Romani contro barbari. La concitata battaglia del balteo di Aosta

“Balteo”. Una parola senza dubbio insolita. O almeno, noi Valdostani la giriamo al femminile e la associamo spontaneamente alla Dora, la nostra Dora Baltea, figlia a sua volta dell’antichissimo ghiacciaio Balteo. Sì, ma cosa significa questo aggettivo? L’origine è latina: la parola balteus significa “cinturone, bretella”.

QUANDO DICI “BALTEO”… AD AOSTA

In effetti a ben guardare il solco lasciato da quell’immenso ghiacciaio quaternario e oggi occupato dall’alveo della Dora Baltea, vediamo una linea dall’andamento più o meno orizzontale che, dal massiccio del Monte Bianco, dove disegna una sorta di aggancio di bretella con le due “Dore sorelle” di Ferret e di Veny, attraversa da ovest a est (per essere precisi da nord-ovest a sud-est) tutta la nostra regione, proprio come se fosse una sorta di cintura, appunto. Ecco perché si chiama così! #sapevatelo!

E il bellissimo balteo bronzeo conservato al MAR di Aosta altro non è che un cinturone, anzi, visto che in questo caso specifico si tratta di un finimento per cavallo, un pettorale. Ma non un pettorale qualsiasi; un pettorale da parata, in bronzo, interamente rivestito da personaggini ad altorilievo e a parziale tuttotondo. Addirittura potrebbe non essere stato destinato ad un cavallo vero, bensì ad una statua equestre!

BATTAGLIA BRONZEA

E’ sicuramente uno dei pezzi più belli del Museo archeologico aostano. Un pezzo che ancora oggi ci regala tutto il pathos di una battaglia cruenta, di uno scontro senza esclusione di colpi tra Romani, molti a cavallo, e barbari.

I barbari sono assai riconoscibili e ben caratterizzati: barba lunga, chioma fluente (pensiamo alla famosa Gallia Comata, appunto… tribù di nerboruti Celti capelloni dalle lunghe barbe: un look decisamente lontano dal composto civis Romanus sbarbato e dal taglio inappuntabile!), pantaloni (le brachae!), il sagum (corto mantello in lana grezza o in pelliccia) o alternativamente una semplice corta tunica stretta in vita da un laccio, e l’immancabile torquis al collo.

I Romani occupano praticamente l’intero registro superiore della raffigurazione: netta ed inequivocabile superiorità. I soldati a terra indossano anche un elmo, utile a farli apparire più alti e temibili.

Il comandante svetta al centro della scena troneggiando letteralmente sul suo destriero lanciato al galoppo. Senza alcuno scrupolo travolge i miseri barbari, ormai destinati alla disfatta. Questo generale cavalca senza elmo, a viso scoperto, dichiarando col suo particolare taglio di capelli e la frangia corta e geometrica, l’appartenenza all’età di Traiano (inizi II secolo d.C.). Anzi, diciamo che persino i tratti somatici lo avvicinano all’imperatore Ulpio, mitico domatore dei terribili Daci! La grande guerra dacica che portò alla resa e alla caduta della capitale Sarmizegetusa e alla sconfitta del re Decebalo il quale, tuttavia, non venne ucciso ma nominato re-vassallo al servizio di Roma. Strategia e giochi di potere. Interessi economici per l’oro dacico e per il controllo dei traffici commerciali nella zona.

Ma non divaghiamo. Quel generale tanto somigliante a Traiano galoppa fiero e sprezzante col braccio destro alzato, a voler incitare i soldati, a voler dimostrare una volta di più tutto il suo potere e la sua autorità. Quel gesto è una forma di adlocutio, di richiamo e di incoraggiamento; ormai la battaglia, ai suoi occhi, era vinta!

Egli indossa una corazza stretta in vita da una cintura in stoffa legata in maniera particolare: è un nodo di tipo macedone che chiaramente vuole richiamare una moda, quella di Alessandro Magno, sempiterno esempio di grande ed impavido conquistatore. Sulla spalla sinistra volteggia nel vento il corto paludamentum da guerra.

PREZIOSO EX-VOTO A MITRA

Questo oggetto venne ritrovato in occasione di una campagna di scavi condotta in Aosta alla fine degli anni ’50, in corrispondenza del mitreo dell’insula 59, ubicata a ridosso di quella che era la Porta Principalis Dextera, ossia la porta sud di Augusta Praetoria, dove oggi sorge la Tour de Bramafam. Si trattava probabilmente di un dono, si presume un ex-voto offerto da un comandante di alto rango (vista la notevole raffinatezza del pezzo sarà sicuramente costato qualcosa!) al dio Mitra, notoriamente un culto assai diffuso e con grande seguito nell’ambiente militare. Per capirci, in epoca imperiale romana era questo un quartiere artigianal-popolare ad alto tasso di urbanizzazione. “Condomini”, case popolari, botteghe, officine, magazzini e depositi. Possiamo immaginarci un “via-vai” costante di gente e mercanzie, un traffico continuo da quella Porta meridionale aperta sulla Dora e sulla campagna. Sebbene già abitata sin dall’età augustea, questa zona vide il suo massimo sviluppo demografico ed edilizio nel II secolo d.C.; un quartiere vivace e colorato, abitato da soldati, artigiani e mercanti provenienti dalla più diverse e lontane aree dell’impero. Ce lo dicono le epigrafi funerarie, ce lo dicono alcune decorazioni di monili e camei: nord-africani, siriani, greci… un mondo!

E proprio qui, a pochi passi dal Kardo Maximus, dissimulato tra botteghe e cortili, c’era un mitreo. Questi templi dedicati a Mitra erano solitamente sotterranei e vi si accedeva grazie a delle scale e passando attraverso un vestibolo. L’aula cultuale era di forma rettangolare, stretta e allungata; sui lati lunghi correvano due banchine dove sedersi e sul fondo si trovava l’altare. Quello di Aosta venne scavato, appunto, negli anni Cinquanta ma poi reinterrato. A Martigny, invece, il locale mitreo è ancora visibile nel sottosuolo di un condominio. Scoperto nel 1993 alla periferia sud-occidentale della città romana, si data al II sec d.C. e ha restituito diverse statuine in bronzo raffiguranti una classica scena di tauroctonia mitraica.

IL CAVALIERE TRACE

Ma dietro quel generale a cavallo c’è di più. Il suo modello iconografico, infatti, deriva da quello del cosiddetto “Cavaliere Trace”, sdoganato sempre da Alessandro Magno e da lui utilizzato sul suo noto Sarcofago (conservato al Museo archeologico di Istanbul). Si trattava in buona sostanza di una divinità epicorica della zona danubiana, inizialmente protettore dei beni e della famiglia, poi via via sempre più assorbito nella sfera bellica; talvolta associata ad Ares/Marte oppure a Hermes e ad Apollo. In molte città tracie a lui erano dedicati i santuari principali, ma venne anche celebrato come Genio funerario quasi “psicopompo” (cioé accompagnatore dell’anima nell’Al di Là). Un culto molto particolare che però lasciò forte la sua impronta iconografica in tutto il mondo mediterraneo.

PRETORIANI TRACI

I soldati di effettiva origine tracia (nord della Macedonia, all’incirca attuale Bulgaria) erano effettivamente tra i più ricercati per temerarietà, coraggio, possanza fisica. Sin dall’epoca di Augusto i Traci vennero scelti per comporre la guarda pretoriana, il corpo privato dell’imperatore. Ma fu soprattutto tra l’età adrianea e la metà del III sec. d.C. che i militari traci raggiunsero punte di presenza davvero stupefacenti. E fu dopo il regno di Traiano che il limes danubiano fu oggetto di un ancor più fitto monitoraggio con ben 12 legioni di stanza. Al termine delle guerre contro i Daci del 101-106 ed a seguito dell’annessione della nuova provincia di Dacia, l’intero assetto danubiano mutò ed una provincia così importante come quella pannonica fu divisa in due nuove: quelle della Pannonia Superior e Inferior. Con lo scoppio della guerre marcomanniche nel 166-167, i progetti mutarono per un quindicennio, poiché Marco Aurelio era intenzionato ad annettere i territori a nord della Pannonia, inglobandone i relativi popoli: dai Marcomanni, a Quadi e Naristi. In seguito alle prime grandi invasioni barbariche del III secolo fu istituito a Sirmio, un comando militare generale dell’intera area danubiana, mentre si provvedette a sbarrare la strada a possibili e future invasioni barbariche, fortificando il corridoio che dalla Pannonia e dalla Dalmazia immette in Italia attraverso le Alpi Giulie. Si trattava del cosiddetto Claustra Alpium Iuliarum.

Tutto questo per dire cosa? Che forse il comandante che offrì questo prezioso oggetto, poteva essere di origini balcaniche… difficile garantirlo, ma lo si può tranquillamente ipotizzare.

Quanto al balteo in sè, chiaramente non è un unicum! Ve ne sono altri molto simili sebbene meno ben conservati a Brescia e a Torino; statuette bronzee pertinenti a baltei di questo tipo sono inoltre state recuperate ad Industria (attuale Monteu da Po), a Luni e ad Este: tutte relative a scene di battaglia tra Barbari e Romani e impostate su un medesimo schema iconografico seppur con minime varianti, soprattutto nell’abbigliamento dei personaggi.

Il balteo. Un oggetto dal nome insolito, ma dall’indubbio fascino. Una storia in bronzo che ci racconta di guerre, di scontri, di soldati di varia estrazione geografica, ma anche di antichi culti balcanici…

Non vi resta che andare a vederlo ( o a ri-vederlo) dal vivo, al MAR di Aosta.

Stella

Questo slideshow richiede JavaScript.

 

Ma chi erano i Falisci?… “Altri Popoli”

 

E’ un dolce soffio di Ponentino quello che dal 19 dicembre scorso sta pervadendo il suggestivo sottosuolo del #MAR di #Aosta.

E’ quel sottile venticello che tradizionalmente spira sulle coste e sui colli laziali, quello che ci accompagna alla scoperta della terra dei #Falisci. Chi erano i Falisci? Un popolo di sicuro non così noto come potrebbero essere gli Etruschi o i Latini, certo, ma con i quali condivide diverse peculiarità. Un popolo che abitava sugli altipiani tufacei del Lazio centro-meridionale, in una zona strategica, al centro di importanti vie di comunicazione tanto terrestri (attraverso i Monti Cimini) quanto fluviali (lungo il corso del fiume Treja) e anche lacustri (falische erano infatti le sponde orientali del lago di Bracciano). Insomma, per capirci, un pò nella provincia di Roma e un pò in quella di Viterbo.

Dal 19 dicembre, appunto, i Falisci sono gli ospiti d’onore di una bella e suggestiva mostra allestita al Museo Archeologico Regionale di Aosta dal titolo “Alt(r)i Popoli. Falisci e Celti”. Altri o alti: questa la doppia lettura. “Altri”, certo, perché secondari, perché meno noti. “Alti”, anche: i Falisci stanziati sulle sommità dei colli laziali e i “nostri” Celti sui valichi d’alta quota a controllo delle vie di transito, degli scambi, dei contatti.

Ma partiamo col conoscere più da vicino questi “esotici” (almeno per noi Valdostani) Falisci.

Stretti tra Latini, Sabini, Etruschi e Umbri, i Falisci erano una sorta di “enclave” in un luogo ombelicale, itinerariamente molto appetibile per i transiti tra la costa tirrenica e la zona appenninica centrale. Le loro città rese famose dalla storia erano Falerii (che, dopo la distruzione da parte dei Romani divenne Falerii Veteres, oggi Civita Castellana) eFescennium (probabilmente l’attuale Narce); la mostra ricorda anche i centri minori diCorchiano e Vignanello dai quali provengono notevoli ritrovamenti funerari. In archeologia è quasi sempre grazie ai defunti che si possono conoscere i vivi. Quelle tombe, quei corredi… sono oggetti carichi di vita che ancora oggi possono raccontarci molto di chi li utilizzò, li possedette e li volle con sè nell’ultimo viaggio. E l’idea di scendere, appunto, nel sottosuolo del MAR, aiuta a calarsi nell’atmosfera della necropoli, del viaggio ultraterreno e sotterraneo che ti porta in una dimensione “altra”, quella dell’Ade, degli Inferi.

AMANTI DEL BUON BERE…IN ALLEGRIA

Eppure, sebbene in un contesto connotato principalmente dal rituale funerario, ritroviamo la vita. E i Falisci, come anche i versi fescennini insegnano, erano un popolo in questo assai simile ai loro vicini Etruschi: festaioli, allegri… simposiaci! Ossia, amanti dei banchetti e del bere insieme. E questo ci viene raccontato dagli oggetti esposti; perlopiù vasi utilizzati nei servizi da tavola, nella mescita e nella condivisione del vino. Vasi dai nomi greci (così si studiano in Archeologia) densi di poesia: kantharoi, oinochoai, olpai, kyathoi, kotylai… e qui mi fermo altrimenti rischio di annoiare. Ma non preoccupatevi, in mostra tutto questo viene puntualmente illustrato e spiegato! Sì, perché ognuno di questi vasi ha un nome proprio legato all’uso per cui serviva… Insomma, si fa presto a dire “brocca”, ma in antico non era così! Da sottolineare anche la presenza di holmoi, cioè di sostegni per olle con uno spazio alla base in cui veniva inserito un piccolo braciere: servivano a tenere caldo il vino, solitamente consumato non puro, ma miscelato a miele e spezie. Potremmo azzardarci ad immaginare una specie di “vin brûlé”!

Chissà se anche i “nostri” Salassi, popolo di matrice culturale celtica, avevano già all’epoca la passione per il buon vino come i Falisci.. difficile a dirsi, però nella vetrina a loro dedicata troviamo un curioso vaso panciuto a forma di trottola che, secondo molti studiosi, dovrebbe rappresentare una sorta di antenato del decanter attuale e quindi sarebbe collegabile alla conoscenza (e al consumo) del vino. “Decanter” analoghi della tarda Età de Ferro si ritrovano anche nell’Ossola piemontese, nel nord della Lombardia e in Ticino, nonché nel Vallese svizzero…quindi, saremmo portati ritenere che una certa ampia conoscenza del nettare di Dioniso avesse invaso le Alpi!

GIOIA DI VIVERE

Continuando la nostra visita e scoprendo altri corredi funerari, non possiamo non restare abbagliati dai gioielli. In particolare è la sepoltura di una donna di alto rango, nota come “Principessa di Narce” che ha attratto il mio interesse. Una profusione di gioielli! Sì, ma.. da tutto il Mediterraneo! Testine di scimmia in faïence di produzione fenicia, piccoliegypthiaca (animaletti di produzione egizia), perle di ambra del Baltico e vaghi di collana in pasta vitrea, armille in bronzo, spilloni, fibbie, un curioso pendaglio a forma di pettine (uno “status symbol” che indicava la proprietà di pecore da lana), orecchini pendenti e una divertente statuetta del dio Bes! Un dio fenicio-punico raffigurato come un nano deforme dal volto grottesco che doveva spaventare, appunto, il malocchio! E sempre della principessa un notevole cinturone in bronzo, un cimelio di famiglia. Oggetti insoliti, che di norma non si vedono alle nostre latitudini…

Ma di certo non posso descrivervi nel dettaglio l’intera mostra.. dovete andare a vederla!

ALTRI POPOLI A CONFRONTO

Potreste però chiedervi quale sia il legame tra Falisci e Celti. “Altri popoli”, dicevamo. Popoli meno protagonisti, non i Celti in generale, ma almeno le popolazioni di cultura celtica stabilite sull’arco alpino e progressivamente sottomesse da Roma i cui nomi ci sono stati trasmessi dalla famosa epigrafe del Trophée des Alpes di La Turbie (non lontano da Nizza)E tra questi anche i Salassi naturalmente. Salassi che conosciamo poco dalle fonti storiche (è soprattutto lo storico Strabone, vissuto in età augustea, a parlarne), ma di più grazie a quelle archeologiche. E sono sempre le tombe a ridare loro la vita. Emblematico il corredo femminile proveniente da unasepoltura dell’età del Ferro a Saint-Martin-de-Corléans dove spicca un torques, cioè uno di quei collier dei guerrieri (e delle loro compagne) in bronzo rigido aperto davanti. Splendide le armille, soprattutto quella in vetro blu cobalto.

Insomma, una mostra che è una vera e propria “finestra” su questi popoli minori che il destino ha fatto incontrare e scontrare con la potenza di Roma. Quanto ai Falisci, poi, si può tranquillamente dire che non hanno mai azzeccato un’alleanza… sempre dalla parte sbagliata finché Roma ha detto “basta!”. Ci furono due guerre e Roma ebbe la meglio in entrambe. A seguito dell’ultima guerra, Falerii fu distrutta, ricostruita in pianura e battezzata Falerii Novi. Dopo questi eventi Falerii appare raramente nella storia. Divenne una colonia (Junonia Faliscorum) forse sotto Augusto.

ARIA DI GRECIA

E la carrellata continua, in ordine cronologico (si comincia con un bel vaso globulare con raffigurazione di Pegaso datato alla fine dell’VIII secolo a.C. fino a corredi della metà del III a.C.). Le ultime vetrine falische ci raccontano dei sempre più intensi contatti con la Grecia e la Magna Grecia, in particolare con la colonia dorica di Taranto. Dalla ceramica di importazione fino a quella di più schietta produzione locale a imitazione di quella ellenica. Figure nere e figure rosse si rincorrono intrecciando miti, dei, menadi e giovani efebi danzanti.

E questo passaggio nell’Oltretomba non poteva che concludersi con un corredo femminile appartenuto ad una giovane donna; al centro della vetrina spicca un prezioso specchio in bronzo sul cui dorso è raffigurata una tartaruga. Già il nome stesso, derivante dal grecotartarhoukos (che significa “appartenete al Tartaro” cioè al mondo sotterraneo) ben si adatta al contesto in cui ci stiamo muovendo. Ma c’è di più. Quell’animale, secondo Plutarco, ben simboleggiava la moglie perfetta: la sua casa fa corpo con lei, essa non l’abbandona mai ed è sempre perfettamente silenziosa, anche nei suoi spostamenti. All’avvicinarsi del pericolo, si nasconde rientrando nella sua corazza, simbolo di prudenza e di costante protezione. Ma quella corazza era altresì associata alla Luna di cui ricordava la superficie. E la Luna da sempre rispecchia l’universo femminile, coi suoi ritmi, le sue fasi, i suoi cicli. Vedete, di nuovo è la morte che ci ridona la vita.

Assaporate dunque un viaggio nel tempo e nello spazio che vi farà scoprire altri orizzonti, altri linguaggi, altre culture il cui confronto con quelle a noi più vicine può forse aiutarci a capirle meglio e, perché no, forse anche a riscoprirne aspetti meno patinati.

Stella

C’era una volta… il “signore delle Tre lune”

“D’argento, al capo di rosso, con il filetto di nero in banda, carico di tre mezzelune d’argento crescenti”.

Challant-Cly. Questa la famiglia che ha dato il nome al turrito maniero situato su un ardito promontorio roccioso a monte del borgo di Chambave. La consueta araldica degli Challant si arricchisce qui di tre mezzelune d’argento, probabilmente dovute a spedizioni crociate in Terrasanta.

Nobile schiatta di uomini d’arme quella dei Cly, ramo collaterale dei potenti Visconti di Aosta, il cui feudo si estendeva a cavallo del Cervino prolungandosi fino nell’alto Vallese e nella zona di Zermatt. Un feudo incredibilmente vasto e decisamente strategico per il controllo di vie di commerciali all’epoca molto frequentate; vie che riuscivano a passare attraverso colli e ghiacciai in punti che oggi non esistono forse nemmeno più. Vie che risalivano i versanti delle quali oggi son rimaste tracce tanto fragili quanto preziose: pensiamo, ad esempio, ai ruderi dell’Ospizio medievale di Chavacour, situati nella parte alta del comune di Torgnon. Secondo voi perché mai costruire un punto tappa proprio lì? Oggi sembra disperso nel nulla, ma si narra che i Signori di Cly si fermassero proprio qui durante i loro viaggi verso la Svizzera…

UNA FIABA MERLATA

Quanto al castello… beh…pare uscito da una fiaba. Sin da lontano si scorge la sagoma severa della torre mastio: quadrangolare, essenziale, sagomata sulla e nella roccia. Scarpa potente e merlatura finanche sopraelevata. Una posizione che definire strategica suona persino riduttivo. Un ripiano con una vista a 360° su tutto il fondovalle verso sud; declivi erbosi (da cui il nome Cly, da “de clivo”) e dolci pendii verso nord. Un sito che ha restituito tracce di insediamento risalenti addirittura all’Età del Bronzo: probabilmente un castelliere salasso. Luogo emblematico, dunque, questo, dove la prima torre e la cappella esistevano già sin dai primi decenni dell’XI secolo, come verificato dalle analisi dendrocronologiche. E il castrum de Clivo compare anche in una bolla papale del 1207; ma fu solo più tardi, in pieno Trecento, che il castello di Cly divenne protagonista delle cronache. Anni turbolenti, segnati dalla prepotenza e dalla collera di Bonifacio di Cly, prima, e dal figlio Pietro, poi: quest’ultimo tanto bello quanto crudele.

CLY, SAVOIA E OLTRE…

Ribelli e arroganti i Cly accesero le ire del Conte Verde, Amedeo VI di Savoia, che alla fine li privò dei loro feudi valdostani che vennero astutamente scambiati con altri in terra elvetica. La fine del Trecento vide quindi spodestati i Signori di Cly e il loro splendido castello passò in mani sabaude. Ma non era ancora finita. Dai Savoia al capitano spagnolo Cristoforo Morales; quindi nuovamente ai Savoia e poi al segretario di Stato Giovanni Fabri. Fino alla nobile famiglia dei Roncas che lo smantellarono riutilizzandone gli elementi di pregio per costruirsi un nuovo palazzo nel borgo di Chambave. Quanto restava venne acquisito dallo storico Tancredi Tibaldi e, da lui, rimasero al comune di Saint-Denis.

Ancora oggi avvolto da un’aura di mistero, il maniero di Cly sa stupire con la sua magnifica cinta merlata, con la sua straordinaria cappella romanica dedicata a San Maurizio e con quella torre enigmatica le cui oscure segrete hanno visto tante anime perse. Tra cui anche lei, Johanneta Cauda. Una strega. Forse. Correva l’anno 1428; Johanneta trascorse nella torre di Cly 71 giorni, tra tormenti e sofferenze, prima di essere bruciata sul rogo l’11 di agosto, giorno di San Lorenzo, patrono di Chambave.

Pervasivo ed emozionante, il fascino del “castello delle tre lune” è frutto di un paesaggio dalla bellezza struggente, di un’architettura ricca di suggestione, di una storia tormentata e complessa, e di leggende spesso inquietanti. “Tre lune” tutte da scoprire…

Per le visite contattare: il comune di Saint Denis (tel.: 0166-546014) o l’Associazione culturale “Il Maniero di Cly” (tel.: :0166-546014 – 320 4369898).

Stella

Questo slideshow richiede JavaScript.

Ma perché l’imperatore Ottaviano Augusto scelse proprio il Capricorno e il solstizio d ‘inverno?

Natus est Augustus M. Tullio Cicerone C. Antonio cons. VIIII. Kal. Octob. Paulo ante solis exortum, regione Palati ad Capita bubula […] ” (Svet., Vitae, Aug., V).

Traduciamo: “Augusto nacque sotto il consolato di Marco Tullio Cicerone e di Caio Antonio, nove giorni prima delle Calende di ottobre, poco prima del sorgere del sole, nel quartiere del Palatino presso le Teste di Bue […]”.

Queste parole di Svetonio ci dicono innanzitutto che Augusto vide la luce il 23 settembre del 63 a.C., quindi sotto il segno della Libra (Bilancia) e non del Capricorno. Un orizzonte di inizio autunno che poco ha a che vedere con l’invernale Capricorno: come mai dunque Augusto scelse quest’ultimo segno?

Sempre dalle Vitae veniamo a sapere che, mentre si trovava col genero Agrippa nella città micrasiatica di Apollonia, Augusto si recò dall’astrologo Teogene il quale, dopo aver previsto un destino grandioso per Agrippa, si gettò letteralmente ai piedi di Augusto “adoravitque eum”; in seguito a tale incontro Augusto decise di diffondere quell’oroscopo dominato dal segno del Capricorno.

Potrebbe essere stato il suo ascendente; senz’altro è la costellazione sotto la quale Augusto venne concepito; oppure il suo quadro astrale di nascita potrebbe aver presentato numerosi ed inequivocabili legami con essa…Sta di fatto che il Capricorno, animale mitico, può essere considerato quale emblematica rappresentazione dell’orbe terracqueo in quanto riassume in sé la natura di terra e quella di acqua e quindi essere visto come positivo auspicio di potere sulle terre dell’Impero, sia quelle già acquisite che quelle ancora da conquistare.

Al Capricorno, inoltre, si riallaccia la figura leggendaria di Saturno e, con essa, l’idea dell’aurea aetas, quindi di promesse di benessere, ricchezza e fecondità. Riportando infine le parole del poeta astronomo Marco Manilio, veniamo a sapere che il segno del Capricorno governava tutte le regioni occidentali dell’Impero: “Tu, Capricorne, regis quidquid sub sole cadente / est positum gelidamque Helicen quod tangit ab illo / Hispanas gentes et quot fert Gallia dives / teque feris dignam tantum Germania matrem / asserit ambiguum sidus.” (Manilius, Astronomica, IV,791-796). Potremmo dunque considerarci legittimati a supporre che il Capricorno sintetizzi alla perfezione la politica augustea sotto l’aspetto delle sue premesse, dei suoi obiettivi e delle sue aspirazioni.

Non possiamo a tale proposito non ricordare la meravigliosa ed emblematica Gemma Augustea in cui il registro superiore è dominato dalla maestosa figura di Augusto (raffigurato come Giove con la sacra aquila ai suoi piedi) in trono accanto alla dea Roma; alle spalle del princeps compare (non a caso) il Capricorno col sidus Iulium, quella stella (forse una cometa) apparsa in cielo durante i giochi funebri in onore di Cesare, interpretata come premonizione di potere e di successo.

Raffigurato su monete, gemme (si pensi in particolare alla celebre Gemma Augustea) e, in casi meno frequenti, su monumenti (tra cui l’Arco di Orange, l’antica Colonia Julia Firma Secundanorum Arausio), il Capricorno è universalmente veicolato come simbolo inequivocabile di Augusto e da quest’ultimo applicato anche a legioni da lui rifondate o create ex novo, tra cui, appunto, la Legio Secunda Augusta i cui veterani furono collocati nella nuova colonia di Orange dopo aver sconfitto le popolazioni galliche locali. Il Capricorno, una costellazione che all’epoca coincideva col solstizio d’inverno, quindi con l’inizio di un nuovo ciclo: annuale, stagionale e, in chiave mitica, epocale: è l’inizio con Augusto dell’epoca della pace, dell’aurea aetas da tempo agognata.

Quanto significato si cela, dunque, dietro questo binomio “Ottaviano Augusto – Capricorno”. E quanto pervasivo si rivela dunque il messaggio subliminale dell’orientamento astronomico di Aosta (romana) così come di altre colonie augustee. Lo stesso orientamento si ritrova a Merida, in Spagna, l’antica Augusta Emerita fondata anch’essa nel 25 a.C., ad Augusta Raurica (attuale Augst in Svizzera), e nella città di Nicopolis (anticamente in Epiro), fondata da Ottaviano Augusto dopo la fatale vittoria navale di Azio avvenuta nel 31 a.C. contro le flotte di Marc’Antonio e Cleopatra.

Da segnalare, infine, la seconda centuriazione del territorio di Nova Carthago, operata dai gromatici della Legio II Augusta nel 29 a.C., chiaramente allineata al solstizio d’Inverno.

Un tempo magico. Il tempo in cui alcune porte si aprono e altre definitivamente si chiudono. Il tempo della rinascita, della vittoria del Sole sulle tenebre. A quale migliore momento dell’anno, dunque, l’intelligenza colta e raffinata di un princeps come Augusto avrebbe potuto assegnare la nascita delle sue colonie e la sua stessa auctoritas?

Stella

Questo slideshow richiede JavaScript.