Cime rocciose, burroni, strapiombi, torrenti impetuosi e ampie zone paludose: questa era la Valle d’Aosta, quello spicchio di Transpadana che le valide armate legionarie si trovarono a dover obbligatoriamente domare, organizzare e gestire per poterlo finalmente attraversare.
“Il legato Aulo Terenzio Varrone Murena non amava particolarmente quelle terre. La neve, che in alcuni momenti dell’anno pareva soffice albume d’uovo montato; le immense distese verdi come smeraldo che si perdevano all’orizzonte; il silenzio […]”. (da “La legione occulta dell’impero romano” di R. Genovesi).
Sì, il silenzio: un silenzio strano, che quasi tappava le orecchie, rotto solo a tratti dal sibilo di quel vento gelido e feroce che rovesciava giù da nord, da quella valle che si diceva “Valle Fredda”. Le province alpine: ecco cos’erano.Il regno delle rocce, dei ghiacci e delle aquile. Terre strategiche, abitate da popoli sfuggenti che facevano delle montagne le loro roccaforti inespugnabili e che trasformavano quella Natura, per loro così famigliare, in una vera e propria arma.
Ma l’esercito, le legioni, dovevano passare. A tutti i costi. Le legioni avrebbero superato quegli infidi crepacci, quegli scuri burroni e quelle forre scoscese. Avrebbero superato le fitte foreste di pini e i cangianti boschi di betulle. E la paura. Le Alpi spaventavano la maggior parte dei soldati, soprattutto quelli provenienti dalle campagne laziali e dalle coste tirreniche, non avvezzi a simili luoghi e a simili temperature; in particolare la neve li terrorizzava, quella neve che, incontrollata, rovinava a valle con boati tremendi. Le compagini di stirpe gallica e pannonica, invece, erano più preparate al gelo e alla fatica delle lunghe marce.
Eporedia era stata fondata nel 100 a.C. ed era diventata una città-baluardo, un’utile “testa di ponte” per penetrare in quella valle di roccia solcata dall’imprevedibile Duria Maior. Quella valle abitata da tribù imprendibili, quasi degli spiriti capaci di vivere in perfetta simbiosi con le montagne, con le caverne, con il vento. Ecco, sì, quasi figli di quel vento e di quelle rocce, i Salassi dominavano i transiti verso le Gallie. Impossibile passare senza pagare un caro prezzo, o in soldi, o in sangue. I Salassi, nascosti in villaggi pressoché irraggiungibili, mimetizzati tra i pascoli e nelle morene. Lassù, come nidi d’aquila, tutto vedevano e tutto controllavano. Invisibili ed imprevedibili, in una notte potevano sbarrare un passaggio creando slavine, distruggendo ponti. Loro che tra quelle gole sapevano muoversi con agilità anche nel buio più nero. Capitava, infatti, a volte, dal fondovalle, di vedere degli sciami luminosi, fugaci, muoversi rapidamente, come fuochi fatui, lungo le pareti di roccia. Erano loro: i Salassi, i signori delle vette.
Ma l’imperatore voleva il passaggio. Un ordine inappellabile. I Salassi sarebbero scesi a patti? I vari clan disseminati nelle impenetrabili vallate di quella terra, si sarebbero messi d’accordo? Si sarebbe trovato un compromesso? O sarebbero stati scontri e rappresaglie continue? Non importava; si sarebbe affrontata ogni situazione. Ormai non si poteva rimandare: doveva essere avviata la costruzione di una strada militare e commerciale che fosse sicura e funzionale. Quella sarebbe diventatala Via delle Gallie.Nonostante tutto.
E lì. nel cuore di quella cintura di monti, sarebbe nata una nuova città. Nonostante tutto!
Saint-Vincent, nota località della valle centrale, famosa per il suo Casinò e per le Terme, conosciute sin dal XVIII secolo col nome di Fons Salutis.
Saint Vincent (foto: Enrico Romanzi)
Saint-Vincent è anche chiamata la “Riviera delle Alpi” in virtù del suo clima mite e della sua esposizione a sud che sfrutta una vera e propria balconata verdeggiante aperta sul fondovalle. Affacciata su un paesaggio arioso, a breve distanza da Aosta, ben collegata alla Valtournenche e alla Val d’Ayas, Saint-Vincent è da sempre sinonimo di ospitalità, benessere e ricettività.
UN PO’ DI STORIA
Ma non va dimenticato l’illustre e ricco passato di questo luogo, attraversato dallastrada romana delle Gallie sin dal I secolo a.C. (a poca distanza dal centro si trovano i resti del ponte in località Cillian), un itinerario ben organizzato e sicuro poi divenuto, col Medioevo, la Via Francigena.
Resti del ponte romano lungo la Via delle Gallie in loc. Cillian (S. Bertarione)
E un percorso così importante da sempre ha richiesto una capillare organizzazione in termini dipunti-tappa, ricoveri per uomini e animali, fonti d’acqua e altre infrastrutture.
La parrocchiale di San Vincenzo (Foto: E. Romanzi)
L’attuale Via Roma, infatti, in buona parte, sebbene con larghezza ridotta, ricalca il tracciato della via romana lungo la quale, proprio dove oggi sorge la chiesa, si apriva una mansio, cioè un edificio deputato all’accoglienza dei viaggiatori, oltretutto dotata di balnea, cioè di un piccolo ma funzionale impianto termale. Un primo complesso, databile al I sec. d.C., poi ampliatosi nel secolo successivo (II-III d.C.) e rimasto attivo almeno fino al IV secolo d.C.
Un sito già noto e frequentato da molto tempo prima dell’arrivo dei Romani, dato che lì dove sorse questa mansio, sono state individuate tracce di abitazioni e oggetti riferibili al lungo periodo che va dalla Tarda Età del Bronzo fino a tutta l’Età del Ferro (XI-V sec a.C.).
Durante il V secolo d.C., il complesso ricettivo-termale era ormai in abbandono e cominciarono ad essere realizzate le prime sepolture tra le quali si distingue un mausoleo, una sorta di grande tomba di famiglia, attorno cui vennero moltiplicandosi e stringendosi le altre sepolture.
UNA PICCOLA “SPA” SULLA VIA DELLE GALLIE
E’ un vero e proprio viaggio a ritroso nel tempo quello che potrete fare nel sito archeologico sotto la chiesa di Saint-Vincent, oltretutto abbellito e arricchito da un recente intervento di valorizzazione e musealizzazione che ne ha reso più evidenti e comprensibili le singole fasi cronologiche e le rispettive destinazioni d’uso.
La prima parte del percorso di visita (da Akhet)
Dalla lunga fila dei poderosi pilastri della chiesa romanica di XII secolo, si arriverà di fronte al mausoleo e non senza alcune…sorprese! Da qui il cammino prosegue verso le testimonianze dell’età romana dove sarete accolti da un’atmosfera molto particolare, oserei dire “acquatica”!
La sequenza di ambienti era quella canonica: dallo spogliatoio (apodyterium) alla piscina fredda (frigidarium), quindi la vasca tiepida (tepidarium) per poi terminare nel calidarium vero e proprio, la vasca con l’acqua calda!
La zona dei balnea (L. Acerbi)
Certo noi non abbiamo inventato niente! I Romani erano maestri nei sistemi di riscaldamento… sia a pavimento (grazie alle collaudatissime suspensurae) che a parete (mettendo all’interno di un’intercapedine risparmiata nel muro dei particolari mattoni cavi, i tubuli, al cui interno passava l’aria calda). Non so se mi spiego… Tutto grazie al calore prodotto dalla combustione di legname nel praefurnium collegato all’ipocausto (ossia il livello inferiore del pavimento del calidarium). Quest’ultimo era un ambiente “tecnico”, definiamolo così, spesso collegato anche ad una cucina; questo accadde anche a Saint Vincent con certezza nell’ultima fase di vita del complesso, tra IV e V secolo d.C.
Il calidarium (L. Acerbi)
La scoperta dell’impianto termale e del suo antico funzionamento vi condurrà, poi, verso l’epoca protostorica (Età del Bronzo Finale e del Ferro) dove sono state allestite belle vetrine didattiche con i reperti meglio conservati e più significativi ritrovati nel sito.
E pensare che tutto emerse per puro caso.. in una notte del 1968 un ordigno esplosivo piazzato all’esterno dell’abside aprì una ferita nel sottosuolo che mise in luce reperti inaspettati!
E POI?
Durante il V secolo, probabilmente in concomitanza con l’abbandono della funzione termale dell’impianto romano, la zona orientale dell’antico complesso viene utilizzata come area cimiteriale. All’interno del probabile mausoleo, infatti, sono state ritrovate alcune sepolture ad inumazione, orientate est-ovest, con il capo rivolto ad est e totalmente prive di corredo, tipiche dei primi tempi cristiani. In particolare si rileva la presenza di una tomba più imponente delle altre, in muratura e intonacata, forse appartenuta ad un personaggio di spicco della comunità, la cui tipologia rimanda ad esemplari rinvenuti durante gli scavi delle chiese aostane di Sant’Orso, San Lorenzo e Santo Stefano ed è databile, sulla base di confronti con le sepolture tardo-antiche di tutto l’arco alpino, proprio al V secolo d.C. Una tomba che ha funto da attrattore per altre sepolture che volevano “starle vicino”, una sorta di sepoltura “ad martyres“. Si è così formato un primo gruppo cui nel tempo se ne sono aggiunti altri denotando una continuità funeraria orbitante intorno ad un primitivo edificio di culto utilizzato verosimilmente fino alla costruzione della chiesa romanica nel XII secolo.
Quest’ultima, dotata di tre navate desinenti in altrettanti absidi e liturgicamente orientata a est con ingresso da ovest, richiama la tipologia di altre importanti chiese romaniche della Valle, quali quelle di Santa Maria di Villeneuve e di San Martino ad Arnad.
Al di sotto dell’area presbiteriale si trova anche una cripta, suddivisa sempre in tre navatelle e comunicante con il coro e con le navate tramite due accessi laterali. Le cripte, si sa (almeno, per me è così), presentano sempre un’atmosfera tutta particolare, pregna di appartato misticismo e spesso si rivelano preziosi scrigni di camei artistici. Qui vanno apprezzati senz’altro i capitelli scolpiti con motivi ad intrecci e foglie di acanto stilizzate, prettamente romanici sebbene figli di una più antica eredità iconografica carolingia.
La parrocchia di Saint-Vincentviene citata per la prima volta in una bolla di papa Eugenio III datata 26 febbraio 1153, che ne attesta l’appartenenza all’abbazia lionese di Ainay. Il legame col celebre centro monastico francese, attuato attraverso la dipendenza dal priorato di Nus, sottolinea il prestigio di questa parrocchia, tra le più ricche e popolose della Valle d’Aosta sin da epoche remote.
Naturalmente non ha potuto mantenere, lungo i secoli, il suo primitivo aspetto romanico, ma ha subito, destino comune a moltissime chiese, numerosi rifacimenti. Dal radicale rifacimento dell’abside centrale (con contestuale riduzione del catino absidale interno) eseguito nel XV secolo, fino alle nuove volte secentesche resesi indispensabili dopo un incendio che devastò il precedente solaio, per concludere con la facciata nuova di zecca realizzata nel 1889 insieme al prolungamento dell’edificio verso ovest di ben 2 campate, opera dell’architetto Camillo Boggio, lo stesso che seguì gli interventi neo-gotici al Castello di Saint Pierre.
Quante storie dietro ( e sotto) una chiesa. Quante vite, quanti volti, quante persone passate o vissute stabilmente in questo tratto soleggiato di fondovalle valdostano.
Un patrimonio di tutti da non dimenticare, ma continuare a condividere e a tramandare. Un patrimonio che, a partire da dopodomani 22 gennaio 2022, verrà ulteriormente valorizzato dalla riapertura in grande spolvero del bel Museo parrocchiale dove restare stupiti dalla monumentale statua lignea di un San Maurizio quattrocentesco proveniente dalla splendida chiesa romanica di Moron.
Per una Saint Vincent diversa, forse insolita; una Saint-Vincent in filigrana tutta da scoprire (e, magari, ri-scoprire).
Finalmente sono riuscita a vedere in replica la prima puntata del programma Stanotte a Napoli, condotto dal sempre ineccepibile Alberto Angela. La puntata è stata trasmessa la sera del 25 dicembre su RaiUno, ma me l’ero persa…ahimé!
Che dire… un fantastico viaggio notturno tra i vicoli, le piazze e l’atmosfera di una città meravigliosa e poliedrica, fatta di sogni e realtà, di luci e di ombre, di angeli e demoni.
Una città plurimillenaria e dalla caleidoscopica identità che, davvero, mai come in questo caso, si fa perfetta icona del Barocco!
L’intera puntata, infatti, è un inno a questo straordinario momento culturale e sociale. Non solo artistico: il barocco ha segnato un’epoca di passaggio importantissima, quello all’età moderna, all’uomo moderno.
Dalla grandiosa Piazza del Plebiscito al sontuoso Palazzo Reale; dall’eccezionale Tesoro di San Gennaro alla struggente, affascinante e misteriosamente magnetica Cappella Sansevero passando dalla Certosa di San Martino fino a quel trionfo di colori e suggestioni che è il chiostro del Monastero di Santa Chiara.
In tutto questo, cesellato in una notte magica e avvolgente, si staglia protagonista il barocco napoletano, dove un’opulenta ed esasperata bellezza si intreccia ad un costante memento mori: goditi la vita! Godi il più possibile di ogni emozione e piacere, perché la vita è breve e fugace.
Trionfi dorati, affreschi sontuosi e voluttuose sculture si mescolano e si confondono tra teschi, scheletri, clessidre e orologi. Questa la doppia anima di un periodo in cui i contrasti si sublimano sospesi tra culto della giovinezza, esasperata ricerca dello stupore e della meraviglia, e latente monito di morte.
Ecco, in una simile cornice, ancora di più si capisce quanto il Barocco esprima lo spirito partenopeo in cui una costante celebrazione della vita, della bellezza e dell’amore si pone come antidoto e potente amuleto, tra fede, scongiuri e scaramanzia, per un’idea di morte che, per quanto presente e ineludibile, si cerca di limare e confondere.
Insomma, uno stile che bene esprime tanta parte dell’indole mediterranea! Si pensi alle diverse declinazioni che assume tra continente, isole, mari e litorali: dal ridondante barocco spagnolo che potentemente ha plasmato quello napoletano e quello siciliano, altrettanto ricco e raffinato sebbene meno sovraccarico, a quello francese: elegante e prezioso, fino a quello sabaudo piemontese, più algido e ordinato. Tanti modi di vivere, esprimere e interpretare un vero e proprio stile di vita, flessibile e mutevole a seconda delle latitudini e dei contesti.
E’ vero, un po’ per tutti gli stili è così, ma (almeno per me) nel Barocco è più evidente, più palpabile e sicuramente avvolgente. Può essere stordente e sovrabbondante, così come inaspettatamente sobrio e formale, giocato su molteplici geometrie esterne che nascondono altrettanti inattesi trionfi affrescati e decori all’interno. Un gioco, anzi, un “inganno” quest’ultimo, che bene si apprezza in almeno altre due importanti dimore barocche valdostane, il castello Vallaise di Arnad e Palazzo Roncas nel cuore di Aosta.
Château Vallaise di Arnad (regione.vda)La galérie des Femmes fortes di Château Vallaise (S. Bertarione)Palazzo Roncas ad Aosta prima dell’inizio dei lavori esterni (S. Bertarione)Il loggiato del piano nobile di Palazzo Roncas (S. Bertarione)
L’importante era stupire, destare meraviglia!
Bene, direte voi, e cosa c’entra il castello di Aymavilles?
C’entra eccome! Quelle quattro iconiche torri merlate unite da ampi e luminosi loggiati vanno a comporre un edificio strano e insolito: un castello diverso che riesce a distinguersi da tutti gli altri manieri valdostani.
Quella sua doppia identità, quel suo essere ambivalente e anfibio, inaspettatamente sospeso tra Medioevo e Barocco, ne fa, fin dal primo sguardo, una dimora affascinante e ipnotica.
Il castello di Aymavilles visto da nord-ovest (C. Pizzato)
Le logge e gli stucchi barocchi si insinuano tra le robuste murature medievali e rinascimentali ammorbidendole, mimetizzandole e avvolgendole tra le spire di un palpitante organismo plastico e vitale.
La finestra a crociera del XV secolo annegata nelle murature settecentesche (S. Bertarione)
La ruvida pietra trecentesca si fonde con i nuovi candidi intonaci e gli stucchi leggiadri; le nobili ma severe finestre crociate vengono immerse e nascoste in nuove murature più ampie e ariose.
Il castello quattrocentesco inglobato nella successiva dimora barocca (S. Bertarione)
La primigenia fortezza si trasforma in un ricco e raffinato palazzo di delizie incastonato in un parco terrazzato che rimodula e riveste gli antichi fossati difensivi.
Le torri medievali rivestite dall’elegante abito barocco (S. Bertarione)
I beccatelli dell’edificio quattrocentesco all’interno del nuovo palazzo. Ciò che prima era fuori, ora si trova all’interno (S. Bertarione)
E così, anche su questo poggio circondato da vigneti nel cuore delle montagne valdostane, la magia barocca giunge a permeare un’austera turrita dimora ingentilendola e impreziosendola, adeguandola ai gusti del nuovo tempo e della nuova aristocrazia, senza tuttavia annullarla o tradirla. Certo, a prima vista può sembrare strano, può forse persino destare critiche o perplessità, come del resto accadde alla viaggiatrice inglese Elisa Robinson Cole che nel suo A Lady’s Tour round Monte Rosa (1859)lo definisce “francamente brutto”.
Altrettanto negativo il parere espresso da William Brockedon nel suo Journal of excursion of the Alps (1833) che cita quasi distrattamente il castello definendolo un “edificio di cattivo gusto”.
Qualcuno direbbe “nel bene o nel male, l’importante è che se ne parli!”. Beh, oggi noi non possiamo che parlarne nel bene, ravvisando persino un accento di contemporaneità in questa miscela di gusti, epoche e tendenze; in questa creatura architettonica decisamente ibrida, “meticcia”, esotica, un po’ come Palazzo Madama a Torino che, a seconda di come e dove lo guardi, offre sempre un volto diverso.
La regale e ibrida bellezza di Palazzo Madama a Torino (foto L. Acerbi)
Un edificio allo stesso tempo severo ma raffinato, forte e gentile, tetragono e fatato. Un castello delle favole? Forse, in parte, ma non del tutto! E’ un racconto barocco, il suo… fatto anche di apparenze, di meta-significati, di artifici retorici e di ricercate perifrasi. Ecco, in un castello come quello di Aymavilles, è pure possibile che, alla fine, la principessa nella torre sia anche la strega! Ed è oltremodo affascinante!
Castello di Aymavilles, prospetto sud. L’ingresso. (C. Pizzato)
Un’accoglienza quasi regale con una cancellata e una strada in salita; quasi un tempio in cima ad un’altura. Un ampio giardino di gusto vagamente transalpino e un portone incastonato da colonne e stucchi di fattura ticinese.
Le decorazioni in stucco del portale d’accesso (S. Bertarione)La scritta in tedesco sull’architrave d’ingresso (C. Pizzato)
E già qui cominciano le domande: come mai una scritta in lingua tedesca? E perché sottolineare che questo castello appartiene “ a me e a coloro che mi succederanno”? Quali le ragioni di Joseph-Félix de Challant? Forse un voler affermare, una volta per tutte, che lì i padroni di casa erano gli Challant? Una sorta di imperativo imprimatur alla trionfale rinascita di cotanta dimora (e ricchezza)?
Alzando lo sguardo, un orologio. Dipinto, finto, con ore fissate per sempre su quella facciata. Un orologio barocco le cui lancette segnano un’ora che non cambierà mai: le 11,10.
L’orologio dipinto in facciata (S. Bertarione)
Come mai? Cosa si cela dietro la raffigurazione di un oggetto “feticcio” dell’epoca barocca? Perché proprio le 11,10? Scritte in numeri romani, con XI e II che potrebbero ricomporre un XIII: che sia un accenno al secolo in cui nacque quel luogo fortificato? Oppure, sommando 11 e 10,si avrebbe un 21, corrispondente all’età in cui, in epoca barocca, si riteneva iniziasse “la fleur del’âge”, ossia quella giovinezza così celebrata e osannata da divenire quasi oggetto di culto e che si contrapponeva alla paura del vecchio e, soprattutto, della morte?
Oppure potrebbe nascondere una data… chi lo sa! Le ipotesi si sommano e si accavallano in questo “trompe l’oeil” d’ingresso che, a modo suo, inganna bloccando lo scorrere del tempo.
E questa disorientante altalena temporale continua all’interno dove, più o meno dissimulato, il fantasma del castello medieval-rinascimentale appare e scompare, mostrandosi e ritraendosi tra finestre, scale, intercapedini e solai.
Tra sale, salotti e stanze; tra scale, torri e soffitte, ecco anche spuntare, qua e là, l’immagine della Morte che, sotto forma di scheletro, ricorda a tutti che, prima o poi, ricchi o poveri, si andrà (definitivamente) da lei.
La Morte e il suo monito (S. Bertarione)
Senza trascurare il tocco esotico dovuto alle pitture e alle curiosità volute nell’Ottocento da quel personaggio originale e sfuggente, colto e viaggiatore, che fu il conte Vittorio Cacherano Osasco della Rocca Challant che in questa dimora radunò un tal numero di oggetti, cimeli, opere d’arte e reperti da renderla un enorme cabinet de merveilles.
Una collezione che, stando agli archivi, doveva risultare straordinaria, capace di stupire e ammaliare gli ospiti del conte. Una collezione andata, ahimé, dispersa con la sua morte…
Oggi queste antiche meraviglie sono state idealmente riportate al castello grazie ad un’altra importante collezione: quella dell’Académie Saint-Anselme, un’associazione valdostana di studi storici e scientifici fondata a metà Ottocento.
E così, tra oggetti preistorici, salassi e romani; tra lucerne, bracciali, anfore e monete; tra suppellettili liturgiche provenienti da chiese oggi scomparse o radicalmente trasformate, questa collezione, a suo modo, traccia una linea del tempo che, pur nel suo evolvere, qui viene materializzata e cristallizzata.
Come in un gioco di scatole cinesi, la dimora stessa rivive e misura il suo tempo mentre l’uomo che vi si addentra si trova ad attraversare insospettate stanze temporali.
L’uomo misura il tempo che, a sua volta, misura l’uomo. Ma qui a Aymavilles il tempo è bloccato: quel grande orologio è finto. Quelle 11,10 non passeranno mai.
E qui scatta quel sottile incanto, o forse inganno, squisitamente barocco, di una bellezza tenacemente conservata sotto la sua preziosa campana di vetro, lottando contro il tempo, lottando contro quella vanitas tanto ammaliante e seducente, quanto fragile ed evanescente.
Ebbene, credete di ingannare il tempo, ma ne resterete ingannati!
La Valle d’Aosta è ricca di santuari, cappelle ed eremi. Una religiosità che pervade la storia di questa terra dalla particolare vocazione mariana, capace di ergere croci e cappelle votive anche nei luoghi più aspri e difficili per invocare protezione contro l’imprevedibile furia della natura, o per favorire la clemenza del tempo e la fecondità dei campi. E oggi, nel giorno in cui si celebra la tanto amata e miracolosa Madonna della Neve, vorrei offrirvi questa panoramica sulla presenza della Santa Vergine sulle nostre montagne.
Oggi, però, voglio concentrarmi su un santuario a me molto caro: quello intitolato a Notre Dame de la Guérison (Nostra Signora della Guarigione), arroccato sul versante roccioso della Val Veny di Courmayeur, affacciato sulla grande morena della Brenva. E’ questo un luogo cui sono legata fin da quando ero bambina; era consuetudine, infatti, fare visita a Notre Dame più volte durante tutta l’estate, quando coi miei si andava in baita in Val Veny e, obbligatoriamente, l’8 settembre, “compleanno” della Madonna (come dicevo io).
La leggenda narra che nel 1690 una donna savoiarda ( o forse una donna di Courmayeur costretta per necessità a lavorare in Savoia), fece collocare una statuetta della Vergine all’interno di una nicchia ricavata tra le rocce nel luogo noto come “Berrier” o “croix du Berrier”, lungo la strada che saliva verso il Col de La Seigne attraversando la boscosa Val Veny. Nel patois locale “lo berrio” ( o “berrier”) è il masso; e qui di massi ce ne sono a miliardi! Ma evidentemente ce n’era uno, diverso dagli altri, che per le genti del posto aveva un valore ed un significato in particolare.
LA “VERGINE DELLE ROCCE”
Sono numerosi i luoghi in Valle d’Aosta contraddistinti da questo toponimo e fin qui nulla di insolito. Ma spesso capita che alla presenza di un masso particolare sia associato un luogo sacro, frequentato sin da epoche ben anteriori l’era cristiana. Si trattava dei cosiddetti “culti litici”, ossia culti delle pietre con finalità salvifiche e terapeutiche. Se ci si pensa il cuore pulsante del Santuario della Madonna Nera di Oropa, nel vicino Biellese, è proprio un enorme masso erratico morenico contro cui venne costruito il primissimo sacello del vescovo Eusebio. E si dice che ancora oggi vi siano fedeli che tentano di intrufolarsi in una stretta intercapedine lasciata tra il masso e la parete attuale pur di riuscire a toccare la pietra salvifica.
A proposito, conoscete la processione? Dal Pillaz di Fontainemore, solitamente intorno alle 23.00, parte la lunga processione che, alle 12,30 circa del giorno dopo, raggiungerà il santuario. Fantastica l’alba al Colle della Barma... toglie il fiato (sempre che se ne abbia ancora naturalmente…). E dico di più: il percorso che dalla cappella dl Pillaz porta al Colle è un percorso antichissimo lungo il quale si trovano anche dei massi con coppelle; quindi un itinerario frequentato sin da tempi remotissimi e conduceva al “Masso” con la “M” maiuscola, quello di Oropa.
Analoga la storia del santuario dedicato a San Besso, situato in territorio già piemontese ma raggiungibile (alta Val Soana), seppur con maggiore fatica, anche da Cogne. La chiesetta si stringe contro un masso imponente; un “berrio” ritenuto carico di forza e di energie benefiche. Ancora adesso vi è la consuetudine di staccare un pezzettino di roccia e trasformarlo in bijou da portare al collo, come un amuleto protettore.
Volendo citare un altro esempio piemontese possiamo indicare il sito della splendida abbazia di Sant’Antonio di Ranverso (a Buttigliera Alta-TO), da visitare anche per le forti analogie architettonico-artistiche con quella aostana dei SS Pietro e Orso. Sul sagrato si trova ancora oggi un grosso masso, trascinato quaggiù dal ritiro dei grandi ghiacciai quaternari. Bene, anche in questo caso parrebbe trattarsi di un “berrio” sacro poi “cristianizzato” con l’aggiunta di un crocifisso, ma mai rimosso.
PELLEGRINAGGI, EX-VOTO E GRAZIE RICEVUTE
Ma torniamo in Val Veny, a Notre Dame de la Guérison. All’inizio del Settecento un certo Michel Joseph Lanier, detto “la bonté”, fece costruire un piccolo oratorio a mò di cappella dotato di una cassetta per le offerte; le numerose oblazioni, però, scatenarono una disputa tra il Lanier ed il parroco su chi dovesse amministrarle; per un certo periodo di tempo, come conseguenza, fu impedito ogni pellegrinaggio al Berrier.
Nel 1781 Jean-Michel Truchet decise di far erigere a sue spese un nuovo oratorio più grande che venne benedetto il 28 maggio 1792. Purtroppo, dopo pochi anni, un notevole ingrossamento del ghiacciaio della Brenva arrivò a causare il crollo della chiesetta. Nel 1821 se ne costruì un’altra situata, però, per precauzione, “50 passi a levante dal sito ov’era quella del Truchet” (G. Bréan, 1941).
I pellegrinaggi ripresero fino ad aumentare in modo considerevole, tanto che si rese necessario ampliare ulteriormente l’edificio: oltre 200 mc di roccia furono spianati a colpi di mine e maglio. La nuova cappella fu terminata nel 1867 con l’aspetto che vediamo ancora oggi. Solenne la benedizione del 25 agosto 1878 e altrettanto rilevante la cerimonia dell’incoronazione della statua miracolosa avvenuta il 12 settembre 1909 alla presenza del legato papale, card. Richelmy.
E che ancora oggi questo sia una meta di numerose e sentite processioni è testimoniato anche dalle centinaia di ex-voto affissi alle pareti interne della chiesa: dipinti, sculture, bassorilievi, ricami, dediche, cuori d’argento, piccozze… una miriade di oggetti per ringraziare la Vergine del suo miracolo aiuto ricevuto nelle situazioni più tragiche e difficili, in particolare per incidenti di montagna e per malattie.
ECHI LONTANI DAL VENTRE DELLA MONTAGNA
Pochi passi e, procedendo verso monte, si raggiunge la località di Purtud. Il nome di questa località dovrebbe derivare dal latino “pertugium“, poi mutata nel francese medievale “perthuis“, cosa che lo renderebbe riconducibile ad una cavità. Alcune leggende parlano di antiche miniere salasse; altre, invece, di una grotta che accolse un eremo, poi divenuto cappella nota come Saint Jean de Purtud. Forse una vera e propria chiesa non è mai esistita, ma il supporre la frequentazione da parte di eremiti alla ricerca del distacco dal mondo, è già più probabile. Così come piace anche pensare all’antichissima presenza di culti in grotta.
La Dea Madre, le pietre, le forze naturali; le molteplici manifestazioni del sacro di cui le montagne sono sempre state pregne, fino ai santuari cristiani, fino alla Vergine che, non a caso, proprio nel giorno della sua Assunzione al cielo il 15 di agosto, accompagna e protegge, in qualità di patrona, le nostre guide alpine.
(Stella)
“La Vergine delle rocce” – Leonardo da Vinci (National Gallery of London)
Bianca aveva 17 anni e abitava a Courmayeur da sempre. Frequentava il liceo linguistico del paese e l’anno prossimo avrebbe avuto la maturità. Amava molto studiare: conoscere tante lingue diverse le apriva la testa ma anche il mondo! Viaggiare … un grande sogno da sempre! Ma ugualmente aveva una forte passione per l’arte, la storia… conoscere il passato la incuriosiva e la affascinava; forse l’aveva ereditata dalla nonna archeologa, chissà! Ed era stata proprio la nonna a raccontarle innumerevoli storie e leggende non solo sul suo paese, ma su tutta la Valle d’Aosta. Ben presto aveva iniziato a incuriosirsi sui tanti castelli, torri, caseforti che punteggiavano quelle montagne. Finché un giorno, ancora bambina, le chiese; “Ma, nonna, e qui a Courmayeur? Non c’era un castello?”. “Certo che c’era, Bianca! Solo che purtroppo oggi non esiste più… si trovava nei pressi della chiesa, sai? La sua mole incombeva sull’attuale piazzetta del Brenta e sovrastava una via Roma, un tempo chiamata via Margherita di Savoia, assai più stretta di quella che percorriamo adesso!
Il condominio Brenta, così chiamato dal nome del suo costruttore, fu realizzato nei primi anni ’60 dopo aver tragicamente distrutto, raso al suolo, il precedente albergo, sorto a sua volta sulle vestigia del castello (o forse piuttosto una casaforte) risalente al XIII secolo”, le aveva spiegato la nonna scuotendo la testa. Roba da far drizzare i capelli! Nessun vincolo, nessuno scavo preventivo, niente di niente su un’area dalla storia così intensa! E quante volte la nonna le aveva raccontato dei nobili De Curia Majori, dei La Cort, dei Piquart de la Tour, dei Malluquin… insomma, di quelle antiche famiglie che nei secoli del Medioevo avevano stabilito la loro residenza ai piedi di un temuto ed invalicabile Monte Maledetto, non ancora Bianco, popolato da streghe e fate, da giganti e demoni, insomma da tutte le molteplici forme della paura dell’uomo davanti all’immensa e sovrastante forza della montagna.
Gli anni erano passati. La sua amata e divertente nonnina era partita per le nuvole (come diceva lei…) lasciandole tutti i suoi racconti e quella voglia di scoperta e di mistero!
Aveva 17 anni e, come già faceva da un paio d’anni, l’estate cercava sempre qualche lavoretto per “arrotondare”. E a Courmayeur il lavoro non mancava! Era fine luglio, per l’esattezza il 27 (festa patronale di San Pantaleone). Quell’anno, però, avrebbe perso la “veillà” perché di sera doveva fare la baby-sitter.
Una coppia di turisti l’aveva contattata per badare al piccolo di 5 anni dalle 19 alle 24. Perfetto! Nessun problema! E a pensarci bene, se non fosse stata troppo stanca, sarebbe anche riuscita a raggiungere le sue amiche! Bianca amava i bambini e conosceva un sacco di giochi da fare insieme! Questa famiglia abitava al condominio Brenta. Caspita! Ne sentiva parlare fin da quando era piccola ma non ci era mai entrata! Non sapeva perché, ma si sentiva insolitamente agitata. Appena entrata, quel vano ampio e semi buio avvolto nel silenzio le mise un pò di inquietudine. Non volle prendere l’ascensore e, salendo le scale fino al 4° piano, le venne spontaneo guardarsi attentamente intorno, quasi alla ricerca di un qualche indizio del castello scomparso (“magari qualche pietra, qualche stipite…”- pensava – memore dei racconti della nonna). Ma niente!
Improvvisamente un botto alle sue spalle. Bianca si voltò di scatto. Sembrava che qualcuno avesse chiuso bruscamente una porta, ma… non vide nulla né sentì nessuno. Era quasi arrivata. Una raffica di vento gelido la fece rabbrividire. Eppure, da dove poteva essere entrata? Non vedeva finestre aperte e, oltretutto, era un luglio decisamente caldo… Era assorta nei suoi pensieri quando la porta davanti a lei si aprì: “Bianca, è lei? Posso darti del tu?”. Bianca sobbalzò; “Sì, sì… mi scusi… io non… certo! Sono in anticipo!”. “Perfetto! Hai fatto bene! Il piccolo Giovanni non vedeva l’ora che arrivassi. Entra pure che ti mostro la casa…”.Giovanni era un bel bimbo paffutello coi capelli rossi e un paio di grandi occhi blu! Fu un vero piacere stare con lui e Bianca riuscì presto ad incantarlo con i racconti della nonna.
Ma uno su tutti fece centro! “Un castello?! Questa casa?! Coi soldati, i cavalieri… Ti prego, portami a vederli da vicino!”. “Ma no, Giovanni… non è possibile… non esistono più! Dobbiamo accontentarci di immaginarli, proprio come nelle favole…”, cercò di spiegargli Bianca.”Ma no! Secondo me li troviamo! Dai, giochiamo al castello! Saliamo sulla torre!”. “Quale torre? Dici sul balcone?”; “No! Ho sentito mio papà che parlava di una soffitta! Sù, nel sottotetto! Dai, andiamo a vedere com’è?! Per favore!! Resterà il nostro segreto!”.
Curiosa com’era, Bianca acconsentì e i due salirono fino all’ultimo piano. Tuttavia nulla lasciava supporre la presenza di una soffitta… “Giovanni, mi sa che dobbiamo…”; “Bianca! Vieni, presto! C’è una porta!” esclamò il bambino. Bianca si avvicinò. “Ma, è tutto buio, Giovanni…”. “No no! Tranquilla! Ho il mio portachiavi con la torcia!”. La piccola porta era dura e arrugginita; evidentemente non veniva aperta da tempo! Bianca tirò con tutte le sue forze e, finalmente, con sinistri cigolii, riuscì ad aprirla.
Come un fulmine Giovanni si lanciò sù per le scalette e ben presto Bianca ne perse le tracce. “Giovanni! Giovanni, dove sei?! Sù, non fare scherzi, eh?! Dai, per favore… non farmi preoccupare! Vieni fuori!”. Ma Giovanni non rispondeva… Bianca sentiva dei passi, delle risate soffocate, ma nulla più. Procedeva nell’oscurità con cautela, sudando freddo nel timore che fosse accaduto qualcosa al bambino e continuando a chiamarlo. Ad un certo punto intravide una lama di luce che penetrava da un abbaino socchiuso. Lo spalancò e sentì l’aria fresca della sera.
Uscì su un terrazzo; “Dai, esci sù! Ti ho trovato!… ehi…”. Guardandosi attorno con più attenzione si accorse che il panorama intorno a lei non era il solito… O meglio, le montagne sì, certo, ma… il paese, la “sua” Courmayeur, non c’era più… Era davvero in cima ad una torre che svettava su un villaggio di poche case avvolte nelle ombre della notte.
Poco distante, la sagoma del campanile rivaleggiava in altezza superando i tetti dell’edificio su cui lei si trovava… “Eccomi! Ti sei spaventata?”. Bianca aguzzò lo sguardo. Ma davanti a lei non c’era il bimbetto che credeva.
“Giovanni…?”.”Sì, sono Giovanni De Curia Majori. E’ un onore averti mia ospite. Da tempo aspettavo di trovare qualcuno abbastanza sensibile da farmi tornare qui, nel mio castello… nella mia amata dimora perduta. Ma un modo per darmi pace, c’è! Ho bisogno che tu mi accompagni nelle segrete! Là avevo nascosto un amuleto: un gioiello di famiglia cui tengo moltissimo e che non ho mai avuto modo di recuperare. Devo assolutamente riprenderlo. Solo così mi quieterò!”.
Bianca era sconvolta. Credeva di sognare. Ma quel giovane uomo elegante dai capelli rossi le si avvicinò prendendola per mano. “Le… segrete? Ma, quali segrete?”, balbettò la ragazza incredula. “Dai, scendiamo!E’ l’unico angolo che non è stato distrutto…per fortuna!” E fu così che Bianca si trovò a seguire il nobile Giovanni De Curia Majori attraverso le sale di quell’antica dimora.
Mura spesse e finestre crociate con sedute interne; solai bassi e grosse travi di legno; le cucine al pianterreno coi grandi camini e un fortissimo odore di fumo e carne arrostita. Attraversarono velocemente la corte interna del maniero. Bianca si fermò solo un attimo e si rese conto di quanto assomigliasse alla piazzetta porticata dove passeggiava da sempre. Più piccola, circondata da mura, ma con un breve portico che dava accesso ai magazzini e alle stalle. Si infilarono nell’angolo opposto e, giù per un ripido viret (scala a chiocciola), raggiunsero i sotterranei. Erano assai più ampi di quanto lei potesse pensare. Giovanni la precedeva con una torcia.
Arrivò davanti ad una sorta di cassaforte a muro chiusa da un elaborato lucchetto. La aprì e ne estrasse un sacchetto di velluto giallo e grigio. “Eccolo! Finalmente!”. All’interno vi era un prezioso ciondolo d’oro a forma di scudo con un leone rampante in argento e rubini. “Ma, è lo stemma di Courmayeur!”, esclamò Bianca. “Esatto! Dovevo rientrarne in possesso. Ma finora nessuno era stato in grado di capire e di sentire la mia presenza. Hanno raso al suolo il mio castello. Solo questo angolo di segrete è rimasto, ma è invisibile ai più… Ma ora saliamo. Ci aspettano!”.”Ci aspettano?! E chi? Non sono ancora finite le sorprese stanotte?!”, commentò una Bianca sempre più esterrefatta.
Questa volta, però, per salire non dovettero attraversare la corte, ma imboccarono un’altra ripidissima scala a chiocciola che si avvitava vertiginosamente all’interno di una stretta torretta circolare. Bianca faticava non poco a star dietro a Giovanni… Tentò di fermarsi per un momento, si voltò e con stupore vide che dietro di lei… non c’era nulla! Il vuoto! La scala scompariva mano a mano che si saliva! “Eccoci al piano nobile, Bianca! Qui si trova la mia sala delle udienze. Entro per primo. Ti farò chiamare!”.
Bianca non riuscì nemmeno a rendersi conto di dove fosse, che una voce cupa e tonante la chiamò. Entrò, ma…Davanti a lei si apriva un vasto salone affrescato che, grazie a tre finestre a crociera, si affacciava sulla corte interna. La ragazza vi si avvicinò per guardare e notò immediatamente che la corte non era già più quella da dove era passata poco prima con Giovanni. Solo la forma vagamente trapezoidale era quella; i loggiati si aprivano su tutti i lati e grandi vasi in terracotta decoravano un grazioso giardino interno pavimentato in acciottolato.
“Benvenuta, madamigella Bianca! Ero davvero curioso di fare la sua conoscenza!”. A Bianca venne spontaneo mettersi sull’attenti. “Sono il nobile Roux Favre, vice Balivo di Aosta! Questa ora è la mia dimora nell’abbraccio delle più alte montagne della Valle.” Era un omone alto e grosso, dai capelli rossi e ricci, il viso rubizzo illuminato da due acuti occhi azzurri e un sorriso largo. “Avverte un accento forestiero, vero? Sono di origini elvetiche infatti; la mia famiglia ha le sue radici nel vicino Vallese. Ma prego, mi segua! Con immenso piacere le mostrerò la dimora. Sa, dispongo di tali ingenti ricchezze che ho potuto rilevare l’intero feudo di Courmayeur e possiedo un’altra casaforte rustica nel ridente villaggio di Dolonne”.
Roux (non avrebbe potuto chiamarsi in altro modo, del resto) era dilagante! Parlava come un fiume in piena e si capiva subito di che pasta era fatto: un leader dal carisma travolgente! Bianca passò per le stesse sale viste prima con Giovanni, ma erano diverse! Diversi i soffitti: non più travi in legno, ma volte a unghia e ad ombrello. Un maggior numero di camini, ma più piccoli. E, al piano nobile, persino una piccola galleria ingentilita da decori dipinti e stucchi. Scesero nell’elegante corte proprio nel momento in cui una splendida carrozza trainata da due cavalli, uno bianco e uno nero, entrava dal grande cancello.”Bene”, esordì Roux Favre, “ecco il futuro proprietario del mio palazzo: il barone Pierre-Léonard Roncas! Anche lui di origini vallesane… eh, buon sangue!! Un uomo che si è fatto da solo, sai? I suoi nonni erano semplici macellai! Poi suo padre ha avuto la fortuna, la possibilità e l’intelligenza di studiare e diventare un medico affermato, molto noto in Aosta. E lui, beh… in Valle non esiste un uomo più ricco e potente! Ti dico solo che è il Primo ministro e Consigliere di Sua Eccellenza il Duca di Savoia… e non occorre dilungarsi oltre, mia cara!”
Bianca attese che la carrozza si fermasse, curiosa di vedere un personaggio così importante di cui aveva sentito parlare più di una volta. La porta si aprì. Con incedere autoritario scese il potente barone Roncas: un bell’uomo, alto e snello, avvolto in un elegante mantello di velluto blu, il volto semi-coperto da un cappello piumato a tesa larga. Il barone alzò lo sguardo su di lei scrutandola da capo a piedi con occhi affilati e indagatori. Bianca si voltò per cercare supporto nel sorriso bonario di Roux, ma … era sparito! “Madamigella Bianca, i miei omaggi! E’ rimasta colpita dai miei destrieri, nevvero? Sono bestie magnifiche! Quello bianco, maschio, si chiama Apollo; mentre la femmina, scura come la notte, Diana. Immagino lei conosca i divini gemelli dell’Olimpo, il Sole e la Luna! Non a caso i simboli da me scelti per il mio stemma famigliare il cui emblematico motto è “Omnia cum lumine”. Lei conosce il latino, vero?”
Bianca era nervosa come in un’interrogazione a sorpresa senza aver studiato! Quell’uomo le metteva soggezione… “Sì, un pò… vuole dire, mi pare, “ogni cosa con lume”, ..vero?!” balbettò la ragazza. “Bene, signorina. Noto che almeno le basi ci sono! Sì, “ogni cosa con lume”! Il lume di un fine, acuto e lungimirante intelletto: fulgido in pieno giorno e ugualmente capace di illuminare le tenebre. Quelle dell’ignoto, dell’inganno, della menzogna… Sa, il mio ruolo richiede una mente vigile, svelta e strategica! Ma, prego, mi segua, inizia a far fresco…”. Bianca lo seguì e subito notò che l’ambiente d’ingresso era di nuovo cambiato: più ampio e prezioso con un grande scalone che portava al piano superiore.
Il barone Roncas si accorse dello stupore di Bianca:” Sì, ho fatto abbattere due tramezzi e ampliare l’accesso principale eliminando quell’angusto e scomodo viret, decisamente obsoleto! Le mie dimore devono rispecchiare la mia figura e il mio gusto!”. Bianca trovò un minimo di coraggio:” Barone, sa, proprio 3 anni fa ho visitato il suo palazzo di Aosta: è stupendo, raffinato…non credevo…”.
“Esatto!”, irruppe il barone, ” sobrio all’esterno, ricco e trionfale all’interno! E, mi dica, cosa l’ha colpita di più?”. “Beh, gli affreschi a grottesche! Mi hanno sorpresa! Non se ne vedono molti qui in Valle, anzi… inoltre soggetti mitologici,vedute di paesi esotici, marine… davvero inaspettato! E sono rimasta incantata dalle raffigurazioni astrologiche del loggiato superiore. Subito credevo fossero sbagliate perché i segni zodiacali non rispettano l’ordine canonico, ma poi mia nonna mi ha illustrato una sua ipotesi interessante e suggestiva…”
“Ah, sì?”, chiese il barone decisamente incuriosito, “e sarebbe?”. “Beh, io non la so spiegare bene, ma, ecco, secondo la nonna quei segni, disposti in quell’insolita sequenza, avrebbero in realtà indicato un quadro astrale ben preciso…
“Sono felice che, nei secoli, qualcuno abbia colto questo messaggio, oscuro a chi si sofferma sulla superficie, ma interpretabile da chi riconosce la multiforme forza dei simboli. Nulla è a caso! Tua nonna non mancava certo di fine intuito…Avrei voluto conoscerla!”
Al ricordo della nonna, Bianca si emozionò e guardò fuori dalla finestra. Poi, improvvisamente si sentì chiamare:” Benvenuta mademoiselle, necessita di aiuto?” Bianca si voltò. Il barone era sparito e l’androne d’ingresso era ancora una volta cambiato! Aveva perso quell’aura di eleganza e ricercatezza; tutto era decisamente più sobrio e spartano.
Di fronte a lei un sacerdote la guardava sorridente; indossava un’insolita tunica rossa decorata da una grande croce bianca e oro sul petto.”Ma, io, ecco… il barone Roncas…”. “Certo mademoiselle, il barone Roncas è stato proprietario dell’edificio tempo fa. Poi lo ereditò l’unico figlio, il barone Pierre-Philibert Roncas, quindi passò alla di lui figlia che, seguendo il suggerimento del nobile marito, lo vendette al nostro Ordine”.”Ordine? Ma quindi adesso è … un convento?”, chiese Bianca disorientata.
“Oh, no, mademoiselle! L’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro, fondato ben 2 secoli orsono, nel 1572, da Sua Eccellenza il duca Emanuele Filiberto di Savoia – nostro Gran Maestro – ha natura religioso-militare; siamo una “sacra milizia” i cui valori si ispirano all’insegnamento dell’antica valorosa Legione Tebea! In questo luogo ci occupiamo di servire Casa Savoia con un valido presidio in un luogo tanto impervio quanto assai strategico. Nel contempo offriamo supporto e ospitalità ai pellegrini, ai viandanti, ai bisognosi…”.
“Ah, non…sapevo, ecco…io sono un pò confusa e…”; “Non si preoccupi, la faccio accompagnare da una consorella in una camera dove poter riposare. Quando si sentirà meglio, potrà scendere nel refettorio per la cena, se vorrà”.
E così, accompagnata da una suora silenziosa, Bianca attraversò nuovamente quel nobile e vasto edificio, sempre considerevole, curato e pulito, ma privo della particolare impronta artistica voluta dal barone Roncas. A questo punto era ancor più curiosa. Sarebbe scesa per cena! Si rinfrescò il viso, si aggiustò i capelli e si diresse verso il refettorio.
Tuttavia, già nelle scale qualcosa non era più come prima: si sentiva un allegro vociare, della musica e un profumo di buon cibo. I corridoi erano tutti illuminati con mobilio ricercato in stile “rétro” (secondo lei, naturalmente…), dei graziosi salottini dalle tinte pastello e dalle forme panciute che, nel salire, non c’erano affatto! Alle finestre splendidi tendaggi damascati color cipria e un numero imprecisato di comò con altrettante lampade deliziose a forma di fiore o in vetro multicolore. Il vocìo era sempre più forte. Giunta sulla porta della sala da pranzo rimase senza parole.
Quello sembrava in tutto e per tutto un hotel, un magnifico ed elegantissimo hotel. Tavoli riccamente preparati e imbanditi. Donne elegantissime con abiti straordinari che lei aveva visto solo sui libri o, si ricordava, nei quadri di Giovanni Boldrini. Un’atmosfera da sogno. e lei si sentiva un pesce fuor d’acqua coi suoi jeans, la felpa e le sneakers… Stava per andarsene quando: “Signorina, posso esserle d’aiuto? Ha smarrito qualcosa?” Bianca si trovò di fronte un uomo sui cinquant’anni dall’aspetto curato e molto elegante. “Buonasera, io sono Michel-Joseph Ruffier, proprietario di questo hotel: l’Hotel de l’Union! Mi hanno informato del suo arrivo; so che ha dovuto affrontare un viaggio lungo e faticoso. Se posso esserle utile, al suo servizio!”
Bianca si sentì immediatamente a suo agio e confessò il suo imbarazzo nel non avere abiti adeguati. “Non si preoccupi. Posso provvedere io, se mi consente… La affido a Jeanne: ha delle mani d’oro e saprà trovare la soluzione più adatta!”. Jeanne era una cameriera “factotum” dell’hotel, nonché bravissima sarta! Avrà avuto circa 30-35 anni, bassina, paffutella e con una massa di ricci color rame che scappavano ribelli fuori dalla cuffia. Le stette subito simpatica!
“Una signorina bella come lei starà benissimo con tutto! Mi segua”. E in men che non si dica, Bianca si ritrovò vestita come una principessa: un abito sontuoso azzurro polvere lungo fino ai piedi; morbidissimo con balze e pizzi, la vita strettissima fasciata da un largo nastro di raso blu, e impreziosito da una stola impalpabile. Jeanne le aveva anche acconciato i capelli raccogliendoglieli in un alto e gonfio chignon decorato con nastri e piume.
“Ah ragazza mia, ti guarderanno tutti!” cinguettò Jeanne soddisfatta. Bianca la guardò bene in viso: quegli allegri occhi blu, il naso spruzzato di lentiggini, i ricci rossi… le sembrava che, bene o male, tutti i personaggi incontrati in quella serata unica e surreale, avessero dei tratti comuni.”Forza! Cosa fai lì tutta imbambolata?! La cena ti aspetta!”, la esortò Jeanne spingendola nel corridoio. Investita dalla luce e dalla musica, Bianca dovette riconoscere di sentirsi particolarmente a suo agio in quegli abiti e in quel luogo; “Eh, sì – pensò – in un posto così verrei volentieri in vacanza. Certo, non è un hotel 5 stelle come quelli di adesso, ma… ha un fascino, una raffinatezza e un’atmosfera impareggiabili!”.
Un bel ragazzo sui vent’anni, distinto, e dai modi educati, ad un certo punto le si avvicinò e, in un francese incerto, la invitò a ballare. Bianca arrossì e, per toglierlo dall’imbarazzo, essendosi accorta di quale fosse la sua lingua madre, gli rispose senza titubanze in inglese. Il ragazzo restò piacevolmente sorpreso. I due iniziarono a danzare; la serata era splendida, anzi, letteralmente magica.
Le disse di chiamarsi John, unico figlio di un ricco lord delle Midlands, di avere 24 anni e di essere partito per un Grand Tour in Italia. Era rimasto talmente colpito dalla grandiosa, imponente, ancestrale bellezza di quelle montagne, da volersi fermare il più possibile per conoscerle a fondo. Era a Courmayeur, ospite dell’Hotel de l’Union già da 2 settimane e affermava di trovarsi davvero bene. L’hotel disponeva di tutti i conforts possibili, e il paese era “pittoresco” e delizioso, circondato da una natura “selvaggiamente romantica”.
John era molto diverso dai ragazzi che conosceva e Bianca cadde vittima di un immediato colpo di fulmine! Quella sera avrebbe dovuto durare un’eternità. Uscirono nel cortile. Bianca notò ulteriori cambiamenti. Non era più circondato da mura, ma lungo la strada c’era un’elegante cancellata in ferro battuto. Ricche carrozze stazionavano nei pressi del locale loro riservato dov’era anche possibile ricoverare i cavalli e prendersene cura (cibo, strigliatura, cambio o riparazione dei ferri).
“Ti andrebbe una passeggiata?”, le propose John. E come rifiutare? Anzi, essendo lei del posto, era entusiasta di poter ri-scoprire il suo paese insieme a lui. Quant’era diverso!
La chiesa si stagliava sull’unica piazza quasi in solitaria. Poche semplici case e i servizi essenziali. Altri fantastici alberghi come l’Hotel de l’Ange, sviluppato su più edifici disposti a “L” e dotato di un favoloso giardino d’inverno con padiglione danzante.
“E’ meravigliosa questa Courmayeur”, disse Bianca; “ma tu lo sei mille volte di più”, rispose John fissandola negli occhi. “Se questo è un sogno, non svegliatemi più!”, pensò Bianca abbandonandosi al suo abbraccio.
A notte fonda, quando ormai tutte le feste erano terminate e il paese era avvolto nel silenzio, i due fecero ritorno all’Hotel. Un ultimo bacio con la promessa di rivedersi il giorno dopo a colazione. John si frugò in tasca e ne estrasse un piccolo libretto: “Questo è il mio taccuino, tienilo a ricordo del nostro incontro” e ci infilò dentro un bocciolo di rosa colta all’esterno. Bianca, stordita ed estasiata, entrò nella sua stanza ma… ecco, era di nuovo diversa! Un arredo moderno e colorato; sul tavolo un giornale di “Benvenuto” con tanto di data: 27 luglio 1958.”1958?! Ma come?”.
Bianca corse alla finestra: infatti il cortile era nuovamente cambiato: l’ingresso era sottolineato da una colorata tenda parasole; sulla piazzetta tavolini, dondoli, sedie a sdraio con grandi vasi di gerani ovunque. Aveva bisogno d’aria e aprì. A ulteriore conferma del periodo, Bianca vide 3 auto parcheggiate nei pressi di un “Auto-Garage”: una Lancia Flaminia, una Giulietta Spider e una Ferrari 250 Gt (le conosceva bene perché le auto d’epoca erano la passione di suo nonno!).
Nel cortile udì parlottare due camerieri:” Eh, ormai l’Union non funziona più! E’ antiquato e la gente preferisce altri alberghi, magari con solarium, giardino, piscina… eh, ho già sentito dire che presto chiuderanno definitivamente!”.”No! No! John! “, disperata Bianca provò ad uscire dalla camera ma la porta era bloccata. Alla fine, stremata, si accasciò sul letto tra le lacrime.
“Bianca…Bianca…”. La ragazza aprì gli occhi a fatica. “Sì?… chi è adesso?”. “Siamo noi. Scusaci, abbiam fatto più tardi del previsto… e’ quasi l’1 di notte!”. Bianca si destò: era nell’appartamento del Brenta, vestita coi suoi abiti, col piccolo Giovanni addormentato con lei sul divano. La testa le girava all’impazzata!
“Ah, no si figuri… tanto dormivamo da un pezzo…”. Chiudendosi quindi la porta alle spalle, Bianca aveva un certo timore a scendere quelle scale: cosa sarebbe successo ancora? Se almeno avesse potuto riabbracciare John…avrebbe voluto dirgli tante cpse!
Finalmente uscì in piazzetta dove la veillà era ancora nel vivo. I locali erano pieni e c’era gente ovunque. Ma lei non aveva nessuna voglia di fare festa, voleva solo andare a casa. Troppe emozioni e non poteva credere che fosse stato solo un sogno. Cercò nello zainetto il suo cellulare, ma trovò un’altra cosa: “Non… non è possibile! E’ il taccuino di John!! Oddio, ma allora…” Era persa in queste folli considerazioni che quasi non si accorse che stava per andare a sbattere contro la sua amica Cinzia. “Ehi! Ma ci vedi?! E’ da un pezzo che ti sto chiamando! Dai, vieni con noi a fare un giro? All’Ange si balla ancora e devo presentarti un tipo da urlo!”
“Oh no, Cinzia, grazie ma sono stanca morta! Preferisco andare a casa…dai!”.”E sù! Non hai 80 anni, dai! Solo 10 minuti!”. “Ok, ma davvero 10 minuti, eh?!”
Cinzia la prese sottobraccio e la trascinò all’Ange dove impazzava la disco-dance; “Vieni, c’è un gruppetto di ragazzi stranieri e tu sai bene l’inglese! Devi darci una mano!”
Bianca la seguì controvoglia. “Bianca, ti presento Andrew, William e John! Arrivano da Leicester, nelle Midlands!”. “John?! Midlands?!” – pensò Bianca sobbalzando.
Mise a fuoco quel ragazzo dai capelli rossi e dagli occhi blu…non era possibile, era proprio lui, il “suo” John! Bianca gli porse la mano inebetita, incapace di dire una sola parola. Ma ci pensò lui, in uno stentato italiano: “Piacere Bianca, non so perché ma mi sembra di conoscerti già…forse ti ho incontrata nei miei sogni?”
I suoi amici esplosero a ridere allungandogli sonore pacche sulle spalle. Ma Bianca sapeva, in cuor suo, che stava dicendo la verità e gli rispose: “Lo penso anch’io. Evidentemente abbiamo fatto lo stesso sogno…“
La vallata era stretta e difficile da penetrare. Il torrente scorreva in una profonda gola di rocce lisce e insidiose mimetizzate in una fitta vegetazione. La gente del fondovalle aveva da sempre timore di quel luogo:” E’ abitato da spiriti malvagi! Chi si addentra in quei boschi e tenta di scendere nella gola per risalire il corso d’acqua… non torna più!” raccontavano a chiunque avesse in animo di esplorare quei luoghi inaccessibili.
Augusta Praetoria era stata fondata da oltre 25 anni e fervevano le iniziative, imperiali e private, per l’infrastrutturazione del territorio, il miglioramento della rete stradale, l’individuazione e il successivo sfruttamento delle materie prime. Continuavano ad arrivare coloni e l’importanza commerciale della novella città alpina era alle stelle!
Il facoltoso e spregiudicato Avillio, proveniente dalla lontana città di Patavium (Padova), era noto per la sua mancanza di scrupoli, nonostante l’ancora giovane età. Aveva da poco compiuto 28 anni, ma per fare buoni affari era un vero maestro! Aveva fiuto, astuzia, capacità strategiche. E non poteva non notare quel luogo, non così distante dalle preziose cave di marmo grigio-azzurro per il cui sfruttamento aveva ottenuto l’ambito appalto, conteso da molti.
Avillio poteva contare su una cospicua eredità e aveva al suo servizio un vero “esercito” di lavoranti, schiavi, manovali e, naturalmente, esploratori scelti presso la popolazione locale e profumatamente pagati.
In molti, tuttavia, l’avevano ammonito:” Dominus, quella gola è maledetta! Forze malvagie e imprevedibili la governano! La foresta è zeppa di spiriti. Gli dei non sono favorevoli. E’ necessario cambiare zona…”.
“Cosa?! Ma voi siete tutti pazzi, amici miei!”, rideva Avillio, “io non indietreggio davanti a niente e nessuno, figurarsi davanti a delle ombre nate dalle vostre superstizioni! Saranno animali… sarà il vento… suvvia! Domani iniziamo a stabilire il primo cantiere e offriamo sacrifici a Mercurio affinché protegga i nostri affari e commerci!”.
E così fu fatto. Ma già quella notte stessa, gli operai furono svegliati da un rumore sordo, sempre più forte: un’improvvisa onda di piena del torrente scendeva verso valle ad incredibile velocità erodendo le sponde e trasportando sassi e tronchi.
“Ecco! Il primo segnale, dominus, dobbiamo andarcene!”. “Non se ne parla! Alle prime luci avviamo i lavori”.
La mattina svelò agli sbigottiti manovali una situazione pazzesca: una nebbia impenetrabile riempiva la foresta e, cosa ancor più grave, la sponda non c’era più! La gola era diventata ancora più profonda e dirupata. Sul lato dove avrebbero dovuto avviare il cantiere del ponte-acquedotto non vi era altro che roccia! Nudi lastroni di roccia… impraticabili!
Il torrente Grand Eyvia dal Pont d’Ael guardando verso nord. La sponda destra è viva roccia. (S. Bertarione)
Avillio allora chiamò il migliore ingegnere di ponti reperibile in zona, addirittura indicatogli dall’imperatore stesso! Venne così deciso di scalpellare il banco roccioso dall’alto e ricavarvi degli incassi dentro cui fondare la spalla destra del ponte.
Ma gli “incidenti” erano all’ordine del giorno… Frane, smottamenti, incendi e furti più o meno misteriosi… Molti operai, soprattutto originari del luogo, avevano iniziato a disertare e a non presentarsi più al lavoro. “La gente del posto dice che stiamo offendendo gli spiriti dell’acqua, dominus… parlano in particolare di una dea: la ninfa Eyvia… mi pare sia questo il nome…”, gli riferì Servio, il suo fidato intendente.
“Ah, sì? Bene, vorrà dire che le costruiremo un sacello al termine dei lavori! Noi dobbiamo andare avanti! Ogni giorno sono sesterzi che se ne vanno… in acqua!!”, tuonava Avillio sempre più infastidito.
Il montaggio del ponteggio era già un’operazione complicata di suo… se poi ci si mettevano condizioni meteorologiche nefaste con un incredibile freddo fuori stagione, pioggia, grandine, raffiche di vento fortissime… beh, il lavoro diventava impossibile!
Avillio insisteva, ma quando un operaio perse la vita cadendo dall’impalcatura con un volo di 50 metri che lo fece precipitare nel torrente… beh, solo in pochissimi rimasero in cantiere.
Finché la mattina seguente, quando le prime luci dell’alba faticavano a bucare una coltre di nebbia ancor più fitta del solito, Avillio venne svegliato da uno strano fruscio. Qualcosa stava sfiorando con insistenza il suo viso. Pensava fosse una mosca e cercava di scacciarla, ma invano… Alla fine aprì gli occhi e vide, posata sulla sua coperta, una meravigliosa farfalla azzurra dalle ali di seta, lucide, brillanti e cangianti. Il corpo, argentato, brillava come fosse illuminato dall’interno.
La farfalla prese a volteggiargli intorno. Qualcosa lo indusse ad alzarsi e a seguirla. Fuori non c’era nessuno. La farfalla volò sulla gola e continuava a fare “avanti e indietro” poggiandosi sulla spalla di un Avillio più incredulo che mai. Le sue leggere ali azzurre fendevano la nebbia indicando ad Avillio una specie di varco. Come ipnotizzato il Romano iniziò a seguire quella creatura di luce senza neppure guardare dove metteva i piedi. Ad un certo punto la farfalla lo costrinse a voltarsi e, con indescrivibile stupore, Avillio si rese conto di aver attraversato la gola… nel vuoto!! Ma com’era stato possibile?!
Davanti a lui quella strana e magnetica luce azzurra diventava sempre più forte e, come una lucerna, gli indicava il cammino. Fu così che Avillio, sospinto da una forza segreta, salì attraverso quei boschi tanto temuti fino a raggiungere un cornicione di roccia strapiombante… un luogo degno degli Inferi. Rocce dai colori incredibili, striate di viola e porpora, venate di ocra e grigio-verde si gettavano con un salto impressionante verso un baratro apparentemente senza fine.
La farfalla, sempre più grande e luminosa, volava leggera davanti a lui trascinandolo come in un sogno; Avillio riusciva a muoversi su quei pericolosi pendii con straordinaria facilità.
Finché non raggiunse un’insenatura sul fondo della gola dove il vorticoso torrente si placava allargandosi in una sorta di piscina naturale le cui acque azzurrissime e trasparenti illuminavano le rocce intorno. La farfalla si posò su una balza di pietra e, improvvisamente, un’abbagliante luce blu obbligò Avillio a chiudere gli occhi.
Quando li riaprì, credette di essere al cospetto di una dea. Davanti a lui, fluttuante sull’acqua, si ergeva una fanciulla eterea, di eccezionale bellezza, avvolta in un abito candido, come fosse fatto di luce. Sembrava a tratti persino trasparente… come se fosse fatta di acqua, aria e luce…
“Dimmi, dunque, straniero, chi sei? E perché ti ostini a voler varcare impunemente i confini del mio regno senza permesso e senza rendermi omaggio? Cosa cerchi?”
Quell’inaspettata voce profonda e suadente lo lasciò letteralmente stordito. Ci mise alcuni minuti a riordinare le idee e ad elaborare una pur minima e sensata risposta. “Ecco, io… io mi chiamo Caio Avillio Caimo, sono un cittadino romano. Sto cercando di costruire un canale per portare l’acqua alle cave di marmo qui a valle…non ho fatto nulla di male…”.
“Nulla di male?! Sei forse cieco e sordo? Non sei stato capace di interpretare i molti segnali che ti ho inviato? Questo è il mio regno! La mia acqua! Qui tu non entri e non passi! Non ti permetterò di costruire alcunché! L’acqua è pura, sacra… non va utilizzata per mero guadagno! Tu non hai mostrato il minimo rispetto per questa terra e hai ignorato i consigli della mia gente!”.
“La “tua” gente? Ma, chi sei tu?” balbettò Avillio.
“Io sono Eyvia, la ninfa di questo torrente, guardiana della gola e dell’acqua che vi scorre; protettrice di questa vallata e di tutte le creature che vi abitano”.
“Eyvia… ti chiedo perdono. Ma io ho bisogno di quest’acqua. Come posso fare?”.
“Te la dovrai guadagnare, Romano! Tu sei abituato ad avere subito tutto ciò che vuoi. Stavolta dovrai saper aspettare!”.
E così, per diversi giorni Avillio rimase prigioniero di Eyvia che lo costrinse ad esplorare l’intera vallata ma senza aiuti “magici”. Avillio, che sempre aveva detestato fare fatica e men che meno apprezzava le montagne, fu obbligato ad inerpicarsi, a camminare per ore tra boschi, prati e pietraie. Non poteva fermarsi quando voleva, ma doveva ubbidire a Eyvia. Fare ciò che lei gli ordinava. Ribellarsi, opporsi… non serviva a nulla. Lui, poi, che proprio non era abituato ad eseguire, ma solo ad impartire consegne…
In questo modo, però, giocoforza apprese a conoscere, osservare, ammirare le mille sfumature di quanto lo circondava. Apprese che, portando il giusto rispetto, si possono ottenere molte più cose che non con la forza e la prepotenza. Iniziò ad amare profondamente quei luoghi, tanto da rimanerne incantato e non volersene più andare. E non solo i luoghi conquistarono il suo cuore…
Poco a poco Avillio si accorse che Eyvia esercitava su di lui un potere ammaliante. Certo, era una dea, ma è risaputo che gli amori tra dee e mortali possono accadere, no?!
Da parte sua Eyvia imparò a capire meglio il mondo degli uomini: i loro bisogni, i loro pensieri, le loro paure… E imparò ad affezionarsi anche a quel ruvido Romano supponente e brontolone.
Finché un giorno Eyvia gli disse: “Bene Avillio, ora puoi andare. Torna pure al tuo mondo, al tuo lavoro. Se avrai bisogno, io ti aiuterò”. Ma, stranamente, Avillio non fu felice; non voleva separarsi da lei… l’unica ad aver saputo conquistare il suo cuore!
“Andare? – le rispose tentennando – ma, e tu? Resti qui? Non vieni con me?”
Eyvia non solo aveva ben inteso i reali sentimenti del giovane Romano, ma li condivideva temendo, tuttavia, quell’imprevisto ma dirompente amore nei confronti di un uomo mortale…
“Sai che non mi è permesso… Io posso seguirti solo come una farfalla e senza essere vista… Verrò durante le notti senza luna; tu mi seguirai e, da soli, tornerò ad essere Eyvia… altro non posso fare ahimé… Ma tu devi stare molto attento, Avillio! Non dovrai mai rivelare a nessuno… nessuno! della mia esistenza… mai! Altrimenti io scomparirò per sempre… promettimelo!”
Avillio, terrorizzato all’idea di non poter più abbracciare la sua ninfa, le giurò che quello sarebbe stato il loro prezioso segreto per sempre! E quell’ultima notte senza luna, insieme, fu la più felice e appassionata che mai avrebbero potuto credere…
Il mattino seguente Avillio ricomparve improvvisamente in cantiere, lasciando tutti sorpresi e senza parole. Alcuni manifestarono istintivamente gioia nel rivederlo; altri meno, in particolare Servio, il “fidato” intendente che, nel frattempo, aveva ampiamente approfittato della sua assenza sperando, in cuor suo, che fosse morto, disperso nei gorghi del torrente.
“Amici! Eccomi! Ho vagato per giorni nella foresta. Ho esplorato io stesso le sponde del torrente individuando il punto più adatto all’opera di presa del canale! E sono vivo! Come vedete sono tornato, quindi non abbiate timore! Gli dei ci saranno benevoli”.
Tali parole instillarono forza e coraggio. La voce di sparse rapidamente e gli operai tornarono in cantiere. Da quel giorno, infatti, la nebbia non scese più nella gola e le condizioni meteorologiche favorirono l’avanzare dei lavori. Tutti erano convinti di collaborare ad un’opera eccezionale, mai vista prima. Servio, però, tramava nell’ombra, per nulla convinto di quel racconto e di quel repentino cambiamento generale.
“Dev’essere successo qualcosa… per forza!” – rimuginava tra sé e sé; “Secondo me ha ottenuto qualche aiuto, da chi non so ma di certo non è tutta opera sua! Chissà chi avrà pagato, chi avrà convinto… ah, ma lo scoprirò! Sono sicuro che nasconde qualcosa!”.
I giorni scorrevano veloci e proficui. Avillio era sempre di ottimo umore e Eyvia, sotto forma di farfalla, quotidianamente svolazzava sul cantiere sfiorandogli le spalle e il viso, spesso posandovisi quasi a lasciargli un lieve bacio fugace.
E Avillio aspettava con ansia le notti senza luna per poterla riabbracciare…
Ma, a lungo andare, quella particolare farfalla azzurra non era sfuggita allo sguardo attento e indagatore di Servio che decise di pedinare Avillio notte e giorno accampando ogni sorta di scusa.
E avvenne che, durante una di quelle notti scure, Servio vide Avillio uscire e allontanarsi dall’accampamento. “Ma dove va da solo in piena notte? Lo sapevo che nasconde qualcosa… ma questa volta lo scoprirò!”. Certo faticava non poco a stargli dietro in quell’oscurità finché si accorse che Avillio seguiva una piccola luce azzurra.
Eyvia, però, percepì quella presenza negativa e immediatamente scomparve. Avillio si voltò di scatto ed esclamò: “Servio! Che fai? Perché mi segui? E’ successo qualcosa?”.
“Dimmelo tu cos’è successo, Avillio! Da quale misteriosa divinità sei protetto? Da quando sei tornato fila tutto inspiegabilmente troppo liscio… non me la racconti giusta! E la storia che vai raccontando non mi ha mai convinto! Con quale oscura tribù salassa ti sei alleato? Quali ricchezze ti hanno promesso? Suvvia, Avillio… io sono Servio, il tuo fidato collaboratore da anni…”
“Caro Servio, tanto “fidato” che non ti fidi… mi sembra logico…Perché mi segui? Non mi è forse permessa una passeggiata notturna per riflettere in pace?!”.
“Ma chi vuoi prendere in giro?! E quella strana luce azzurra che ti guidava?! L’ho vista, sai? Quale strano artificio è mai questo?!”.
“Luce azzurra?! Questa sì che è buona! Caro il mio Servio… mi sa che devi cedere meno alle insidie di Bacco…”, lo schernì Avillio.
Ma Servio non aveva alcuna voglia di scherzare, né di perdere altro tempo. Con un balzo lo aggredì e gli saltò addosso intenzionato a scaraventarlo giù dal ponte. Il canale era in via di ultimazione e si stavano posando le grandi lastre di pavimentazione.
Avillio rispose all’attacco con forza; i due lottavano come tigri. Eyvia, nascosta nella vegetazione, seguiva la scena con profonda angoscia. Servio, più robusto, stava per avere la meglio ma, complice il buio, mise inavvertitamente il piede su una striscia di malta ancora fresca. I chiodini della suola fecero presa e rimase incastrato.
Pont d’Ael. Impronta della parte anteriore di una scarpa chiodata romana sulla malta di allettamento delle lastre del condotto
I due si avvinghiarono e, purtroppo, persero contemporaneamente l’equilibrio sbilanciandosi: entrambi, contemporaneamente, caddero nel vuoto…
Ma Eyvia accorse immediatamente: come fanciulla alata afferrò prontamente Avillio portandolo in salvo. Tuttavia ciò avvenne durante la caduta e Servio, ancora vivo, la vide… e questo, ahimè, bastò! “Avillio… amore mio… io dovevo salvarti ma adesso, per me, per noi, è finita! E’ la legge del mio popolo… sono stata vista come ninfa da chi non avrebbe dovuto vedermi e ora devo scomparire…per sempre…”, piangeva Eyvia disperata.
“Ma no! Eyvia, Servio è morto! Non potrà rivelare a nessuno di te, di noi…”. “Non ha importanza! Lui mi ha comunque vista. Per me è finita. Questa è la mia ultima notte… Da domattina, col primo sorgere del sole, io sarò trasformata in roccia per sempre!”.
Fu allora,però, che ad Avillio venne un’idea:”Eyvia, abbiamo ancora alcune ore… Andiamo lassù alla piscina, nella “nostra” grotta… e aspettiamo lì insieme che arrivi il nuovo giorno”.
Pont d’Ael. La presa (comune.aymavilles.ao.it)
Eyvia acconsentì. Quelle ultime ore trascorsero lacerate tra amore e profonda, irrimediabile, tristezza, finché entrambi si addormentarono.
Quando Avillio si svegliò si trovò sdraiato ai piedi di una strana statua di pietra che prima non c’era… la toccò, la accarezzò… “Eyvia… amore mio…eccoti… io ti proteggerò comunque! Nessuno oserà mai disturbare il tuo sonno. Questo luogo è sacro: da qui nascerà il mio acquedotto e sarà posto sotto la tua protezione. Nessuno oserà mai violare questa sacra sorgente!!” E piangendo tutte le sue lacrime, si strinse con tutte le sue forze a quella pietra tanto amata.
Pont d’Ael. La”scultura” della ninfa (comune.aymavilles.ao.it)
Stava per andarsene quando un movimento attirò il suo sguardo. “Eyvia!! Sei qui!”. Una splendida farfalla azzurra dalle ali brillanti come seta era posata sulla statua; si levò in volo e gli si posò sulla spalla.
“Mia amata Eyvia, anche se come una farfalla, so che sarai sempre al mio fianco…”.
Il cantiere non ebbe mai interruzioni. In breve tempo il magnifico ponte-acquedotto di Caio Avillio Caimo fu terminato nell’ammirazione generale.Persino l’imperatore gli fece pervenire i suoi più vivi complimenti.
Pont d’Ael (foto Enrico Romanzi)
Ancora oggi restiamo stupiti davanti a tanta raffinata ingegneria. Un’opera sorprendente e maestosa che ha saputo attraversare i millenni, grazie alla maestria dei suoi costruttori.
Ma c’è dell’altro. Il ponte di Avillio, oggi noto come Pont d’Ael, sorge in una zona naturalistica protetta caratterizzata da una presenza assai particolare: tra fine maggio e metà giugno, qui, si possono vedere oltre 96 specie di farfalle! E chissà che, tra queste, non si celi anche una ninfa innamorata di nome Eyvia…
Riprendiamo, quindi, il nostro viaggio alle origini attraverso il sito megalitico di Saint-Martin-de-Corléans, ad Aosta. Ricordate la discesa lungo la rampa del tempo?
Ebbene, eccoci a 6 metri sottoterra, avvolti nella penombra cangiante che, ad intervalli regolari, si accende e si colora ricordando lo scorrere dei giorni e delle notti. Ma dove siamo?
Guardando verso sinistra, laggiù sul fondo, emerge una struttura di grosse pietre circondata da strati di pietrame più minuto. E’ una tomba, la cosiddetta “Tomba 2”. Una tomba megalitica, appunto, costruita al di sopra di una particolare piattaforma di pietre a forma di freccia. Da qui ancora non la si vede bene, la scoperta avverrà progressivamente. Si cammina intorno a questo sito incredibile, forse un po’ distanti, è vero, ma è quasi simbolico dell’effettiva distanza che ci separa da quelle epoche avvolte nella notte dei tempi, da quei riti, da quelle preghiere, da quelle persone.
Una cosa si avverte: il senso del sacro. Il senso di un luogo non certo abitativo, ma contraddistinto da una sorta di flusso comunicativo tra il “sotto” e il “sopra”, tra la terra e il cielo.
Chiudete gli occhi. Immaginate una musica, una di quelle epiche, dalle sonorità prima soffuse che si fanno poi via via sempre più imponenti, coinvolgenti, trionfali. Una musica capace di accompagnarvi in questo viaggio a ritroso facendovi percepire la forza della Storia.
ANTICHISSIME ARATURE
E ora immaginate una piana. Verso sud, sul fondo, lo scintillio di un fiume incorniciato da ampie zone paludose. La Dora Baltea. Lo sguardo sale fino ad incontrare i boschi e poi raggiungere le alte vette. In particolare due, molto alte, a ridosso della pianura alluvionale, così simboliche, così presenti… chissà con quale nome venivano chiamate in quei tempi lontani. Oggi sono l’Emilius e la Becca di Nona, sentinelle del Sud, monumentali gnomoni di roccia puntati verso il cielo, meridiane naturali per il fluire delle ore e delle stagioni.
Ed ora delle voci. Voci di uomini intenti ad un gesto antico: l’aratura. Un gesto consueto ma che gli uomini avevano appreso non da molto. Una prima mattina di un giorno di inizio estate sul finire del V millennio a.C., quegli uomini stanno arando questa vasta pianura. Lenti movimenti avanti e indietro, e poi ancora avanti e indietro; lunghe strisce ininterrotte aprono il terreno e solcano i depositi limosi lasciati dal fiume e dai movimenti dei ghiacciai. La terra si apre sotto il passaggio del vomere in legno.
Ma questa non è un’aratura qualsiasi. Qui l’agricoltura si fa rito, si fa preghiera.
La terra solcata viene invocata affinché sia nutrice di genti eroiche e di una solida stirpe di guerrieri. Quegli stessi solchi non restituiranno però dei semi, ma denti umani, perlopiù incisivi. Quella terra doveva dare il cibo a uomini forti e valorosi. In questo gesto, che a noi può apparire tanto insolito, riemerge il mito di quel gruppo di circa 50 eroi che, sotto la guida del prode Giasone, intraprese l’avventuroso viaggio a bordo della nave Argo.
Un viaggio che li condurrà nelle ostili terre della Colchide, alla conquista del vello d’oro. Gli Argonauti, i marinai che fecero l’impresa. Giasone chiese il vello d’oro al re Eeta, il quale acconsentì a concederglielo, ma solo dopo che fosse stato arato un campo per seppellire i denti di un drago ucciso da Cadmo. Questa sepoltura doveva garantire la nascita di uomini armati. Le antiche leggende parlano di draghi; qui si parla di uomini. Delle loro ambizioni, delle loro credenze e delle loro speranze.
Storie antiche frammiste al mito e alla leggenda che, però, ci narrano di eroi, di aventure, di lunghi viaggi verso terre sconosciute, di draghi e sovrani avidi e superbi, di alberi carichi di frutti più o meno proibiti (storia ben nota!), di tori furenti e indomabili, di serpi e draghi spaventosi. Storie che ci raccontano di intrepide ricerche: di terre, di metalli, di ORO!
10.000 mq (ma diventeranno 18.000!) che racchiudono oltre 6000 anni di storia dove tutto ebbe inizio dalla terra, da molteplici e ripetute arature. In campagna non vi è gesto forse più famigliare e consueto. Che però, qui, assume tutto un altro sapore. Qui l’aratura si fa rito, si fa culto, si fa preghiera. Merita una riflessione la ricchezza di significato di un’azione agricola apparentemente semplice come quella dell’arare.
Significa delimitare una porzione di terreno per farla in qualche modo “propria”. Significa incidere la Madre Terra affinché accolga quei semi da cui dovrà nascere una nuova realtà, in termini di raccolto così come in termini di insediamento. La portata sociale e religiosa di questo gesto è incredibile; si perde nella notte dei tempi e attraversa le epoche. Un gesto anticamente “nuovo”, NEOlitico, e per questo profondamente rivoluzionario; l’uomo da nomade cacciatore-raccoglitore si è stabilizzato e ha imparato a coltivare e ad addomesticare. Un cambiamento epocale! E quella terra era ed è SACRA. Terra da invocare, pregare, venerare… affinché sia benevola e non “matrigna”. Una terra che più MADRE non si potrebbe! E, perciò, sacra!
I “POZZI”. OFFERTE NEL SOTTOSUOLO
E non solo di aratura si tratta. La nostra scoperta del sito ci porta ad incontrare una serie di grandi fosse (o pozzi) che, in alcuni casi, arrivano a ben 2 metri di profondità.
Tra IV e III millennio a.C., mani devote non solo hanno scavato queste cavità, ma sul fondo vi hanno deposto cereali, resti di frutti e macine. Leguminose come vecce e cicerchie; cereali come il farro e il frumento. Carboni di quercia e di pino. Resti che ci parlano di un paesaggio agrario remoto e di contadini che lavoravano la Natura venerandone le forze imperscrutabili.
Probabilmente offerte alle divinità della terra: divinità ctonie e feconde. Quegli dei che presiedevano agli eterni cicli di vita, morte e rinascita. Un seme nella terra muore e rinasce per germogliare di nuovo. Una speranza di vita che obbligatoriamente doveva passare attraverso una morte inevitabile.
A ben pensarci è lo stesso dualismo che, in altre epoche e ad altre latitudini, si ritrova nelle più note dee greche Demetra e Persefone, tra loro madre e figlia. Demetra, la Madre terra portatrice di messi e la figlia Kore-Proserpina-Persefone, simbolo della primavera, della nuova vita che germoglia, ma anche sposa di Ade e signora dell’Oltretomba.
Due dee che ben rappresentano il ciclo della natura: 6 mesi di sonno, di morte apparente (autunno ed inverno); 6 mesi di fioriture e raccolti (primavera ed estate). Ecco perché anche le forze divine nascoste nel sottosuolo andavano invocate e blandite affinché fossero benigne.
ER’ l’eterno ciclo del seme che di fatto tornerà anche nel Cristianesimo: il seme deve “morire”, essere sepolto, per poi rifiorire in una nuova vita e dare frutto. La vita che passa da una morte necessaria vista, però, come transito e mutamento.
Saint-Martin-de-Corléans: un luogo davvero particolare, dove vita e morte dialogano e si rincorrono fin quasi a sovrapporsi. Seguiteci, il nostro viaggio non è ancora finito…
Metti una passeggiata ad Aosta. Ma non una passeggiata qualsiasi. Una di quelle che ti portano a scoprire la città, la sua anima, ma soprattutto la sua storia. Una storia che qui si fa plurimillenaria. Lasciatevi dunque alle spalle la rassicurante cortina muraria di epoca romana. Lasciate la monumentale Augusta Praetoria e avventuratevi verso ovest. Attraverserete zone forse ancora poco note della città; i quartieri delle caserme, quelli residenziali, quelli più popolari. Arriverete così a Saint-Martin-de-Corléans. Nucleo del quartiere la graziosa chiesetta romanica dedicata a San Martino. Al di là di un’apparenza forse poco accattivante, è questo un luogo davvero straordinario, dove leggenda, storia e credenze popolari si mescolano e si sovrappongono tra sacro e profano, a cavallo tra mondo pagano e mondo cristiano.
SAINT-MARTIN-DE-CORLÉANS. UN QUARTIERE DAL NOME INTERESSANTE
Il nome stesso di questo quartiere ci catapulta in questa dimensione strana e disorientante. Perché “de Corléans”? Cosa significa? In primo luogo parrebbe ormai comprovato che “Corléans” sia un prediale di matrice romana, intendendo con “prediale” un nome indicante un lotto di terreno, una proprietà fondiaria. L’origine sarebbe da ricercare in un antico Cordelianum, a sua volta derivante da un presunto Cordelius. Ma non è tutto. Ancestrali echi di lontane leggende riecheggiano in questo nome, collegato alla mitica Cordela, “capitale perduta” del popolo dei Salassi, popolo di cultura celtica residente nelle nostre montagne all’arrivo di Roma. A Cordela e al suo fondatore, ossia Cordelo, figlio di Statielo, seguace di Ercole.
Gorlach, the legend of Cordelia
Miti di viaggio, di lunghi spostamenti, di migrazioni di popoli provenienti dall’Asia Minore. In fin dei conti un po’ di verità c’è. E lo vedremo.Scriveva Silio Italico, politico e poeta romano del I sec. d.C.:“Ercole affrontò le vette inviolate: Fu il primo. Gli dei vedono stupitiCome fende nubi, fracassa alture,Doma possente rupi mai battute“.Vagava, il semidio, da Oriente a Occidente cercando fra i ghiacciai la via per i Giardini del Tramonto, dove le Esperidi avrebbero custodito gelosamente i propri frutti.
VIAGGIO ALLE ORIGINI
I miti si intrecciano in queste origini leggendarie di Aosta, alla cui base però si rileva come fosse comunque nota una presenza antica, misteriosa, difficilmente descrivibile altrimenti. Probabilmente si sapeva che in questa zona la Storia aveva lasciato testimonianze particolari, le cui origini e le cui motivazioni affondavano in un’epoca “perduta”, troppo lontana nei secoli e nei millenni perché si riuscisse a meglio contestualizzarla. Ma, col XX secolo, in un modo del tutto fortuito, sarebbero stati gli archeologi a svelare la reale identità di questo enigmatico luogo.
Ci troviamo, infatti, al cospetto dell’area megalitica, unico e prezioso scrigno di testimonianze archeologiche risalenti fino all’epoca Neolitica (V millennio a.C.). Un’area composta da un sito archeologico pluristratificato le cui testimonianze vanno dalla Preistoria al Medioevo passando, come nel miglior manuale di Storia, attraverso le Età del Rame, del Bronzo, del Ferro fino a tutta l’epoca romana, l’età tardoantica e altomedievale. Un Parco archeologico all’avanguardia che ha aperto definitivamente i battenti il 24 giugno 2016 e che, senza alcun dubbio, merita una visita!
Un’area estremamente suggestiva e densa di storia, dove cielo e terra, uomini e dei, dialogano sin dalla notte dei tempi. Un grande, straordinario, santuario preistoricodove funzioni cultuali e funerarie si sono avvicendate e trasformate nei secoli fino all’utilizzo dell’area a fini non solo sepolcrali ma anche agricoli in epoca romana, per poi approdare (nuovamente) al contatto col divino nell’Alto Medioevo attraverso l’emblematica figura di San Martino.
Un santo scelto a ragion veduta. Martino era un soldato, nato nel 316 d.C. nell’antica Pannonia (l’attuale Ungheria) e di cui proprio nel 2016 la Chiesa ha celebrato i 1700 anni dalla nascita. Prima al servizio dell’esercito di Roma, e poi al servizio di Dio. Un santo-soldato, poi divenuto monaco esorcista e infine vescovo, che vigila e presidia: ecco perché, nella stragrande maggioranza dei casi, lo si ritrova lungo le mura delle città, in corrispondenza di castelli strategici oppure in prossimità di importanti e frequentati assi viari. Inoltre ci troviamo in un luogo dove le tracce del paganesimo erano profondamente radicate e testimoniate da eloquenti indizi probabilmente ancora noti o comunque percepiti o percepibili in epoca tardoantica. Occorreva pertanto eradicare queste antiche credenze, i cui strascichi probabilmente si protraevano nel tempo e nella società “spaventata” dalle angosce della fine dell’Impero romano. Occorreva esorcizzare luoghi del genere richiamando la forza e l’attrattività di un santo così amato dal popolo quale era, appunto, San Martino di Tours, l’apostolo delle Gallie.
L’AREA MEGALITICA
Ma non indugiamo oltre ed entriamo, varcando la soglia di questo complesso esteriormente così moderno e avveniristico che, con gli anni, diventerà un importante centro non solo museale, ma di studio e ricerca dedicato alla Preistoria alpina, un settore ancora poco conosciuto e dalle frontiere ancora in buona parte inesplorate.
L’avvicinamento al sito avviene scendendo lungo una rampa dove gli intrecci delle travi in acciaio con le strategiche aperture vetrate consentono di vivere l’azione stessa dello scendere. In una scenografia che sa quasi di archeologia industriale, si vede chiaramente che si sta “bucando” il terreno circostante e si sta andando in un luogo sotterraneo; la cappella si fa più alta e più lontana. L’Aosta dell’oggi sta lasciando il posto all’Aosta “perduta”, a quell’area senza nome avvolta dal torpore dei millenni, l’area “dalle grandi pietre”, l’area megalitica.
Sembra quasi di essere su un’astronave, in viaggio al di là del tempo e dello spazio alla ricerca di mondi solo apparentemente perduti. E non a caso era il 1969 quando questo sito venne scoperto. Giugno 1969. Un mese prima che l’uomo mettesse piede per la prima volta sulla Luna. E, davvero, percorrere questa rampa del tempo per raggiungere un luogo così insolito ed inaspettato, può per molti aspetti essere paragonato al mettere piede su un altro pianeta!
E in effetti, la stessa impressione si può avere sin dall’esterno. Forme taglienti, spezzate, che interrompono il presente per accompagnare, quasi come su una nave spaziale, in un inatteso viaggio nel più remoto passato. Forme lucide, vetrate, riflettenti e trasparenti che vogliono appositamente attrarre la luce che, sia diurna che notturna, si rivela componente fondamentale ed imprescindibile all’origine del sito e dei suoi allineamenti, vere forme “ponte” tra cielo e terra.
La rampa continua la sua discesa, le luci progressivamente si affievoliscono e ci si ritrova a 6 metri sotto terra. I colori scuri aiutano la percezione di un sottosuolo al confine con una dimensione “altra”. Bisogna prepararsi ad un salto cronologico importante.
All’ improvviso ci si ritrova in uno spazio immenso. Ci si sente piccoli piccoli in questa sorta di lunare vastità. Ci si potrebbe anche chiedere dove si è e, soprattutto, cosa si debba guardare. Le luci cambiano e sfumano; dal buio quasi totale ad un chiarore freddo, fino ad una luminosità dorata e diffusa, per poi passare ad una calda tonalità aranciata che, virando sul violetto e poi sul blu, riporta di nuovo la notte.
E’ il susseguirsi dei giorni e delle notti, delle albe e dei tramonti, delle lune e delle costellazioni che nei millenni hanno visto la nascita, lo sviluppo, gli utilizzi e i cambiamenti di quest’area straordinaria. Un’area in origine pensata e costruita a contatto diretto col paesaggio e col cielo, ma che oggi, inserita com’è nel tessuto urbano e dotata di un deposito archeologico tanto corposo quanto fragile e vulnerabile, ha necessitato una copertura. Non ci sono solo “pietre”, c’è molto di più! E’ il più grande sito megalitico coperto d’Europa!
“E gli dei tirarono a sorte. Si divisero il mondo: Zeus la Terra, Ade gli Inferi, Poseidon il continente sommerso”.
(da “Atlantide”, di F. Battiato)
In uno scenario di vette aguzze dalle forme degne di una scenografia “fantasy”, il padre degli dei ci accoglie, non a caso, al Plan de Jupiter: il pianoro roccioso a 2.437 metri di quota dove la Via delle Gallie attraversa l’estremo lembo d’Italia prima di entrare nel Vallese svizzero. E’ l’Alpis Poenina. Un itinerario già frequentato in epoca protostorica, comunque preromana, migliorato con Augusto e perfezionato definitivamente con l’imperatore Claudio, fondatore di Forum Claudium Vallensium (attuale Martigny), precedentemente Octodurum, oppidum dei Veragri.
Un luogo magico, da vedere in particolare al mattino presto, quando le nubi si avvolgono intorno alle severe e taglienti vette dei monti circostanti e la bruma si addensa sulla superficie del lago. Quando, quasi all’ improvviso, tra le nebbie appare la statua di San Bernardo d’Aosta, protettore di alpinisti e viandanti. Mistico, evocativo… ma c’è dell’altro quassù!
I versi dell’incipit di Atlantide dell’immenso Maestro #FrancoBattiato mi hanno sempre fatto venire i brividi pensando a questo luogo. E quando ci vengo, immancabilmente la ascolto. Quelle musiche essenziali, riecheggianti, lontane e come “sospese”; quella voce sottile ma immanente, mi trasmettono tutto il senso del potente e del divino che ancora oggi, tra auto, moto e souvenirs, riecheggia prepotente in queste montagne..davvero, guardatele, osservatene la forme: sono assolutamente frutto del divino! E pensate a cosa doveva essere qui 2000 e più anni fa: il lago era molto più esteso (tutta la fascia degli chalets e dell’albergo Italia era ancora sommersa), la strada protostorica (poi romana, poi Francigena), correva a mezzacosta, sapientemente intagliata nella roccia viva. Ci siete mai arrivati a piedi? La superficie baluginante del lago si annuncia in lontananza, brillando all’orizzonte in una conca dominata dai toni del grigio ma sorridente di minuti fiorellini. E voi arrancate, gli ultimi metri, avvolti in un abbraccio roccioso, calpestando quella strada faticosamente strappata alla montagna. E’ un’emozione ogni volta!
Proprio ai piedi della statua, se si guarda con molta attenzione, si noterà che la roccia presenta dei tagli geometrici e regolari: si tratta dell’impronta lasciata dalle fondamenta dell’antico tempio dedicato a Giove Pennino. Già…”Pennino”: qui la principale divinità capitolina ha sposato un dio celtico, autoctono, figlio di queste cime: il dio Penn il cui nome ritroviamo in Pennino, Ap-pennino, Monti Pennini (in Inghilterra) e nella vicina Valpelline (anticamente Vallis Poenina). Con l’immaginazione eliminate per un momento la statua, tenete la roccia. Non lontano dal tempio, infatti, già vi era un luogo sacro alle popolazioni celtiche locali, un luogo dove, come ex-voto, era consuetudine lasciare monete, una sorta di offerta alle forze, ai numina, di questa valle preziosa quanto difficile. E tutt’intorno si noterà quanto la terra sia rosata, e quanti frammenti di terracotta punteggino i prati: sono i resti delle coperture dei tetti del tempio e dei due edifici, di cui una mansio, situati ai lati della strada. E’ un’archeologia “invisibile”, fatta di minimi indizi e fragili testimonianze materiali; è un sito che deve lottare con le forze della natura e col costante dilavamento. Ma se ci si sforza un po’ lo si riesce ad indovinare nei solchi delle rocce e del terreno. I Romani, un popolo capace di domare la Natura adattandola ai propri desideri. Un popolo, in questo caso, che ha saputo conquistarsi una sorta di “Paradiso”. Immaginate le legioni in marcia verso il valico, magari nel bel mezzo di tempeste e nell’infuriare dei venti. Arrivare quassù, trovare un rifugio e le famigliari colonne del tempio di Giove. Provate ad ascoltare “The Conquest of Paradise” di Vangelis e poi ditemi se non vi sembra di vivere davvero queste scene…
E se poi si decide di visitare il Museo dell’Ospizio, allora si ritroveranno tutti quegli oggetti capaci di dare voce ai luoghi e di restituire il trono a Giove Pennino.
Su questi valichi il divino è ovunque. E’ una presenza tanto discreta quanto pervasiva. Può sembrare un bisticcio, è vero…ma quassù, nelle “terre di mezzo”, ancora oggi, nonostante tutto, il mondo degli dei e quello degli uomini possono ancora riuscire ad incontrarsi.
In un giorno e una notte
la distruzione avvenne.
Tornò nell’acqua.
Sparì Atlantide
Grazie di cuore, Maestro!
Stella
La strada romana in arrivo al colle (S. Bertarione)
La statuetta di Giove Pennino esposta al Museo dell’Ospizio (S. Bertarione)
Nel cerchio evidenziato l’ingombro del tempio di Giove Pennino (S. Bertarione)
Come ogni anno l’appuntamento con la #MFW, la #MilanoFashionWeek, è fonte di ispirazioni, suggestioni e riflessioni che, partendo dalle ultime tendenze in fatto di moda e costume, mi porta ad andare indietro nel tempo ritrovando accenni di stile, tagli o accessori in testimonianze del passato. Ebbene sì, anche del passato più remoto.
Si fa presto a dire “vestito” quando invece dietro ad ogni abito si muove un mondo, una società, una (o più) culture che proprio quell’abito hanno prodotto e creato per dare un segnale, per comunicare, per sottolineare un modo di essere, di vivere, di apparire.
Come mai, vi chiederete, parlare di fashion trend all’Area Megalitica?
Beh, intanto comincerei con l’elencare, sinteticamente, almeno #10buonimotivi per visitare questo sito inatteso e sorprendente:
Un sito archeologico grandioso che racchiude oltre 6000 anni di storia.
Coi suoi attuali 10.000 mq (che diventeranno 18.000 a fine lavori), è l’area megalitica coperta più vasta d’Europa.
Megaliti in città! Un sito megalitico urbano nel quartiere ovest di Aosta. E non è cosa tanto frequente…
Un viaggio nel tempo alla scoperta di una lontana e affascinante Preistoria alpina.
Emozionarsi davanti ad un paesaggio arcano ed inatteso illuminato dal millenario susseguirsi di albe e tramonti.
Sorprendersi davanti ad arature tracciate più di 6000 anni fa.
Meravigliarsi per gli emblematici allineamenti creati per far dialogare terra e cielo.
Scoprire le prime grandi statue della Preistoria: rivestite di motivi decorativi ma tuttora avvolte da un enigmatico “mistero”.
Stupirsi davanti alle grandiose tombe collettive, leggendarie opere di “giganti”, testimoni di ricchezza e potere.
Uscire dal centro per scoprire un parco archeologico avveniristico, multimediale ed interattivo decisamente “fuori dal coro”.
Come nel 2019, ma rivisitate nei dettagli e nelle palette cromatiche (ora più piene e accese), le giacche over-size, i blazer dal taglio geometrico e schiettamente maschile ma che ben si adattano anche a noi fanciulle come indumento trasversale e versatile; ok col look elegante e raffinato, ma anche coi jeans, le gonne, addirittura la tuta! Anche i trench devono essere maxi e, se possibile, con spalline importanti.
Bene, ne avevo già parlato nel mio post di allora: le stele dall’enigmatico profilo umanoide sono perfette ed emanano un ipnotico glamour senza tempo con quelle “spalle larghe” e con quel taglio comune ad individui di entrambi i sessi. Già, perché le stele dell’area megalitica aostana, non presentano elementi utili a connotarle immediatamente se riferibili a uomini o donne: tutto si gioca sulla presenza (o assenza) di determinati capi, accessori, motivi decorativi.
Ecco, le decorazioni! Queste stele (che mia figlia – 4 anni – chiama “pietre vestite”!) presentano fitti, minuti e raffinati schemi decorativi che richiamano tessuti lavorati, applicazioni in metallo (in particolare rame) o in osso o addirittura in valva di conchiglia (quelle grandi conchiglie oceaniche che i potenti dell’Età del Rame amavano esibire come oggetti suntuari legati a commerci importanti con terre lontane. E da conchiglia, aperla e madreperla…il passo è breve!
Reticoli di rombi, forse originariamente a colori alterni e a contrasto, ricoprono queste statue preistoriche, iconiche e aniconiche allo stesso tempo, mute (senza volto), ma allo stesso tempo dense di linguaggi.
Proprio queste magnifiche stele eneolitiche sono le protagoniste di un primo ciclo di 15 brevi racconti che, con un linguaggio semplice e con un intreccio favolistico, vogliono narrare ad un pubblico ampio per età e formazione, quello che doveva essere l’arco alpino nord-occidentale 5000 anni fa! Il popolo dei #GrandePietra vuole così dare voce e forma a quegli antichi abitanti che, in questo luogo della piana circondata da alte montagne, avevano il loro santuario più importante, una sorta di Olimpo Preistorico in cui, secondo precisi allineamenti celesti e terrestri, si celebrava il sacro dialogo tra uomini e dei.
Ma torniamo ai vestiti. “Pietre vestite”, appunto! Parliamo poi di epoche in cui, senza overdose di immagini, pochi ma sapienti dettagli potevano comunicare tutto: il rango, il ruolo, il potere!
Fondamentali gli accessori: collane e cinture su tutti! Un trionfo di pelli lavorate, illuminate da ciondoli in rame e in pietra levigata, arricchite da dettagli in osso e, come già detto, conchiglia. Ogni forma, un preciso significato. Beh, ecco il gran ritorno delle cinture-gioiello! … ancora meglio se con forme che riecheggiano ammoniti, antiche spirali, conchiglie… un eterno “femminino” inno di vita e continua rigenerazione!
Guardate la rielaborazione a colori della stele 3 sud:
Lo stile optical la fa da padrone. In una predominano i rombi; nell’altra il damier, il disegno a scacchiera. In una abbiamo un importante collier e un capo di abbigliamento assai simile ad un corpetto; nella seconda, oltre all’importante collare multifilo, una ampia casacca a scacchi. Nella seconda, poi, la marcata presenza di armi (un’ascia, un arco e ben due pugnali nel loro fodero decorato da frange – anche queste di moda – dichiarano l’identità maschile di questo probabile capo guerriero.
Losanghe e rombi che, curiosamente, non abbandonano questa regione e ritornano nel Medioevo ricoprendo le pareti di stanze, porticati e cortili di alcuni tra i più noti castelli valdostani!
E guardate come, a 13 anni, avevo immaginato la giovane, bella e ribelle contessa Caterina di Challant! Tanto famosa e celebrata quanto per nulla noto il suo aspetto…
E tornando ai personaggi di “C’era una volta GrandePietra2, eccone alcuni disegnati con mia figlia:
Lontani echi egizi e addirittura precolombiani si ritrovano in queste arcane sculture giunte dal passato, gelosamente custodite nel ventre della terra e fortuitamente venute alla luce nell’anno in cui l’uomo metteva per la prima volta piede sulla Luna! 1969, odissea nello spazio e nel tempo!
In quel 1969 Passato e futuro si toccarono all’insegna di un presente ricco di obiettivi, conoscenze, tecnologia e traguardi da raggiungere.
Allo stesso modo, ad Aosta, l’Area Megalitica emerge, dirompente, in un quartiere residenziale ad appena 2 km dal centro storico occupando lo spazio con volumi futuristici e avveniristici. Forme scabre, geometriche e nette; materiali che assorbono e riflettono la luce, quasi a voler catturare quel Sole e quel cielo così importanti, in origine, per disegnare questo sito, contemporaneamente muto ed eloquente.
Allo stesso modo, tra le tendenze dell’ultima #MFW abbiamo visto sfilare motivi geometrici e optical,
Valentino
ma anche pellicce di ogni tipo e colore (rigorosamente eco!)
; gioielli vistosi dal sapore etnico e tribale
accanto a look “spaziali” degni di #StarWars, come quelli ideati da Salvatore Ferragamo per guerrieri e amazzoni del cyber spazio mas all’insegna del #FuturePositive.
Incredibilmente aliene e ancestrali le #Creatures del brand danese Han Kjøbenhavn che ritorna a Milano per la seconda prova nella fashion week dedicata al menswear.
MF fashion
Beh…ogni commento è superfluo!
Le stele antropomorfe. Scoperte: opere d’arte preistorica. Coperte: opere d’arte contemporanea!
Un’eterna Bellezza sospesa tra Preistoria, Contemporaneità e Futuro perché la storia e le grandi civiltà plasmano linguaggi che non passano mai di moda! E’ l’#ARCHAEOLOGICALCODE!