu sia maledetto, Pietro di Cly! Ecco la mia condanna: l’eterna vecchiaia, l’eterna infermità, e peggio ancora, l’eterna solitudine e l’eterna indifferenza! Questo patirai in eterno; non morirai perché sarebbe la fine delle tue sofferenze! Non ci sarà più nessuno con te! E non avrai neppure bisogno di sfamarti. Vivrai, o meglio, sopravvivrai a te stesso … e basta! Potrai salvarti solo se capiterà una notte con tre lune!”.

Pietro tentò di reagire con una risata sguaiata e incontrollata e strinse più forte che poteva il collo dell’anziana, ma… lei non c’era già più! Improvvisamente la casupola era fredda e vuota; il camino era spento e lui era improvvisamente solo! Chiamò i suoi uomini, ma nessuno rispose. Uscì: solo il vento e la neve. Improvvisamente l’estate era sparita per lasciare il posto al gelo e al silenzio. Anche il suo cavallo era scomparso. Solo il gatto era rimasto al suo posto. Pietro tentò di sfogare la sua ira su di lui ma il felino lo fissò con un tremendo paio di occhi: uno nero e uno celeste. Gli soffiò inferocito e scomparve nella nebbia.

Passarono mesi, anni, decenni. I villaggi intorno al castello erano andati spopolandosi. I campi erano incolti e le foreste si stavano riappropriando del paesaggio. Il castello di Cly si ergeva sul promontorio roccioso circondato da un fitto labirinto di alberi contorti, rovi e sterpaglie. Le mura erano ormai cadenti, i merli si stavano sgretolando e l’antica cappella era semi-diroccata. Non si udiva un suono né si vedeva anima viva. Il silenzio avvolgeva quello scenario spettrale con quell’unica grande torre a dominare su una landa sferzata da un vento che non conosceva fine.

Il Castello di Cly (Foto di Emi Dattolo-LYTD11)
Il Castello di Cly (Foto di Emi Dattolo.LYTD11)

Solo durante la notte, si raccontava nelle osterie del fondovalle, si poteva scorgere una sagoma ingobbita muoversi lentamente con una lucerna dietro le finestre del piano nobile.

Fu con grande stupore che i pochi contadini rimasti accolsero un mese di novembre insolitamente mite e straordinariamente senza vento. Un volgere d’autunno così non si vedeva da molti anni!

Una sera, sul far del tramonto, Denise raggiunse il minuscolo gruppo di case abitate. Stava compiendo un lungo viaggio. Giungeva da nord ed era diretta nella città più importante della valle, Aosta. Era quasi buio e decise di fermarsi; bussò ad una porta e una bimba venne ad aprirle. “Chi sei? Mamma! Vieni!”.

“Ciao piccola, mi chiamo Denise, Sono in viaggio da molto tempo. E’ quasi notte e sono stanca e infreddolita. Posso fermarmi da voi per favore? Non darò disturbo, mi basta una stuoia a terra vicino alla stufa”.

La bimba la fissava sorridente e fu solo quando la luce la illuminò che Denise notò il diverso colore dei suoi occhi: uno nero e l’altro celeste.

“Entra pure, straniera, che tu sia la benvenuta. Non abbiamo molto, ma un tozzo di pane e del formaggio spero possano bastare. Mi scuso ma non potrò dedicarti molto tempo perché il mio piccolo giace a letto molto malato! Da oltre una settimana non riusciamo ad abbassargli la febbre… non so se ce la farà e l’unico medico della vallata non viene qui da noi perché non possiamo pagarlo!”. La giovane madre era disperata e Denise ebbe l’istinto di abbracciarla: “Non temere! Cercherò di fare io qualcosa. Sono un’erborista e so guarire le persone con la sapienza degli antenati. Se hai fiducia in me, vedrai che andrà tutto bene!”.

La donna restò affascinata da quella ragazza forestiera dai lunghi capelli biondi e ricci e dal largo sorriso. Aveva il viso buono e sentì che poteva affidarle il suo bimbo.

Denise gli andò vicino, lo toccò sul viso, sul collo e sul petto. Si mise una mano sul cuore e recitò alcune preghiere nella sua lingua sconosciuta. Poi aprì la sua borsa e ne estrasse alcuni preparati che diede al piccolo. La mattina seguente la febbre era passata!

La donna gridò al miracolo e presto la notizia si diffuse nella valle. Un numero crescente di persone giungeva in cerca di Denise, la guaritrice venuta da Nord.

Fu dopo una decina di giorni che Denise, incuriosita dal castello che vedeva in lontananza, iniziò a chiedere informazioni su chi lo abitasse. Nessuno voleva o riusciva a darle una risposta soddisfacente. Una sera, però, venne inaspettatamente avvicinata dalla bimba dagli occhi bicolori: “Sei curiosa, vero? Scommetto che nessuno ti ha raccontato del misterioso signore di Cly e del sortilegio delle tre lune!”.

Denise la guardò sbalordita:”Misterioso signore? Sortilegio? Ma tu come sai queste cose? Raccontami, ti prego…”.

“Mia nonna mi ha raccontato di questo signore feroce e cattivo che venne punito da una nostra antenata, una vecchia saggia che lui aveva aggredito senza ragione. Quel signore era giovane, forte e straordinariamente bello. Fu condannato a vivere per sempre vecchio, malato e solo, nell’indifferenza generale”, spiegò la bimba.

“Vecchio, solo e malato… per sempre”, commentò Denise, “Ma cosa c’entrano le tre lune?”.

“Il perfido signore potrà guarire soltanto nella notte delle tre lune!”, le rispose la bimba.

“Tre lune, ma è impossibile! Tutte e tre insieme nel cielo?”. “Il sortilegio non parla del cielo, solo di tre lune insieme… Scusa ma ora è tardi, vado a dormire”.

Denise avrebbe voluto saperne molto di più; rimase lì, fuori, a guardare la notte e con la mente affollata da mille domande.

A lungo meditò su quanto la strana bimba dagli occhi diversi le aveva raccontato. Pensò e ripensò, cercando tra le sue conoscenze in campo erboristico se esistesse qualche arcano rimedio, qualcosa capace di guarire il signore, qualcosa che potesse far comparire contemporaneamente tre lune.

E fu così che una notte di dicembre, quella che precedeva la festa dell’Immacolata, dopo aver visto sul lunario che ci sarebbe stata luna piena, Denise si armò di coraggio e si diresse verso l’oscuro maniero intenzionata a capire e a rompere il sortilegio. Solo così, ne era sicura, quelle terre sarebbero tornate a rifiorire e i suoi abitanti a lavorare e a vivere meglio.

La luce della luna la guidò attraverso la cortina di rovi e rami nodosi facendole individuare un pertugio, una piccola breccia nel muro di cinta. Una volta entrata nel cortile del castello fu colpita da raffiche di vento gelido, il terreno era ghiacciato e il buio avvolgeva ogni cosa. Solo una luce, tremula e fioca, si muoveva dietro una finestra del piano nobile. Denise aguzzò la vista e riconobbe una sagoma malferma e gobba, quindi udì, portati dal vento, pianti e lamenti.

Raggiunse il punto più alto e aperto del cortile e si inginocchiò; si mise una mano sul cuore, come faceva di solito, e iniziò a recitare le sue preghiere. Come per magia la grande luna piena apparve nuovamente forando il buio pesto che avvolgeva il castello. Denise estrasse dal suo borsone un catino e vi versò dell’acqua benedetta. Quando la luna arrivò a specchiarsi nel catino riflettendo la sua immagine, Denise gettò nell’acqua una tonda perla di vischio, la pianta sacra capace di ridare forza e vigore, la pianta che i suoi avi ritenevano in grado di dare l’immortalità.

Ecco che così tre lune apparvero insieme: quella nel cielo, la sua immagine riflessa e la perla di vischio.

Una nebbia scese improvvisamente, densissima, e avvolse ogni cosa. Improvvisamente Denise avvertì una presenza accanto a sé e si sentì sfiorare il braccio: era la bimba dagli occhi diversi: “Brava! Davvero… dopo decenni sei l’unica ad aver sciolto il sortilegio. Questa terra tornerà a fiorire, sotto la protezione del vischio e delle tre lune. Le tue conoscenze e la tua intelligenza hanno trovato la formula giusta!

Ah, io mi chiamo Evenzia. Se vorrai trovarmi sali al colle che domina il villaggio là dove si passa per raggiungere le terre della grande montagna appuntita. E’ lì che viveva mia nonna”.

E, trasformatasi in un gatto scuro con un occhio nero ed uno celeste, svanì nel nulla.

Il castello di Cly dopo un temporale (Foto: Leonardo Acerbi)
Il castello di Cly dopo un temporale (Foto: Leonardo Acerbi)

Col gatto svanì anche la nebbia e Denise si ritrovò nella piazza d’armi del castello, circondata da soldati. I vessilli e i gonfaloni dei Cly si gonfiavano nel vento. Tutto era illuminato e c’era un via vai di uomini e animali. Il maniero di Cly era tornato a splendere. Le guardie si gettarono sulla ragazza ritenendola una ladra o una mendicante e fecero per catturarla quando il signore, Pietro di Cly, uscì correndo dal castello.

“Fermi! Non toccatela! Lei è una mia ospite”; poi, rivolgendosi a Denise, rimasta senza parole davanti a quel giovane incredibilmente bello, disse: “Grazie Denise. Mi hai salvato! E grazie a te ho capito molte cose. Riparerò i miei errori. Queste terre torneranno ricche e floride!”.

E fu così che Denise rimase a vivere a Cly, amata sposa di Pietro che, da parte sua, fece aggiungere tre lune crescenti allo stemma di famiglia a perenne ricordo di quanto accadutogli. Divenne un signore magnanimo, giusto e buono. A tutti dava ascolto e portava aiuto.

Lo stemma degli Challant Cly
Lo stemma degli Challant Cly

Decise quindi di tornare, a piedi, alla casupola solitaria della vecchia che aveva tentato dio uccidere. Erano passati decenni.. chissà cosa ne era rimasto… chissà se esistevano dei nipoti, qualcuno da poter aiutare. Giunto lassù, al colle di San Pantaleone, vide che la casetta era esattamente come se la ricordava, nulla era cambiato. La porta era socchiusa ed entrò, in punta di piedi, con rispetto.

Una voce lo salutò da un angolo buio: “Bentornato Pietro, Signore delle Tre Lune! Ti stavo aspettando!”. Pietro si avvicinò e la vide: l’anziana donna con un occhio nero ed uno celeste era lì, seduta, immobile davanti a lui esattamente come era rimasta nei suoi ricordi. “Perdonami!”, disse Pietro inginocchiandosi, “ora porrò rimedio. Posso solo conoscere il tuo nome?”.

“Certo, Io sono la saggia Evenzia. Che tu sia il benvenuto! Viva Cly e il Signore delle tre lune!”.

Stella

Voglio ringraziare l’amico e fotografo Emi Dattolo per le bellissime foto concessemi per illustrare questo racconto. Nella storia ritroverete un pò tutto: il castello, naturalmente, ma anche il Comune di Saint-Denis (nella figura dell’erborista Denise), la festa del vischio che qui si celebra a inizio dicembre e la cappella solitaria di Saint-Evence (la saggia maga Evenzia e la sua casetta sul colle di Saint Pantaléon).

 

Castello di Sarre. Il Re Stambecco e la Fata Paradisia

C’era una volta, non molto tempo fa, un giovane sovrano appassionato di montagna. La sua passione era talmente forte che sempre più spesso lasciava il grande palazzo di città per recarsi tra i suoi amati monti, dove sentirsi finalmente libero in mezzo a quella grandiosa natura.

Il viandante sul mare di nebbia (C. D. Friedrich, 1818)
Il viandante sul mare di nebbia (C. D. Friedrich, 1818)

Con gli anni era riuscito a costruire una dimora solo per sé, dove potersi rifugiare quando desiderava trascorrere del tempo in solitudine.

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Era un castello in pietra, arroccato su un promontorio affacciato sul fiume e circondato di prati e vigneti. Nel mezzo della facciata rivolta verso le valli dominate dal Gran Paradiso, il giovane re aveva fatto innalzare una torre altissima che utilizzava come osservatorio per scrutare, col binocolo, le vallate selvagge che si aprivano a sud, davanti ai suoi occhi, ricche di camosci e stambecchi.

Il giovane amava moltissimo quegli animali: agili, veloci, fieri, imprendibili, capaci di saltare tra le rocce e quasi di volare sugli strapiombi montani. Inizialmente, anche seguendo le orme del padre, vi si era avvicinato con la voglia di cacciarli. Poi, però, aveva cambiato approccio: ora il suo obiettivo era quello di catturarli e tenerli tutti per sé nel grande parco annesso al castello. Non voleva ucciderli, ma averne a disposizione in gran numero e magari trasferirne alcuni nella vasta tenuta di famiglia per impressionare ospiti e amici.

Fu così che ben presto cominciò ad organizzare vere e proprie spedizioni, avvalendosi anche dell’aiuto e delle conoscenze della gente delle valli, per stanare, inseguire e catturare il maggior numero di bestie, cuccioli compresi. Purtroppo in breve tempo la sua passione lo divorò trasformandosi in una vera e propria malsana ossessione.

Il parco non era né sufficiente né adatto ad ospitare un così elevato numero di animali che, oltretutto, privati della libertà, soffrivano, si ferivano e spesso rifiutavano il cibo lasciandosi morire.

Queste catture, che non di rado avvenivano anche con ferocia e che avevano stimolato l’avidità di molti contadini del posto che vi vedevano una fonte di guadagno, provocarono l’allarme tra i branchi di camosci e stambecchi che iniziarono a diminuire e a migrare oltre confine. Una simile situazione, alla fine, risvegliò la potente fata Paradisia, protettrice di quelle vallate:” Chi, chi osa avventurarsi nelle mie terre oltraggiandole a tal punto? Chi ha osato offendermi devastando i branchi delle montagne?”.

Il giovane re non sapeva di aver causato una simile ira e presto sarebbe stato punito; Paradisia lo stava solo aspettando al varco!

Una notte di luna piena egli decise di inoltrarsi tra le rocce di una vallata selvaggia per tentare di individuare nuovi rifugi, tracce, segni lasciati dal passaggio degli animali. Ad un certo punto si ritrovò nel bel mezzo di una morena: attorno a lui solo massi, pietre instabili e rocce scivolosissime. La luna venne oscurata dalle nubi, in lontananza il rombo sordo di un temporale in arrivo; poi, un bagliore accecante come un lampo squarciò le tenebre. Una voce, una specie di eco che rimbalzava accentuato dal vento. Una voce di donna lo chiamava, ma lui era incapace di muoversi:” Emanuele, come hai osato?! Chi ti ha dato il diritto di depredare le mie terre e rapire i miei camosci e i miei stambecchi imprigionandoli nel tuo castello?”.

Il giovane re, ripresosi dall’iniziale spavento, rispose:” Chi sei? Come sai il mio nome? Queste sono le mie terre, non le tue! Io qui sono il re! Se hai coraggio, mostrati!”.

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La notte si illuminò e dalle rocce emerse una figura di donna. Alta, dai lunghi capelli scuri abbigliata di vesti bianche, luminose come la neve adornate da diademi di stelle alpine, fiori e cristalli. Il suo apparire fu accompagnato da uno scroscio di cascate e dal correre di camosci tra le rocce. Accanto a lei, come se fosse un cane da guardia, immobile, uno splendido esemplare di stambecco dalle corna lunghissime: i suoi occhi gialli lo fissavano fieri e severi.

“Eccomi. Non ho certo paura di te, uomo. Io sono la signora di queste valli sin dalla notte dei tempi, voluta qui da Madre Natura, Dea Suprema, e non riconosco la tua autorità. So perfettamente chi sei e so che per alcuni uomini sei un re, ma queste, ripeto, sono le mie terre e tu le stai oltraggiando! Io sono la Fata Paradisia, colei che ha dato il nome alla grande montagna e alle vallate che ne dipendono”.

Emanuele, sebbene ancora intimorito, azzardò:” Come? Una fata? Ma per favore, non prenderti gioco di me! Come ti permetti, piuttosto? Attendo le tue scuse!”.

In tutta risposta Paradisia alzò un braccio e il gigantesco stambecco saltò in un baleno su Emanuele; un vortice luminoso e… il giovane sovrano era scomparso!

“Ma, ma… cosa mi sta succedendo? Dove sono? Che strano… che razza di posto è questo? Ma, non… non… riesco ad alzarmi, non capisco…”.

“Emanuele”, lo richiamò Paradisia, “avvicinati al lago e osserva!”.

Lo stupore fu immenso, la meraviglia indescrivibile! Emanuele era senza parole:” Cosa… chi… cosa mi hai fatto? In quale oscuro incantesimo mi hai intrappolato?”. Emanuele era… uno stambecco! Lo stesso magnifico esemplare che accompagnava Paradisia, ora era lui!.

“Ma scusa, camosci e stambecchi non sono forse la tua più grande passione? Ora sei uno di loro! Anzi, sei l’esemplare più bello, più fiero e più ambito di tutte le valli… ora vivrai come loro! Ma attento…”

“Attento? E a cosa? Forse mi hai davvero fatto un favore… Non mi troveranno più e il trono se lo prenderà qualcun altro! Io potrò vivere libero tra le montagne, capo branco!”.

“Ripeto, giovane re, stai attento! Guardati da quelli come te… superbo re Stambecco!”. E, dette queste parole, la fata scomparve tra le cascate.

I giorni di Re Stambecco scorrevano sereni; gli sembrava di essere stato stambecco da sempre. La quota, la libertà, arrivare dove altri non potevano… l’agilità, l’assenza di paura del vuoto e delle pendenze. Il branco ormai lo seguiva e lo riconosceva come suo capo, il grande Re Stambecco!

Foto: In punta di piedi...di Troise Carmine-Washi www.flickr.com/photos/troise/
Foto: In punta di piedi…di Troise Carmine-Washi http://www.flickr.com/photos/troise/

Ma, presto, l’avvertimento di Paradisia non tardò a dimostrarsi fondato. Cacciatori! Tanti, armati fino ai denti, senza scrupoli, si avventuravano sù per la vallata. erano anticipati da gruppi di avidi battitori incaricati di stanare gli animali e farli uscire allo scoperto in modo che fosse più facile colpirli o che cadessero nelle trappole o nelle fauci dei cani!

E lui, che ben conosceva le tattiche e le strategie dei cacciatori, cercava in ogni modo di guidare il branco, di mettere in salvo i più deboli, le femmine gravide, i più giovani… Finché, ahimé, non fu proprio lui a restare colpito! Venne ferito ad una zampa e, fuggendo, inciampò e se ne ruppe una seconda. I cacciatori lo raggiunsero e, mentre i loro cani gli abbaiavano addosso mostrando i denti affilati, venne legato senza troppi complimenti e buttato su un carro.

“Visto che bestione? Che corna! E’ splendido! Ci faremo un sacco di soldi! Portiamolo al signore del castello, ci ricompenserà profumatamente!”.

Il giorno dopo, mezzo stordito dal dolore, riconobbe l’ingresso del… suo palazzo! L’avevano portato lì, a casa sua! Ma, chi era il nuovo padrone se lui non vi aveva più fatto ritorno? I pensieri e le domande si affollavano nella mente del giovane re.

Giunto nel parco che ben conosceva, udì una voce stranamente famigliare:”Caspita ragazzi! Complimenti! Un esemplare magnifico! Che bellezza… solo che me lo avete azzoppato! Cosa me ne faccio? Al massimo potremmo dargli il colpo di grazia e imbalsamarlo! Comunque vi pagherò lo stesso, sebbene meno del dovuto! Era stato chiaro: animali sani, non in queste condizioni!”.

Emanuele era incredulo… quella voce… era la sua! Si voltò e si riconobbe! Lui era lì, era quello di sempre… ma com’era possibile? No! Non voleva essere ucciso! No!

Venne lasciato per la notte in una gabbia all’esterno; il giorno dopo avrebbero proceduto con l’imbalsamazione. Emanuele-Re Stambecco pianse amare lacrime. In quell’istante capì tutto il male che aveva fatto e ora… ora avrebbe fatto la stessa fine di molti animali da lui catturati feriti. Forse era giusto così, ma possibile che non vi fosse un modo per rimediare?

Ormai rassegnato ad attendere la sua fine, stremato si addormentò. In un sonno tormentato, pieno di sogni incredibili, gli apparve lei, Paradisia: “Emanuele, giovane Re, ora comprendi perché mi hai offeso? Vedo, sento che il tuo pentimento è sincero e so che d’ora in poi proteggerai i miei animali ma senza togliere loro la libertà, anzi garantendo loro una libertà più sicura! Ora alzati, vai, liberali tutti e scappa! Fuggi con loro!”.

Emanuele si alzò, le sue zampe erano miracolosamente guarite! Balzò in mezzo ai suoi compagni e, spronandoli, riuscì a guidarli verso la salvezza, verso le valli selvagge dalle quali erano stati strappati.

“Maestà! Maestà! Presto, alzatevi! Gli animali sono scappati! E’ incredibile… ma com’è stato possibile?! Maestà… non ce n’è più nemmeno uno! Neanche lo stambecco zoppo!”, urlò un servitore angosciato quella mattina di buon’ora.

Emanuele con estrema calma, si alzò. Si affacciò verso il parco e con soddisfazione vide che gli animali erano tornati liberi. “E’ giusto così!”. Il servitore, già pronto all’ira del re, non credeva alle sue orecchie!

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“E’ davvero giusto così! Fai chiamare dei maestri scultori, capaci di lavorare il gesso. Dì loro che studino una straordinaria decorazione per le sale più importanti del castello! Il tema saranno i camosci e gli stambecchi! Voglio dei loro simulacri e riproduzioni praticamente ovunque! Il più possibile simili al vero. E fai recuperare anche quelle confezionate in  passato da animali veri: che sia dato loro opportuno risalto! Chiunque, anche in futuro, dovrà restare a bocca aperta! E questo castello sarà unico nel suo genere!” E il re uscì dalla stanza.

Guardando verso le valli pensò: “Nobile fata Paradisia, presto mi adopererò per donare a te e al tuo popolo una grande dimora al sicuro dalle brame degli uomini. Puoi fidarti! Io sono il Re Stambecco!”.

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Castello di Issogne. Il Signore dello specchio e il castello dei sogni

Vittorio aveva 8 anni. Finalmente quell’estate i suoi genitori avevano esaudito un suo desiderio: una vacanza in montagna, in Valle d’Aosta!

Da tempo infatti Vittorio era affascinato da quelle alte montagne coperte di neve e ghiaccio, dai boschi (a suo dire pieni zeppi di fate e folletti), dai camosci, gli stambecchi, le aquile… e dai castelli! Sì, dai castelli: misteriosi, magici, luoghi speciali dove ascoltare e vivere storie fantastiche, dove sognare dame e cavalieri!

La montagna in estate… finalmente! Vittorio era entusiasta!

Le cose da fare e da vedere erano tantissime, ma Vittorio aveva insistito per cominciare dai castelli! Complice un tempo incerto, i genitori avevano acconsentito!

Fénis innanzitutto, per quella sua atmosfera così “draculesca”, come diceva Vittorio. A seguire: via per Issogne! Arrivati all’ingresso, purtroppo un cartello avvisava che per un improvviso black out quel pomeriggio il castello sarebbe stato chiuso… “Oh no!”, esclamò Vittorio deluso. “Non preoccuparti”, lo rassicurò la mamma, “è momentaneo. Lo vedrai domani! Visto che è ora di pranzo ci fermiamo qui, ok?”.

Ma dopo un po’ Vittorio si annoiava a star seduto; “Mamma, papà, vado qui fuori davanti al castello a giocare col pallone!”. “Va bene, ma stai attento e non combinare guai!”.

Immaginando Vittorio (da parentingoc.com)
Immaginando Vittorio (da parentingoc.com)

Vittorio, talentuoso mini calciatore, si divertiva a palleggiare e a fingere di dribblare fortissimi avversari. Tira, calcia, rimpalla… e il pallone finisce in una siepe altissima vicina al muro di cinta del castello.

Vittorio si mette a cercarla. Intanto guarda da fuori quell’austero edificio:” Mmmmh, però, che grigio che è! E’ così diverso da Fénis, mah… speriamo che dentro sia meglio! Ma dov’è finito il pallone, mannaggia?!!”.

Ad un certo punto, individuata la palla, si infila nel folto del cespuglio (no!! Anche le ortiche!!) e… nota uno spiraglio di luce. Proprio così, nascosta da quell’enorme siepe c’era un piccola porta di legno! Era socchiusa e.. la curiosità troppo forte!

“Non combinare guai!”, gli aveva detto  la mamma, e per un attimo Vittorio fu sul punto di lasciar perdere, ma…

No, quella porta lo chiamava, ma sì, dai, giusto una sbirciatina!

“Oooooohhh, aiutooo!!”. Vittorio era caduto da un muro come un sacco di patate! Ma dov’era finito?! Un pò stordito, con un graffio sul braccio e un ginocchio sbucciato si guardò intorno.

“Che meraviglia!”. uno splendido giardino pieno di fiori e alberi da frutta si apriva davanti ai suoi occhi. Un giardino ben curato con le siepi perfettamente tagliate, quasi disegnate. Nel mezzo due alberi più alti e rigogliosi degli altri attrassero la sua attenzione: uno era un melograno (anche nel giardino dei nonni ce n’era uno), l’altro invece, con curiose foglie seghettate,Vittorio non sapeva cosa fosse.

Intorno le pareti di cinta erano ricoperte di pitture colorate con finte colonne e statue. Poi, nel rialzarsi nota un luccichio: c’è qualcosa che brilla laggiù, tra le ortensie… Vittorio si avvicina: uno specchio, non grande, ma splendidamente lavorato, uno di quelli col manico, brillava abbandonato nei fiori.

“Che bello! Chissà chi lo ha perso… a mamma piacerà moltissimo!”. Aveva appena fatto in tempo a metterselo in tasca che alle sue spalle un vocione rauco gridò:”Ehi tu, ragazzino! Chi sei? Che ci fai qui? Come sei entrato? E in che modo strano sei vestito?”.

Vittorio spaventato si girò: un omone grande e grosso, con l’armatura e un coltellaccio in mano lo fissava minaccioso.

“Ora verrai con me! Ti affido a qualche donna che ti sistemi e ti cambi e poi te ne vai! Non è posto per te!”. Vittorio non riuscì nemmeno a protestare che una mano nerboruta lo stava trascinando via dal giardino senza troppi complimenti.

Quel soldato era davvero strano e le armi erano, diciamo, “insolite”. E poi parlava in un modo, quasi incomprensibile! Vittorio lo capiva abbastanza, ma usava comunque delle parole, come dire, “vecchie”… “ma che lingua è? Sembra francese ma…boh…!”.

“Ragazzi, guardate chi ho trovato nel giardino!”, tuonò l’omone, “che buffo ‘sto ranocchietto secco secco e guardate che vestiti indossa!”. La compagnia esplose in una fragorosa risata. Vittorio era stato portato in una sala piena di guardie che, però, si stavano riposando e giocavano ad un gioco simile agli scacchi. Tutti lo fissavano e ridacchiavano. Le armi erano appese al muro; gli elmi appuntiti erano stati lucidati da poco e quegli uomini indossavano bizzarre divise tutte colorate.

Lunette - Corpo di guardia (L. Acerbi)
Lunette – Corpo di guardia (L. Acerbi)

“Ma… dove sono?”, chiese ad un certo punto Vittorio con un filo di voce. “Come dove sei?! Sei entrato come un ladro e non sai nemmeno dove sei? Non prenderti gioco di me, sai, rospetto, altrimenti ti spedisco fuori a calci! Ora sù, fuori di qui!”

Il soldato prese Vittorio per un braccio e lo trascinò fino al mercato accanto. “Donna, questo strano ragazzino curiosava in giardino. Mi ha già fatto perdere troppo tempo. Prenditelo, lavalo e mettigli addosso abiti decenti. Poi, che se ne vada! Ah, fallo mangiare: è secco come un chiodo! Tsè, i soliti accattoni!”.

Vittorio era completamente disorientato e guardando quella donna dall’aspetto rassicurante e dolce, chiese nuovamente: “Ma dove sono? Io… sono caduto… credo di essermi perso, signora!”.

La donna rimase colpita dall’educazione del ragazzino, non pensava fosse un mendicante. “Piccolo, sei nel castello di Issogne, nobile dimora di Sua Eccellenza il Priore Giorgio di Challant. Vieni, sù, accompagnami a fare la spesa, che ti prendo qualcosa da mangiare.

Vittorio era ammutolito, non sapeva più cosa pensare. Ma la sua indomabile curiosità e la fervida immaginazione lo spinsero a “stare al gioco” e a seguire quella donna che disse di chiamarsi Clarice e di essere una cuoca del castello.

Una fila di colorate botteghe piene zeppe di cibo e mercanzie varie era presa d’assalto da vari avventori; come prima cosa Clarice lo portò dal salumiere e lo chiamò in un modo strano: “pizzicagnolo”. Che nome buffo, lo faceva ridere… Prosciutti, salami, carni essiccate; e grandi forme di formaggio di montagna dal profumo penetrante. Vittorio adorava i formaggi e volle assaggiarlo. Che bontà! Clarice gli disse che veniva prodotto in montagna quando le mucche salivano ai pascoli alti e che questo che si vendeva al mercato del castello era in assoluto il migliore. Sul bancone anche un enorme pane di burro… così grandi Vittorio non ne aveva mai visti!

Lunette - Pizzicagnolo (L. Acerbi)
Lunette – Pizzicagnolo (L. Acerbi)

Clarice si fermò un attimo a chiacchierare con una sua amica che se ne stava seduta davanti ad una ruota e lavorava del filo di lana… “Cosa fa?”, chiese Vittorio. “Come cosa fa..!! Ma da dove salti fuori, tu?! Sta filando! Mah… che rospetto insulso che sei… Presto, seguimi!”.

Eccoci davanti alla bottega del macellaio, o del fornaio? Boh, sta di fatto che i due stavano insieme nello stesso negozio. Proprio in quel momento uscivano dal forno fragranti pagnotte a forma di cappello… che acquolina! Che impressione però quella bestia squartata appesa sopra il bancone! C’era anche un cagnolino che cercava di rubare qualche salsiccia… che buffo!

Lunette - panettiere e macellaio (L. Acerbi)
Lunette – panettiere e macellaio (L. Acerbi)

“Muoviti che mi serve del cavolo!”, sbottò Clarice. “Cavolo?!! Puah! Io lo odio!” esclamò Vittorio. “Cosa?! Sei davvero strano! Guarda che col cavolo io preparo zuppe fantastiche! Ci metto dentro il pane vecchio, un pò di cipolla, del formaggio e…”, “No, per carità! Cavoli, cipolle, pane vecchio… io non la mangio questa roba!”. Clarice fissò Vittorio interrogativa. “Ah, il signorino. E si può sapere cosa mangi?!”. “Beh, .., patate… pomodori… e vado matto per l’ananas e le banane!”.

Lunette - panettiere e macellaio (L. Acerbi)
Lunette – panettiere e macellaio (L. Acerbi)

“Ma che razza di roba è mai questa?! Da quale oscura e remota contrada provieni? Io davvero non ho mai sentito questi nomi… sei forestiero oppure pazzo? Ah, forse sei il nuovo giullare per far divertire i nipoti di Sua Eccellenza?”.

“Ma, come, signora Clarice, non ha mai visto una patata né un pomodoro?!”. Clarice sbuffò e rispose:”Senti, ascoltami bene, inizio a stancarmi delle tue burle. Cavoli, cipolle e rape. Zitto o stai a digiuno!”.

Per fortuna vendevano anche mele e fichi…

“Ah, signora Clarice, mi scusi, che alberi sono quelli in mezzo al giardino? Uno è un melograno, giusto?”; “Beh, qualcosa allora conosci… sì, l’altro invece è una quercia! Non vedi com’è grande e robusta?!”

Che strano, pensò Vittorio, insieme al fruttivendolo c’era anche il calzolaio! E quanto lavoro che aveva! C’era la coda:”Signora Clarice, ma tutti che si fanno riparare le scarpe… non possono comprarsele nuove? Ai saldi costano meno…”; “Ai cosa? E dove sarebbe questo luogo? E poi, scarpe nuove! Tu sei matto, ragazzino! Quando c’è chi le ripara è già tanto!”. Clarice era sempre più sconvolta…

Andarono poi dallo “speziale” (altro nome mai sentito…); “Ah, ma sì! E’ una specie di erborista-farmacista! Ora ho capito”. Vittorio rimase incantato da tutti quei bei vasi con le erbe, messi in bella mostra sugli scaffali. Gli fece un po’ pena, però, un poveretto malconcio seduto a pestare nel mortaio.

Lunette - Lo speziale (L. Acerbi)
Lunette – Lo speziale (L. Acerbi)

Ad un certo punto un improvviso fermento. Tutti escono dalle botteghe e si radunano nel cortile. Si apre il portone principale e… ” Stai composto! C’è Sua eccellenza il Priore!”.

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Eccolo, Giorgio di Challant, seguito da un codazzo di sacerdoti, segretari e servitori. Fermatosi venne raggiunto da un gruppo di uomini che avevano smesso apposta di lavorare: sembravano muratori, imbianchini… qualcosa di simile.

Vittorio capì che Sua Eccellenza era venuto per verificare lo stato di avanzamento dei lavori e per prendere accordi coi capi delle maestranze. Clarice gli spiegò che bisognava realizzare la nuova decorazione pittorica del cortile: quel luogo andava abbellito, arricchito, nobilitato! Quel luogo avrebbe dovuto esprimere tutta la potenza della famiglia Challant!

Vittorio capì che il Priore non era soddisfatto delle proposte fatte e che sarebbe stato lui a dare tutte le indicazioni del caso. Curioso di vederlo da vicino, con un balzo Vittorio raggiunse la prima fila. Clarice tentò invano di acciuffarlo ma le scappò un urlo. Sua Eccellenza si voltò di scatto “Che succede? Cos’è questo trambusto?”.

La povera Clarice, mortificata, si inginocchiò per scusarsi e prese Vittorio per un orecchio strattonandolo. Il Priore, quasi divertito, si avvicinò al ragazzino studiandolo nei minimi particolari.

“Che insolita foggia d’abito. Chi sei?”. “Mi chiamo Vittorio, signor Giorgio… io… ecco…”. “Molto bene, Vittorio, orsù dunque seguimi. Per prima cosa devo recarmi dal sarto a scegliere una stoffa adatta al mio nuovo mantello da viaggio. Il signor Arnaud saprà consigliarmi per il meglio!”. Vittorio lo seguì: quell’uomo lo aveva immediatamente colpito, era impossibile non obbedirgli. Restò stupito dalle decine di stoffe colorate che Arnaud, il sarto, srotolò davanti al Priore; e che forbici enormi aveva!

Lunette - drappiere e sarti (L. Acerbi)
Lunette – drappiere e sarti (L. Acerbi)

“Bene, piccolo Vittorio, ora fatti dare una lavata. Ti aspetto dopo i Vespri nella stanza dalle colonne di cristallo”, e Sua Eccellenza scomparve tra le arcate scure del portico.

Dopo essersi fatto spiegare da una rassegnata Clarice cosa fossero i “Vespri” ed essersi sistemato, Vittorio raggiunse la sala dove era atteso. Una sala grandissima, ricoperta di affreschi… con colonne di cristallo e di marmi colorati dietro cui si aprivano strani paesaggi da fiaba!

Sala bassa (L. Acerbi)
Sala bassa (L. Acerbi)

Sul fondo, seduto su una specie di trono in legno scolpito, Giorgio di Challant lo aspettava.

Bene Vittorio, infine sei arrivato. Ti stavo aspettando, sai? E so che qui al castello hai trovato un oggetto che mi appartiene ma che avevo perduto”. Lì per lì Vittorio non capì e negò. “Sii sincero, Vittorio, quell’oggetto sa riflettere il vero e tu ora lo stai nascondendo.”

Vittorio comprese e tirò fuori dalla tasca lo specchio trovato in giardino. “Vedi che lo avevi tu? Lo immaginavo. Quando la luna sarà alta e la sua luce illuminerà il cortile, scenderai in giardino con me!.

E così avvenne. Sua Eccellenza si fece dare lo specchio e, quando la luce lunare inondò il cortile, egli puntò lo specchio al cielo. Un raggio argenteo fortissimo rimbalzò sullo specchio e si perse nelle profondità del pozzo che sembrava acceso dall’interno.

Giorgio invitò Vittorio a guardarvi dentro. Inizialmente vide la superficie dell’acqua che brillava muovendosi in piccole onde. Poi, improvvisamente, l’acqua si fermò e nel mezzo si aprì un varco. Giorgio mise un braccio intorno alle spalle del ragazzino, salirono sull’orlo del pozzo e saltarono.

Vittorio stranamente non aveva paura, ma chiuse gli occhi. Dove sarebbero finiti?!

“Eccoci! Apri gli occhi, piccolo”, lo rassicurò Sua eccellenza, “sei nel mondo oltre lo specchio, nel regno dei miei sogni…”.

Vittorio sgranò gli occhi: il giardino era lo stesso del castello, ma i due alberi, il melograno e la quercia, erano fusi in un’unica pianta e non erano più veri alberi… erano di metallo scintillante e dai loro rami sgorgava acqua purissima che si riversava in una splendida vasca ottagonale.

30 - Fontana del Melograno

Le pareti interne del cortile erano rivestite di specchi enormi che riflettevano e amplificavano la meravigliosa corte fiorita. Ad un certo punto, dai portici, su cui (notò Vittorio) era raffigurato il mercato esattamente come lo aveva visto lui quella mattina), uscì una folla di bambini. Maschietti e femminucce, tutti a coppie, in fila ordinata, si tenevano per mano. Indossavano abiti fatti come stemmi.

“Vedi Vittorio”, disse il Priore, “i bimbi vestiti d’argento e di rosso con la banda nera appartengono alla mia famiglia, gli Challant. Gli altri a famiglie nobili ed importanti con cui ci siamo uniti o ci alleeremo per consolidare e rafforzare il nostro potere.”

La schiera di bimbi si fermò al centro del cortile e, dopo aver bevuto dall’albero doppio, si specchiarono sulle pareti che, come per incanto, si rivestirono dei colori e dei disegni dei loro abiti.

22 - Cortile Issogne

Vittorio era ammutolito anche se avrebbe avuto mille domande… “Ora puoi andare, ragazzo. Grazie a te ho potuto usare lo specchio, vedere nella mia anima e realizzare i miei sogni. Ora so cosa devo fare in questa mia amata dimora!”. E il nobile Giorgio si dissolse lentamente nel bagliore dello specchio.

“Vittorio! Vittorio! Svegliati! Dai, che stamattina finalmente vedrai il castello di Issogne! Forza, alzati!”. La mamma lo stava chiamando. “Ma come”, pensò, “ma allora era tutto un sogno?! Ma com’è possibile… sembrava vero!”.

Arrivati al castello, Vittorio cercava con gli occhi la siepe che nascondeva la porticina, ma non c’era nulla. Ecco, toccava a loro, la visita guidata stava per cominciare.

Senza fiato! Così rimase il piccolo Vittorio una volta entrato nel cortile! C’era tutto… Ah, ecco Clarice la cuoca! E i soldati, lo speziale, il cane del macellaio… quei grandi formaggi… sì, esattamente come nel sogno!

Però, mancava qualcosa: le pareti erano rossicce, purtroppo molto deteriorate dal tempo, i colori degli stemmi erano quasi del tutto scomparsi! La guida disse che in origine vi era dipinto “Le Miroir des enfants” per i discendenti di casa Challant. “Lo sapevo”, pensò Vittorio, “Lo specchio! Sua eccellenza ha fatto raffigurare quello che avevamo visto nello specchio!”.

Si avvicinò al pozzo ottagonale sormontato dal doppio albero che lui conosceva bene. Peccato non zampillasse più acqua. Un velo di malinconia scese sul volto di Vittorio e istintivamente guardò nel pozzo. Ma cosa c’era là, in fondo? Un bagliore, un oggetto rifletteva la luce; aguzzò la vista e provò a scattare una foto migliorando la luce.

Lo specchio! Ma certo! Era proprio lo specchio del nobile Giorgio!

“Ehi ragazzino, ti stai annoiando? Sù, vieni con noi, ti stiamo aspettando! Cercherò di raccontarti qualche storia più curiosa…”. Vittorio riconobbe la voce della guida; si voltò, seppur contro voglia, e… guardò attentamente quell’uomo. Sul cartellino che aveva appeso al collo c’era il suo nome: Giorgio!

“Ti stavamo aspettando, piccolo Vittorio… immagino tu abbia voglia di visitare il nostro castello, vero?”, gli disse la guida. “Certo!”, rispose il ragazzo, “è un castello bellissimo, pensi che proprio stanotte l’ho sognato! E’ davvero il castello dei sogni!”.

 

Amici, ho voluto chiamare il bimbi Vittorio, in omaggio a Vittorio Avondo, che nel 1872 acquistò il castello di Issogne, lo restaurò e lo donò allo Stato. Proprio nell’estate 2018 sono stati aperti al pubblico, in un’ala del castello, i suoi appartamenti.

Ringrazio quindi mio marito, Leonardo Acerbi, per le splendide foto che corredano questo racconto.

Stella

 

 

 

 

 

 

Castel Savoia di Gressoney-Saint-Jean. La regina solitaria e il principe cacciatore

In un tempo lontano, la gente che abitava nel piccolo borgo raccolto intorno all’antico ponte di San Martino era solita mettere in guardia i viaggiatori o i mercanti intenzionati ad inerpicarsi nella rocciosa ed angusta vallata solcata dall’impetuoso torrente Lys.

Dicevano, infatti, che gli spiriti della Natura abitavano quel territorio e che non ammettevano estranei! Nessuno poteva entrare, altrimenti non avrebbe fatto ritorno, oppure ne sarebbe tornato completamente pazzo, ossessionato da incubi e visioni.

Narravano che in quella vallata persino il sole faticava a penetrare, che le rupi erano erte e scoscese, i burroni e le gole terribili, i boschi scuri e fittissimi, il torrente inoltre era governato da una strega volubile e capricciosa, la ninfa Lysia, che spesso causava inondazioni e piogge tremende.

Chiunque avesse tentato di avventurarsi in quella vallata stretta e scura, sarebbe stato vittima di frane, slavine, vortici improvvisi di un vento capace di sradicare gli alberi. Raccontavano che la valle fosse popolata da gnomi malefici e Troll spaventosi che impedivano a chiunque di accedervi: erano infatti chiamati ad assolvere un compito molto molto importante. Ma quale?

Lassù, in alto, oltre l’invalicabile barriera delle rupi e dei gorghi, si diceva che si aprisse, come un miraggio, un luogo splendido, di ammaliante bellezza.

Un luogo dalla Natura rigogliosa ed incontaminata che andava protetto ad ogni costo e soprattutto andava difeso dagli uomini. Era il regno della misteriosa ed inafferrabile Edelweiss, la regina solitaria.

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Nessuno l’aveva mai vista, né lei del resto lo avrebbe permesso, ma già le antiche leggende parlavano di questa regina di straordinaria bellezza, una regina senza tempo e senza età, che viveva da sola in un meraviglioso castello di cristallo costruito apposta per lei dalle fate della grande montagna rosa e dagli elfi dei boschi.

Questa dimora candida, opalescente e brillante si ergeva maestosa nel mezzo di un bosco di pini e abeti che la proteggeva col suo intrico di rami e felci e che, talvolta, poteva persino innalzarsi all’improvviso per renderla invisibile. Quando i raggi del sole riuscivano ad intercettare le alte torri e le guglie appuntite del palazzo, queste risplendevano e brillavano come se fossero fatte di ghiaccio trasparente.

castello-regina-margherita-gressoney

La regina Edelweiss era figlia di quel luogo, ne era l’anima, e sua missione era difenderlo da tutto e da tutti. Aveva sempre vissuto da sola; le bastava parlare con gli alberi e gli animali della sua valle. Si narra che lei stessa potesse persino prenderne la forma, se voleva, per muoversi con maggior libertà e, addirittura, avvicinarsi agli uomini per studiarli da vicino senza destare sospetti. Unico elemento immutabile era il suo colore: che fosse donna, fiore, volatile o quadrupede era sempre di colore bianco-argento simile alla pallida luce della Luna.

Dicono non avesse neppure bisogno di un compagno, che non si fosse nemmeno mai innamorata, anzi: guai se fosse stata vista! Per il malcapitato sarebbe stata la morte, oppure sarebbe stato immediatamente trasformato in un animale o in una pianta del suo incredibile e variopinto giardino.

E così era sempre stato nei secoli, finché…

Finché un’arcana ed inaspettata congiuntura astrale cui neppure Edelweiss poteva sottrarsi non fece cambiare il clima della vallata. Gli inverni iniziarono a diventare sempre più miti e brevi mentre le estati calde portavano il sole ad attardarsi più a lungo sulla conca e a rendere più fertili i terreni zuppi d’acqua. Si dice fosse assai abbondante un’erba in particolare, assai nutriente, il crescione, molto amata dagli animali ma apprezzata anche dagli uomini.

Edelweiss non si preoccupò. Quello era e restava comunque il suo regno; bastava adattarsi alla nuova situazione dettata dalla Grande Dea, Madre Natura. Non sapeva, però, che non sarebbe più stata sola.

Il costante rialzo delle temperature, infatti, aveva aperto dei colli e dei passaggi sulla grande montagna rosa; transiti mai utilizzati ma che erano stati individuati da uomini provenienti da nord. Uomini coraggiosi, caparbi, abituati alla fatica, al freddo, alle difficoltà. Uomini che avevano dovuto lasciare la loro terra natia per cercare nuove terre e nuove possibilità di commercio. Uomini capaci di muoversi con agilità sulle montagne e in grado di adattarsi anche alla natura più severa. Erano i Walser!

Edelweiss venne presto avvisata dalle fate che gruppi di Walser stavano passando il confine e stavano penetrando nel suo territorio. Questa notizia la fece letteralmente infuriare.

Iniziò a scatenare le forze della natura poste sotto il suo controllo rovesciando fulmini e tempeste, grandinate e gelate, provocando frane di massi enormi, deviando torrenti che così andavano ad allagare pascoli e sentieri. Ma niente! Nulla riusciva a fermare questi uomini! Anzi, più lei devastava i loro carichi e i loro rifugi, più ne arrivavano a dare supporto…

Edelweiss decise allora di lasciarli un po’ in pace, di permettere loro di insediarsi in modo da colpirli quando si sarebbero sentiti più tranquilli abbassando le difese; questo avrebbe causato loro ancora più danni.

Intanto aveva avvolto il suo castello in un incantesimo che lo rendeva invisibile ed inavvicinabile. Il bosco intorno era cresciuto a dismisura e gli alberi erano duri come pietra in modo da non poter essere tagliati.

Ma i Walser riuscirono comunque a costruire un bel villaggio in mezzo ai campi e Edelweiss dovette riconoscere che ertano davvero degli ottimi falegnami, abili carpentieri e sagaci agricoltori.

Di notte, sotto forma di gatto, o di civetta, si avvicinava alle case per spiarli e individuare i loro eventuali punti deboli.

Aveva capito che questa gente aveva un capo: era giovane, un ragazzone alto e robusto, con la barba e folti capelli castani. Un bel paio di occhi verdi illuminavano un viso squadrato, dalla mandibola volitiva e dalla pelle abbronzata. Aveva capito che questo giovane e carismatico capo era il loro principe e si chiamava Louis.

Immagine tratta da gognablog.com-paysage à manger
Immagine tratta da gognablog.com-paysage à manger

Il popolo obbediva disciplinato agli ordini di questo principe che aveva già incaricato alcuni coetanei coraggiosi di perlustrare la vallata e di cercare di individuare una strada che conducesse verso sud, nel fondovalle. Nulla lo spaventava e spesso lui per primo guidava gli esploratori.

Edelweiss capì ben presto che Louis sarebbe riuscito ad aprire il varco. Era forte, agile, veloce e saggio nel prendere le decisioni, conosceva la natura e sapeva evitare i pericoli. Quando poi riuscì a trovare la strada diretta a sud, Edelweiss decise che doveva fermarlo! Ad ogni costo!

Se quella strada fosse diventata sicura e nota, la “sua” valle sarebbe stata invasa dagli uomini e lei non poteva permetterlo.

A Louis erano giunte le voci e le leggende sulla regina solitaria e molti dei suoi non nascondevano un certo timore. Nessuno poi voleva avvicinarsi al grande bosco; lo ritenevano stregato e alcuni sostenevano fosse infestato da spiriti e oscure presenze. Ma Louis era troppo curioso. “Questa ora è la mia terra!”, sosteneva, “e devo conoscerne ogni angolo. Se davvero esiste questa regina misteriosa, che abbia il coraggio di mostrarsi e venirmi a parlare! Io sono qui e ci resterò!”.

“Quell’arrogante sbruffone! Ma non sa con chi ha a che fare. Ora ha davvero superato il segno! La mia vendetta non tarderà! Io, regina Edelweiss, tornerò presto ad essere l’unica Signora di questo luogo!”. L’ira della regina era incontenibile; Louis andava tolto di mezzo!

Edelweiss iniziò a rendergli la vita sempre più difficile, causandogli innumerevoli sventure: la perdita del raccolto, un devastante incendio, i campi allagati, una terribile epidemia sul suo bestiame… ma niente! Louis era sempre supportato dall’affetto dei suoi compaesani; non c’è che dire, erano un popolo decisamente forte ed unito!

“Ah sì, eh… Louis?! Ma io non mollo, sai? Anzi, ti colpirò dritta dritta nei tuoi desideri…” e la regina escogitò il suo piano.

Sapeva, infatti, che la più grande passione di Louis era la caccia. Spesso lo aveva spiato e seguito, sotto forma di animale, per vederlo in azione, capirne le strategie, coglierne anche gli errori. E aveva capito che il suo più grande sogno era quello di catturare (non di uccidere!, tutti i cacciatori sanno che porterebbe male!) uno stambecco bianco.

Animale raro, prezioso, superbo e solitario che, si diceva, viveva sui picchi rocciosi più isolati ed irraggiungibili.

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Edelweiss decise così di trasformarsi in un magnifico stambecco bianco e iniziò a solleticare la curiosità di Louis: si faceva vedere, talvolta scendendo persino vicino alla sua baita, lo faceva avvicinare per poi improvvisamente fuggire e scomparire. Lo seguiva persino nei sogni e tanto fece finché non divenne un’ossessione.

Lo stambecco bianco si era impadronito dell’animo di Louis che ormai si dedicava solo a quello trascurando la sua gente e i suoi lavori abituali. Divenne irascibile, scontroso… dalle prime luci dell’alba fino a notte suo chiodo fisso era quell’animale! Tanto che ormai alcuni pensavano fosse diventato pazzo; altri iniziarono a nutrire sospetti verso di lui e a mettere in giro la voce che non fosse più adatto ad essere il capo.

“Molto bene”, pensava Edelweiss, “sto per raggiungere il mio obiettivo”.

Una sera, quasi all’ora del tramonto, Louis ancora si aggirava tra le rocce alla ricerca dello stambecco: ” Sono sicuro! L’ho visto! E’ passato lassù!”. Edelweiss giocava con lui e continuava ad apparirgli, un pò qui e un pò lì. E lo stambecco saliva, saliva, sempre più in alto, saltando agilmente tra gli strapiombi e le pareti scoscese fino a raggiungere il limite delle nevi.

Ma Louis, sebbene stanco e disorientato, non voleva fermarsi. E lo seguiva, lassù, dove la sola luce lunare non può bastare, dove la neve ed il ghiaccio si fanno nemici ingannevoli e fatali.

“Eccolo! Ora sarai mio!”. Sì, lo stambecco era lì, immobile, a pochi passi da lui! Louis con un balzo si lanciò sull’animale per afferrarlo, ma… sotto di lui si aprì un baratro! Louis precipitò nel vuoto ghiacciato fino a fermarsi su un ripiano.

Ferito, sanguinante, una gamba e qualche costola rotte, ma ancora vivo. Guardò verso l’alto gridando e chiedendo aiuto. Lo stambecco si affacciò sul crepaccio, fissandolo.

Ad un certo punto l’animale si dissolse in un vortice di neve brillante e al suo posto apparve lei, Edelweiss. La regina non gli staccava gli occhi di dosso. Louis credette di essere ormai spacciato, vittima di incubi e visioni.

Ma quando improvvisamente la ebbe accanto, ne restò affascinato. Lei, dal canto suo, decise di risparmiare la vita a quel giovane uomo che, nonostante tutto, l’aveva colpita col suo carattere forte, la sua sana testardaggine e la temerarietà.

“Sono Edelweiss, regina di questa valle. Credo tu sappia di avermi offesa”.

“Ora capisco tutto”, le rispose Louis con l’ultimo filo di voce che gli restava, “ti chiedo perdono, ma se vorrai uccidermi, lo capirò”. “No, non ti voglio uccidere. Ma se accetterai di essere trasformato in uno stambecco bianco, ti lascerò vivere accanto a me, per sempre! Ti renderò immortale.”

Louis riflettè. “No, non posso. Perdonami regina Edelweiss, ma a questo punto finiscimi! Io sono il principe Louis. E il mio popolo ha bisogno di me. Spero, anzi, che mi accetti ancora dopo che l’ho così a lungo trascurato…sempre che tu mi consenta di fare ritorno…”

La regina rimase colpita: quell’uomo avrebbe preferito la morte pur di non rinunciare alle sue responsabilità.

Louis, da parte sua, doveva riconoscere che Edelweiss era davvero bella come si diceva. Che non era solo fantasia. E che gli stava proponendo di stare con lei, diventando immortale!”

I loro occhi si incrociarono a lungo in un silenzioso dialogo che parve durare ore. Louis non avrebbe mai dimenticato quel viso bianco come la neve, quei grandi occhi neri senza fine e quella lunga chioma corvina che si confondeva con le ombre…

Al mattino si risvegliò nel suo letto. Era a casa sua e sembrava non fosse successo nulla. Nessuno si ricordava nienteGli dicevano che era stato colto da una febbre altissima, che neanche il dottore era riuscito ad abbassarla e che per ben due settimane era stato a letto in preda ai deliri. Nominava sempre lo stambecco bianco e chiamava la regina Edelweiss.

Rimessosi in forze, Louis decise che avrebbe trovato Edelweiss: quella donna, o fata o strega che fosse, gli era entrata dentro e non poteva più stare senza di lei! Avrebbe voluto rivederla almeno una volta…

Affrontò con passo deciso la salita che portava al bosco che tutti dicevano “stregato”, il bosco dove avrebbe dovuto ergersi il palazzo della regina. Stranamente (o forse no) non fu per niente difficile addentrarsi in quella fitta foresta; Louis aveva quasi l’impressione che gli alberi si aprissero al suo passaggio. Giunse infine ad una radura illuminata dal sole. Lì, al centro del prato, un giovane stambecco bianco lo guardava, immobile.

“Regina Edelweiss, Edelweiss, sei tu, vero?! Sono venuto da te! Voglio che stiamo insieme. Edelweiss, non mi riconosci? Sono Louis!”. Ma lo stambecco, dopo averlo guardato a lungo, improvvisamente con un balzo fuggì. Non era Edelweiss… quello era davvero lo stambecco bianco! Ma Louis, ormai, non era più interessato e non tentò neppure di rincorrerlo o di seguirlo. Non fece nulla. Si accasciò in mezzo alla radura, si prese la testa tra le mani e pianse.

Poi, notò che il prato intorno a lui iniziò a riempirsi di minuscole stelle alpine, argentate e vellutate. Louis si alzò mormorando ” Edelweiss, amore mio…”.

Dai bordi del prato si sollevarono delle mura bianchissime, quasi madreperla. Louis si ritrovò magicamente all’interno di uno splendido castello le cui torri si innalzavano al cielo in un gioco di guglie arditissime. Lui era lì, in piedi, stranito, nel centro di un immenso salone. Ad un certo punto, da un incredibile doppio scalone elicoidale scese lei: Edelweiss.

“Eccoti Louis, sei qui… sei venuto a cercarmi… e per me hai rinunciato al vero stambecco bianco, tuo grande desiderio!”.

“Sei tu, Edelweiss, il mio più grande sogno. Vorrei tanto diventasse realtà!”.

“Lo diventerà. E questa sarà nei secoli la dimora del nostro amore! Qui tutto dovrà parlare di noi, Louis. Per te rinuncio alla mia immortalità. Non sarò più una fata. Sarò una donna, pur sempre regina, ma del tuo cuore”.

E da quel momento il castello fu visibile e accessibile a tutti. La valle intera, dalla grande montagna rosa fino all’antico ponte di San Martino, festeggiò le nozze tra Edelweiss, un tempo regina solitaria, e Louis, il coraggioso principe Walser.

 

Questo racconto è dedicato a Castel Savoia, alla splendida valle del Lys e all’amore taciuto e sventurato, tra la regina Margherita di Savoia e il barone Luigi Beck Peccoz. Un profondo affetto ed una comunanza di sentimenti univa Margherita al barone alpinista; nella realtà ciò non è stato, ma sicuramente sappiamo che qui, tra queste montagne e in questo castello, così fiabesco e femminile, Margherita si sentiva davvero se stessa.

HIC MANEBIMUS OPTIME

 

 

Anche stavolta un GRAZIE speciale all’amico Enrico Romanzi (www.enricoromanzi.it) per la suggestiva foto di copertina.

Stella

 

Castello di Verrès. Il segreto delle miniere e la principessa dei nani

In un tempo lontano, quella valle dolce e verdeggiante era abitata da uomini felici ed operosi; era popolata di animali di ogni tipo e ricca di una natura florida e rigogliosa che dava fiori, legno, erbe e frutti in abbondanza.

In quel tempo lontano, però, quella valle ridente non era abitata solo da uomini e animali; le sue viscere nascoste erano attraversate da una miriade di cunicoli, labirinti e pertugi. Quell’intrico impenetrabile di gallerie sotterranee era il regno del piccolo popolo, era il regno dei Nani. Costoro, abili ed infaticabili minatori, conoscevano a memoria ogni gola, ogni anfratto, ogni vena di minerale del sottosuolo. I Nani erano i detentori di un’antica sapienza: coltivavano i minerali e li estraevano con notevole maestria. Ma non solo, vivendo nel ventre della Madre Terra, ne curavano con amore e dedizione la linfa vitale regolando, da lì sotto, i frutti delle diverse stagioni. Il popolo nano sin dalla più remota notte dei tempi, custodiva nelle profondità del suolo i semi dei frutti primordiali e, unitamente alla lavorazione dei metalli, si occupava delle trasformazioni e delle mutazioni della Natura. Il buon funzionamento del “mondo di sotto” si sarebbe infatti rispecchiato nell’armonia del “mondo di sopra”. E sì, perché là sotto, nel mondo buio delle miniere, i Nani erano soliti dire “Noi vediamo gli alberi non dalle chiome ma dalle radici, ed è da lì che traggono la vita!”.

I Nani insomma erano dei saggi maestri nell’individuare le materie prime, nel cavarle, nel selezionarle, nel trasformarle e.. nel metterle anche al servizio degli uomini, quando ciò veniva richiesto coi modi opportuni e col dovuto rispetto.

L’intesa tra Nani e uomini era così andata avanti in pace per secoli, fino a che…

Non giunse al potere un nuovo re, il malvagio Gotofredo. Giunto dalle vette del Tramonto, appoggiato da signorotti riottosi in cerca di facile guadagno e visibilità, Gotofredo era riuscito a ricevere in feudo la valle delle miniere di cui, ahimè, e non per caso, conosceva le infinite ricchezze.

Arrivato nel fondovalle fece immediatamente costruire un accampamento alla foce del torrente Fiordacqua e, adocchiata un’altura ben protetta, ordinò che vi si innalzasse una torre fortificata.

I Nani non misero molto tempo a capire che qualcosa era cambiato. La valle era percorsa giorno e notte da orde di soldatacci che approfittavano dei “sopralluoghi” per fare razzia nei villaggi, depredare, saccheggiare, distruggere e rapire fanciulle indifese. Quello era il triste biglietto da visita di re Gotofredo.

I Nani, popolo solitamente pacifico ma terribile se provocato, iniziarono ad attuare stratagemmi grazie alla loro perfetta conoscenza del territorio scatenando frane, deviando il corso dei torrenti, aprendo improvvise voragini che inghiottivano la soldataglia.

Gotofredo ne fu presto molto irritato e cercò di scovare i rifugi dei Nani inviando esploratori e mercenari nei boschi di notte. Ma tutto si rivelava inutile… Inoltre i Nani riuscivano regolarmente a bloccare o sabotare la costruzione della nuova torre fortificata perché quello, per loro, era da sempre un luogo strategico e sacro. Lassù, se lo volevano, potevano affacciarsi sul fondovalle. Lassù vi era la grande porta del regno sotterraneo, quella che consentiva l’accesso all’immensa sala del trono e ai depositi segreti, ma solo in pochi, anche tra gli stessi Nani, sapevano come e quando farla apparire per entrarvi.

Le cose purtroppo andavano sempre peggio. Re Gotofredo, accecato dall’odio verso i Nani, si vendicava sugli abitanti inermi della valle e, mosso dalla volontà di trovare e sterminarli, cercò alleati oltre le montagne, nella terra degli Agauni, di cui, si diceva, non sempre c’era da fidarsi!

Di fatto l’alleanza, supportata essenzialmente da reciproci interessi, non poggiava su solide basi e iniziò a vacillare sin da subito. Nella valle nessuno si fidava più di nessuno e la stessa Natura languiva, irrigata più dal sangue versato che dall’acqua. Nessuno coltivava né allevava gli animali. E i Nani si erano infine rinchiusi nei loro cunicoli negandosi agli uomini. Purtroppo il negarsi dei Nani, portava con sé il negarsi di Madre Natura e la valle presto mutò il suo aspetto diventando sempre più arida e brulla.

Re Gotofredo decise di scatenare una guerra totale anche contro gli Agauni e la valle si trasformò in un unico, triste e desolato campo di battaglia. Gotofredo aveva 5 figli maschi e i 4 più grandi, assai simili al terribile padre, erano impegnati in battaglia o in ambasciate finalizzate a tessere oscure trame politiche. Solo il più piccolo, Giovanni, era diverso.

Lui odiava le guerre. Certo sapeva usare la spada, ma solo se a fin di bene, non così per gratuita sete di potere e ricchezze. Era in conflitto continuo col padre che più volte aveva tentato di farlo rinchiudere in un monastero per toglierselo dai piedi. Ma la madre fortunatamente era sempre intervenuta facendosi forte della sua ricchissima dote con cui poteva tranquillamente ricattare l’avido marito.

Un pomeriggio, verso il tramonto, dopo l’ennesimo litigio col padre, esausto Giovanni si allontanò da casa in cerca di pace. Era molto preoccupato per l’inqualificabile condotta paterna, ma ancor più per le precarie condizioni di salute dell’amata madre. Se fosse morta, lui si sarebbe ritrovato solo, “in pasto agli squali”. Camminando camminando, ad un certo punto si rese conto che si era fatto buio e aveva perso l’orientamento. Dov’era? Vedeva le luci del villaggio in basso, nel fondovalle, ma ormai non era più in grado di scendere: aveva completamente smarrito il sentiero.

“Poco male”, pensò, “tanto laggiù a nessuno importa un bel niente di me! Speriamo solo che mamma non peggiori e che quel finto medico da strapazzo non le dia qualche strana medicina!. Vorrà dire che per questa notte mie compagne saranno la luna e le stelle- Il buio, almeno, copre l’orrore di questa valle”.

Giovanni si sdraiò sull’erba, chiuse gli occhi e si lasciò cullare da un dolce alito di vento. Ad un certo punto si accorse di un penetrante profumo di erbe aromatiche e fiori accompagnato da un fruscio sempre più vicino ed insistente.

“Chi va là? Chi c’è che si nasconde vigliaccamente nell’ombra?! Mostrati e combatti da uomo!”. Silenzio. Poi si vide come circondato da tante fiammelle color verde smeraldo che baluginavano, quasi giocavano intorno a lui.

“Oddio”, si disse, ” fuochi fatui! Questo luogo è infestato di spettri!!”. Tentò di fuggire ma il buio fitto gli impediva di muoversi nella giusta direzione e temeva che un solo passo falso lo avrebbe fatto precipitare nel vuoto.

All’improvviso le fiammelle si fermarono e si unirono a formare un’unica figura dal profilo umano. Dalla luce verde si staccò una ragazza: non molto alta, anzi, bassina. Era più piccola di lui, che già non era tra gli uomini più alti… ma…bellissima! Un vero incanto! Il viso soprattutto era splendido e vi brillavano due occhi azzurro-verdi dal taglio allungato, ipnotici!

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“Buonasera, giovane uomo”, gli disse con voce soave, “non avere paura. Sono Palasina, la figlia di Gorgoscuro, il re dei Mani di questa vallata e di Evanzia, la ninfa del torrente Fiordacqua che nella nostra lingua chiamiamo appunto Evanzio. Sono venuta perché ho sentito la tua sofferenza. Conosco il tormento del tuo animo e sento che potrei aiutarti. Tu sei molto diverso dalla maggior parte degli uomini che da alcuni mesi ormai percorrono questa terra, prima così florida e felice!”.

Giovanni era impietrito.Non gli usciva neppure mezza parola di bocca. Poi iniziò a raccogliere i pensieri e disse: ” Ti saluto Palasina. Ma, spiegami, come puoi… come hai fatto a… come mi hai trovato…Ci siamo per caso già incontrati?”

Palasina sorrise. “Oh Giovanni, voi uomini sapete così poco del piccolo mondo. Ma noi, Nani, ninfe, fate… noi siamo ovunque! Possiamo rimpicciolirci quanto vogliamo, anche mutare forma e aspetto se necessario. Inoltre noi sentiamo, percepiamo ogni vibrazione della Natura, ogni suo muto lamento e necessità. So che tu sei diverso. Solo tu puoi salvare questa valle!”.

Giovanni faticava a credere a quanto la ragazza gli stava dicendo. Temette si trattasse di stregoneria, di un ennesimo stratagemma di suo padre, di un inganno… Ma Palasina gli disse:” Giovanni, so cosa stai pensando e so come dimostrarti il contrario. Interverrò domattina. Ora ti accompagno fino al limitare del villaggio. Solo una cosa devi fare: stai sempre accanto a tua madre!”.

Dopo una notte insonne nella quale, tuttavia, credeva di aver sognato come mai gli era successo prima, Giovanni con le prime luci dell’alba si recò da sua madre e, tenendole forte le mani, si sedette accanto a lei. La madre, sfiancata dalla malattia, non riusciva nemmeno più a parlare, ma il suo sguardo gli diceva più di tanti lunghi discorsi.

Allo scoccare delle 12, la porta della stanza si aprì e comparve la cameriera di fiducia che disse: ” Messer Giovanni, è arrivata un’erborista del villaggio mandata dal parroco. Vuole vedere sua madre. La faccio entrare?”

Giovanni, stupito, acconsentì. Per fortuna suo padre non c’era! Entrò una donnina piccola ed esile, già in età avanzata, avvolta in un pesante mantello verdescuro tenuto allacciato da una fibbia in oro e ambra a forma di spirale. La donna alzò il viso e si abbassò il cappuccio. Nonostante l’età fosse molto diversa, Giovanni riconobbe subito quegli occhi verde-azzurri dal taglio affilato. E riconobbe la voce! Era lei: Palasina!

L’erborista si avvicinò a sua madre, le toccò la testa, il petto, i polsi, la pancia e le anche. Dopo lievi massaggi circolari che, a detta della madre, sprigionavano un insolito calore, spalmò sul bacino della donna un impiastro di erbe recitando alcune preghiere in una lingua sconosciuta. “Molto bene Messer Giovanni, ho finito. Stasera faccia bere a sua madre un infuso di malva e tiglio. Nel giro di due giorni starà meglio”. E l’anziana donna se ne andò.

Nessuno si ricordava di averla vista entrare né uscire; nemmeno la cameriera! Nessuno nel villaggio la conosceva, meno di tutti il parroco!Eppure…dopo due giorni la madre era guarita!

Re Gotofredo manifestò un’incredula, finta, felicità. Quella sera stessa Giovanni tornò sull’altura dove aveva conosciuto Palasina. Quando il buio fu fitto e la notte profonda, lei apparve. Non disse una sola parola, ma sorrise. Giovanni provò l’impulso di abbracciarla. Dopo un lungo indescrivibile bacio, Palasina lo prese per mano invitandolo a seguirla. “Ma devi chiudere gli occhi!”.

“Bene Giovanni, puoi riaprirli ora!”. Giovanni si ritrovò sulle sponde di un piccolo lago illuminato dalla luna che sembrava volentieri specchiarsi in quelle fredde e limpide acque appena increspate dal vento dei monti circostanti. Tutt’intorno pascoli e distese di fiori avvolti dalla luce argentea del plenilunio.

“Benvenuto nella mia dimora: questi piccoli laghi di montagna dove per fortuna non è ancora arrivata la follia di tuo padre. Benvenuto nel regno liquido di Palasina, principessa dei Nani, figlia di re Gorgoscuro.. che tra poco conoscerai! I laghi, per noi del piccolo mondo, sono vere e proprie porte, sono dei luoghi di passaggio e di comunicazione tra il mondo di sopra e il mondo di sotto. Ovviamente questi passaggi magici si aprono solo se noi lo vogliamo!”

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Improvvisamente nel centro del lago si formò un vortice da cui uscì un uomo. O meglio, un Nano! Basso, certo, ma molto muscoloso e dall’aspetto autoritario. Il viso squadrato avvolto da lunghi e folti capelli e barba biondo-rame. Re Gorgoscuro era arrivato! Sul mantello la stessa fibbia in oro e ambra a forma di spirale.

I tre parlarono tutta la notte, una notte che sembrò non finire mai! Re Gorgoscuro dimostrò di conoscere assai bene il cuore di Giovanni e manifestò grande preoccupazione per la sorte della vallata. Occorreva privare re Gotofredo del potere. Giovanni, però, non voleva che morisse: bisognava che si pentisse. Ma come?

Fu così che re Gorgoscuro trovò una soluzione. ” Tuo padre potrà riprendere i lavori della torre sulla rocca ma sarà chiamato a rispettare alcune regole che un vecchio architetto saggio gli elencherà. Staremo a vedere…”

L’indomani Giovanni si svegliò nel suo letto, come se nulla fosse successo. Accanto a lui, sul cuscino, la fibbia a spirale… Giovanni ebbe la certezza di non aver sognato! Allo scoccare delle dodici, l’araldo annunciò a re Gotofredo l’arrivo di un capomastro che voleva parlargli. Il re convocò anche i suoi figli, Giovanni compreso.

Ma certo! Quei capelli, quella barba, quella voce… Era re Gorgoscuro sotto mentite spoglie! ” Re Gotofredo, grazie per avermi ricevuto. Mi è giunta voce che desiderate da tempo erigere una torre fortificata sulla vetta rocciosa che domina il fondovalle, ma che diversi incidenti ve l’hanno finora impedito. Bene, se ascolterete i miei suggerimenti, riuscirete a realizzare il vostro progetto!”.

“Ah, dite vecchio? E quanto mi costeranno i vostri consigli?”. Già con questa prima reazione, accompagnata dalle risate sguaiate dei quattro figli maggiori, re Gotofredo aveva cominciato male, molto male!

” Per prima cosa voi e i vostri quattro valorosi figli maggiori dovrete recarvi sulla rocca portando con voi tutti gli attrezzi, i materiali e il necessario per creare le fondamenta. Sappiate però che per prima cosa dovrete prosciugare uno stagno drenandone le acque verso i campi senza sprecarle ed evitando che le rane che vi vivono muoiano.

“Coooosa?! Voi siete pazzo! Io non mi sporco le mani in questi lavori da servo! Dirò ad altri di farlo!”. Intervenne Giovanni:” Padre, visto che finora coi metodi tradizionali, non vi siete riuscito, perché non tentare?”.

Re Gotofredo non parve convinto e i figli grandi non avevano nessuna voglia di faticare… Tuttavia il giorno successivo si misero in marcia come indicato, ma vollero che anche Giovanni andasse con loro! Una volta sul posto il re e i quattro figli maggiori iniziarono ad impartire ordini a Giovanni che, in silenzio, cercava di fare tutto ricordandosi però delle indicazioni del vecchio capomastro.

“Scava! Scava!”, gli urlava il padre, ” sono sicuro che quassù c’è l’ingresso alle miniere dei Nani! Quel vecchio di ieri sera non mi ha persuaso! Secondo me qui sotto da qualche parte c’è l’oro di queimaledetti!”. I fratelli iniziarono a scavare alla rinfusa, mossi solo dal desiderio di trovare l’imbocco delle miniere. Giovanni tentò più volte di fermarli e farli ragionare, ma fu inutile. La sommità della rocca era stata violata e scavata in ,aniera selvaggia! -Ignorarono anche lo stagno che venne sfondato e riempito di terra; le rane fuggirono, molte vennero persino uccise per gioco! Giovanni iniziò ad urlare, a piangere, ma i fratelli lo aggredirono.

Improvvisamente al centro della rocca si aprì un buco che presto si riempi d’acqua. L’acqua continuava ad aumentare e inghiottì re Gotofredo e i quattro figli sciagurati. Tutto tremava. Madre Natura si stava ribellando! Giovanni, spaventato, aspettava la sua fine.

Ma quella specie di terremoto finì. Giovanni aprì gli occhi e vide che tutto era tornato come prima. Anche lo stagno era di nuovo al suo posto e cinque grossi rospi gracidavano rumorosamente! “Ecco Giovanni, ti presento tuo padre e i tuoi fratelli!”. Giovanni so voltò e incrociò il sorriso della dolce Palasina.

La guardò interrogativo. “Sì, Giovanni, amore mio, quei cinque rospi sono proprio loro. Hanno ignorato le indicazioni di mio padre, anzi, peggio: volevano sventrare la montagna! Non meritano nulla! Non moriranno, ma vivranno in eterno da rospi! Forse da animali capiranno meglio il valore e l’importanza della natura!”.

Giovanni riconobbe che Palasina aveva ragione. La abbracciò e le dichiarò il suo eterno amore, ma… Palasina piangeva; comparve re Gorgoscuro che disse: “Giovanni, cuore d’oro, tu avrai per sempre l’aiuto del mio popolo e di quello della mia sposa Evanzia. Ma con rammarico non posso permettere che mia figlia sposi un umano: ciò non è consentito dalla nostra legge! Lei potrà starti vicino, in varie forme e modi, ma non potrete più vedervi così né diventare marito e moglie! Ora sarai tu a guidare gli uomini della vallata e potrai risollevarli dalla miseria riportando pace e armonia. Io stesso ti aiuterò! Solo fino alla prossima luna nuova potrai stare con Palasina, poi lei cesserà di apparirti.”

La decisione di re Gorgoscuro era inappellabile e Palasina lo sapeva. Nei giorni che rimasero, i due giovani erano sempre insieme. Spesso si rifugiavano sui laghi lassù, in alto, incastonati tra i monti. Giovanni si dimostrò un sovrano giusto e magnanimo, la valle presto tornò a fiorire. E la torre sulla rocca?

Giovanni non volle mettervi mano; andava quasi ogni giorno a vedere i rospi per accertarsi che stessero bene, ma lasciò il compito al suo primogenito: Ibleto.

Fu lui a costruire per primo la grande torre fortificata sulla cime dell’altura rocciosa a strapiombo sul fondovalle. Al centro del cortile interno fece creare un magnifico pozzo sul cui fondo, pare, sarebbe rimasto lo stagno coi rospi. Visto dall’aslto del magnifico scalone ad archi rampanti, dà quasi l’impressione di un vortice, simile al rincorrersi delle gallerie sotterranee. Quella fortezza, sobria ma raffinata, rispecchiava la sua personalità e le ultime volontà di suo padre Giovanni.

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Ibleto ebbe sempre l’aiuto dei Nani e del popolo del fiume Evanzio. Ancora oggi nella valle i cantastorie narrano di quel giovane innamorato della principessa Palasina che, pare, gli diede comunque un figlio, il suo primogenito: Ibleto, che sin dalla nascita ha indossato una certa fibbia d’oro e d’ambra…

Si narra anche che, in certe notti di luna piena, affacciandosi sulla bocca del grande pozzo si oda gracidare e che, nelle stanze, si possa scorgere il profilo di una soave e splendida fanciulla, Palasina, la principessa dei Nani.

Protagonista di questo racconto è il castello di Verrès, ma non solo: protagonista è l’intera Valle di Ayas, con le sue leggende, le sue vette, i suoi laghi e, naturalmente, le sue miniere! Venite a scoprirla, in Valle d’Aosta!

 

Ringrazio anche stavolta l’amico Enrico Romanzi per la splendida immagine di copertina.

Stella