Goth-tale di Halloween. L’oscuro signore di Montmayeur

Ed eccoci ad #Halloween, una “festa” che personalmente non amavo e non “praticavo” fino a quando non sono diventata mamma! Così, oggi 31 ottobre, tra zucche, fantasmi, ragnatele e pipistrelli, con 2 streghette eccitatissime che si preparano a fare #trickortreat, voglio rendere omaggio a uno tra i castelli meno noti e più misteriosi della Valle d’Aosta: Montmayeur, in comune di Arvier.

Dai fiabeschi scenari dei Castelli da fiaba protagonisti del mio libro estivo, al più cupo profilo di un maniero diroccato a guardia della Valgrisenche.

Sarà un volo immaginario e immaginifico sulle labili tracce di questo misterioso signore, la cui ombra sinistra permea e ammanta il severo profilo roccioso di questa torre sospesa sul baratro…

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La casa sua il signore di Baux

l’ha costruita sui sassi…

La casa sua il signore di Baux

l’ha costruita sui sassi…

Passi di mille cavalieri

segnano i suoi sentieri,

vegliano dall’alto nella notte

gelidi i suoi pensieri…

I versi della nota ballata di Angelo Branduardi ben si adattano ad illustrare questo luogo e lo spettro immanente del suo antico signore.  Una musica fiera e solenne, ritmata da un progressivo aumentare di percussioni aiuta ad immaginare l’avanzata dei cavalieri in sella ai loro destrieri; una lunga fila di armigeri pare risalire l’impervio sentiero che conduce alla sommità di un’altura isolata, dal fascino sinistro. Siamo all’imbocco della Valgrisenche, una delle vallate più selvagge della Valle d’Aosta. Una vallata dai fitti boschi e dagli interminabili inverni che divide questo estremo lembo d’Italia dalla vicina Tarentaise francese. Prestando attenzione, si possono ancora udire, tra i ruderi, le voci, le grida, i rumori degli antichi abitanti scomparsi… Scomparsi, forse, in una sola notte di luna nera, improvvisamente, misteriosamente… e di loro non si seppe più nulla. Solo l’estrema ferocia attraversò i secoli, vestita di leggende e fantasmi figli della notte.

A GUARDIA DELLA SEVERA VALGRISENCHE

Da Arvier si imbocca la strada che, con ampi e frequenti tornanti, si inerpica fino ad arrivare al bivio per Grand Haury, un piccolo villaggio dove il tempo pare essersi fermato. Lassù, in alto, ecco apparire l’austero profilo della torre-mastio, risalente al XIII secolo. Pare uscita da un fosco racconto medievale questa struttura fortificata mimetizzata nel bosco,  in cima a uno sperone roccioso con pareti a strapiombo; una posizione estrema, isolata, inquietante.

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OSCURE LEGGENDE

Ancora oggi infatti si narra del signore di questo maniero: un uomo perfido e astuto, dalla ferocia inaudita. Un vero e proprio “nido di avvoltoi” circondato da cupe leggende, così viene descritto in numerose cronache ottocentesche, trasudanti di “dark Romantic”: si racconta di nemici uccisi, sgozzati, decapitati, mutilati e poi gettati nel baratro dall’alto della torre.

Secondo una leggenda, intorno al 1450, un conte di Montmayeur che, in lite con un cugino, era stato ritenuto colpevole dal tribunale di Chambéry, con un pretesto invitò nella sua dimora il presidente della giuria del tribunale, Guy de Feissigny; lo fece accomodare, certo, ma per…decapitarlo!. La sua testa fu quindi recapitata ai giudici di Chambéry, come “documento che mancava al processo”. Per sfuggire alla cattura il conte di Montmayeur sarebbe fuggito sulle montagne e di lui non si seppe più nulla.

Montmayeur: Uno scabro castello “primitivo”, ossia essenziale, composto da una torre circondata da mura, ben difese e arroccate in una posizione da cui si poteva vedere tutto senza essere visti. Montmayeur: una torre fatta di rocce, dello stesso color della roccia, a tratti quasi invisibile, tanto bene è mimetizzata… talvolta la si potrebbe persino credere una “torre fantasma”.

Montmayeur nacque così e tale è rimasto. Mai un rimaneggiamento, mai un adattamento… una postazione militare, lassù, in cima ad un tremendo salto nel vuoto avvolto dai boschi.

Un maniero militare, cristallizzato… quasi che, ad un certo punto, i suoi stessi proprietari siano fuggiti e mai più nessuno vi abbia fatto ritorno se non, come narrato da alcuni, le streghe della vallata nelle notti di luna nera….

Un signore terribile, quello di Montmayeur, che mostra suggestive affinità con un altro, noto e feroce signore: quello di Baux!

SOGNANDO LA FUGA DEL SIGNORE DI BAUX

I Baux: una potente famiglia feudale che, nel X secolo, si stabili’ al limite delle Alpilles, in un altopiano quasi incastrato tra le Alpi e i Pirenei, edificando sulle rocce un imponente castello, arroccato sul ciglio di un dirupo, tanto maestoso da diventare parte delle rocce stesse e da dominare l’intera vallata.

Il castello di Les-Baux-de-Provence (provence-pays-arles.com)
Il castello di Les-Baux-de-Provence (provence-pays-arles.com)

Roccia su roccia, il castello di Les-Baux-de-Provence lascia letteralmente senza fiato! La fortezza degli impavidi principi-guerrieri: coraggiosi al limite della sfrontatezza, ambiziosi, arroganti, forti, senza scrupoli e spesso senza pietà.

Per quasi cinque secoli i Signori di Baux riuscirono a difendere il loro dominio, capaci di tenere testa a re, imperatori e pontefici. Tanto forti e orgogliosi da dichiararsi discendenti di Baldassarre, uno dei tre Re Magi;  non a caso, per ricordare i loro reali e mistici natali, il loro stemma era rappresentato come una cometa bianca in campo rosso. Tanto impavidi e fieri da essere definiti dal poeta Mistral “Stirpe di aquile, mai vassalli”.

Les Baux de Provence
Les Baux de Provence

La loro storia è una lunga ed impetuosa catena di guerre, sangue e tradimenti. Una corte comunque colta, ricca e raffinata fino a quando la morte di Alix, ultima principessa della stirpe, farà estinguere il mondo dei Baux.

A metà del 1300 il visconte Raymond de Turenne diventò tutore della giovane nipote Alix de Baux, ultima principessa della città-fortezza.

Il visconte causò una guerra civile che lacerò la fama di Les Baux, soprattutto a causa della sua crudeltà. Chiamato ‘flagello della Provenza’, costringeva i prigionieri a buttarsi dal castello nel vuoto dei burroni, per semplice divertimento (stesso “hobby” del signore di Montmayeur… quest’ultimo però più sanguinario!).

Per eliminarlo, il re di Francia e il papa – per i quali Raymond aveva peraltro in precedenza combattuto – ingaggiarono dei mercenari, che però devastarono numerosi territori non coinvolti nello scontro senza riuscire nel loro intento: Raymond de Turenne riuscì comunque a scappare facendo perdere completamente le sue tracce!

Si narra che i Baux scomparvero nell’arco di una sola notte e che, già il mattino seguente, il castello era distrutto. E parrebbe anche che i Baux divennero i “Del Balzo” e giunsero nel Sud Italia al seguito di Carlo d’Angiò, insediandosi tra Campania, Abruzzo e Puglia.

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E’ bello immaginare che la fortezza valdostana possa quasi essere la traccia di questa fuga, la testimonianza di un rifugio segreto, seppur transitorio, nel cuore di monti inaccessibili.

Del resto ben diceva il canonico Bethaz parlando della sua terra: «A Valgrisenche on y va ni par mer ni par terre, mais par rocs et par pierres››.

Stella

Neve di primavera: l’Alpis Graia tra Valle d’Aosta e Savoia.

Il lungo inverno è giunto al termine… o quasi! Ai primi di maggio il colle del Piccolo San Bernardo, al confine tra Valle d’Aosta e Savoia, giaceva ancora sotto metri di neve.

Il 30 maggio, sempre se le condizioni meteo lo consentiranno, i mezzi italiani e francesi taglieranno nuovamente quella candida mole ghiacciata riaprendo la strada: un evento che da sempre va celebrato e festeggiato!

E non una strada qualsiasi, ma un collegamento che affonda le sue radici molto indietro nel tempo, probabilmente fino allo scorcio finale dell’epoca neolitica, periodo al quale risalirebbe il misterioso cromlech al centro del passo, situato a 2188 metri di quota.

Un tracciato, quindi, pre e protostorico, poi trasformato dai Romani nella Via delle Gallie che da qui passava per dirigersi a Lugdunum (oggi Lione). Una via importante anche nel Medioevo vista la fondazione dell’Ospizio da parte di San Bernardo d’Aosta nell’XI secolo. 

E non è un caso se proprio da qui passa il Cammino di San Martino, Itinerario culturale d’Europa: 2500 km che collegano l’odierna città di Szombathely (l’antica Savaria) in Ungheria, dove Martino nacque nel 316 d.C., e la francese Tours, dove riposano le sue spoglie.

Il Colle del Piccolo San Bernardo, una vera e propria “terra di mezzo” dove i confini, nei secoli, non sono in fondo mai stati così netti, così geometricamente definiti. E’ la terra dei pascoli in quota, degli alpeggi, dei laghetti effimeri che appaiono dopo lo scioglimento delle nevi e che, con l’autunno, di nuovo scompaiono nella morsa dei ghiacci.

Il Colle del Piccolo San Bernardo, testimone di oltre 4000 anni di storia, è uno di quei rari luoghi in cui l’alpinismo, lo sport e l’avventura, si fondono al respiro e alle tracce del più remoto passato.

Vi propongo una pausa di alcuni minuti per gustarvi un video a mio avviso splendido, realizzato in occasione di un recente Progetto Interreg Alcotra dedicato, appunto, a questo prezioso patrimonio transfrontaliero.

E’ la terra dominata dalla magia ancestrale del cromlech: cerchio megalitico risalente all’Età del Rame (III millennio a.C.) composto da una cinquantina di pietre (i menhir) che, simbolicamente, sottolinea una zona sacra di confine, di transito, di scambio, di fusione tra popoli e culture. Un circolo di pietre orientato in modo tale da segnare, ogni anno da millenni, il solstizio d’estate.

Il cromlech è costituito attualmente da 46 pietre allungate e appuntite, poste ad una distanza di 2  o 4 metri una dall’altra, disposte a formare vagamente una circonferenza di circa 80 metri di diametro. Alcune di queste pietre presentano forme particolari: una in particolare si distingue per le sue dimensioni: larga circa 80 cm, ha una forma squadrata e leggermente appuntita, e risulta più alta rispetto alle vicine.

Il cromlech com'è attualmente dopo gli scavi condotti dalla Soprintendenza nel 2009 che hanno portato alla modifica del tracciato stradale che prima tagliava il cerchio di pietre a metà.
Il cromlech com’è attualmente dopo gli scavi condotti dalla Soprintendenza nel 2009 che hanno portato alla modifica del tracciato stradale che prima tagliava il cerchio di pietre a metà.

Nelle vicinanze venne inoltre scoperto, negli anni Venti del secolo scorso, un fanum, ossia un tempietto a pianta centrale di tradizione gallica utilizzato fino alla tarda età romana che, seppur di epoca molto successiva al cromlech, testimonierebbe il fatto che tutta la zona è stata un importante ed emblematico luogo di culto nell’antichità.

Qui, soldati, mercanti e viaggiatori si fermavano a pregare Giove, padre degli dei, presente in ogni più sperduta landa del vasto e multiforme Impero.

Busto di Giove Graio in argento sbalzato, rinvenuto sul Colle del Piccolo San Bernardo, associato a un ricco corredo rituale.
Busto di Giove Graio in argento sbalzato, rinvenuto sul Colle del Piccolo San Bernardo, associato a un ricco corredo rituale.

Scritti di autori locali testimoniano la presenza di un’alta colonna di porfido grezzo, la Columna Jovis, sormontata da un grosso rubino detto l’occhio di Giove o Escarboucle, dotato di poteri magici capaci di disorientare gli uomini e far perdere loro la strada; questa colonna in origine doveva far parte del fanum gallo-romano, mentre ora è di sostegno alla statua di San Bernardo.
Petronio descrive questo luogo come sacro a Ercole Graio, riferendosi al mito del passaggio dell’eroe attraverso l’Alpis Graia che, non a caso, proprio da lui prende il nome:

“Nelle Alpi vicine al cielo, nel luogo in cui, scostate dalla potenza del Graio nume, le rocce si vanno abbassando, e tollerano di essere valicate, esiste un luogo sacro, in cui si innalzano gli altari di Ercole: l’inverno lo copre una neve persistente e alza il suo bianco capo verso gli astri” (Petronio, Satyricon,122)

É quel limes, ossia quella linea di confine voluta dalle legioni romane, oggi invisibile ma sempre percepibile, che qui, a 2.188 metri di quota, sin dai primi transiti umani ha reso sacro il luogo del passaggio attraverso le montagne.

Pro itu et reditu …

Stella

“Là dove c’era l’erba…” A spasso per Aosta fino all’Area megalitica

“Là dove c’era l’erba ora c’è… una città-aaa”; credo che questo refrain vi sia noto… chi non ha mai cantato o anche solo ascoltato questo famosissimo brano del grande Adriano Celentano?

Presentato a Sanremo nel 1966, subito non riscosse grande successo, anzi, una canzone che si faceva portavoce di una problematica socio-ambientale all’epoca pareva “stonata” tra le note più famigliari tipicamente festivaliere di fiori, amori e cuori sospirosi.

E invece, il pubblico la premiò! E ancora oggi risulta quanto mai attuale, non è vero?

Ebbene, accompagnati dall’inconfondibile voce nasale del “ragazzo della via Gluck”, oggi vorrei portarvi con me in passeggiata lungo via Saint-Martin-de-Corléans, un’arteria decisamente trafficata che ai più risulta sgradita e sgradevole; insomma, mi potreste dire, ci sono così tante belle passeggiate da fare sia in città che fuori, e tu proprio qui ci vuoi portare?!

Allora, un piccolo passo indietro.

Non nego che anch’io non abbia mai visto questa strada in maniera tanto “amichevole”: marciapiedi stretti o “a macchia di leopardo”, palazzoni, rumore, auto che sfrecciano di continuo, lavori di varia natura, pochi negozi “accattivanti”… sì, ecco, non certo un luogo adatto al quieto passeggiare… Eppure…

Sarà che da quando sono uscita dall’ospedale, dopo il terribile ictus del 2018, ho percorso per oltre 2 anni questa via 2 volte a settimana per andare alla “Ex Maternità” a fare la mia buona riabilitazione.

Sarà che spesso ad accompagnarmi c’era mio suocero, l’arch. Alessandro Acerbi, classe ’41 (che ci ha lasciato nell’agosto del 2020 e che ricordo con immenso affetto), che ogni volta mi raccontava storie e aneddoti di un’Aosta che non c’è più, o che forse aspetta solo di essere ritrovata, conosciuta e raccontata.

Sarà che tutti i suoi racconti mi hanno incuriosito al punto da andare a cercare i due volumi dell’arch. Giuseppe Nebbia dedicati all’Aosta moderna e contemporanea per approfondire alcuni aspetti e verificare certi dettagli.

E infine, sarà che vorrei tanto che questa strada così ricca di testimonianze riuscisse a rivivere e a essere percorsa a piedi per accompagnare aostani e non fino a quel luogo speciale, anch’esso in buona misura incompreso e criticato sebbene ricco di storia e di opportunità; quel luogo senza tempo, oltre il tempo, in cui lo scorrere dei millenni ha cristallizzato le pieghe più intime del vivere umanol’Area Megalitica di Saint-Martin-de-Corléans.

Perciò, via, si parte! Cominciamo dall’incrocio tra via Martinet, viale Ginevra e, sulla sinistra, via SMdC (d’ora in poi la abbrevio così che mi viene più rapido… inoltre tenete conto che ormai o scrivo solo con la sinistra quindi, abbiate pazienza..). Proprio qui sorge, incombente e monumentale, Palazzo Stella, progettato dallo studio del famoso architetto milanese Giò Ponti, cui si deve anche il palazzo del Cral Cogne, nei primi anni ’50.

Esattamente di fronte l’Ospedale “Umberto Parini”, voluto dall’Ordine Mauriziano in sostituzione del precedente edificio situato in piazza Deffeyes, dove ora si eleva Palazzo regionale. Il complesso nacque su campi prima occupati, a ovest, dalla cascina Bibian, e a est dalle propaggini settentrionali dell’area cimiteriale di Santo Stefano, utilizzata fino all’attivazione del nuovo cimitero monumentale realizzato alla periferia occidentale del capoluogo, progettato dall’arch. Egisippo Devoti e inaugurato il 6 novembre 1930.

Un’area di sepoltura quella lungo viale Ginevra, un tempo evidenziata dall’oratorio goticheggiante di Saint-Jean-de-Rumeyran ( situato all’incirca dove oggi c’è la pensilina dei bus) e che, alla luce delle più recenti indagini archeologiche, affonda le sue radici assai prima del “secolo breve” o delle epoche medievali. La nota e discussa sepoltura sotto tumulo di pietre del cosiddetto “guerriero celtico” si data infatti alla Prima Età del Ferro, ma altri ritrovamenti rimanderebbero persino alla precedente Età del Rame. Tuttavia non è questa la sede per addentrarci in cantiere, anche perché saranno gli archeologi che vi lavorano a darne notizia quando lo riterranno opportuno. Lasciamo perciò momentaneamente da parte il risuonare dei carnyx celtici e torniamo tra presente e recente passato.

L’ospedale, dicevamo. Progettato nel ’39, venne inaugurato nel ’41 e terminato nel ’42. Un impianto netto, sobrio e geometrico, di puro stile razionalista, sebbene la forma quasi a spirale possa conferirgli un movimento ulteriore, per alcuni baroccheggiante, per altri quasi futurista. Orientato secondo l’asse eliotermico garantiva il massimo soleggiamento, ulteriormente amplificato dai grandi terrazzi e ben arieggiato grazie alle notevoli altezze interne. Pare che in origine vi fosse la volontà di creare non solo un semplice ospedale, ma un centro specializzato nella cura della tubercolosi.

Procediamo fino all’angolo con via Monte Solarolo dove, sul lato sud, sorge il poderoso ed elegante Palazzo Lucchini, uno dei primi condomini della città, eretto nel 1948.

Continuiamo fino alla rotonda davanti alla banca BNL; sul lato opposto della strada,al civico 72, notiamo un raffinato villino anteriore agli anni ’30 dall’entrata sottolineata da una coppia di leoni ed impreziosita da un triplice livello di portico frontale.

Ecco, d’ora in poi immaginiamo di essere nei primi anni del XX secolo arrivando al massimo agli anni ’50 quando l’originaria strada sterrata che attraversava campi, orti e giardini, venne poi trasformata in un asse stradale di moderna concezione adatto al nuovo traffico veicolare e funzionale al progressivo ed inesorabile sviluppo urbano di un’Aosta operaia e militare.

Militare, appunto. Una città ritenuta strategico baluardo al di qua delle Alpi sin da epoca romana, tra la fine dell’Ottocento e gli anni ’40 del Novecento vide ancor più enfatizzata questa sua marziale identità con la costruzione, a più riprese, delle caserme e dei quartieri annessi.

Cominciamo per correttezza e completezza dalle caserme Beltricco e Testafochi, oggi rimodellate per essere trasformate in villaggio universitario, affacciate su Piazza della Repubblica (amichevolmente nota come “Piazza della Lupa”), un tempo Piazza d’Armi del Plot, su cui svetta la Casa Littoria, terminata nel 1938.

Il nucleo primigenio è l’edificio intitolato ad Aldo Beltricco, costruito al centro dell’area militare in questione tra il 1886 ed il 1887, giocato sul contrasto, sia materico che cromatico, delle modanature in mattoni e delle larghe specchiature in intonaco.

Il complesso della Testafochi prevedeva , oltre all’edificio principale aperto sulla piazza tuttora esistente, anche due corpi laterali ( le palazzine Zerboglio e Urli) distrutte per lasciare il posto ad altrettanti edifici di gusto contemporaneo che ospiteranno le future aule ed alloggi universitari.

Tornando su via SMdC, ai civici 85-87, troviamo le caserme “Cesare Battisti”, il cui corpo principale si data al 1939. Altra emblematica testimonianza dell’anima militare di Aosta, l’Aosta che diede appunto il nome al valoroso battaglione alpino, unica Medaglia d’Oro nella Grande Guerra: ” Ca cousta l’on ca cousta, Viva l’Aousta !(Monte Solarolo, 25-27 ottobre 1918).

Sul lato opposto della via, al civico 86, si erge un’elegante palazzina a 3 piani con balconcini sfalsati e tetto a padiglione anteriore agli anni ’30.

Proseguendo, al civico 132, occhieggia tra gli alberi, isolata in un giardino come una gemma preziosa, Villa Brezzi. Progettata dalla Società Ansaldo nel 1919 e in seguito realizzata negli anni 1922-24 in concomitanza della realizzazione del Quartiere Operaio denominato poi “Cogne”, era destinata ai massimi dirigenti della Cogne Acciai Speciali. Un fabbricato allo stesso tempo elegante ed austero, mosso da avancorpi, logge e bay-window, ancora dotata di una portineria collocata all’ingresso. Venne soprannominata dagli Aostani “Villa Brezzi” dal cognome dell’allora direttore degli stabilimenti Cogne, l’ing. Brezzi. Oggi è la sede della sezione valdostana dell’ANA.

Superiamo quindi la zona delle caserme fino a raggiungere la rotonda di via Monte Grivola. Qui sorge un’altra graziosa abitazione di inizio Novecento: Villa Silva. Restaurata recentemente conserva la poesia e la leggiadria del suo aspetto originario, ulteriormente rievocato dai cantonali in bugnato a contrasto con la tonalità pastello dell’intonaco e la nitida geometria delle specchiature; bella e particolare l’apertura semicircolare della lunetta superiore.

Continuando a passeggiare arriviamo nella zona “Gagliardi” dove si trovano la “Casa Gagliardi”, palazzina d’abitazione al civico 236, a 4 piani, sempre con balconcini sfalsati con belle balaustre in ferro battuto e notevole tetto a padiglione. Poco oltre l’edificio noto come “ex clinica Gagliardi”, costruita sempre negli anni ’30 e attiva come struttura sanitaria generica sin dai primi anni ’40. Rimase in funzione, anche come succursale della Maternità (che verrà realizzata a breve distanza nei primi anni ’50) fino all’inizio degli anni ’80 quando poi chiuderà.

Giungiamo quindi all’incrocio con Viale Conte Crotti, intitolata al conte Edoardo Giovanni Crotti di Costigliole, nato in quel di Saluzzo (CN) il 21 ottobre 1799. Appartenente ad una tra le più antiche famiglie nobili della zona, secondogenito del conte Alessandro intendente generale di Nizza (dal 1819) e di Marianna de La Chavanne, savoiarda. Un viale chi si nomina spesso, ricco di attività commerciali e con negozianti ed imprenditori dal vivace spirito di iniziativa. Sicuramente una zona che meriterebbe maggiore attenzione e che potrebbe trarre giovamento,così come l’intero quartiere di SMdC, dalla presenza dell’Area Megalitica coperta più vasta d’Europa!

Inoltre forse non tutti sanno che si viale Conte Crotti prospetta un condominio progettato dall’arch. Carlo Mollino, realizzato tra 1951-53, che riprende, seppure in senso orizzontale anziché verticale, le peculiarità della “Casa del Sole” a Breuil-Cervinia.

Ma prima proviamo a conoscere più da vicino questo conte Crotti, la cui bella cappella funeraria di famiglia si erge al centro dell’antico Cimitero di Sant’Orso distinguendosi per il suo ricercato stile goticheggiante di fine Ottocento.

Avviato alla carriera militare ed entrato assai giovane nel Liceo imperiale di Genova, ne uscì sottotenente, effettivo dal 21 giugno 1815. Luogotenente dal 1819, capitano dal 1825, direttore dei cadetti all’Accademia militare di Torino, abbandonerà la carriera militare nel 1839 con il grado di maggiore. Il 28 luglio 1838 re Carlo Alberto gli aveva conferito motu proprio il titolo di conte, trasmissibile ai discendenti maschi. Acquistò dal cognato conte Passerin d’Entrèves una tenuta sul promontorio di Beauregard presso Aosta, stabilendovisi nel 1850: vi esplicherà notevoli opere caritative e s’impegnerà nella locale amministrazione rendendosi portavoce di un ambiente fortemente tradizionalista e clericale. In Aosta fondò una Société de bon secours per abolire la mendicità ed il vagabondaggio: annessa alla collegiata della città, l’opera cadrà in seguito alla soppressione di quella per le leggi ecclesiastiche piemontesi del 1854. Venne inoltre nominato direttore dell’Ospizio di Carità e ne ottenne il patrocinio di Vittorio Emanuele che nel 1857 lo insignì di medaglia d’oro (“Al conte Edoardo Crotti di Costigliole, saggio e zelante amministratore d’Istituti di beneficenza”). Affiancò quindi il vescovo Mons. A. Jourdain nell’istituzione dell’asilo Principe Amedeo ( ancora visibile il busto del conte Crotti sulla facciata della scuola dell’infanzia in via Anfiteatro, 1). A più riprese fu membro del Consiglio comunale di Aosta e nel 1857 fu eletto come deputato di Quart al Parlamento Subalpino.

S’impegnò a fondo per rappresentare alla Camera la situazione valdostana perorando la costruzione della ferrovia Ivrea-Aosta o, in alternativa, il miglioramento della strada nazionale attraverso la vallata: ne faceva dipendere la rivitalizzazione di quella economia, in specie dell’industria mineraria e dei traffici con Francia e Svizzera: ottenne il voto favorevole della Camera il 30 luglio 1870, al termine di un lungo dibattito e malgrado l’opposizione dei ministri dei Lavori pubblici e delle Finanze.

Morì adAosta il 25 settembre 1870.

Ecco dunque comparire sulla nostra destra il grande fabbricato oggi denominato “Ex Maternità”, dove i primi vagiti si son fatti sentire fino alla metà degli anni ’80, quando poi tale destinazione passò al Beauregard, nato invece originariamente come istituto geriatrico. Le forme sobrie, le grandi finestre a luci multiple e gli avancorpi dall’andamento semicircolare rimandano agli anni ’50, periodo cui risale anche il Dispensario Antitubercolare di via G. Rey.

Superate le scuole medie “E. Martinet” ecco apparire il monumentale complesso dell’ Area Megalitica, giocato su forme che vogliono staccarsi dall’ambiente circostante proprio per sottolineare la presenza di qualcosa di diverso e di molto speciale. Forme taglienti, spezzate, che interrompono il presente per accompagnare, quasi come su una nave spaziale, in un inatteso viaggio nel più remoto passato. Forme lucide, vetrate, riflettenti e trasparenti che vogliono appositamente attrarre la luce che, sia diurna che notturna, si rivela componente fondamentale ed imprescindibile all’origine del sito e dei suoi allineamenti, vere forme “ponte” tra cielo e terra.

Un complesso diverso, è vero, ingombrante, è vero, strano e poco famigliare (almeno per noi e per le nostre famigliari latitudini socio-geografiche), ma decisamente particolare, comunque capace di colpire e destare stupore e curiosità. un complesso che racchiude il cuore neolitico e non solo di Aosta, della Valle, finanche delle Alpi nord-occidentali: difficile, forse oscuro, “misterioso”, ma per questo assolutamente stimolante.

Tuttavia non così elevato ed invadente da oscurare la bellezza, tanto essenziale e semplice quanto emozionante, della vicina cappella romanica intitolata a San Martino, ricca di storia e pregna di significati, tra fede, leggende e folklore.

Dagli enigmatici reperti dell’Area Megalitica fino alla chiesetta di Saint Martin per poi approdare all’altra inattesa verticalità tronco-piramidale della cosiddetta “Pagoda”, la nuova chiesa parrocchiale del quartiere, per un vero e proprio viaggio nella storia e nella spiritualità a cavallo tra cielo e terra, tra mondo dei vivi e Aldilà sulle tracce del passaggio del “soldato di Cristo”, dell’ “Apostolo delle Gallie”, San Martino appunto.

Un santo che attraversò più volte l’Europa del IV secolo d.C. e il cui Cammino, la Via Sancti Martini, lungo ben 2500 km, unisce l’attuale Ungheria (terra natale di Martino) alla Francia, a Tours, dove fu vescovo e dove riposano le sue spoglie. Un Cammino dal 2005 dichiarato, come la Via Francigena, Itinerario Culturale d’Europa, e che attraversa anche la Valle d’Aosta raggiungendo la Francia dal colle del Piccolo S. Bernardo. E ad Aosta passa esattamente da qui, dal quartiere di Saint-Martin-de-Corléans!

Ebbene, che altro dire se non che “Là dove c’era l’erba, ora c’è…” una zona di Aosta tutta da scoprire, passo dopo passo, con sguardo attento, curioso, privo di pregiudizi ma desideroso di capire.

Via Saint-Martin-de-Corléans, una nostra “via Gluck” dove fortunatamente non è rimasto solo cemento muto e sterile, ma, anche al di là di forme architettoniche poco comprensibili a prima vista, un importante e pluristratificato capitolo della nostra storia, cittadine e regionale.

Non ho messo foto (ringrazio di cuore gli amici Luciano David e Sandra Moschella per la bella immagine di copertina!) perché, nonostante le abbia fatte, mi piacerebbe che chi legge questo mio post, provasse ad andare di persona, attraversasse la città davvero a piedi, con calma, per trovare ciò di cui parlo e, magari, inviarmi foto e darmi informazioni aggiuntive o suggerirmi altri spunti interessanti!

Era aperta campagna.

In epoca preistorica immaginatevi innanzitutto il fiume, la nostra Dora Baltea, più grande, vasta, com ampie zone paludose; e poi terreni in pendenza e piccole “motte” di origine glaciale da cui dominare il paesaggio. Un tempo in cui questo luogo venne scelto come area prima sacra e poi anche funeraria. Un luogo speciale dunque, non credete?

In epoca romana solcata dall’arteria nord-occidentale diretta al passo dell’Alpis Graia con aree cimiteriali, ville rustiche, fattorie, campi coltivati. Poi l’epoca medievale, un primo piccolo agglomerato di casupole, la cappella lungo la strada.

E poi l’inarrestabile scorrere dei secoli, la progressiva crescita della città, il moltiplicarsi delle sue funzioni e l’inspessirsi del suo tessuto socio-culturale.

Era aperta campagna. Immaginatevi tra fine Ottocento e anni Trenta la bellezza di questi villini di famiglia, non distanti dalla città ma circondati da giardini, orti e campi. Villini isolati splendenti nelle loro eleganti architetture, segno di un raffinato vivere campestre.

E poi quella stretta strada sterrata si allarga e diventa sempre più trafficata: carri, carrozze, diligenze, auto…sempre di più!

E’ “la città che sale”, che cresce, che si muove, che si nutre di se stessa. Ma nulla è scomparso per sempre… cercatelo “là dove c’era l’erba!”.

Stella

Eclissi. La “corona” del Sole nero

eclissiGennaio 2019: super Luna rossa
Luglio 2019: eclissi di Luna
Dicembre 2019: eclissi di Sole

8 aprile 2024: eclissi totale di Sole!
Eclissi: la “corona” di un sole nero.

Molte civiltà del mondo antico avrebbero previsto che qualcosa di oscuro stava per capitare…
Per millenni le eclissi sono state un fenomeno che ha terrorizzato gente comune e sovrani, eserciti e generali: un funesto presagio perché rappresentavano un rovesciamento del quotidiano e del senso comune.
Nonostante le verifiche della scienza e le repliche, senza particolari eventi da “fine del mondo”, che si sono succedute nei millenni, questo spettacolare fenomeno continua ad alimentare fantasie, miti e leggende, per non parlare delle suggestioni  artistiche o canore. La “Luna rossa”, o la “Luna di sangue”, in inglese Blood Moon, sembra essere ancora avvolta da un’aura di mistero e le eclissi sono state spesso state associate a effetti nefasti sulla vita delle persone.

Per i Persiani l’eclissi rappresentava una punizione divina nei confronti degli uomini. Essi pensavano che tutte le volte che qualcuno commetteva o stava per commettere gesta malvagie (tradimenti, infanticidi…) gli dei chiudessero in una specie di tubo la Luna o il Sole, lasciando gli umani nel buio più completo, soli in compagnia di incubi e rimorsi.
Nell’antica Roma, si credeva che durante le eclissi fosse un mostro a divorare la luna, con lo scopo di attirarla verso la Terra. Per questo, nonostante non ce ne sia traccia nei testi letterari, per tutta la durata dell’evento si organizzavano riti per scacciare il demone; riti che continuavano anche dopo il ritorno della luce, perché si aveva paura degli effetti nefasti del passaggio del mostro.

Tuttavia, nonostante queste affascinanti (e terribili) storie, le cause delle eclissi lunari furono studiate già nel II a. C.: a Roma, il console Gaio Sulpicio Gallo aveva chiarito che le cause di questo fenomeno erano naturali e tutt’altro che magiche. Anche in Grecia gli studiosi avevano iniziato a interessarsi alle eclissi sin dal V secolo a.C.

Ma le superstizioni sono dure a morire.
Così i miti che collegano la luna rossa o le eclissi a eventi catastrofici o apocalittici, come un terremoto imminente o addirittura la fine del mondo, si ritrovano in alcune profezie di Nostradamus. In epoca medievale ci si rinchiudeva in casa per restare al riparo da spiriti o creature notturne. O si evitavano battaglie. Secondo alcune tradizioni agli uomini era anche vietato guardarla: si diceva che si potesse rimanerne incantati e diventare preda di creature mostruose.
Giovanni Keplero, nel suo Somnium uscito nel 1634, aveva raccontato di demoni in viaggio verso la Terra per rapire gli essere umani, proprio durante le eclissi.
Sappiamo per fortuna che, al di là di miti e leggende, le eclissi rientrano in un calendario cosmico regolare e prevedibile.
Oggi si conosce il cosiddetto “ciclo di Saros”, un periodo di circa 6.585,3 giorni (18 anni 11 giorni 8 ore) cui si lega la periodicità delle eclissi, in realtà già individuato dagli astronomi Babilonesi.
Ma, immaginando per un attimo di non vivere nell’oggi ma nell’ieri o addirittura nell’altro ieri, la suggestione è davvero forte!

Un Sole nero lungo 4 minuti e 28 secondi in cui tutto sembrerà fermarsi, avvolto nella fredda luce lattiginosa di un attimo di eternità sospesa.

Castello di Aymavilles. Inganno barocco

Finalmente sono riuscita a vedere in replica la prima puntata del programma Stanotte a Napoli, condotto dal sempre ineccepibile Alberto Angela. Che dire… un fantastico viaggio notturno tra i vicoli, le piazze e l’atmosfera di una città meravigliosa e poliedrica, fatta di sogni e realtà, di luci e di ombre, di angeli e demoni.

Una città plurimillenaria e dalla caleidoscopica identità che, davvero, mai come in questo caso, si fa perfetta icona del Barocco!

L’intera puntata, infatti, è un inno a questo straordinario momento culturale e sociale. Non solo artistico: il barocco ha segnato un’epoca di passaggio importantissima, quello all’età moderna, all’uomo moderno.

Dalla grandiosa Piazza del Plebiscito al sontuoso Palazzo Reale; dall’eccezionale Tesoro di San Gennaro alla struggente, affascinante e misteriosamente magnetica Cappella Sansevero passando dalla Certosa di San Martino fino a quel trionfo di colori e suggestioni che è il chiostro del Monastero di Santa Chiara.

In tutto questo, cesellato in una notte magica e avvolgente, si staglia protagonista il barocco napoletano, dove un’opulenta ed esasperata bellezza si intreccia ad un costante memento mori: goditi la vita! Godi il più possibile di ogni emozione e piacere, perché la vita è breve e fugace.

Trionfi dorati, affreschi sontuosi e voluttuose sculture si mescolano e si confondono tra teschi, scheletri, clessidre e orologi. Questa la doppia anima di un periodo in cui i contrasti si sublimano sospesi tra culto della giovinezza, esasperata ricerca dello stupore e della meraviglia, e latente monito di morte.

Ecco, in una simile cornice, ancora di più si capisce quanto il Barocco esprima lo spirito partenopeo in cui una costante celebrazione della vita, della bellezza e dell’amore si pone come antidoto e potente amuleto, tra fede, scongiuri e scaramanzia, per un’idea di morte che, per quanto presente e ineludibile, si cerca di limare e confondere.

Insomma, uno stile che bene esprime tanta parte dell’indole mediterranea! Si pensi alle diverse declinazioni che assume tra continente, isole, mari e litorali: dal ridondante barocco spagnolo che potentemente ha plasmato quello napoletano e quello siciliano, altrettanto ricco e raffinato sebbene meno sovraccarico, a quello francese: elegante e prezioso, fino a quello sabaudo piemontese, più algido e ordinato. Tanti modi di vivere, esprimere e interpretare un vero e proprio stile di vita, flessibile e mutevole a seconda delle latitudini e dei contesti.

E’ vero, un po’ per tutti gli stili è così, ma (almeno per me) nel Barocco è più evidente, più palpabile e sicuramente avvolgente. Può essere stordente e sovrabbondante, così come inaspettatamente sobrio e formale, giocato su molteplici geometrie esterne che nascondono altrettanti inattesi trionfi affrescati e decori all’interno. Un gioco, anzi, un “inganno” quest’ultimo, che bene si apprezza in almeno altre due importanti dimore barocche valdostane, il castello Vallaise di Arnad e Palazzo Roncas nel cuore di Aosta.

Château Vallaise di Arnad (regione.vda)
La galérie des Femmes fortes di Château Vallaise (S. Bertarione)
Palazzo Roncas ad Aosta prima dell’inizio dei lavori esterni (S. Bertarione)
Il loggiato del piano nobile di Palazzo Roncas (S. Bertarione)

L’importante era stupire, destare meraviglia!

Bene, direte voi, e cosa c’entra il castello di Aymavilles?

C’entra eccome! Quelle quattro iconiche torri merlate unite da ampi e luminosi loggiati vanno a comporre un edificio strano e insolito: un castello diverso che riesce a distinguersi da tutti gli altri manieri valdostani.

Quella sua doppia identità, quel suo essere ambivalente e anfibio, inaspettatamente sospeso tra Medioevo e Barocco, ne fa, fin dal primo sguardo, una dimora affascinante e ipnotica.

Il castello di Aymavilles visto da nord-ovest (C. Pizzato)
Il castello di Aymavilles visto da nord-ovest (C. Pizzato)

Le logge e gli stucchi barocchi si insinuano tra le robuste murature medievali e rinascimentali ammorbidendole, mimetizzandole e avvolgendole tra le spire di un palpitante organismo plastico e vitale.

La finestra a crociera del XV secolo annegata nelle murature settecentesche
La finestra a crociera del XV secolo annegata nelle murature settecentesche (S. Bertarione)

La ruvida pietra trecentesca si fonde con i nuovi candidi intonaci e gli stucchi leggiadri; le nobili ma severe finestre crociate vengono immerse e nascoste in nuove murature più ampie e ariose.

Il castello quattrocentesco inglobato nella successiva dimora barocca (S. Bertarione)
Il castello quattrocentesco inglobato nella successiva dimora barocca (S. Bertarione)

La primigenia fortezza si trasforma in un ricco e raffinato palazzo di delizie incastonato in un parco terrazzato che rimodula e riveste gli antichi fossati difensivi.

Le torri medievali rivestite dall’elegante abito barocco (S. Bertarione)

I beccatelli dell’edificio quattrocentesco all’interno del nuovo palazzo. Ciò che prima era fuori, ora si trova all’interno (S. Bertarione)

E così, anche su questo poggio circondato da vigneti nel cuore delle montagne valdostane, la magia barocca giunge a permeare un’austera turrita dimora ingentilendola e impreziosendola, adeguandola ai gusti del nuovo tempo e della nuova aristocrazia, senza tuttavia annullarla o tradirla. Certo, a prima vista può sembrare strano, può forse persino destare critiche o perplessità, come del resto accadde alla viaggiatrice inglese Elisa Robinson Cole che nel suo A Lady’s Tour round Monte Rosa (1859)lo definisce “francamente brutto”.

Altrettanto negativo il parere espresso da William Brockedon nel suo Journal of excursion of the Alps (1833) che cita quasi distrattamente il castello definendolo un “edificio di cattivo gusto”.

Qualcuno direbbe “nel bene o nel male, l’importante è che se ne parli!”. Beh, oggi noi non possiamo che parlarne nel bene, ravvisando persino un accento di contemporaneità in questa miscela di gusti, epoche e tendenze; in questa creatura architettonica decisamente ibrida, “meticcia”, esotica, un po’ come Palazzo Madama a Torino che, a seconda di come e dove lo guardi, offre sempre un volto diverso.

La regale e ibrida bellezza di Palazzo Madama a Torino (foto L. Acerbi)

Un edificio allo stesso tempo severo ma raffinato, forte e gentile, tetragono e fatato. Un castello delle favole? Forse, in parte, ma non del tutto! E’ un racconto barocco, il suo… fatto anche di apparenze, di meta-significati, di artifici retorici e di ricercate perifrasi. Ecco, in un castello come quello di Aymavilles, è pure possibile che, alla fine, la principessa nella torre sia anche la strega! Ed è oltremodo affascinante!

Castello di Aymavilles, prospetto sud. L’ingresso. (C. Pizzato)

Un’accoglienza quasi regale con una cancellata e una strada in salita; quasi un tempio in cima ad un’altura. Un ampio giardino di gusto vagamente transalpino e un portone incastonato da colonne e stucchi di fattura ticinese.

Le decorazioni in stucco del portale d’accesso (S. Bertarione)
La scritta in tedesco sull’architrave d’ingresso (C. Pizzato)

E già qui cominciano le domande: come mai una scritta in lingua tedesca? E perché sottolineare che questo castello appartiene “ a me e a coloro che mi succederanno”? Quali le ragioni di Joseph-Félix de Challant? Forse un voler affermare, una volta per tutte, che lì i padroni di casa erano gli Challant? Una sorta di imperativo imprimatur alla trionfale rinascita di cotanta dimora (e ricchezza)?

Alzando lo sguardo, un orologio. Dipinto, finto, con ore fissate per sempre su quella facciata. Un orologio barocco le cui lancette segnano un’ora che non cambierà mai: le 11,10.

L’orologio dipinto in facciata (S. Bertarione)

Come mai? Cosa si cela dietro la raffigurazione di un oggetto “feticcio” dell’epoca barocca? Perché proprio le 11,10? Scritte in numeri romani, con XI e II che potrebbero ricomporre un XIII: che sia un accenno al secolo in cui nacque quel luogo fortificato? Oppure, sommando 11 e 10,si avrebbe un 21, corrispondente all’età in cui, in epoca barocca, si riteneva iniziasse “la fleur del’âge”, ossia quella giovinezza così celebrata e osannata da divenire quasi oggetto di culto e che si contrapponeva alla paura del vecchio e, soprattutto, della morte?

Oppure potrebbe nascondere una data… chi lo sa! Le ipotesi si sommano e si accavallano in questo “trompe l’oeil” d’ingresso che, a modo suo, inganna bloccando lo scorrere del tempo.

E questa disorientante altalena temporale continua all’interno dove, più o meno dissimulato, il fantasma del castello medieval-rinascimentale appare e scompare, mostrandosi e ritraendosi tra finestre, scale, intercapedini e solai.

Tra sale, salotti e stanze; tra scale, torri e soffitte, ecco anche spuntare, qua e là, l’immagine della Morte che, sotto forma di scheletro, ricorda a tutti che, prima o poi, ricchi o poveri, si andrà (definitivamente) da lei.

La Morte e il suo monito (S. Bertarione)

Senza trascurare il tocco esotico dovuto alle pitture e alle curiosità volute nell’Ottocento da quel personaggio originale e sfuggente, colto e viaggiatore, che fu il conte Vittorio Cacherano Osasco della Rocca Challant che in questa dimora radunò un tal numero di oggetti, cimeli, opere d’arte e reperti da renderla un enorme cabinet de merveilles.

Una collezione che, stando agli archivi, doveva risultare straordinaria, capace di stupire e ammaliare gli ospiti del conte. Una collezione andata, ahimé, dispersa con la sua morte…

Oggi queste antiche meraviglie sono state idealmente riportate al castello grazie ad un’altra importante collezione: quella dell’Académie Saint-Anselme, un’associazione valdostana di studi storici e scientifici fondata a metà Ottocento.

E così, tra oggetti preistorici, salassi e romani; tra lucerne, bracciali, anfore e monete; tra suppellettili liturgiche provenienti da chiese oggi scomparse o radicalmente trasformate, questa collezione, a suo modo, traccia una linea del tempo che, pur nel suo evolvere, qui viene materializzata e cristallizzata.

Come in un gioco di scatole cinesi, la dimora stessa rivive e misura il suo tempo mentre l’uomo che vi si addentra si trova ad attraversare insospettate stanze temporali.

L’uomo misura il tempo che, a sua volta, misura l’uomo. Ma qui a Aymavilles il tempo è bloccato: quel grande orologio è finto. Quelle 11,10 non passeranno mai.

E qui scatta quel sottile incanto, o forse inganno, squisitamente barocco, di una bellezza tenacemente conservata sotto la sua preziosa campana di vetro, lottando contro il tempo, lottando contro quella vanitas tanto ammaliante e seducente, quanto fragile ed evanescente.

Ebbene, credete di ingannare il tempo, ma ne resterete ingannati!

Stella

Pillole MEGALITICHE! 10 buoni motivi per…

… visitare l’AREA MEGALITICA di Aosta!

  1. Un sito archeologico grandioso che racchiude oltre 6000 anni di storia.
  2. Con i suoi 10.000 mq è l’area megalitica coperta più vasta d’Europa.
  3. Megaliti in città! Un sito megalitico urbano nel quartiere ovest di Aosta.
  4. Un viaggio nel tempo alla scoperta di una lontana e affascinante Preistoria alpina.
  5. Emozionarsi davanti ad un paesaggio arcano e inatteso illuminato dal millenario susseguirsi di albe e tramonti.
  6. Sorprendersi davanti ad arature tracciate più di 6000 anni fa.
  7. Meravigliarsi per gli emblematici allineamenti creati per far dialogare terra e cielo.
  8. Scoprire le prime grandi statue della Preistoria: stele dal profilo umano rivestite di motivi decorativi ma tuttora avvolte da un enigmatico “mistero”.
  9. Stupirsi davanti alle grandiose tombe collettive, leggendarie opere di “giganti”, testimoni di ricchezza e potere.
  10. Uscire dal centro per scoprire un parco archeologico avveniristico, multimediale ed interattivo decisamente “fuori dal coro”.

Stella

discesa

Sezione Stele

Meditazioni all'ombra di un megalite
Meditazioni all’ombra di un megalite

Lythia e il segreto della spirale di pietra

Un’altra mattina di sole stava per illuminare la piana. Le vette tutt’intorno si stavano tingendo di rosa e le nevi che dimoravano eterne su quelle cime risplendevano nell’aria cristallina del primo mattino. Il clima era ancora fresco in questo inizio di primavera e l’altezza dei monti impediva al sole di uscire dalla linea dell’orizzonte al mattino presto. Il cielo si accendeva guardando verso nord-est e la grande montagna che separava quella terra amata dagli dei da quella dei vicini Veragri e Seduni sfolgorava catturando i primi raggi donati dal dio Belenos.

La piccola Lythia amava molto quel momento iniziale della giornata. A differenza degli altri bimbi del villaggio, lei non faticava affatto ad alzarsi presto; non vedeva l’ora di uscire per dare il “buongiorno” agli animali, sgranchirsi le gambe dopo la notte, respirare a pieni polmoni l’aria frizzante dei suoi monti.

E, soprattutto, amava andare a scuola ad ascoltare le storie che la saggia e sapiente Licamara, anziana del villaggio, nonché sua nonna, raccontava quotidianamente ai piccoli della tribù.

Caileach

Licamara era la mamma di suo padre, il valoroso Catumaro, grande capo e coraggioso guerriero. Ma anche ardito esploratore di quelle grandi montagne, di cui sin da giovane percorreva ogni passo, ogni colle, ogni pertugio.

Catumaro

Catumaro conosceva ogni angolo di quella terra di roccia, e con saggezza governava quello che da tutti era riconosciuto come territorio cardine per gli scambi commerciali tra le grandi vette dell’Ovest e del Nord, tra i Salassi della terra del sud, fino al grande fiume Bodinco, i Veragri e i Seduni delle terre del nord, oltre l’importante passo sacro al dio Penn, protettore delle vette inviolate, e gli Allobrogi delle terre dell’ovest, estese al di là del passo dove, si narrava, transitò l’eroe semidivino Ercole nel suo lungo viaggio verso i mitici Giardini del Tramonto; laggiù dove avrebbe trovato la finis terrae, i confini più occidentali del mondo, il regno dell’eterno tramonto al cospetto del mare sconfinato.

Lythia assomigliava molto al padre, sia nell’aspetto che nell’indole. Ma se per quanto riguardava l’aspetto senza dubbio Catumaro ne andava fiero ed era certo che quella vivace pargoletta sarebbe diventata una splendida fanciulla, facile da maritare con un importante principe, magari di qualche potente tribù del nord, ugualmente era molto preoccupato da quel carattere testardo, cocciuto e dalla spiccata voglia di indipendenza.

Lythia era una bimba dalla brillante intelligenza, molto intuitiva, capiva al volo il significato di discorsi anche difficili per la sua età, capiva le situazioni e, come la nonna, “sentiva”… In più era assai curiosa e non appena riusciva a sfuggire al controllo di qualche adulto, si inerpicava sù per i sentieri che dalla piana conducevano verso i villaggi e, da lì, verso le terre alte. In particolare era letteralmente affascinata dalle stelle e poteva passare ore a guardarle. Infatti occorreva prestare molta attenzione perché durante la notte, la bimba non ci pensava due volte a scappare di casa per andare ad osservare gli astri, sempre alla ricerca della Grande Orsa e di una strana stella a forma di “A” non troppo distante da uno strano corpo luminoso a forma di spirale.

M31 in Andromeda

Catumaro si incupiva ogni volta che la piccola gli raccontava di queste sue passioni; non amava affatto che sua madre Licamara le riempisse la testa con queste antiche storie di popoli perduti osservatori delle stelle né che la istruisse nel sapere druidico. Troppo pericoloso. Catumaro cercava in ogni modo di troncare le passioni della figlia, ma così facendo, otteneva l’effetto contrario. La piccola Lythia pendeva letteralmente dalle labbra della nonna-maestra, nonna guaritrice dalla quale in molti si recavano per ottenere medicamenti e rimedi, nonna-veggente che sapeva leggere i segni della natura, del cielo, del fuoco.

E la nonna, da parte sua, aveva capito fin dai primi vagiti che Lythia era una predestinata; a lei un giorno avrebbe potuto rivelare il grande segreto di pietra. Un segreto che racchiudeva la storia del suo popolo e che anche a lei era stato tramandato da sua nonna secondo una linea matriarcale che si perdeva nella notte dei tempi.

Anche quel giorno Lythia, dopo aver bevuto avidamente la sua ciotola di latte, si precipitò in classe. Nonna Licamara stava appendendo dei grandi disegni alle pareti per aiutare i piccoli a seguirla nei suoi discorsi.

Lythia riconobbe subito il simbolo della grande spirale. “Nonna! La spirale del cielo! Purtroppo sono settimane che non riesco ad uscire la notte… mio padre blocca la porta dall’esterno e ha addirittura messo un suo servitore a fare la guardia intorno a casa…”. La nonna sapeva dell’avversione del figlio per quel genere di conoscenza. Sapeva che secondo Catumaro solo gli uomini potevano dedicarsi alla scienza druidica e che mai avrebbe voluto istruire la figlia in tal senso. “Non preoccuparti Lythia”, la tranquillizzò, “tanto siamo solo a metà aprile; la vedrai ancora meglio mano a mano che ci avviciniamo all’estate”.

“E questa? Ricordi cos’è?”. “Certo!”, esultò Lythia, “è la grande A. E’ l’aratro del cielo!”.

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“Bravissima”, rispose la nonna, “è la costellazione che i popoli del mare chiamano Andromeda, col nome di un’importante principessa. Ma io preferisco continuare a vedervi un aratro. L’aratro che solca la terra, la rompe e la prepara ad accogliere il seme. Sai, piccola mia, vi fu un tempo in cui i nostri antenati, in certi precisi momenti dell’anno, aravano il terreno per motivi diversi da quelli agricoli che conosciamo noi. I buoi con le corna più belle, i più possenti ed imponenti, simbolo di forza e vigore, venivano aggiogati e condotti avanti e indietro trascinando un vomere sacro. Era come una sorta di preghiera affinché gli dei della terra fossero compiacenti. Ma non solo per avere un florido ed abbondante raccolto, anche per proteggere la comunità, il popolo. Quella terra doveva dare il cibo, doveva nutrire forti e valorose stirpi di guerrieri e di donne capaci di generare molti figli per dare continuità al popolo”.

Lythia ascoltava rapita. “E quindi facevano la fatica di arare un campo intero… solo per pregare, nonna?!”. “Come SOLO?!”, sbottò Licamara; “è assai importante che gli dei siano benevoli, piccola, altrimenti il popolo è destinato alla rovina!”. “Vedi anche ora? Non ti accorgi che nonostante le apparenze, la nostra comunità si sta sfaldando? Altri clan potenti nutrono invidia verso tuo padre e tramano nell’ombra. Ultimamente molte, troppe, donne vengono da me piangendo perché non riescono a generare figli e questo crea attriti in seno alla famiglia e al clan. Sempre più spesso vengono a chiedermi rimedi per le mucche che producono poco latte e iniziano a non sopravvivere al parto, oppure generano vitelli deformi o già morti! Dobbiamo stare attenti, Lythia! Gli dei ci stanno avvertendo. Qualcosa va cambiato… ma tuo padre non mi ascolta. Tuo padre rifiuta la saggezza del primitivo femminile…ahimé…e il grande druido continua a rassicurarlo, ma solo per fare i suoi interessi!”.

“Ma, nonna, sei sicura? A me sembra che qui nel grande villaggio di Carnobriga si viva bene. Io sono felice!…”. “Sei ancora piccola, Lythia; e va bene così. Arriverà il tempo per capire e per reagire. Arriverà il tempo per dare, anche tu, il tuo contributo alla comunità. Ma adesso stanno arrivando i tuoi compagni: è ora di fare lezione. Vai a sederti, sù!”.

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Passavano i giorni, i mesi, le stagioni. La piccola Lythia cresceva a vista d’occhio, in altezza e in intelletto. Ma anche in intuito. Lei, come da sempre sosteneva la vecchia e saggia nonna Licamara, aveva la capacità di “sentire”. Aveva iniziato ad accorgersi di un fatto strano: quando passava vicino a certe rocce, sentiva come un brivido che le percorreva la schiena, come un sussurro lontano, una voce imperscrutabile, indecifrabile, che la chiamava e le chiedeva di fermarsi. Allora Lythia si fermava e quasi istintivamente toccava una roccia, ma non una roccia a caso, di solito erano rocce grandi e lisce che fuoriuscivano dal terreno. Non appena la sua mano sfiorava la superficie, Lythia era percorsa da tremori e aveva come delle visioni. Ma la sua ancora giovane età le impediva di capirle, di descriverle. Provava a raccontare alla nonna ciò che, a tratti, vedeva; la nonna capiva e cercava di darle supporto e consiglio. Guai a farne parola col padre, tuttavia!

Lythia aveva compiuto ormai 15 anni. Il grande villaggio di Carnobriga era scosso da frequenti tumulti interni. I clan erano in subbuglio. Spesso si svolgevano grandi riunioni coi capi delle tribù delle terre alte, quelle che vivevano nei villaggi fortificati, costruiti come fossero un’unica fortezza rocciosa a ridosso delle morene o nelle gole più nascoste. Si diceva che dalla pianura il pericolo fosse ormai vicino. Un popolo venuto da molto lontano stava premendo per impossessarsi delle terre alte, per controllare quei valichi che erano stati loro sin dai tempi più remoti. Bisognava intervenire, ma come? I clan erano sempre in lite e Catumaro non riusciva più ad imporsi sugli altri come una volta. Anche perché il popolo non era unito per fronteggiare al meglio questo oscuro “nemico”; infatti c’era chi ventilava possibilità di guadagno dalla collaborazione con queste genti straniere.

Nonna Licamara sospirava. Se lo aspettava. Sapeva che prima o poi si sarebbe arrivati a questo. Il popolo stava vacillando e di Carnobriga forse si sarebbe persa memoria…

“Nonna, ma mi spieghi come mai mio padre si ostina a non darti ascolto? E perché, anche adesso che la Grande Dea mi ha reso donna, tenta di impedirmi di trascorrere tempo con te?”.

“Vedi Lythia, tuo padre ha un rapporto problematico con se stesso, col suo passato… Sai, ora che hai 15 anni posso parlartene. In realtà lui non è mio figlio naturale. Lui fu messo al mondo da una donna importante: era una sacerdotessa del nord. Purtroppo si innamorò e questo non avrebbe dovuto succedere. In più, come se non bastasse, si innamorò di un giovane, bellissimo guerriero straniero. Suo padre, una volta saputo della sua gravidanza che non si poteva più nascondere, non solo la cacciò di casa ma fece uccidere il suo amato. Io la accolsi nel mio villaggio. Pur se ancora giovane, ero già una nota guaritrice e mio padre era il capo villaggio, un uomo di cuore e di fine intelligenza che portava grande rispetto verso le mie qualità. La aiutai a partorire; ma lei, ahimé, non sopravvisse a quel parto difficile. Perse molto, troppo sangue. Provai in ogni modo, ma non riuscii a salvarla. Solo, con l’ultimo respiro che le restava in corpo, appena prima di morire, mi raccomandò quel frugolino urlante dai folti capelli neri e mi mise in mano un amuleto cui lei teneva moltissimo”.

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Licamara infilò una mano nelle vesti, all’altezza del seno, e ne estrasse un monile in bronzo lavorato a spirale; anzi, una doppia spirale! Era un oggetto molto bello, di colore verde scuro con riflessi blu, lucidissimo. Emanava un fascino ipnotico.

Lythia non aveva perso nemmeno una parola; era sgomenta, ma finalmente dava una risposta a molti atteggiamenti di suo padre. “L’ho cresciuto come fosse figlio mio. E mio padre da subito lo ha presentato al popolo come fosse suo nipote naturale. Quando raggiunse l’età adulta gli tatuammo la doppia spirale sul petto, affinché gli dei di sua madre vegliassero su di lui, ma senza dirgli la verità. Purtroppo la venne a sapere l’anno seguente, e nel peggiore dei modi, da un compagno d’armi, principe di un clan rivale, che gliela rivelò per invidia e per dispetto dandogli dell’illegittimo, per non ripetere altre offese ben peggiori che sporcavano persino il ricordo di sua madre”.

“ Da quel momento il suo atteggiamento verso di me cambiò radicalmente. Era come se non mi accettasse più. Sicuramente vede in te la sua vera madre e, in tutta sincerità, le somigli moltissimo. I lunghi capelli scuri, i grandi occhi verdi, la mandibola volitiva. Lui ti teme, Lythia. E teme per la tua vita.”

Lythia era scossa ed emozionata. Avrebbe voluto correre da suo padre ed abbracciarlo, rincuorarlo… ma ultimamente anche il rapporto tra di loro si stava logorando per i troppi litigi, le incomprensioni, le cose non dette o mal dette.

“Ma, nonna, io però non ho mai visto la doppia spirale tatuata… Lui sul petto ha dei simboli vegetali che non mi ha mai voluto spiegare…”. “No, Lythia. Sotto quei simboli c’è la doppia spirale. Lui se l’è fatta cancellare apposta, per non vedersela addosso. Il fatto è che quella doppia spirale lui ce l’ha dentro, nell’anima; è la voce dei suoi antenati. E non può continuare a rinnegarla e a tenerla sepolta. Presto riemergerà.”

Lythia tornò a casa con la mente in preda a mille pensieri. Chi era la sua vera nonna? Quali doni le aveva passato? Cosa cercavano di dirle quelle strane pietre lisce che ogni tanto vedeva sbucare dal suolo?

Doveva capire. Sentiva che se avesse capito, avrebbe potuto aiutare non solo suo padre, ma tutta la sua gente.

Trascorsero altri due anni. Anni di studio, di formazione continua con nonna Licamara. Il padre, talmente spossato dalle lotte intestine tra clan, non aveva nemmeno più tempo né forza di star dietro a sua figlia. Sua madre, donna timida e riservata, si era chiusa in un silenzio preoccupante che la stava avvelenando dentro. Il popolo era scontento, agitato, ribelle e allergico a qualsiasi regola.

Il sapere dei padri si stava perdendo, qualcuno addirittura lo rinnegava e lo travisava; alcuni persino lo mettevano in ridicolo. E infatti la natura aveva cominciato a ribellarsi. Il grande fiume Druantia si gonfiava ad ogni autunno; diventava incontrollabile con terribili e rovinose esondazioni. L’altro grande fiume della piana, quello che scendeva da nord, il Bauthegion, causava danni nefasti ogni estate. Coltivare era diventato quasi impossibile. I pascoli si erano impoveriti per le temperature sempre più rigide, le frequenti grandinate, le gelate improvvise. Gli animali erano in sofferenza, persino le pecore e le capre, solitamente così robuste.

Intanto nonna Licamara era sempre più debole; gli anni sulle sue spalle erano davvero tanti. Finché una notte fece chiamare Lythia.

“Vieni piccola mia, avvicinati. Non mi resta più molto tempo e devo assolutamente parlarti. E’ giunto il tempo, il tuo”. Lythia si avvicinò il più possibile; la voce della nonna era talmente flebile che a stento la udiva. “ Vedi, Lythia, tu sin dalla nascita sei destinata ad essere la custode di un grande sapere. Ad essere la custode dell’identità e del passato di un grande popolo. Il popolo che, giunto al seguito del semidio Ercole in un tempo remoto e perduto, decise di fermarsi qui, ai piedi delle grandi montagne. Queste montagne accolsero quelle genti e divennero la loro casa. Quelle genti giunte dalle lontane terre d’Oriente, dal regno dell’eterna Aurora, conoscevano l’arte di osservare il cielo, le stelle, il moto degli astri e le fasi della Luna. Sapevano come coltivare la terra e renderla fertile. Conoscevano l’uso dell’aratro, strumento fondamentale che diede la forma alla costellazione della grande A che tu conosci sin da bambina”.

Ogni tanto la nonna veniva scossa da forti e dolorosi crampi; spesso le mancava il fiato ed era ricoperta di sudori freddi. Lythia era molto preoccupata. La abbracciava. Le passava un panno fresco sulla fronte cercando di darle sollievo.

“ Quel popolo, Lythia, scelse questa pianura nei pressi del fiume Druantia. Una pianura che venne arata, ma non per seminare, per pregare, come ti avevo già spiegato. Al centro di questa pianura si elevava un collina, il nucleo del nostro villaggio: Carnobriga, che in lingua gallica significa “altura delle corna”, un villaggio posto sotto la protezione del dio Cernunnos, signore delle forze naturali e del vigore guerriero.

Dopo il tempo delle grandi arature propiziatorie, venne il tempo delle grandi fosse. La terra era fondamentale, era dea, era madre, era nutrice. La terra esigeva preghiere e devozione e gli uomini sapevano come accontentarla.

Venne poi il tempo in cui il cielo si unì alla terra, anche nelle preghiere. Ed ecco che i nostri antenati eressero pali verso le stelle, assecondandone gli allineamenti ed i segni affinché le divinità celesti fossero benigne. Tuttavia l’attenzione data al cielo iniziava a sminuire quella destinata alla Terra. La Grande Madre si stava offendendo. La linea matriarcale cominciò a contare sempre meno. I villaggi erano dominati dagli uomini, purtroppo non tutti saggi e avveduti. Purtroppo il potere acceca e gli antichi equilibri sacri si sfrangiano.

“Ma, quando? Quando successe tutto ciò? E dove si trova questo luogo? Dove sono queste fosse, questi pali….”. Lythia era divorata dalla curiosità; voleva sapere, sentiva che doveva sapere.

La nonna appoggiò debolmente una mano sul braccio della nipote. “Presto lo saprai, cara. Dovrai cercare, ma senza allontanarti”. Lythia la guardava interrogativa. Licamara prese quindi la mano sinistra di Lythia, la mano del cuore, e la guidò tra le vesti, madide di sudore, fino a toccare la pelle avvizzita del petto. Aperte le vesti, mostrò a Lythia un tatuaggio: la doppia spirale. Anche nonna Licamara l’aveva, proprio sul petto.

“E’ un legame, cara. E’ un simbolo capace di unire terra e cielo. Capace di dare la vita, anche oltre la morte. E’ il flusso eterno, Lythia. E’ il moto delle stelle e dei corpi celesti. Questo simbolo è il segreto della forza del nostro popolo che, nonostante il volgere dei secoli e degli avvenimenti, saprà trasformarsi e sopravvivere. Ma che ora ha bisogno di ritrovare se stesso.”

L’anziana mise infine nelle mani di Lythia l’antico amuleto regalatole dalla madre di Catumaro. “Cercala! Cerca la doppia spirale incisa nella grande pietra, Lythia. Puoi farcela!”. “Ma come? Nonna, nonna!! Ti prego, dimmi come devo fare… dove, devo cercare?…Nonna…”. Ma ormai la vecchia Licamara, era salpata verso il regno delle Ombre senza fine.

Per alcuni giorni Lythia rimase preda del dolore per questa atroce perdita. Sua nonna non c’era più; era stata da sempre la sua guida, il suo sostegno, il suo punto di riferimento…come avrebbe fatto senza i suoi consigli e i suoi preziosi insegnamenti?

Alla fine, colma di lacrime fino a scoppiare, corse dal padre per sfogare su di lui tutta la sua rabbia da troppo tempo repressa. “Tu! Tu hai lentamente portato la nonna alla morte! Tu, perfido uomo, col tuo atteggiamento ostile, con la tua cattiveria… maledetto! Come hai potuto non esserle vicino nemmeno alla fine?! Tutto preso dai tuoi giochetti politici, dagli equilibri tra i clan, circondato come sei di traditori e adulatori…. Senza neppure accorgertene!”.

Lythia si scagliò sul padre, tempestandolo di pugni e di lacrime… finché il padre, prima immobile, all’improvviso la strinse a sé con forza. Lythia si accorse che stava piangendo. Suo padre, il prode Catumaro, che piangeva? “Padre….”, sussurrò. “Oh Lythia, figlia mia adorata. Saggia figlia mia. Non ti ho mai meritato. Più crescevi e più vedevo in te mia madre; nemmeno riuscivo a guardarti negli occhi. Mi facevi paura. Mi incutevi rispetto. E questo mi dava fastidio, spesso tu stessa mi sei sembrata una minaccia della mia autorità, della mia supremazia. E invece avevi ragione, l’hai sempre avuta. E Licamara aveva visto giusto, come sempre del resto. Aiutami, Lythia! Sento che sto per soccombere…”

“Padre, ma perché non avete mai voluto parlarmi prima? Perché avete sempre cercato di seppellire i vostri ricordi facendovi solo del male? Facendo del male anche a mia madre, vostra sposa, e a vostra madre, anzi, alle vostre due madri!”. Lythia mostrò l’amuleto al padre. “Ecco, questo è il segreto della nostra forza! Dobbiamo trovare questo simbolo inciso nella pietra da qualche parte qui intorno a Carnobriga! Se non lo facciamo, la nostra gente scomparirà divorata dagli eventi e dai secoli finché se ne perderà persino la memoria, la condanna peggiore che ci possa essere!”.

Catumaro sgranò gli occhi… quanto tempo era passato dall’ultima volta che aveva visto quel simbolo? E come aveva potuto farsi nascondere il tatuaggio? Forse proprio da quell’insano gesto era iniziata la sua rovina… chissà se c’era ancora modo di arrestare questa caduta e dare nuova forza alla sua famiglia, al suo clan, al popolo intero!

“Sono nelle tue mani, Lythia. Agisci come meglio ritieni. Agisci ascoltandoti, tu che ne sei capace”.

Dopo un ultimo abbraccio che però valeva come tutti quelli che mai si erano dati negli ultimi 5 anni, Lythia uscì. Era notte fonda. Si incamminò, alla luce di una sottile falce di luna, verso un luogo a lei caro da cui si dominava l’intero fondovalle. Una volta arrivata, si appoggiò l’amuleto sul petto e, con gli occhi al cielo, intonò antiche nenie insegnatele dalla nonna.

All’improvviso le parve che il cielo stellato iniziasse a girare, sempre più veloce, formando un’enorme spirale di stelle e polveri brillanti. Sopraffatta da quella luce fortissima (che solo lei vedeva) chiuse gli occhi; ebbe una visione. La spirale si sdoppiò e al centro ne uscì una grande A che si rivelò per quello che era in realtà: un aratro.

L’aratro iniziò a solcare la volta celeste che, al suo passaggio si apriva. Dai solchi tra le stelle emersero delle grandi pietre. Talmente grandi come non ne aveva mai viste. Pietre con occhi e naso, ma mute, senza bocca. Pietre ricoperte di simboli, di monili, di armi. Ed eccone una che colpì la sua attenzione: indossava un amuleto. La doppia spirale. Inizialmente le sembrò che fosse un gioiello, poi vide che emanava luce ma che in realtà era incisa nella pietra.

Aprì subito gli occhi, spossata. Tutt’intorno a lei, il silenzio della notte. Guardò nuovamente il cielo e stavolta seppe leggere segni che prima non avrebbe mai capito. Seguì una sorta di sentiero disegnato nel cielo che la guidò nuovamente a valle. Gli astri indicavano un punto in cui lei sentiva che doveva fermarsi.

Si accorse di essere appena ad ovest di Carnobriga, ai margini del villaggio, lì dove già da secoli ormai era loro usanza seppellire i morti. Ma lei ne aveva paura. Era la zona dei grandi tumuli di pietra, delle tombe giganti e delle grandi pietre. Ma era la terra destinata ai morti, e lei non avrebbe mai osato addentrarvisi. Una necropoli che i suoi concittadini stavano oltretutto lentamente abbandonando perché ormai satura; qualcuno addirittura diceva fosse maledetta da qualche sortilegio. Fu il grande druido a mettere in giro questa voce. In realtà voleva venissero dimenticati i sacerdoti che lo avevano preceduto; voleva infangarne la memoria inducendo il popolo a trovare un altro posto per i defunti.

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La luce delle stelle pareva illuminare un punto in particolare. Lythia si avvicinò, si chinò a terra appoggiando le mani su uno spigolo di pietra lucida e liscia, di forma tondeggiante. Udì un sospiro, un sussurro che usciva dalle viscere del terreno. Venne travolta da una sorta di sonno.

Ecco, un’altra visione! Vide che sotto di lei, nelle viscere della terra, giaceva una grande pietra al cui centro, come fosse sul petto, brillava il simbolo della doppia spirale. Gli antenati delle grandi tombe erano offesi per essere stati dimenticati. Gli spiriti erano inquieti. Capì.

Si precipitò da suo padre e gli spiegò l’accaduto. Questa volta Catumaro le credette e la assecondò. Allontanò malamente il druido adulatore e bugiardo e obbedì alla figlia.

Coi saggi, gli anziani e i nobili guerrieri del villaggio, si recarono in processione, la notte stessa, alla luce delle torce, fino all’antica necropoli. Lì dove i loro antenati avevano eretto tombe giganti sul terreno delle grandi pietre senza volto e senza nome.

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Grandi pietre non riconosciute che vennero abbattute ed utilizzate come materiale da costruzione. Gli spiriti delle grandi pietre erano offesi. E così pure le anime dei defunti delle grandi tombe. La trascuratezza e l’indifferenza degli uomini, dei loro stessi eredi, ne aveva suscitato le ire. Questo aveva portato al ribellarsi della natura e alle lotte tra gli uomini, tra fratelli dello stesso sangue, incapaci di stare saldi ed uniti.

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Solo restituendo valore alla memoria degli antichi, gli spiriti si sarebbero placati. Lythia individuò un punto particolare sul terreno. Chiese che venisse scavata una fossa; vi gettò semi e frutti (secondo antiche usanze spiegatele dalla nonna), recitò antiche preghiere di una lingua perduta e dimenticata dai più, vi gettò persino un tizzone infuocato che presto si spense. Alla fine vi seppellì la doppia spirale di metallo verde: l’amuleto di nonna Licamara era tornato da dove era venuto. Gli spiriti, così, ritrovarono pace. Il popolo riprese a frequentare quell’area e a seppellirvi i suoi cari. Un’usanza che sarebbe diventata abitudine. Altri popoli, nei secoli che seguirono, continuarono ad utilizzare questa zona sacra per dare degna sepoltura ai loro defunti. La terra torno fertile, la natura amica e madre. I lavori agricoli ripresero come da tempo non era possibile. I clan ritrovarono l’armonia.

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Non poteva sapere la giovane Lythia che dopo altre decine di secoli, dopo il volgere di centinaia di stagioni, di albe e di tramonti, di giornate di sole e di cieli stellati, la voce di quell’amuleto si sarebbe fatta di nuovo sentire, ma questa volta non dai sacerdoti o dai druidi, ma dai ricercatori del tempo.

A distanza di quasi 1.500 anni da quando visse Lythia, la terra delle grandi pietre è tornata alla luce. Solo un tassello ancora manca: nessuno ha mai più ritrovato l’amuleto a doppia spirale. Forse, chissà, giace ancora sepolto lì, da qualche parte tra le grandi tombe e le immense stele a forma d’uomo.

Chissà se mai qualcuno riuscirà a ritrovarlo.

Oppure, chissà, forse è più giusto che nessuno lo ritrovi mai.

 

Stella

 

Ma le #sirene esistono?

Da archeologa, nonché da appassionata di iconografia antica, mi diletto a seguire le mode e le tendenze perché dietro ad ogni moda e ad ogni nuova tendenza, si nasconde un bisogno, un messaggio, un desiderio, un riflesso della nostra società. La moda è comunicazione e attinge da sempre al mondo dell’arte a ogni latitudine cronologica, geografica e antropologica. Quindi non è semplicemente una materia leggera da rotocalco rosa, ma si fonda su elementi, a volte complessi e ricercati, da leggere e interpretare.

Da tempo mi dedico all’analisi del fenomeno #mermaid & #merman, ovvero sirene e tritoni: un dilagante ritorno delle creature marine e di tutta la cangiante gamma cromatica che si portano appresso. Blu elettrici o metallizzati, declinati in mille abbaglianti sfumature che virano dal petrolio all’ottanio, dal verde acqua allo smeraldo fino agli indaco e ai lilla… La cangianza della madreperla, delle conchiglie, delle squame. L’incanto ipnotico del profondo blu! La suadente magia dei fruscii e delle onde che fasciano ed avvolgono.

Tra cinema e tv le sirene sono assolute protagoniste. La Sirenetta di Andersen è un successo planetario che, negli anni, è stata declinata in mille modi diversi. Basti pensare all’ultima produzione cinematografica, in uscita in questi giorni: The Little Mermaid di Robert Mashall con Halle Bailey, ultimo remake della Sirenetta Disney dell’ormai lontano 1989!

Per non parlare delle più recenti serie su Netflix come il cartone animato H2O-Avventure da sirene o MerPeople: sirene per lavoro, nuova docu-serie che racconta una storia affascinante, nella quale magia e realtà si mescolano, incanalandosi in alcune figure dalla grande fascinazione e appeal: le sirene professioniste.

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Anche le mie bambine, soprattutto la più piccola, adorano le sirene e, oltre ad aver riempito casa di innumerevoli simulacri di queste affascinanti creature, non passa giorno che non mi chiedano “Mamma, ma esistono le sirene?”.

Beh, sapete? Onestamente non so cosa rispondere ma il mio “pensiero magico” mi spingerebbe a dire Sì!

Parli di “sirene” e subito la mente vola a queste fanciulle bellissime ed inafferrabili, dal corpo ibrido ma perfetto, armonioso ed elegante pur nella sua apparente “difformità” (ma forse proprio in questo risiede buona parte del suo fascino…), o per essere specifici: ittio-morfità! La mente vola ai sogni fatti in riva al mare guardando il luccichio delle onde e i riflessi azzurri dell’acqua; chissà quante volte avremmo voluto, o creduto, o sperato di vederne una!

Parli di “sirene” e come puoi non pensare alla famosissima favola di Hans Christian Andersen la cui eroina ancora oggi siede pensosa davanti al porto di Copenaghen?

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Però, pensiamoci, al di là degli “happy end” di disneyana memoria (Ariel insegna), questa sirena, pur di ottenere un paio di gambe e correre dal suo principe, rinuncia ad una peculiarità fondamentale: la sua voce! Quando, invece, è proprio la voce, melodiosa e disumanamente incantevole, che fa delle sirene essere ammaliatori, tentatori, pericolosi! No, la coda di pesce non c’entra nulla! Anche perché, se risaliamo alle origini, le prime sirene della letteratura sono quelle che insidiano Ulisse nel XII canto dell’Odissea (traduzione dal greco di Ippolito Pindemonte, 1822):

"Ulisse e le sirene"-cratere a figure rosse da Paestum (V secolo a.C.)
“Ulisse e le sirene”-cratere a figure rosse da Paestum (V secolo a.C.)

Alle Sirene giungerai da prima,
Che affascinan chiunque i lidi loro
Con la sua prora veleggiando tocca.
Chiunque i lidi incautamente afferra                                 55
Delle Sirene, e n’ode il canto, a lui
Nè la sposa fedel, nè i cari figli
Verranno incontro su le soglie in festa.
Le Sirene, sedendo in un bel prato,
Mandano un canto dalle argute labbra,                            60
Che alletta il passeggier: ma non lontano
D’ossa d’umani putrefatti corpi,
E di pelli marcite, un monte s’alza.
Tu veloce oltrepassa, e con mollita
Cera de’ tuoi così l’orecchio tura,                                      65
Che non vi possa penetrar la voce.
Odila tu, se vuoi; sol che diritto
Te della nave all’albero i compagni

Leghino, e i piedi stringanti, e le mani:
Perchè il diletto di sentir la voce                                      70
Delle Sirene tu non perda. E dove
Pregassi, o comandassi a’ tuoi di sciorti,
Le ritorte raddoppino, ed i lacci.

[…]

Scoltate adunque, acciocchè tristo, o lieto,
Non ci sorprenda ignari il nostro fato.                             205
Sfuggire in pria delle Sirene il verde
Prato, e la voce dilettosa ingiunge.
Vuole, ch’io l’oda io sol: ma voi diritto
Me della nave all’albero legate
Con fune sì, ch’io dar non possa un crollo;                      210
E dove di slegarmi io vi pregassi
Pur con le ciglia, o comandassi, voi
Le ritorte doppiatemi, ed i lacci.
     Mentre ciò loro io discopria, la nave,
Che avea da poppa il vento, in picciol tempo                  215
Delle Sirene all’isola pervenne.

[…]

De’ compagni incerai senza dimora                                  230
Le orecchie di mia mano; e quei diritto
Me della nave all’albero legaro
Con fune, i piè stringendomi, e le mani.
Poi su i banchi adagiavansi, e co’ remi
Batteano il mar, che ne tornava bianco.                           235
Già, vogando di forza, eravam, quanto
Corre un grido dell’uomo, alle Sirene
Vicini. Udito il flagellar de’ remi,
E non lontana omai vista la nave,
Un dolce canto cominciaro a sciorre:                                240

[…]

Così cantaro. Ed io, porger volendo
Più da vicino il dilettato orecchio,                                      255
Cenno ai compagni fea, che ogni legame
Fossemi rotto; e quei più ancor sul remo
Incurvavano il dorso, e Perimede
Sorgea ratto, ed Euriloco, e di nuovi
Nodi cingeanmi, e mi premean più ancora.                       260
Come trascorsa fu tanto la nave,
Che non potea la perigliosa voce
Delle Sirene aggiungerci, coloro
A sè la cera dall’orecchie tosto,
E dalle membra a me tolsero i lacci.                                  265

Ecco. Dunque? Si parla di code, di esseri metà donna e metà pesce? No! Omero solo su una qualità insiste: la voce! Un canto che ti afferra e non ti lascia più portandoti alla morte! Basti solo pensare all’etimologia stessa della parola “sirena” derivante da una radice fenicia “-sir” legata al verbo “cantare”. Quindi assolutamente non “mute come pesci”, che per le Sirene sarebbe paradossalmente la peggiore condanna! Eppure… eppure non sappiamo nulla di questo misterioso canto (se non che, oggi come oggi, solo la “sirena” della polizia o dell’ambulanza è rispettosa dell’etimologia!”.

Per sfuggire alla loro voce seducente, nel racconto omerico Ulisse tura le orecchie dei compagni con della cera e si fa poi legare all’albero maestro per poter ascoltare il loro canto, senza però restare imbrogliato nelle loro trame insidiose. Non ci sono barriere al desiderio di conoscenza di Ulisse (assurto a simbolo dell’uomo moderno che per brama di conoscenza sfida con arroganza ogni limite, anche divino), non c’è paura e non c’è un orizzonte. La nave giunge all’isola delle Sirene: il vento cessa e le onde sono addormentate da un dio. Le Sirene lo chiamano e gli rievocano le gloriose gesta compiute a Troia. Ulisse desidera sentire la loro bellissima voce, il loro canto. Un canto che però resta ignoto, un enigma che giunge intatto fino a noi. Non sappiamo che cosa cantassero le Sirene, Omero non lo dice e la domanda non ha smesso di esercitare il suo fascino, diventando il vero potere di seduzione di queste mostruose fanciulle suadenti.

Una risposta però non c’è. Non ce l’ha neanche Orfeo, il musicista divino che vinse il canto delle Sirene con la musica della sua lira. E così neanche Enea, che navigando sulla scia del viaggio di Ulisse sentì solo il rumore delle onde infrangersi sulle rocce. Dopo il passaggio di Ulisse, infatti, le Sirene, umiliate e indispettite, si gettarono in mare e furono trasformate in scogli. Secondo Cicerone il canto altro non era che una promessa di conoscenza, un pò come quella del serpente tentatore ad Eva.

Ma lasciando per ora da parte la questione del canto che, come abbiamo notato, non è comunque priva di ambiguità, torniamo sull’argomento, anch’esso ambiguo, dell’aspetto delle sirene. Com’erano dunque le sirene di Omero? Come le immaginavano nel mondo antico? Come donne ibride, certo, ma simili ad uccelli, a rapaci nello specifico. Il tragediografo Euripide (V sec. a.C.) le definisce «vergini piumate», mentre Apollonio Rodio (libro IV delle “Argonautiche”) narra che «apparivano in parte simili a fanciulle e in parte ad uccelli» . E non a caso l’immagine delle sirene appostate sul prato e sugli scogli con accanto resti umani e ossa sparse richiama senz’altro quella degli avvoltoi, non vi pare?

Ulisse e le sirene (John William Waterhouse)
Ulisse e le sirene (John William Waterhouse)

Ulisse e le sirene. Anfora a figure rosse (V secolo a.C.), British Museum, Londra
Ulisse e le sirene. Anfora a figure rosse (V secolo a.C.), British Museum, Londra

E dopotutto, se la loro arma, seppure di morte, era il canto, è più facile aspettarselo da volatili che non da pesci… Ma come si è passati dalle donne-uccello alle donne-pesce? Come mai dal volare nelle immensità celesti, le sirene son passate alle profondità marine? A cosa si deve la trasformazione di penne in pinne?

L’unico mito greco che si avvicini all’idea della donna-pesce è quello di Tritone figlio di Poseidone che aveva la parte inferiore del corpo a forma di pesce, in particolare veniva rappresentato con due code e descritto con un forte appetito sessuale di cui la doppia coda sarebbe un simbolo esplicito.

Parte del fregio dell'altare di Domizio Aenobarbo col corteo nuziale di Nettuno e Anfitrite su un carro marino trainato da un Tritone (II secolo a.C.).
Parte del fregio dell’altare di Domizio Aenobarbo col corteo nuziale di Nettuno e Anfitrite su un carro marino trainato da un Tritone (II secolo a.C.).

Le prime raffigurazioni di donne pesce, anche con doppia coda come spesso accade in epoca romanica, risalgono appunto al Medioevo e molti studiosi hanno ipotizzato una fusione dei miti greci con leggende di origine nordica portate dai popoli che invasero l’impero romano: il mito delle Ondine.

Il termine ondina, o undina, derivante dal latino unda, indica degli spiriti acquatici somiglianti a fate, ninfe o sirene, a seconda delle tradizioni di riferimento.

Le ondine vivono spesso in prossimità di fiumi, sorgenti, stagni, cascate, laghi, sono creature senza anima ma possono ottenerla sposandosi con un mortale.

"Ondine", di Jacques Laurent Agasse (1843)
“Ondine”, di Jacques Laurent Agasse (1843)

Queste creature leggendarie risultano elencate fra gli elementari dell’acqua nelle opere sull’alchimia di Paracelso, il quale ipotizzava che questi spiriti acquatici dimorassero solitamente in laghi, foreste e cascate, le cui voci meravigliose venivano solitamente udite sovrapposte allo scrosciare dell’acqua.

In base alla tradizione che le vede protagoniste, la natura delle ondine cambia da benigna in maligna, innocua, amichevole o vendicativa. Esse vengono rappresentate come splendide creature, con vaporosi e lunghissimi capelli, ornati di fiori e conchiglie, che vestono le spalle e il seno; abitavano le insenature di fiumi, scogli, grotte, argini informi, laghi, sorgenti, stagni e cascate; amavano la danza, il canto e adoravano intrattenersi filando e tessendo vicine all’acqua, elemento al quale sono indissolubilmente legate, e per questo erano governate dai moti della Luna.

Nel folklore germanico, le ondine, creature enigmatiche e misteriose, sono rappresentate come donne attraenti con la coda di pesce.

Il passaggio dal cielo al mare non è quindi così casuale. Dietro la scelta di un animale piuttosto che un altro c’è una precisa scelta simbolica; gli uccelli partecipano della natura del cielo e in qualche modo della natura divina. 

Il mare rappresenta il pericolo e le sue creature possono avere la natura di esseri dispensatori di disgrazia o di salvezza, ma oltre a ciò rimanda all’abisso primordiale e i suoi abitanti conservano un che di primitivo e selvaggio. Tritone è descritto con un forte appetito sessuale e così la sirena medievale, simbolo di lussuria, diventa una creatura marina. Contestualmente si sviluppano altre figure di donne volanti in cielo, non dotate di ali (attributo esclusivamente angelico): le streghe! Una versione degradata e demoniaca delle primitive sirene-uccello ammaliatrici e dispensatrici di morte.

sognare-una-stregaQuel che permane, in ogni narrazione, tempo e cultura, è il concetto che le Sirene richiamano e che giunge sino a noi: quello dell’ambiguità, della doppiezza – che è anche nella loro coda – parte integrante del loro fascino misterioso da Dark Ladies; quasi due facce della stessa medaglia: benevole, dolci, seducenti, quanto malevole, ingannatrici, addirittura crudeli, sicuramente sfuggenti!

E tornando dunque a questa moda della Sirena, ecco, sarei portata a ravvisarvi l’emblema dell’ambiguità, tanto al femminile quanto al maschile.

La Sirena è evidentemente un archetipo muliebre primordiale; in ogni letteratura, soprattutto europea, è incarnazione di femmina che strega e seduce con la propria grazia e il dolce canto (le descrive anche il sommo Dante: Purgatorio, XIX, 19-21).

Come ibrido, ricorda quanto la natura possa essere manipolata, manipolabile e infinitamente imprevedibile, così come possono essere infinite le sue sfaccettature: in quest’ottica, il suo significato recondito si apre ad accogliere riferimenti di genere.

Insomma, ciò che deve innanzitutto colpire di una sirena è la sua travolgente bellezza ed una sensualità irresistibile, giusto? Si pensi a famose “donne-sirena” del cinema tipo Rita Hayworth fasciata in un lucido abito a sirena di seta nera nel film “Gilda” del 1946…

1946: Rita Hayworth (1918 - 1987) plays the sexy title role in the wartime film noir 'Gilda', directed by Charles Vidor. (Photo by Robert Coburn Sr.)

Come non pensare alle splendide Marilyn Monroe e Jane Russell, rese ancor più seducenti dagli abiti a sirena rosso fuoco con spacco vertiginoso nel film “Gli uomini preferiscono le bionde?”

Marilyn Monroe con Jane Russell: "Gli uomini preferiscono le bionde" (1953)
Marilyn Monroe con Jane Russell: “Gli uomini preferiscono le bionde” (1953)

Si pensi alla splendida e biondissima Daryl Hannah in “Splash. Una sirena a Manhattan” del 1984.

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Restando ai favolosi anni ?80 si nota il ritorno dei capelli colorati con tinte fluo (vi ricordate il complesso musicale di Kiss me Licia?). Bene, in questa tendenza rientra la cosiddetta “moda del tritone”: gli uomini si tingono capelli e barbe in tonalità brillanti di blu, verde e viola per apparire come misteriose creature degli abissi oppure per…lanciare così il loro “canto ammaliatore”?!

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E in anni più recenti: Sirene, del 1990, di Richard Benjamin, con Cher, Bob Hoskins, Winona Ryder, basato sull’omonimo romanzo del 1986 di Patty Dann.

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Un film, questo, in cui l’immagine acquatica della sirena viene utilizzata quasi fosse il simbolo del passaggio dall’adolescenza all’età adulta affrontando il tema della femminilità in essere e manifesta in modo spiritoso.

E non a caso le sirene sono molto amate dal settore dei giocattoli e dei cartoni animati. Dall’impareggiabile dolce Ariel …

543… alla più disincantata e maliziosa sirena Marina della serie “Zig &  Sharko”, bramata dagli “appetiti” dell’insaziabile iena Zig e amata dal romantico e nerboruto squalo Sharko, il cui idolo è il bagnino David Hasseloff di Baywatch!

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Per non dilungarsi poi sulla pressoché infinita serie di sirene giocattolo: dalle più classiche Barbie sirena alle geniette Shimmer&Shine solo per citarne un paio…

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Quindi, volendo tirare le fila di questo spero divertente discorso: il ritorno in grande stile dell’immagine della sirena (e del tritone a traino), potrebbe forse comunicare la presenza di una sessualità a volte ibrida oppure di una spiccata sensualità, oppure ancora della ricerca di una femminilità sopra le righe, tanto seducente ed irresistibile quanto, per contro, inafferrabile e sfuggente’ Una donna, certo; una donna bellissima, ma che dall’ombelico in giù donna non è, quindi, di conseguenza, paradossalmente va a perdere proprio il fulcro del suo essere donna, se vogliamo la parte essenziale e sessualmente rassicurante. I Tritoni, invece, dal canto loro, esibendo queste peculiarità, forse vogliono sottolineare ciò che la doppia coda esprimeva in origine pur non rinunciando alla voglia di essere cercati e inseguiti perché anch’essi creature sfuggenti.

Figure leggendarie multiformi e poliedriche che ben aderiscono alle più diverse ed effimere sensazioni umane: un incontro lì dove la vanitas del momento si fonde con l’eternità del mito.

Occhio solo a non fare la fine della Sirena di Magritte… lì sì, sarebbe un problema!

"La Sirena rovesciata". Magritte (1937)
“La Sirena rovesciata”. Magritte (1937)

Sant’Orso di Aosta. Tra storia, leggenda e tradizione alla ricerca di un simbolo senza tempo.

Si è conclusa ieri la 1023ma Fiera di Sant’Orso. Un’occasione unica per vivere l’atmosfera di una città alpina, Aosta, il cui cuore batte da oltre 2000 anni. Un’occasione per immergersi nella magia della tradizione artigiana e della cultura locale addentrandosi nelle strade e nei vicoli vestiti di luci, attardandosi davanti alle ricche bancarelle debordanti di piccoli capolavori fatti rigorosamente a mano, oppure riscaldandosi e rifocillandosi con le tante squisitezze e le robuste specialità del posto.

ORSO. UOMO E ANIMALE. DIVAGAZIONI

Ma c’è dell’altro. Venire ad Aosta per festeggiare Sant’Orso non può non portarvi a visitare la preziosa Collegiata e il raffinato Priorato rinascimentale voluto dal nobile Giorgio di Challant.

Un luogo dalla sacralità quasi palpabile; ben percepibile già nel tiglio plurisecolare (venne piantato tra il 1530 ed il 1550) che si innalza sul sagrato, tra la chiesa di S. Orso e quella, oggi sconsacrata, di S. Lorenzo; un albero molto particolare che, benché squarciato da un fulmine nel 1951, ha continuato a vivere e fiorire diventando quasi un simbolo dell’energia vitale che pervade questo luogo così intimo e appartato.

Pensate che alcuni popoli nord-europei credevano che per richiamare a sé la forza e l’energia dell’orso bisognasse invocarlo vicino ad un grande albero. Perché parlo dell’orso? Beh, diciamo che sul nome di questo santo, personaggio avvolto nella leggenda e della cui vita storicamente ben poco si sa e quel poco nemmeno è certo, vi è parecchio da riflettere. Nel mio personale sentire questo è un nome che nasconde molto.

Orso è un personaggio che riassume in sé molteplici valenze (culturali e cultuali) le cui origini vanno ricercate in un passato profondo e remoto.

Siamo in un luogo le cui radici si perdono nella notte dei tempi. Un luogo dove sin dalla tarda epoca romana si cominciarono a seppellire i propri cari. E fu proprio intorno a importanti mausolei di famiglia che iniziarono a raggrupparsi le tombe successive fino alle prime due chiese paleocristiane risalenti al V secolo d.C. (San Lorenzo a ovest e Sant’Orso dall’altra parte della piazzetta). Oggi San Lorenzo è sconsacrata e viene utilizzata come prestigiosa sede espositiva; ma il suo sottosuolo racchiude un sito archeologico di notevole rilievo dove potrete vedere i resti della prima cappella, le tombe e le epigrafi funerarie dei primi vescovi aostani all’alba della cristianizzazione di queste montagne. Tra questi segnaliamo San Grato, morto alla fine del V secolo d.C., venerato patrono di Aosta e della diocesi valdostana.

ORSO SACRO

L’orso. Un animale da sempre in qualche modo collegato a quella fascia di mezzo tra la vita e la morte. Lui, che all’arrivo dell’inverno si rintana nel buio tiepido e profondo delle grotte, delle caverne, dove si addormenta in un sonno simile ad una morte apparente, ma che al bussare della primavera “torna alla vita”, alla luce. L’orso, un animale che riusciva quindi a rappresentare il magico e imperscrutabile collegamento tra la vita e la morte. Per l’orso nessun cambiamento è irreversibile; l’orso è in grado di attraversare il confine tra la vita e la morte, e quello tra umano e animale. Un animale-simbolo per questo motivo da molti popoli considerato sacro e perciò oggetto di culto e venerazione. Dai popoli nordici, celti, germanici. Ma anche dagli antichi Greci che associavano l’orso alla Luna, anch’essa in grado di mutare stato, di scomparire per poi riapparire, più bella e lucente di prima. E la Luna porta alla dea Artemide (Diana per i Latini) le cui adepte venivano chiamate “arktai”, le “orse”. Il santuario più noto legato a questo culto è quello di Artemide Brauronia, sulla costa orientale dell’Attica. Ma qui era l’aspetto femminile dell’orso a prevalere, l’orsa, nello specifico “mamma orsa”, protettrice delle gravidanze e del parto. E potremmo citare un altro caso di divinità “ursina”: la dea elvetica Artio (letteralmente “l’Orsa”). Una sua effigie in bronzo rinvenuta a Muri, nella regione di Berna (altro caso di città il cui nome si lega a quello dell’orso), ci mostra un’aristocratica figura femminile assisa in trono al cui cospetto campeggia un possente plantigrado affiancato, guarda caso, ad un albero. Un ultimo spunto: l’epiteto “artaius” (ursino?) si ritrova anche abbinato al dio Mercurio (molto amato e diffuso tra i Galli freschi di romanizzazione) in un’epigrafe ritrovata a Beaucroissant, in Isère (quindi in terra allobroga, non così distante dalla Valle d’Aosta!). Gli animali sacri a questa divinità? Lo stambecco e, più frequentemente, il gallo… non dico altro!

UN AFFETTO REMOTO

Non voglio divagare e prometto di trattare più approfonditamente questo argomento, ma pensate al classico orsacchiotto che tutti noi abbiamo stretto tra le braccia da piccoli… il “teddy bear”. Quell’orsetto di pezza o di peluche non è un semplice giocattolo…è molto di più! Vi siete mai chiesti quali sono le sue origini? L’oggetto, definito “transizionale” dagli psicanalisti (un po’ come la “coperta di Linus”), rappresenta una sicurezza, un appiglio, una protezione per il bambino nel suo passaggio dalla mamma al mondo “altro” (dopotutto, va riconosciuto, l’abbandonarsi al sonno per i piccoli non è mai immediato). Qualcosa che lo guida e lo accompagna dalla totale dipendenza dalla madre alla prima forma di “solitudine”. L’orso, l’animale più umano che esista. L’orso, animale considerato psicopompo, ovvero dotato del potere di accompagnare le anime nell’aldilà proprio in virtù del suo “andare in letargo”, assopito in una morte apparente per poi, a primavera, “risorgere”. Un sonno simile alla morte, appunto.

SPUNTI PER UNA VISITA

Ma torniamo in superficie e lasciamoci ammaliare dall’imponenza della splendida torre campanaria romanica (alta ben 46 metri!) alla cui base si può apprezzare un vero e proprio campionario lapideo locale: dai graniti ai calcari, dalle pietre verdi fino alle poderose lastre di marmo grigio-azzurro recuperate dalla città romana e qui reimpiegate. Attenzione però, perché la cuspide e i quattro pilastrini angolari sono del XV secolo. Si pensi inoltre che questo campanile, molto probabilmente in origine era una torre di guardia pertinente a una cinta difensiva che recingeva il complesso conventuale. E il campanile precedente allora dov’era? Se guardate attentamente il lato sinistro della facciata della chiesa lo riconoscerete nella sequenza verticale di bifore restituita da un accurato restauro: era un campanile d’accesso perché alla base si apriva, appunto, il portale.

E ora avviciniamoci alla facciata tardo-gotica, connotata da un’insolita svettante ghimberga in terracotta e da una triade di pinnacoli, anch’essi in terracotta. E’ questo un materiale che ci fa uscire dalla Valle d’Aosta verso la piana del Po, verso il vicino Piemonte e le corti lombarde.

Un materiale che ritroviamo in abbondanza nel vicino Priorato, voluto e commissionato dall’illuminato priore Giorgio di Challant alla fine del Quattrocento. Un edifico che ben rispecchia l’anima della Valle d’Aosta: un’impostazione architettonica mutuata dall’architettura civile francese, ma impreziosita da formelle e decorazioni in terracotta stampata e dipinta, importate dal limitrofo Piemonte. All’interno si cela un vero cameo: la cappella coi suoi pregevoli affreschi tardo-quattrocenteschi.

E infine, per completare la visita esterna, addentriamoci nei suggestivi porticati del chiostro romanico. Risalente alla prima metà del XII secolo, in un momento in cui la comunità abbracciò la Regola agostiniana, il chiostro si distingue per la presenza di una teoria di colonnine binate sormontate da un totale di quaranta capitelli istoriati, uno diverso dall’altro. Dall’Antico al Nuovo Testamento fino alle storie dell’infanzia di Gesù e alla leggendaria vita di Sant’Orso per giungere a simboliche raffigurazioni e agli animali fantastici dell’immaginario medievale, questo luogo riecheggia un misticismo antico e pervasivo.

E ora entriamo in chiesa. Subito lo sguardo viene colpito dai ricercati cromatismi dei marmi in stile Rococò e da una commovente Maddalena piangente ai piedi del crocifisso posto al di sopra di un’elegante transenna in marmo rosa che divide la zona presbiteriale dalla platea destinata ai fedeli.

IL QUADRATO MAGICO

Ma avviciniamoci all’altare. Sorprendente, inaspettato, semplicemente…magico. Sì, quello che si apre sotto i vostri piedi, protetto da una spessa lastra di vetro, è uno dei tanti e misteriosi quadrati magici distribuiti in altrettanti luoghi, cristiani e non, d’Europa. Si tratta di un mosaico datato al XII secolo e realizzato in tessere perlopiù bianche e nere con inserti color arancio chiaro. Ai quattro vertici del quadrato, altrettante figure: un drago, una pantera, un rapace con un’unica testa e due corpi (forse il mitico caradrio) nonché un tritone che regge un serpente. Si presume possano rappresentare i quattro elementi oppure una lettura sul tema della Redenzione dal peccato e della Resurrezione.

All’interno del quadrato sono inscritti sei cerchi. Il registro più esterno riporta questa frase: “Interius Domini domus hec ornata decenter querit eos qui semper ei psallant reverenter “, cioè: “Questa casa del Signore, opportunamente adornata, accoglie al suo interno coloro che sempre a Lui cantino reverenti”.

Una fascia successiva riporta un complesso intreccio di nodi che ben potrebbero rappresentare il legame tra Dio e l’uomo.

Quindi una scritta palindroma (che si può leggere in un senso e nell’altro) con parole speculari: ROTAS OPERA TENET AREPO SATOR. Tanti gli studi, tante le letture, numerose le ipotesi e le interpretazioni. La traduzione letterale suona così: “Il seminatore Arepo tiene in opera le ruote”.

Il significato di base è che “Dio è signore del Creato” e tiene le “ruote”, ossia che il Signore è al centro dell’Universo volendo ravvisare nelle “ruote” nient’altro che le “orbite”.

Infine al centro troviamo un giovane uomo che lotta contro un grosso felino cavalcandolo. Si pensa rappresenti la lotta di Sansone (per i lunghi capelli) contro il leone. Traslando l’episodio: è Cristo che combatte contro il Male. Suggestivo pensare che in realtà l’uomo non stia uccidendo l’animale, ma lo stia obbligando a volgere lo sguardo verso l’alto, cioè verso Dio. Si tratta di un’iconografia molto antica rintracciabile, ad esempio, nelle numerose raffigurazioni di Mitra che sottomette e uccide il Toro. Comunque un culto solare. Comunque un culto salvifico. Suggestivo pensare che il centro della raffigurazione sia interpretabile proprio come un Sole attorno al quale ruotano le “rotas”, le orbite dell’universo. E quel Sole altro non è che Dio, eterna fonte di luminosa salvezza. Non a caso il nome stesso “Sansone” contiene al suo interno la radice ebraica –san indicante proprio il sole (e rintracciabile assai facilmente nella lingua inglese); quei capelli a grosse trecce allargati a ventaglio altro non sarebbero, dunque, che i raggi di questo Sole in forma d’uomo che cavalca il mostro delle Tenebre obbligandolo a guardarlo, quindi a volgere lo sguardo verso la redenzione ed il Bene supremo.

Meritano, poi, particolare attenzione gli stalli lignei posti sui due lati del coro realizzati verso il 1487. Si tratta di un lavoro di notevolissimo livello, sia per l’architettura complessiva nello stile gotico d’Oltralpe detto fiammeggiante, sia per il dettaglio degli intagli lignei; l’autore è un ignoto artista di cultura svizzero-renana (che doveva essere, in quegli anni, subentrato con la sua bottega in Aosta all’atelier di Jean Vion de Samoëns e di Jean de Chetro che, una ventina di anni prima, aveva realizzato gli stalli della Cattedrale). Figure di santi, profeti; figure grottesche, animali, teste e scene di vita quotidiana. Un vero viaggio nel tempo e nella fede.

LA CRIPTA. DALLE FENESTELLAE CONFESSIONIS AL RITUALE DEL MUSSET

Scendiamo ora nella cripta. Un luogo che in origine era grande il doppio ed era suddiviso in due ambienti giustapposti ma tra loro separati da un muro con tre aperture, tre finestrelle attraverso le quali “dialogare” coi  resti del Santo ivi sepolti o comunque per “parlare” con l’Aldilà. Una selva di colonne di epoca romana (tra cui un miliario) precedono la vista dell’altare con la statua di Sant’Orso, purtroppo priva del bastone. Sotto l’altare un angusto passaggio ricorda un’antica pratica cultuale: quella del cosiddetto musset. Il primo febbraio i fedeli strisciano faticosamente dentro questo cunicolo per chiedere a Sant’Orso una grazia, in particolare contro i dolori di schiena e, si dice, anche contro la sterilità. Poi naturalmente ognuno è libero di declinare le sue richieste come meglio ritiene. Pensiamoci: un angusto e buio passaggio. L’orso che si risveglia e a fatica, ancora un pò addormentato, esce dall’antro che aveva ospitato e protetto il suo sonno letargico. Oppure: questo cunicolo così stretto, non potrebbe ricordare l’uscita alla vita del bimbo che striscia fuori dall’utero materno?

Un ultimo passaggio ci porta dal sottosuolo al sottotetto dove si nasconde un meraviglioso ciclo di affreschi ottoniani (XI secolo) analogo a quello presente nel sottotetto della Cattedrale. Oggi non più visibili, erano invece ben evidenti nella primitiva navata centrale. Un complesso sistema di meandri prospettici, animali e storie tratte dall’Antico e Nuovo Testamento in un rincorrersi di verdi, bianco, nero e sfumature di ocra.

Sant’Orso. Dove si intrecciano storia, fede, arte, leggenda e mistero.

Stella

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San Lorenzo di Aosta. Antiche storie all’ombra del grande tiglio

Correva l’anno del Signore 451 d.C.; ero ancora un giovane presbitero a quel tempo, cresciuto e nutrito spiritualmente nel cenobio del santo vescovo Eusebio, in quella città di pianura circondata dalle acque chiamata Vercelli. Mio compagno di studi e di formazione, sebbene più grande, il sapiente Eustasio. Ed era proprio lui vescovo di Aosta quando, bloccato da motivi di salute, mi incaricò di rappresentarlo nella grande Milano, nostra sede metropolitana, in occasione dell’importante concilio provinciale.

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Veduta attuale di Vercelli

Un incarico di prestigio col quale Eustasio mi manifestò tutta la sua stima ed il suo apprezzamento. Un onore che, tuttavia, non mancò di farmi venire i tremori per l’ansia di dover, ancora così inesperto, prendere parte ad un incontro di siffatto rilievo.

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Ricostruzione di Mediolanum nel IV secolo d.C. (da Romano Impero)

Il mio nome, Grato, suona l’accento ellenico; ebbene sì, la mia famiglia paterna affonda le sue origini nella terra di Omero. Nonostante sia giovane ho molto viaggiato e ancora bambino giunsi nella sconfinata e ubertosa pianura del grande fiume Po, immenso nastro d’argento che scaturisce dalle alte vette alpine per arrivare a tuffarsi nel mare Adriatico.

Ero da poco entrato in convento quando, una notte, una di quelle dal sonno tormentato scosso da sogni ricorrenti, apparentemente illogici e non privi di angoscia, ebbi una strana visione.

Davanti a me si apriva una valle verdeggiante, solcata al centro da un ampio fiume le cui acque riflettevano un azzurro argenteo e si attorcigliavano in mille gorghi tra le rocce. Intorno a me un panorama insolito: montagne, montagne altissime ammantate di candida neve. Non lontano dal fiume, una città. Una città che doveva essere stata molto importante in passato vista l’entità dei grandi edifici che, seppure in rovina, ancora si ergevano al di sopra di un mare di povere casupole e di orti. In sogno mi sentii chiamare. La gente di quella valle mi aspettava, ma io non sapevo dove si trovavano né come raggiungerli.

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Ricostruzione veduta da est di Aosta in epoca imperiale romana (da Cadran Solaire, 2012)

Questo strano sogno si ripresentò anche negli anni successivi; rimasi esterrefatto quando mi resi conto che questo sogno capitava sempre nella stessa notte, quella tra 6 e 7 settembre.

Finché, già ventenne, venni convocato dal saggio Eustasio. Doveva darmi uno notizia importante: lo avrei seguito ad Aosta.

Giunto in questa città a me sconosciuta, capii: era questa la destinazione cui ero stato assegnato dal volere divino. Quella vallata, quel fiume, quelle vette. La Vallis Augustana mi stava aspettando da tempo e finalmente vi ero giunto.

Lavorare e studiare sotto la guida di Eustasio, anch’egli di origine greca come me, era fonte continua di accrescimento intellettuale e spirituale, ma anche di arricchimento umano vista la sua immensa generosità, il suo buon cuore, la sua costante attenzione verso i più deboli e sventurati.

Spesso con lui ci si recava fuori dalle nobili e vetuste mura della città per visitare le contrade più lontane e sperdute portando la Parola di Dio, conforto e ascolto.

La gente delle campagne viveva poveramente, questo sì, ma devo dire con grande serenità e dignità. Mi piaceva molto fermarmi con loro, accettare l’invito ad entrare nelle loro umili abitazioni, condividere un tozzo di profumato pane di segale spalmato di buon burro o accompagnato da un pezzo di saporito formaggio. A volte mi veniva offerto persino un piatto di zuppa di cavolo, porri e cipolle davvero deliziosa.

Notavo che il saggio Eustasio si incupiva quando si accorgeva che molti contadini ancora mescolavano la vera fede con antiche credenze, magari recandosi a pregare in prossimità di enormi roccioni, di grotte, di anfratti piuttosto che nelle chiese e nelle cappelle. Così come spesso invocavano antiche divinità pagane se, per disgrazia, una tempesta o un’alluvione arrivavano a distruggere il raccolto. Eustasio li ammoniva severamente, ma io mi rendevo conto che più utilizzava toni veementi e meno veniva ascoltato, anzi, otteneva spesso l’effetto contrario.

Pensai così di adottare i metodi degli antichi Romani, provando ad insegnare loro che divinità apparentemente diverse potevano fondersi e convivere. Insegnai loro ad invocare il buon Dio; insegnai loro l’importanza di rivolgersi al cielo, nome stesso che racchiude in sé le radici di tante parole poi passate a designare dei e Dio. Un pomeriggio d’estate, mentre mi trovavo con loro in un piccolissimo villaggio affacciato sulla piana di Aosta, il cielo si coprì all’improvviso di fosche e minacciose nubi scure. In poco tempo tutto si rabbuiò e vidi la paura negli occhi dei contadini. Istintivamente iniziarono ad invocare antichi dei pagani della tempesta e del tuono. Io, con tutta la voce che avevo, intonai un canto al Signore. La pioggia iniziò a cadere, prima fine e poi sempre più forte. I contadini mi fissavano, temendo il peggio, ma nessuno osava andarsene perché mi vedevano lì, immobile, in mezzo al prato. Continuavo a pregare cantando, addirittura ringraziando Dio per il dono della pioggia. Finché, così velocemente come era arrivata, la tempesta quasi per miracolo si allontanò verso sud, riempiendo l’aria di brontolii e di tuoni, ma risparmiando quelle terre.

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Da quel giorno si sparse rapida la voce, di villaggio in villaggio, che io ero capace di bloccare la tempesta e di sedare il temporale. Mi imitarono. Iniziarono a pregare Dio.

Da quel momento ogni volta che mi recavo nelle campagne, venivo accolto come fossi il papa, tra giubilo e festa; ogni volta la gente mi chiedeva di fermarmi a pregare con e per loro. Eustasio capì e ne fu felice.

E fu così che, dopo la morte del venerabile Eustasio, ne divenni il sostituto sulla cattedra aostana.

Tra le mie diverse attività e impegni, vi era un progetto cui ero particolarmente affezionato: la basilica intitolata a San Lorenzo, morto martire per la fede appena due secoli prima. I lavori iniziarono già con Eustasio che, però, non riuscì a vedere l’opera completata. La piccola chiesa sorgeva fuori le mura, in una zona di necropoli utilizzata sin dalla tarda epoca romana, anzi, alcuni raccontavano che anche le antiche popolazioni dei monti vi seppellissero i loro morti.

Alcune tombe di tarda età romana erano più grandi e importanti delle altre, veri e propri mausolei di personaggi di rilievo o di famiglie nobili. Si diceva fossero tombe di martiri e, di conseguenza, il potersi far seppellire vicino a loro era considerato un efficace vademecum verso la Salvezza eterna.

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Ricostruzione delle due chiese funerarie di S. Lorenzo e S. Orso nel V secolo (da Cadran Solaire, 2009)

Sorgeva quindi la basilica di San Lorenzo extra muros sul lato orientale della città, vicinissima ad un’altra chiesa intitolata a San Pietro (e successivamente, ma io non potevo ancora saperlo, intitolata anche a Sant’Orso). Erano quasi allineate. Una coppia emblematica di chiese funerarie, dedicate al culto dei morti o, meglio, della Vita eterna. Contemporaneamente, sul lato ovest, sempre fuori le mura, stava nascendo una piccola basilica analoga, in un’area oltre la Porta Decumana di romana memoria.

Data al 400 d.C. la costituzione della santa diocesi di Aosta contestuale alla costruzione del primo complesso episcopale della Cattedrale, chiesa madre della città con cura d’anime. Fu poi con la sistemazione delle antiche aree funerarie fuori le mura che si pervenne alla costruzione delle basiliche funerarie tra cui, appunto, anche San Lorenzo.

Consolidati i lavori in città, ci si rivolse alle campagne procedendo alla realizzazione delle prime chiese con cura d’anime, ovvero dotate di fonti battesimali, a Villeneuve, a Morgex e a Saint-Vincent, tutte dislocate lungo l’importante arteria della Strada romana ad Gallias, la stessa che utilizzò, non molto tempo fa, il nobile vescovo Martino di Tours nella sua strenua ed indefessa missione di evangelizzazione dei pagi.

Ben presto San Lorenzo e San Pietro (cui in seguito si aggiungerà Sant’Orso) divennero un unico complesso funerario denominato Concilia Dominorum Sanctorum Martyrum.

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Planimetria a croce latina del V secolo d.C. (da Cadran Solaire, 2009)

San Lorenzo presentava una forma a croce latina, sulla scorta di quanto fortemente voluto dal grande padre Ambrogio di Milano per affermare la vittoria del simbolo della Croce nella sua lotta contro l’eresia ariana. E non era un caso che i legami con la diocesi milanese fossero molto forti e sentiti anche perché Aosta, così come Vercelli, faceva riferimento alla sede metropolita di Mediolanum. Stringente in effetti la ricercata somiglianza di San Lorenzo con l’impianto della Basilica Apostolorum di Milano (che voi oggi chiamate San Nazaro in Brolo).

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Ricostruzione dell’interno del V secolo (da Cadran Solaire, 2009)

Grandi edifici romani ormai in disuso e in stato di abbandono vennero utilizzati come cave a cielo aperto per la costruzione di questa come di altre chiese in città; i grandi e bei blocchi romani, già tagliati e sagomati, erano perfetti per essere reimpiegati. Ma l’azione del reimpiego dell’antico, non dimentichiamolo, non aveva solo finalità pratiche, bensì una forte valenza ideologica perché stava a significare che la nuova Aosta cristiana poggiava le sue radici sull’Aosta romana di cui si faceva chiaro e innegabile vanto.

Ricordo ancora l’atmosfera di estrema sacralità che si respirava, che si sentiva sulla pelle, quando si entrava in San Lorenzo, appena illuminata dalle lampade a olio appese al soffitto, dalla tenue luce filtrante dalle lastre di alabastro delle finestre; i marmi romani rifulgevano di nuova vita e nuovo significato in questo nuovo luogo di culto cristiano.

Vorrei raccontarvi un altro episodio assai particolare che ha poi segnato fortemente il ricordo che la gente ha mantenuto di me.

Un giorno, durante una delle mie numerose visite nel contado, mentre tenevo un’omelia venni bruscamente interrotto da urla strazianti. Una donna disperata corse verso di me, verso il resto delle persone assiepate nella piazza del villaggio urlando e piangendo: suo figlio Giovanni, un piccolo di appena 3 anni, era tragicamente scivolato dentro un pozzo lasciato inavvertitamente aperto ed incustodito. Ci precipitammo sul posto; io per primo mi sporsi oltre il bordo chiamando il bambino: piangeva e si lamentava, ma era ancora vivo. Per fortuna quel pozzo era semivuoto, sebbene assai profondo.

Non esitai e mi offrii volontario ad aiutare altri uomini. Con delle corde ci attrezzammo e a mò di scala riuscimmo a calarci e a portare in salvo il piccolo. Ritornai tenendo avvolto il bimbo tremante nelle mie vesti; sporgeva solo la testa con quei grandi occhi neri colmi di paura.

La madre lo prese e lo strinse a sè ringraziandomi in tutti i modi che conosceva. Tornai ad Aosta scortato dall’intera popolazione di quel villaggio e la mia fama presso le genti della valle aumentò considerevolmente. Non potevo immaginare che, nei secoli che seguirono, questo episodio venne a tal punto trasformato ed ingigantito nei racconti da diventare leggenda. La leggenda che vorrebbe fossi stato io a ritrovare la testa di San Giovanni Battista in fondo ad un pozzo di Gerusalemme… e infatti vengo spesso raffigurato così, con la testa del Battista in mano, semiavvolta dal mio mantello.

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Si avvicinavano ormai gli anni finali di questo V secolo dalla nascita di Cristo. Giunse anche la fine dell’estate; da tempo non stavo bene, ero molto affaticato e sempre meno riuscivo a recarmi fuori città. La gente veniva a cercarmi, pur di ascoltare le mie omelie.

La notte tra il 6 ed il 7 settembre rifeci quel sogno (erano anni che non mi si ripresentava più): la grande vallata solcata dal fiume. In sogno ero tranquillo stavolta: conoscevo quel luogo ormai a me così caro. Conoscevo quelle case, quei monti, quelle persone …

Vidi Aosta dall’alto, vidi la zona delle due chiese funerarie di San Lorenzo e San Pietro, ma era diversa da quella che conoscevo. Le chiese erano cambiate: San Pietro veniva indicata dalla gente della città con un altro nome, col nome di un santo a me ignoto: Sant’Orso. Su uno spiazzo compreso tra le due chiese si ergeva una pianta monumentale: un  tiglio dal tronco squarciato ma dalla folta chioma. Vidi un edifico a me sconosciuto, vero trionfo di abilità artistica nel lavorare la terracotta. Vidi che San Lorenzo aveva mutato il suo ingresso spostandolo sul lato orientale dove io ricordavo la curva dell’abside, e sottolineandolo con un portico.

La chiesa sconsacrata di S. Lorenzo, oggi sede espositiva (regione.vda.it)
La chiesa sconsacrata di S. Lorenzo, oggi sede espositiva (regione.vda.it)

Mi svegliai, disorientato; il cuore batteva all’impazzata. Cercai un sorso d’acqua, presi in mano il mio breviario tentando di ritrovare la pace. La vista era come annebbiata ed un senso di torpore presto si impadronì di me.

Il sonno giunse nuovamente e con esso, altri sogni, oppure visioni… non saprei. Mi vidi all’interno di San Lorenzo, ma improvvisamente il pavimento che conoscevo scompariva, diventava come invisibile. Sotto i miei piedi delle tombe, tante, innumerevoli tombe aperte nelle quali si vedevano i resti umani dei Cristiani qui lasciati nel sonno eterno, alcuni coi loro monili, collane, fibbie. Cristiani qui sepolti nel corso di secoli.

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Alcune tombe a ridosso della zona presbiteriale (foto E. Romanzi)

Vidi degli uomini chini con pale e picconi che scavavano quelle tombe, che compilavano taccuini; li chiamavo per fermarli, ma non mi sentivano! Ad un certo punto mi voltai e vidi … il mio nome: Gratus Episcopus. Era riportato su un’epigrafe, un’epigrafe funeraria: “hic requiescit in pace...” Quella era la lastra della mia morte.

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Epigrafe del vescovo Grato in San Lorenzo (foto: E. Romanzi)

Mi ritrovarono il giorno seguente, 7 settembre, sconvolto da tremori, sudori freddi, febbri altissime, in preda al delirio. Rivedevo la Grecia natia, Vercelli, il maestro Eusebio e il saggio Eustasio. Rivedevo la bellissima vallata solcata dal fiume argenteo, la Dora Baltea. Rivedevo gli occhi del piccolo Giovanni. Rivedevo lo stupore sui volti dei contadini risparmiati dalla tempesta.

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Sono Grato, vescovo di Aosta. Riposo qui, nella mia amata chiesa di San Lorenzo, sotto l’ombra di questo grande tiglio, cullato dall’allegro vociare dei bimbi che giocano felici nel giardino sopra di me. Le mie spoglie mortali non sono qui, non più; ma il mio spirito e il mio nome qui rimarranno per sempre, o almeno finché ci sarà anche solo uno tra di voi che avrà desiderio e cuore di venire a farmi visita.

Stella