Inizio subito con una data: 12 ottobre 2016. Era un mercoledì. Erano le 14,04. Veniva alla luce la mia adorata bambina: Costanza. Una creaturina di puro amore e dolcezza che, come non faticherete a capire, assorbe tutto il mio tempo e la mia dedizione. Ecco perché ormai da tempo non arricchisco questo mio blog…
Adesso che la piccola ha compiuto i 2 mesi e che la mamma sta riguadagnando un minimo di ispirazione, rieccomi!
Non vi nego che in questo post che vi accingete a leggere, una grossa parte di merito è proprio della mia bimba. Già, perché si parla di Natività.
Un paio di giorni fa stavamo allestendo il nostro piccolo presepe e Costanza un po’ sonnecchiava e un po’ osservava quanto stessi facendo su quel davanzale coi suoi occhietti vispi e curiosi.
Tenevo tra le mani quelle statuine e nel sistemarle nella grotta mi sono venuti in mente interi millenni di fede, di culti, di ricerca del sacro.
Da mamma mi ha colpito, per la prima volta, quel bimbo seminudo disteso nella paglia, così, con le braccine sollevate verso il cielo che, se da un lato simbolicamente richiamano il triste futuro di sacrificio in croce che lo attende, dall’altro ripetono la più istintiva e naturale richiesta di affetto dei neonati: “Mamma, mi abbracci? Mi riscaldi contro il tuo cuore?”. Ma la giovane e ancora sconcertata Maria non lo fa… almeno in questa scena. Lo guarda, a mani giunte, e non le viene neppure in mente di togliersi il velo per coprire quel corpicino esposto al gelo della notte. Un’immagine che davvero già richiama quella che sarà la più classica iconografia del Golgota: la Madre, affranta, ripiegata su se stessa, da una parte, e un San Giovanni a capo chino dall’altra al posto dello sbigottito ed incredulo San Giuseppe.
Ho pensato a quanto antica sia questa scena, a quanto indietro nel tempo occorre risalire per riviverla e ritrovarla. E non mi fermo a Greccio, a quel primo presepe inventato da San Francesco. Vado ancora più indietro. Anche oltre la “grotta” di Betlemme. In quella grotta (o stalla secondo altre versioni) ritroviamo la Luce, quella del solstizio d’inverno, quella con la “L” maiuscola che vince le tenebre più oscure e che porta l’Amore e la Pace. Una Luce che da sempre, ogni anno ritorna e si rinnova rinvigorendo le speranze degli uomini, inverno dopo inverno.
Vorrei infatti ora condividere con voi alcune riflessioni, alcune “spigolature”, chiamiamole così.
Mentre la mia bimba se la dorme avvolta nella sua copertina preferita, penso al grembo materno, quello nel quale io, come miliardi di altre donne da sempre, racchiudiamo la vita per 9 mesi. E il legame con la “grotta” è fortissimo. Pensiamo alle prime forme di culto, o se preferite di sciamanesimo, di magica ritualità, attestate nelle grotte frequentate dall’uomo preistorico. Mi viene in mente un viaggio fatto tempo fa in Ardèche e in Périgord, nel Sud-Est della Francia. Un viaggio alla ricerca delle più remote radici umane, un viaggio alla scoperta delle grotte dipinte da mani sconosciute, popolate dai neri profili di animali diversi: uri (buoi preistorici), tigri, pantere, bufali, orsi… Grotte profonde e scure; antri pericolosi che non erano di norma abitati (al massimo le tracce di frequentazione umana si fermano al loro ingresso), ma venivano perlustrati in occasioni particolari. Grotte che, sala dopo sala, parlano il linguaggio della più arcana e pervasiva sacralità. Molti sono infatti gli studiosi che ne parlano come di veri e propri santuari paleolitici. Va comunque detto che, anche al di là di incontrovertibili prove archeologiche (assai difficili da ottenere in questo ambito), una volta penetrati nella penombra di queste caverne e messi a fuoco quei disegni, il fiato si mozza, il cuore rallenta… quell’atmosfera sospesa prepara al sacro. E’ un fatto emozionale, di pelle e di pancia; non servono prove! Istintivamente abbassi la voce e cammini come in punta di piedi, proprio come si fa in una chiesa o in una moschea. L’udito si affina, così come l’olfatto; è l’enfatizzazione del nostro essere sensibile. Si ha davvero la percezione di essere “circondati” da presenze impalpabili ma immanenti, di essere inglobati nel sacro più arcaico e viscerale, potentemente viscerale. E ci si guarda intorno cercando di bucare l’oscurità, in attesa di qualcosa, di una sorta di “ierofania”.
Ditemi voi se la grotta non può rappresentare al meglio l’idea di manifestazione del sacro ad un gruppo di uomini spaventati ma partecipi, di uomini in attesa della Luce nel buio. Un grande ed inspiegabile interrogativo, un profondo mistero, che di secolo in secolo, di cultura in cultura, di credo in credo, si è ripetuto, trasformato e protratto fino ai nostri giorni, al nostro Natale.
E una grotta prevede quasi sempre la presenza di acqua, di polle sorgive, di falde affioranti, di stillicidi. Acque purissimi, acque… “vergini”. Questo è la Madonna, la Vergine, all’interno della grotta del nostro presepe: la purezza. Purezza e fecondità unite in un’unica presenza, quella della Madre del Signore.
Una madre insolita, che per partenogenesi divina ha partorito un Dio. Un episodio assai antico, presente anche in altre religioni, tra cui in primis il Mitraismo. Iniziatosi a diffondere nel mondo romano fin dal I secolo a.C., ma esistente in Oriente, in particolare in Persia, sin dal II millennio a.C. . Mitra, un dio Sole, un dio della luce, che nasce nel cuore dell’inverno, il 25 di dicembre, da una Vergine. O, secondo altre versioni, da una roccia. E qui ritorna un fortissimo legame tra rocce e fecondità, altresì attestata da tanti luoghi emblematici delle nostre montagne, da tanti “berrio” ammantati di ineffabile sacralità. E le grotte sono comunque di roccia… Inoltre può apparire strano che un dio solare come Mitra venga venerato all’interno di grotte e di luoghi appositamente ricavati e allestiti nei seminterrati come i Mitrei. E’ la Luce che deve vincere le tenebre, che deve apparire e manifestarsi.
Giuseppe è il sacerdote, colui grazie al quale la ierofania si rende possibile, non solo quella del Bambino, ma anche quella della Vergine. E’ l’uomo scelto da Dio e capace di ascoltarlo al fine di facilitarne la manifestazione in terra e di mediarlo agli uomini “in attesa”.
Il bue, da sempre simbolo del sacro, delle antiche religioni. Nell’economia dei personaggi del presepe rappresenta il paganesimo (ricordate gli dei dal corpo taurino, i tori sacri, i Minotauri, le tauroctonie mitraiche, fino al “vitello d’oro” contro cui si scagliò l’irato Mosé?). Ebbene, anche il popolo ancora pagano assiste all’avvento della Luce.
L’asino, il più umile delle bestie al servizio dell’uomo. L’asino qui rappresenta il gradino più basso della società, il popolo degli uomini ancora incapaci di ascoltare e capire, oppure dotati di indole buona e perciò in grado di mettersi al servizio e all’ascolto di Dio (si pensi alle lunghe orecchie). Meditiamo anche sul fatto che quando Gesù farà il suo ingresso trionfale a Gerusalemme (la domenica delle Palme), lo farà proprio a cavallo di un asino!
Tutto questo lungo excursus per poi tornare alla realtà. In fin dei conti cos’è la scena davanti a me? E’ quella di una famiglia nella quale è appena venuto al mondo un bambino. E ogni bambino che nasce è la Luce, e porta il Sole nelle vite dei suoi genitori che lo guardano intimoriti ed estasiati, in attesa di ogni suo sguardo, di ogni suo piccolo gesto, di ogni suo dolce sorriso.
Ecco, questo è il Natale. L’arrivo e il rinnovarsi della più luminosa forma di Amore, al di là dei secoli e delle culture.
Auguroni a tutti amici miei!
Stella