Pont d’Ael. La ninfa e il Romano. Storia di un amore (quasi) impossibile

La vallata era stretta e difficile da penetrare. Il torrente scorreva in una profonda gola di rocce lisce e insidiose mimetizzate in una fitta vegetazione. La gente del fondovalle aveva da sempre timore di quel luogo:” E’ abitato da spiriti malvagi! Chi si addentra in quei boschi e tenta di scendere nella gola per risalire il corso d’acqua… non torna più!” raccontavano a chiunque avesse in animo di esplorare quei luoghi inaccessibili.

Augusta Praetoria era stata fondata da oltre 25 anni e fervevano le iniziative, imperiali e private, per l’infrastrutturazione del territorio, il miglioramento della rete stradale, l’individuazione e il successivo sfruttamento delle materie prime. Continuavano ad arrivare coloni e l’importanza commerciale della novella città alpina era alle stelle!

Il facoltoso e spregiudicato Avillio, proveniente dalla lontana città di Patavium (Padova), era noto per la sua mancanza di scrupoli, nonostante l’ancora giovane età. Aveva da poco compiuto 28 anni, ma per fare buoni affari era un vero maestro! Aveva fiuto, astuzia, capacità strategiche. E non poteva non notare quel luogo, non così distante dalle preziose cave di marmo grigio-azzurro per il cui sfruttamento aveva ottenuto l’ambito appalto, conteso da molti.

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Avillio poteva contare su una cospicua eredità e aveva al suo servizio un vero “esercito” di lavoranti, schiavi, manovali e, naturalmente, esploratori scelti presso la popolazione locale e profumatamente pagati.

In molti, tuttavia, l’avevano ammonito:” Dominus, quella gola è maledetta! Forze malvagie e imprevedibili la governano! La foresta è zeppa di spiriti. Gli dei non sono favorevoli. E’ necessario cambiare zona…”.

“Cosa?! Ma voi siete tutti pazzi, amici miei!”, rideva Avillio, “io non indietreggio davanti a niente e nessuno, figurarsi davanti a delle ombre nate dalle vostre superstizioni! Saranno animali… sarà il vento… suvvia! Domani iniziamo a stabilire il primo cantiere e offriamo sacrifici a Mercurio affinché protegga i nostri affari e commerci!”.

E così fu fatto. Ma già quella notte stessa, gli operai furono svegliati da un rumore sordo, sempre più forte: un’improvvisa onda di piena del torrente scendeva verso valle ad incredibile velocità erodendo le sponde e trasportando sassi e tronchi.

“Ecco! Il primo segnale, dominus, dobbiamo andarcene!”. “Non se ne parla! Alle prime luci avviamo i lavori”.

La mattina svelò agli sbigottiti manovali una situazione pazzesca: una nebbia impenetrabile riempiva la foresta e, cosa ancor più grave, la sponda non c’era più! La gola era diventata ancora più profonda e dirupata. Sul lato dove avrebbero dovuto avviare il cantiere del ponte-acquedotto non vi era altro che roccia! Nudi lastroni di roccia… impraticabili!

Il torrente Grand Eyvia dal Pont d'Ael guardando verso nord. La sponda destra è viva roccia. (S. Bertarione)
Il torrente Grand Eyvia dal Pont d’Ael guardando verso nord. La sponda destra è viva roccia. (S. Bertarione)

Avillio allora chiamò il migliore ingegnere di ponti reperibile in zona, addirittura indicatogli dall’imperatore stesso! Venne così deciso di scalpellare il banco roccioso dall’alto e ricavarvi degli incassi dentro cui fondare la spalla destra del ponte.

Ma gli “incidenti” erano all’ordine del giorno… Frane, smottamenti, incendi e furti più o meno misteriosi… Molti operai, soprattutto originari del luogo, avevano iniziato a disertare e a non presentarsi più al lavoro. “La gente del posto dice che stiamo offendendo gli spiriti dell’acqua, dominus… parlano in particolare di una dea: la ninfa Eyvia… mi pare sia questo il nome…”, gli riferì Servio, il suo fidato intendente.

“Ah, sì? Bene, vorrà dire che le costruiremo un sacello al termine dei lavori! Noi dobbiamo andare avanti! Ogni giorno sono sesterzi che se ne vanno… in acqua!!”, tuonava Avillio sempre più infastidito.

Il montaggio del ponteggio era già un’operazione complicata di suo… se poi ci si mettevano condizioni meteorologiche nefaste con un incredibile freddo fuori stagione, pioggia, grandine, raffiche di vento fortissime… beh, il lavoro diventava impossibile!

Avillio insisteva, ma quando un operaio perse la vita cadendo dall’impalcatura con un volo di 50 metri che lo fece precipitare nel torrente… beh, solo in pochissimi rimasero in cantiere.

Finché la mattina seguente, quando le prime luci dell’alba faticavano a bucare una coltre di nebbia ancor più fitta del solito, Avillio venne svegliato da uno strano fruscio. Qualcosa stava sfiorando con insistenza il suo viso. Pensava fosse una mosca e cercava di scacciarla, ma invano… Alla fine aprì gli occhi e vide, posata sulla sua coperta, una meravigliosa farfalla azzurra dalle ali di seta, lucide, brillanti e cangianti. Il corpo, argentato, brillava come fosse illuminato dall’interno.

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La farfalla prese a volteggiargli intorno. Qualcosa lo indusse ad alzarsi e a seguirla. Fuori non c’era nessuno. La farfalla volò sulla gola e continuava a fare “avanti e indietro” poggiandosi sulla spalla di un Avillio più incredulo che mai. Le sue leggere ali azzurre fendevano la nebbia indicando ad Avillio una specie di varco. Come ipnotizzato il Romano iniziò a seguire quella creatura di luce senza neppure guardare dove metteva i piedi. Ad un certo punto la farfalla lo costrinse a voltarsi e, con indescrivibile stupore, Avillio si rese conto di aver attraversato la gola… nel vuoto!! Ma com’era stato possibile?!

Davanti a lui quella strana e magnetica luce azzurra diventava sempre più forte e, come una lucerna, gli indicava il cammino. Fu così che Avillio, sospinto da una forza segreta, salì attraverso quei boschi tanto temuti fino a raggiungere un cornicione di roccia strapiombante… un luogo degno degli Inferi. Rocce dai colori incredibili, striate di viola e porpora, venate di ocra e grigio-verde si gettavano con un salto impressionante verso un baratro apparentemente senza fine.

La farfalla, sempre più grande e luminosa, volava leggera davanti a lui trascinandolo come in un sogno; Avillio riusciva a muoversi su quei pericolosi pendii con straordinaria facilità.

Finché non raggiunse un’insenatura sul fondo della gola dove il vorticoso torrente si placava allargandosi in una sorta di piscina naturale le cui acque azzurrissime e trasparenti illuminavano le rocce intorno. La farfalla si posò su una balza di pietra e, improvvisamente, un’abbagliante luce blu obbligò Avillio a chiudere gli occhi.

Quando li riaprì, credette di essere al cospetto di una dea. Davanti a lui, fluttuante sull’acqua, si ergeva una fanciulla eterea, di eccezionale bellezza, avvolta in un abito candido, come fosse fatto di luce. Sembrava a tratti persino trasparente… come se fosse fatta di acqua, aria e luce…

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“Dimmi, dunque, straniero, chi sei? E perché ti ostini a voler varcare impunemente i confini del mio regno senza permesso e senza rendermi omaggio? Cosa cerchi?”

Quell’inaspettata voce profonda e suadente lo lasciò letteralmente stordito. Ci mise alcuni minuti a riordinare le idee e ad elaborare una pur minima e sensata risposta. “Ecco, io… io mi chiamo Caio Avillio Caimo, sono un cittadino romano. Sto cercando di costruire un canale per portare l’acqua alle cave di marmo qui a valle…non ho fatto nulla di male…”.

“Nulla di male?! Sei forse cieco e sordo? Non sei stato capace di interpretare i molti segnali che ti ho inviato? Questo è il mio regno! La mia acqua! Qui tu non entri e non passi! Non ti permetterò di costruire alcunché! L’acqua è pura, sacra… non va utilizzata per mero guadagno! Tu non hai mostrato il minimo rispetto per questa terra e hai ignorato i consigli della mia gente!”.

“La “tua” gente? Ma, chi sei tu?” balbettò Avillio.

“Io sono Eyvia, la ninfa di questo torrente, guardiana della gola e dell’acqua che vi scorre; protettrice di questa vallata e di tutte le creature che vi abitano”.

“Eyvia… ti chiedo perdono. Ma io ho bisogno di quest’acqua. Come posso fare?”.

“Te la dovrai guadagnare, Romano! Tu sei abituato ad avere subito tutto ciò che vuoi. Stavolta dovrai saper aspettare!”.

E così, per diversi giorni Avillio rimase prigioniero di Eyvia che lo costrinse ad esplorare l’intera vallata ma senza aiuti “magici”. Avillio, che sempre aveva detestato fare fatica e men che meno apprezzava le montagne, fu obbligato ad inerpicarsi, a camminare per ore tra boschi, prati e pietraie. Non poteva fermarsi quando voleva, ma doveva ubbidire a Eyvia. Fare ciò che lei gli ordinava. Ribellarsi, opporsi… non serviva a nulla. Lui, poi, che proprio non era abituato ad eseguire, ma solo ad impartire consegne…

In questo modo, però, giocoforza apprese a conoscere, osservare, ammirare le mille sfumature di quanto lo circondava. Apprese che, portando il giusto rispetto, si possono ottenere molte più cose che non con la forza e la prepotenza. Iniziò ad amare profondamente quei luoghi, tanto da rimanerne incantato e non volersene più andare. E non solo i luoghi conquistarono il suo cuore…

Poco a poco Avillio si accorse che Eyvia esercitava su di lui un potere ammaliante. Certo, era una dea, ma è risaputo che gli amori tra dee e mortali possono accadere, no?!

Da parte sua Eyvia imparò a capire meglio il mondo degli uomini: i loro bisogni, i loro pensieri, le loro paure… E imparò ad affezionarsi anche a quel ruvido Romano supponente e brontolone.

Finché un giorno Eyvia gli disse: “Bene Avillio, ora puoi andare. Torna pure al tuo mondo, al tuo lavoro. Se avrai bisogno, io ti aiuterò”. Ma, stranamente, Avillio non fu felice; non voleva separarsi da lei… l’unica ad aver saputo conquistare il suo cuore!

“Andare? – le rispose tentennando – ma, e tu? Resti qui? Non vieni con me?”

Eyvia non solo aveva ben inteso i reali sentimenti del giovane Romano, ma li condivideva temendo, tuttavia, quell’imprevisto ma dirompente amore nei confronti di un uomo mortale…

“Sai che non mi è permesso… Io posso seguirti solo come una farfalla e senza essere vista… Verrò durante le notti senza luna; tu mi seguirai e, da soli, tornerò ad essere Eyvia… altro non posso fare ahimé… Ma tu devi stare molto attento, Avillio! Non dovrai mai rivelare a nessuno… nessuno! della mia esistenza… mai! Altrimenti io scomparirò per sempre… promettimelo!”

Avillio, terrorizzato all’idea di non poter più abbracciare la sua ninfa, le giurò che quello sarebbe stato il loro prezioso segreto per sempre! E quell’ultima notte senza luna, insieme, fu la più felice e appassionata che mai avrebbero potuto credere…

Il mattino seguente Avillio ricomparve improvvisamente in cantiere, lasciando tutti sorpresi e senza parole. Alcuni manifestarono istintivamente gioia nel rivederlo; altri meno, in particolare Servio, il “fidato” intendente che, nel frattempo, aveva ampiamente approfittato della sua assenza sperando, in cuor suo, che fosse morto, disperso nei gorghi del torrente.

“Amici! Eccomi! Ho vagato per giorni nella foresta. Ho esplorato io stesso le sponde del torrente individuando il punto più adatto all’opera di presa del canale! E sono vivo! Come vedete sono tornato, quindi non abbiate timore! Gli dei ci saranno benevoli”.

Tali parole instillarono forza e coraggio. La voce di sparse rapidamente e gli operai tornarono in cantiere. Da quel giorno, infatti, la nebbia non scese più nella gola e le condizioni meteorologiche favorirono l’avanzare dei lavori. Tutti erano convinti di collaborare ad un’opera eccezionale, mai vista prima. Servio, però, tramava nell’ombra, per nulla convinto di quel racconto e di quel repentino cambiamento generale.

“Dev’essere successo qualcosa… per forza!” – rimuginava tra sé e sé; “Secondo me ha ottenuto qualche aiuto, da chi non so ma di certo non è tutta opera sua! Chissà chi avrà pagato, chi avrà convinto… ah, ma lo scoprirò! Sono sicuro che nasconde qualcosa!”.

I giorni scorrevano veloci e proficui. Avillio era sempre di ottimo umore e Eyvia, sotto forma di farfalla, quotidianamente svolazzava sul cantiere sfiorandogli le spalle e il viso, spesso posandovisi quasi a lasciargli un lieve bacio fugace.

E Avillio aspettava con ansia le notti senza luna per poterla riabbracciare…

Ma, a lungo andare, quella particolare farfalla azzurra non era sfuggita allo sguardo attento e indagatore di Servio che decise di pedinare Avillio notte e giorno accampando ogni sorta di scusa.

E avvenne che, durante una di quelle notti scure, Servio vide Avillio uscire e allontanarsi dall’accampamento. “Ma dove va da solo in piena notte? Lo sapevo che nasconde qualcosa… ma questa volta lo scoprirò!”. Certo faticava non poco a stargli dietro in quell’oscurità finché si accorse che Avillio seguiva una piccola luce azzurra.

Eyvia, però, percepì quella presenza negativa e immediatamente scomparve. Avillio si voltò di scatto ed esclamò: “Servio! Che fai? Perché mi segui? E’ successo qualcosa?”.

“Dimmelo tu cos’è successo, Avillio! Da quale misteriosa divinità sei protetto? Da quando sei tornato fila tutto inspiegabilmente troppo liscio… non me la racconti giusta! E la storia che vai raccontando non mi ha mai convinto! Con quale oscura tribù salassa ti sei alleato? Quali ricchezze ti hanno promesso? Suvvia, Avillio… io sono Servio, il tuo fidato collaboratore da anni…”

“Caro Servio, tanto “fidato” che non ti fidi… mi sembra logico…Perché mi segui? Non mi è forse permessa una passeggiata notturna per riflettere in pace?!”.

“Ma chi vuoi prendere in giro?! E quella strana luce azzurra che ti guidava?! L’ho vista, sai? Quale strano artificio è mai questo?!”.

“Luce azzurra?! Questa sì che è buona! Caro il mio Servio… mi sa che devi cedere meno alle insidie di Bacco…”, lo schernì Avillio.

Ma Servio non aveva alcuna voglia di scherzare, né di perdere altro tempo. Con un balzo lo aggredì e gli saltò addosso intenzionato a scaraventarlo giù dal ponte. Il canale era in via di ultimazione e si stavano posando le grandi lastre di pavimentazione.

Avillio rispose all’attacco con forza; i due lottavano come tigri. Eyvia, nascosta nella vegetazione, seguiva la scena con profonda angoscia. Servio, più robusto, stava per avere la meglio ma, complice il buio, mise inavvertitamente il piede su una striscia di malta ancora fresca. I chiodini della suola fecero presa e rimase incastrato.

Pont d'Ael. Impronta della parte anteriore di una scarpa chiodata romana sulla malta di allettamento delle lastre del condotto
Pont d’Ael. Impronta della parte anteriore di una scarpa chiodata romana sulla malta di allettamento delle lastre del condotto

I due si avvinghiarono e, purtroppo, persero contemporaneamente l’equilibrio sbilanciandosi: entrambi, contemporaneamente, caddero nel vuoto…

Ma Eyvia accorse immediatamente: come fanciulla alata afferrò prontamente Avillio portandolo in salvo. Tuttavia ciò avvenne durante la caduta e Servio, ancora vivo, la vide… e questo, ahimè, bastò! “Avillio… amore mio… io dovevo salvarti ma adesso, per me, per noi, è finita! E’ la legge del mio popolo… sono stata vista come ninfa da chi non avrebbe dovuto vedermi e ora devo scomparire…per sempre…”, piangeva Eyvia disperata.

“Ma no! Eyvia, Servio è morto! Non potrà rivelare a nessuno di te, di noi…”. “Non ha importanza! Lui mi ha comunque vista. Per me è finita. Questa è la mia ultima notte… Da domattina, col primo sorgere del sole, io sarò trasformata in roccia per sempre!”.

Fu allora,però, che ad Avillio venne un’idea:”Eyvia, abbiamo ancora alcune ore… Andiamo lassù alla piscina, nella “nostra” grotta… e aspettiamo lì insieme che arrivi il nuovo giorno”.

Pont d'Ael. La presa (comune.aymavilles.ao.it)
Pont d’Ael. La presa (comune.aymavilles.ao.it)

Eyvia acconsentì. Quelle ultime ore trascorsero lacerate tra amore e profonda, irrimediabile, tristezza, finché entrambi si addormentarono.

Quando Avillio si svegliò si trovò sdraiato ai piedi di una strana statua di pietra che prima non c’era… la toccò, la accarezzò… “Eyvia… amore mio…eccoti… io ti proteggerò comunque! Nessuno oserà mai disturbare il tuo sonno. Questo luogo è sacro: da qui nascerà il mio acquedotto e sarà posto sotto la tua protezione. Nessuno oserà mai violare questa sacra sorgente!!” E piangendo tutte le sue lacrime, si strinse con tutte le sue forze a quella pietra tanto amata.

Pont d'Ael. La"scultura" della ninfa (comune.aymavilles.ao.it)
Pont d’Ael. La”scultura” della ninfa (comune.aymavilles.ao.it)

Stava per andarsene quando un movimento attirò il suo sguardo. “Eyvia!! Sei qui!”. Una splendida farfalla azzurra dalle ali brillanti come seta era posata sulla statua; si levò in volo e gli si posò sulla spalla.

“Mia amata Eyvia, anche se come una farfalla, so che sarai sempre al mio fianco…”.

Il cantiere non ebbe mai interruzioni. In breve tempo il magnifico ponte-acquedotto di Caio Avillio Caimo fu terminato nell’ammirazione generale.Persino l’imperatore gli fece pervenire i suoi più vivi complimenti.

Pont d'Ael (foto Enrico Romanzi)
Pont d’Ael (foto Enrico Romanzi)

Ancora oggi restiamo stupiti davanti a tanta raffinata ingegneria. Un’opera sorprendente e maestosa che ha saputo attraversare i millenni, grazie alla maestria dei suoi costruttori.

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Ma c’è dell’altro. Il ponte di Avillio, oggi noto come Pont d’Ael, sorge in una zona naturalistica protetta caratterizzata da una presenza assai particolare: tra fine maggio e metà giugno, qui, si possono vedere oltre 96 specie di farfalle! E chissà che, tra queste, non si celi anche una ninfa innamorata di nome Eyvia…

Stella

MEGALITICA. Nel “solco” della (PRE)iStoria

Riprendiamo, quindi, il nostro viaggio alle origini attraverso il sito megalitico di Saint-Martin-de-Corléans, ad Aosta. Ricordate la discesa lungo la rampa del tempo?

Ebbene, eccoci a 6 metri sottoterra, avvolti nella penombra cangiante che, ad intervalli regolari, si accende e si colora ricordando lo scorrere dei giorni e delle notti. Ma dove siamo?

Guardando verso sinistra, laggiù sul fondo, emerge una struttura di grosse pietre circondata da strati di pietrame più minuto. E’ una tomba, la cosiddetta “Tomba 2”. Una tomba megalitica, appunto, costruita al di sopra di una particolare piattaforma di pietre a forma di freccia. Da qui ancora non la si vede bene, la scoperta avverrà progressivamente. Si cammina intorno a questo sito incredibile, forse un po’ distanti, è vero, ma è quasi simbolico dell’effettiva distanza che ci separa da quelle epoche avvolte nella notte dei tempi, da quei riti, da quelle preghiere, da quelle persone.

 Una cosa si avverte: il senso del sacro. Il senso di un luogo non certo abitativo, ma contraddistinto da una sorta di flusso comunicativo tra il “sotto” e il “sopra”, tra la terra e il cielo.

Chiudete gli occhi. Immaginate una musica, una di quelle epiche, dalle sonorità prima soffuse che si fanno poi via via sempre più imponenti, coinvolgenti, trionfali. Una musica capace di accompagnarvi in questo viaggio a ritroso facendovi percepire la forza della Storia.

ANTICHISSIME ARATURE

E  ora immaginate una piana. Verso sud, sul fondo, lo scintillio di un fiume incorniciato da ampie zone paludose. La Dora Baltea. Lo sguardo sale fino ad incontrare i boschi e poi raggiungere le alte vette. In particolare due, molto alte, a ridosso della pianura alluvionale, così simboliche, così presenti… chissà con quale nome venivano chiamate in quei tempi lontani. Oggi sono l’Emilius e la Becca di Nona, sentinelle del Sud, monumentali gnomoni di roccia puntati verso il cielo, meridiane naturali per il fluire delle ore e delle stagioni.

Ed ora delle voci. Voci di uomini intenti ad un gesto antico: l’aratura. Un gesto consueto ma che gli uomini avevano appreso non da molto. Una prima mattina di un giorno di inizio estate sul finire del V millennio a.C., quegli uomini stanno arando questa vasta pianura. Lenti movimenti avanti e indietro, e poi ancora avanti e indietro; lunghe strisce ininterrotte aprono il terreno e solcano i depositi limosi lasciati dal fiume e dai movimenti dei ghiacciai. La terra si apre sotto il passaggio del vomere in legno.

Ma questa non è un’aratura qualsiasiQui l’agricoltura si fa rito, si fa preghiera.

La terra solcata viene invocata affinché sia nutrice di genti eroiche e di una solida stirpe di guerrieri. Quegli stessi solchi non restituiranno però dei semi, ma denti umani, perlopiù incisivi. Quella terra doveva dare il cibo a uomini forti e valorosi. In questo gesto, che a noi può apparire tanto insolito, riemerge il mito di quel gruppo di circa 50 eroi che, sotto la guida del prode Giasone, intraprese l’avventuroso viaggio a bordo della nave Argo.

Un viaggio che li condurrà nelle ostili terre della Colchide, alla conquista del vello d’oro. Gli Argonauti, i marinai che fecero l’impresa. Giasone chiese il vello d’oro al re Eeta, il quale acconsentì a concederglielo, ma solo dopo che fosse stato arato un campo per seppellire i denti di un drago ucciso da Cadmo. Questa sepoltura doveva garantire la nascita di uomini armati. Le antiche leggende parlano di draghi; qui si parla di uomini. Delle loro ambizioni, delle loro credenze e delle loro speranze.

Storie antiche frammiste al mito e alla leggenda che, però, ci narrano di eroi, di aventure, di lunghi viaggi verso terre sconosciute, di draghi e sovrani avidi e superbi, di alberi carichi di frutti più o meno proibiti (storia ben nota!), di tori furenti e indomabili, di serpi e draghi spaventosi. Storie che ci raccontano di intrepide ricerche: di terre, di metalli, di ORO!

10.000 mq (ma diventeranno 18.000!) che racchiudono oltre 6000 anni di storia dove tutto ebbe inizio dalla terra, da molteplici e ripetute arature. In campagna non vi è gesto forse più famigliare e consueto. Che però, qui, assume tutto un altro sapore. Qui l’aratura si fa rito, si fa culto, si fa preghiera. Merita una riflessione la ricchezza di significato di un’azione agricola apparentemente semplice come quella dell’arare.

Significa delimitare una porzione di terreno per farla in qualche modo “propria”. Significa incidere la Madre Terra affinché accolga quei semi da cui dovrà nascere una nuova realtà, in termini di raccolto così come in termini di insediamento. La portata sociale e religiosa di questo gesto è incredibile; si perde nella notte dei tempi e attraversa le epoche. Un gesto anticamente “nuovo”, NEOlitico, e per questo profondamente rivoluzionario; l’uomo da nomade cacciatore-raccoglitore si è stabilizzato e ha imparato a coltivare e ad addomesticare. Un cambiamento epocale! E quella terra era ed è SACRA. Terra da invocare, pregare, venerare… affinché sia benevola e non “matrigna”. Una terra che più MADRE non si potrebbe! E, perciò, sacra!

I “POZZI”. OFFERTE NEL SOTTOSUOLO

E non solo di aratura si tratta. La nostra scoperta del sito ci porta ad incontrare una serie di grandi fosse (o pozzi) che, in alcuni casi, arrivano a ben 2 metri di profondità. 

Tra IV e III millennio a.C., mani devote non solo hanno scavato queste cavità, ma sul fondo vi hanno deposto cereali, resti di frutti e macine. Leguminose come vecce e cicerchie; cereali come il farro e il frumento. Carboni di quercia e di pino. Resti che ci parlano di un paesaggio agrario remoto e di contadini che lavoravano la Natura venerandone le forze imperscrutabili. 

Probabilmente offerte alle divinità della terra: divinità ctonie e feconde. Quegli dei che presiedevano agli eterni cicli di vita, morte e rinascita. Un seme nella terra muore e rinasce per germogliare di nuovo. Una speranza di vita che obbligatoriamente doveva passare attraverso una morte inevitabile.

A ben pensarci è lo stesso dualismo che, in altre epoche e ad altre latitudini, si ritrova nelle più note dee greche Demetra e Persefone, tra loro madre e figlia. Demetra, la Madre terra portatrice di messi e la figlia Kore-Proserpina-Persefone, simbolo della primavera, della nuova vita che germoglia, ma anche sposa di Ade e signora dell’Oltretomba.

Due dee che ben rappresentano il ciclo della natura: 6 mesi di sonno, di morte apparente (autunno ed inverno); 6 mesi di fioriture e raccolti (primavera ed estate). Ecco perché anche le forze divine nascoste nel sottosuolo andavano invocate e blandite affinché fossero benigne.

ER’ l’eterno ciclo del seme che di fatto tornerà anche nel Cristianesimo: il seme deve “morire”, essere sepolto, per poi rifiorire in una nuova vita e dare frutto. La vita che passa da una morte necessaria vista, però, come transito e mutamento.

Saint-Martin-de-Corléans: un luogo davvero particolare, dove vita e morte dialogano e si rincorrono fin quasi a sovrapporsi. Seguiteci, il nostro viaggio non è ancora finito…

Stella

MEGALITICA. Viaggio alle origini

Metti una passeggiata ad Aosta. Ma non una passeggiata qualsiasi. Una di quelle che ti portano a scoprire la città, la sua anima, ma soprattutto la sua storia. Una storia che qui si fa plurimillenaria. Lasciatevi dunque alle spalle la rassicurante cortina muraria di epoca romana. Lasciate la monumentale Augusta Praetoria e avventuratevi verso ovest. Attraverserete zone forse ancora poco note della città; i quartieri delle caserme, quelli residenziali, quelli più popolari. Arriverete così a Saint-Martin-de-Corléans. Nucleo del quartiere la graziosa chiesetta romanica dedicata a San Martino. Al di là di un’apparenza forse poco accattivante, è questo un luogo davvero straordinario, dove leggenda, storia e credenze popolari si mescolano e si sovrappongono tra sacro e profano, a cavallo tra mondo pagano e mondo cristiano.

SAINT-MARTIN-DE-CORLÉANS. UN QUARTIERE DAL NOME INTERESSANTE

Il nome stesso di questo quartiere ci catapulta in questa dimensione strana e disorientante. Perché “de Corléans”? Cosa significa? In primo luogo parrebbe ormai comprovato che “Corléans” sia un prediale di matrice romana, intendendo con “prediale” un nome indicante un lotto di terreno, una proprietà fondiaria. L’origine sarebbe da ricercare in un antico Cordelianum, a sua volta derivante da un presunto Cordelius. Ma non è tutto. Ancestrali echi di lontane leggende riecheggiano in questo nome, collegato alla mitica Cordela, “capitale perduta” del popolo dei Salassi, popolo di cultura celtica residente nelle nostre montagne all’arrivo di Roma. A Cordela e al suo fondatore, ossia Cordelo, figlio di Statielo, seguace di Ercole. 

Gorlach, the legend of Cordelia

Miti di viaggio, di lunghi spostamenti, di migrazioni di popoli provenienti dall’Asia Minore. In fin dei conti un po’ di verità c’è. E lo vedremo.Scriveva Silio Italico, politico e poeta romano del I sec. d.C.:“Ercole affrontò le vette inviolate: Fu il primo. Gli dei vedono stupitiCome fende nubi, fracassa alture,Doma possente rupi mai battute“.Vagava, il semidio, da Oriente a Occidente cercando fra i ghiacciai la via per i Giardini del Tramonto, dove le Esperidi avrebbero custodito gelosamente i propri frutti.

VIAGGIO ALLE ORIGINI

I miti si intrecciano in queste origini leggendarie di Aosta, alla cui base però si rileva come fosse comunque nota una presenza antica, misteriosa, difficilmente descrivibile altrimenti. Probabilmente si sapeva che in questa zona la Storia aveva lasciato testimonianze particolari, le cui origini e le cui motivazioni affondavano in un’epoca “perduta”, troppo lontana nei secoli e nei millenni perché si riuscisse a meglio contestualizzarla. Ma, col XX secolo, in un modo del tutto fortuito, sarebbero stati gli archeologi a svelare la reale identità di questo enigmatico luogo.

Ci troviamo, infatti, al cospetto dell’area megalitica, unico e prezioso scrigno di testimonianze archeologiche risalenti fino all’epoca Neolitica (V millennio a.C.). Un’area composta da un sito archeologico pluristratificato le cui testimonianze vanno dalla Preistoria al Medioevo passando, come nel miglior manuale di Storia, attraverso le Età del Rame, del Bronzo, del Ferro fino a tutta l’epoca romana, l’età tardoantica e altomedievale. Un Parco archeologico all’avanguardia che ha aperto definitivamente i battenti il 24 giugno 2016 e che, senza alcun dubbio, merita una visita! 

Un’area estremamente suggestiva e densa di storia, dove cielo e terra, uomini e dei, dialogano sin dalla notte dei tempi. Un grande, straordinario, santuario preistoricodove funzioni cultuali e funerarie si sono avvicendate e trasformate nei secoli fino all’utilizzo dell’area a fini non solo sepolcrali ma anche agricoli in epoca romana, per poi approdare (nuovamente) al contatto col divino nell’Alto Medioevo attraverso l’emblematica figura di San Martino.

Un santo scelto a ragion veduta. Martino era un soldato, nato nel 316 d.C. nell’antica Pannonia (l’attuale Ungheria) e di cui proprio nel 2016 la Chiesa ha celebrato i 1700 anni dalla nascita. Prima al servizio dell’esercito di Roma, e poi al servizio di Dio. Un santo-soldato, poi divenuto monaco esorcista e infine vescovo, che vigila e presidia: ecco perché, nella stragrande maggioranza dei casi, lo si ritrova lungo le mura delle città, in corrispondenza di castelli strategici oppure in prossimità di importanti e frequentati assi viari. Inoltre ci troviamo in un luogo dove le tracce del paganesimo erano profondamente radicate e testimoniate da eloquenti indizi probabilmente ancora noti o comunque percepiti o percepibili in epoca tardoantica. Occorreva pertanto eradicare queste antiche credenze, i cui strascichi probabilmente si protraevano nel tempo e nella società “spaventata” dalle angosce della fine dell’Impero romano. Occorreva esorcizzare luoghi del genere richiamando la forza e l’attrattività di un santo così amato dal popolo quale era, appunto, San Martino di Tours, l’apostolo delle Gallie.

L’AREA MEGALITICA

Ma non indugiamo oltre ed entriamo, varcando la soglia di questo complesso esteriormente così moderno e avveniristico che, con gli anni, diventerà un importante centro non solo museale, ma di studio e ricerca dedicato alla Preistoria alpina, un settore ancora poco conosciuto e dalle frontiere ancora in buona parte inesplorate.

L’avvicinamento al sito avviene scendendo lungo una rampa dove gli intrecci delle travi in acciaio con le strategiche aperture vetrate consentono di vivere l’azione stessa dello scendere. In una scenografia che sa quasi di archeologia industriale, si vede chiaramente che si sta “bucando” il terreno circostante e si sta andando in un luogo sotterraneo; la cappella si fa più alta e più lontana. L’Aosta dell’oggi sta lasciando il posto all’Aosta “perduta”, a quell’area senza nome avvolta dal torpore dei millenni, l’area “dalle grandi pietre”, l’area megalitica.

Sembra quasi di essere su un’astronave, in viaggio al di là del tempo e dello spazio alla ricerca di mondi solo apparentemente perduti. E non a caso era il 1969 quando questo sito venne scoperto. Giugno 1969. Un mese prima che l’uomo mettesse piede per la prima volta sulla Luna. E, davvero, percorrere questa rampa del tempo per raggiungere un luogo così insolito ed inaspettato, può per molti aspetti essere paragonato al mettere piede su un altro pianeta!

E in effetti, la stessa impressione si può avere sin dall’esterno. Forme taglienti, spezzate, che interrompono il presente per accompagnare, quasi come su una nave spaziale, in un inatteso viaggio nel più remoto passato. Forme lucide, vetrate, riflettenti e trasparenti che vogliono appositamente attrarre la luce che, sia diurna che notturna, si rivela componente fondamentale ed imprescindibile all’origine del sito e dei suoi allineamenti, vere forme “ponte” tra cielo e terra.

La rampa continua la sua discesa, le luci progressivamente si affievoliscono e ci si ritrova a 6 metri sotto terra. I colori scuri aiutano la percezione di un sottosuolo al confine con una dimensione “altra”. Bisogna prepararsi ad un salto cronologico importante.

All’ improvviso ci si ritrova in uno spazio immenso. Ci si sente piccoli piccoli in questa sorta di lunare vastità. Ci si potrebbe anche chiedere dove si è e, soprattutto, cosa si debba guardare. Le luci cambiano e sfumano; dal buio quasi totale ad un chiarore freddo, fino ad una luminosità dorata e diffusa, per poi passare ad una calda tonalità aranciata che, virando sul violetto e poi sul blu, riporta di nuovo la notte. 

E’ il susseguirsi dei giorni e delle notti, delle albe e dei tramonti, delle lune e delle costellazioni che nei millenni hanno visto la nascita, lo sviluppo, gli utilizzi e i cambiamenti di quest’area straordinaria. Un’area in origine pensata e costruita a contatto diretto col paesaggio e col cielo, ma che oggi, inserita com’è nel tessuto urbano e dotata di un deposito archeologico tanto corposo quanto fragile e vulnerabile, ha necessitato una copertura. Non ci sono solo “pietre”, c’è molto di più! E’ il più grande sito megalitico coperto d’Europa!

Stella

Area Megalitica di Aosta. Archaeological Code

Come ogni anno l’appuntamento con la #MFW, la #MilanoFashionWeek, è fonte di ispirazioni, suggestioni e riflessioni che, partendo dalle ultime tendenze in fatto di moda e costume, mi porta ad andare indietro nel tempo ritrovando accenni di stile, tagli o accessori in testimonianze del passato. Ebbene sì, anche del passato più remoto.

Si fa presto a dire “vestito” quando invece dietro ad ogni abito si muove un mondo, una società, una (o più) culture che proprio quell’abito hanno prodotto e creato per dare un segnale, per comunicare, per sottolineare un modo di essere, di vivere, di apparire.

Come mai, vi chiederete, parlare di fashion trend all’Area Megalitica?

Beh, intanto comincerei con l’elencare, sinteticamente, almeno #10buonimotivi per visitare questo sito inatteso e sorprendente:

  1. Un sito archeologico grandioso che racchiude oltre 6000 anni di storia.
  2. Coi suoi attuali 10.000 mq (che diventeranno 18.000 a fine lavori), è l’area megalitica coperta più vasta d’Europa.
  3. Megaliti in città! Un sito megalitico urbano nel quartiere ovest di Aosta. E non è cosa tanto frequente…
  4. Un viaggio nel tempo alla scoperta di una lontana e affascinante Preistoria alpina.
  5. Emozionarsi davanti ad un paesaggio arcano ed inatteso illuminato dal millenario susseguirsi di albe e tramonti.
  6. Sorprendersi davanti ad arature tracciate più di 6000 anni fa.
  7. Meravigliarsi per gli emblematici allineamenti creati per far dialogare terra e cielo.
  8. Scoprire le prime grandi statue della Preistoria: rivestite di motivi decorativi ma tuttora avvolte da un enigmatico “mistero”.
  9. Stupirsi davanti alle grandiose tombe collettive, leggendarie opere di “giganti”, testimoni di ricchezza e potere.
  10. Uscire dal centro per scoprire un parco archeologico avveniristico, multimediale ed interattivo decisamente “fuori dal coro”.

E da quest’ultimo punto mi riallaccio alla questione moda: il nuovo e l’antico, la Preistoria e il Futuro si toccano, si ibridano e si sublimano a vicenda proprio in questo magico luogo che, secondo me, sarebbe una location fantastica per incredibili e spaesanti shooting fotografici se non, visto lo spazio, per originali “archeo-passerelle”.

Allora, la moda, dicevamo!

Come nel 2019, ma rivisitate nei dettagli e nelle palette cromatiche (ora più piene e accese), le giacche over-size, i blazer dal taglio geometrico e schiettamente maschile ma che ben si adattano anche a noi fanciulle come indumento trasversale e versatile; ok col look elegante e raffinato, ma anche coi jeans, le gonne, addirittura la tuta! Anche i trench devono essere maxi e, se possibile, con spalline importanti.

Bene, ne avevo già parlato nel mio post di allora: le stele dall’enigmatico profilo umanoide sono perfette ed emanano un ipnotico glamour senza tempo con quelle “spalle larghe” e con quel taglio comune ad individui di entrambi i sessi. Già, perché le stele dell’area megalitica aostana, non presentano elementi utili a connotarle immediatamente se riferibili a uomini o donne: tutto si gioca sulla presenza (o assenza) di determinati capi, accessori, motivi decorativi.

Ecco, le decorazioni! Queste stele (che mia figlia – 4 anni – chiama “pietre vestite”!) presentano fitti, minuti e raffinati schemi decorativi che richiamano tessuti lavorati, applicazioni in metallo (in particolare rame) o in osso o addirittura in valva di conchiglia (quelle grandi conchiglie oceaniche che i potenti dell’Età del Rame amavano esibire come oggetti suntuari legati a commerci importanti con terre lontane. E da conchiglia, a perla e madreperla…il passo è breve!

Reticoli di rombi, forse originariamente a colori alterni e a contrasto, ricoprono queste statue preistoriche, iconiche e aniconiche allo stesso tempo, mute (senza volto), ma allo stesso tempo dense di linguaggi.

Proprio queste magnifiche stele eneolitiche sono le protagoniste di un primo ciclo di 15 brevi racconti che, con un linguaggio semplice e con un intreccio favolistico, vogliono narrare ad un pubblico ampio per età e formazione, quello che doveva essere l’arco alpino nord-occidentale 5000 anni fa! Il popolo dei #GrandePietra vuole così dare voce e forma a quegli antichi abitanti che, in questo luogo della piana circondata da alte montagne, avevano il loro santuario più importante, una sorta di Olimpo Preistorico in cui, secondo precisi allineamenti celesti e terrestri, si celebrava il sacro dialogo tra uomini e dei.

Ma torniamo ai vestiti. “Pietre vestite”, appunto! Parliamo poi di epoche in cui, senza overdose di immagini, pochi ma sapienti dettagli potevano comunicare tutto: il rango, il ruolo, il potere!

Fondamentali gli accessori: collane e cinture su tutti! Un trionfo di pelli lavorate, illuminate da ciondoli in rame e in pietra levigata, arricchite da dettagli in osso e, come già detto, conchiglia. Ogni forma, un preciso significato. Beh, ecco il gran ritorno delle cinture-gioiello! … ancora meglio se con forme che riecheggiano ammoniti, antiche spirali, conchiglie… un eterno “femminino” inno di vita e continua rigenerazione!

Guardate la rielaborazione a colori della stele 3 sud:

(https://www.regione.vda.it/cultura/patrimonio/siti_archeologici/st_martin/grandepietra/default_i.aspx)

e quella della stele 30:

(https://www.regione.vda.it/cultura/patrimonio/siti_archeologici/st_martin/grandepietra/default_i.aspx)

Lo stile optical la fa da padrone. In una predominano i rombi; nell’altra il damier, il disegno a scacchiera. In una abbiamo un importante collier e un capo di abbigliamento assai simile ad un corpetto; nella seconda, oltre all’importante collare multifilo, una ampia casacca a scacchi. Nella seconda, poi, la marcata presenza di armi (un’ascia, un arco e ben due pugnali nel loro fodero decorato da frange – anche queste di moda – dichiarano l’identità maschile di questo probabile capo guerriero.

Losanghe e rombi che, curiosamente, non abbandonano questa regione e ritornano nel Medioevo ricoprendo le pareti di stanze, porticati e cortili di alcuni tra i più noti castelli valdostani!

E guardate come, a 13 anni, avevo immaginato la giovane, bella e ribelle contessa Caterina di Challant! Tanto famosa e celebrata quanto per nulla noto il suo aspetto…

E tornando ai personaggi di “C’era una volta GrandePietra2, eccone alcuni disegnati con mia figlia:

Lontani echi egizi e addirittura precolombiani si ritrovano in queste arcane sculture giunte dal passato, gelosamente custodite nel ventre della terra e fortuitamente venute alla luce nell’anno in cui l’uomo metteva per la prima volta piede sulla Luna! 1969, odissea nello spazio e nel tempo!

In quel 1969 Passato e futuro si toccarono all’insegna di un presente ricco di obiettivi, conoscenze, tecnologia e traguardi da raggiungere.

Allo stesso modo, ad Aosta, l’Area Megalitica emerge, dirompente, in un quartiere residenziale ad appena 2 km dal centro storico occupando lo spazio con volumi futuristici e avveniristici. Forme scabre, geometriche e nette; materiali che assorbono e riflettono la luce, quasi a voler catturare quel Sole e quel cielo così importanti, in origine, per disegnare questo sito, contemporaneamente muto ed eloquente.

Allo stesso modo, tra le tendenze dell’ultima #MFW abbiamo visto sfilare motivi geometrici e optical,

Valentino

ma anche pellicce di ogni tipo e colore (rigorosamente eco!)

; gioielli vistosi dal sapore etnico e tribale

accanto a look “spaziali” degni di #StarWars, come quelli ideati da Salvatore Ferragamo per guerrieri e amazzoni del cyber spazio mas all’insegna del #FuturePositive.

Incredibilmente aliene e ancestrali le #Creatures del brand danese Han Kjøbenhavn che ritorna a Milano per la seconda prova nella fashion week dedicata al menswear.

MF fashion

Beh…ogni commento è superfluo!

Le stele antropomorfe. Scoperte: opere d’arte preistorica. Coperte: opere d’arte contemporanea!

Un’eterna Bellezza sospesa tra Preistoria, Contemporaneità e Futuro perché la storia e le grandi civiltà plasmano linguaggi che non passano mai di moda! E’ l’#ARCHAEOLOGICALCODE!

Stella

21 aprile, Buon Compleanno ROMA. Eterna città degli dei.

21 aprile 2021. 2774…ANNI! Certo, oggi è il compleanno di una nobile signora, anzi, di una dea, meglio… di un MITO! Oggi è il dies natalis di Roma, aeterna urbs!

Un’alba? Forse… Ce lo possiamo immaginare quel rosato chiarore mattutino, quel cielo appena dorato all’orizzonte…la brina, un probabile velo di umidità nell’aria e sui colli, anzi, su un colle in particolare: il Palatino! Romolo aggioga la coppia di buoi,  o meglio: un bue ed una vacca, rigorosamente bianchi, con le corna decorate da fiori e nastri. Sì, quello il punto più elevato, da qui la vista spazia e abbraccia la valle e il Tevere luminoso: è questo il punto indicato dagli dei, annunciato dai segni celesti. Qui sorgerà Roma.

Le bestie si mettono lentamente in marcia; Romolo spinge il sacro aratro il cui vomere affonda nella turgida e nera terra: auspicio di futura prosperità ed eterna ricchezza. I sacerdoti osservano in un mistico silenzio: alcuni continuano a scrutare il cielo, alla ricerca (forse) di altri segni, studiando il ciclico e sempiterno movimento antiorario degli astri di cui il perimetro della futura città dovrà essere sacro riflesso. Altri, invece, osservano con attenzione il tracciamento del solco primigenio, il debordare delle zolle che poi regolarmente vengono rivoltate ed il compiersi di gesti antichi dettati dai sacri libri dell’oscura disciplina.

Romolo è attento, concentrato, assorto. Pensa ad un nome…Roma.

21 di aprile 2020. La leggenda ritorna. Il mito riemerge potente dalle nebbie di un passato lontano. E il cielo ritorna protagonista, coi suoi moti sempre uguali ma comunque imperscrutabili.

Da sempre prima i re della Roma regia, poi, molto dopo, gli imperatori, instaurarono un rapporto privilegiato con gli astri e le sfere celesti: per trarne insegnamento, presagio, previsione, auspicio.

Il 21 di aprile è una data unica. Il 21 di aprile Roma celebra i suoi antichi fondatori e, con loro, i suoi gloriosi dei. In questo sacro giorno il Sole riveste un ruolo da protagonista ed è per tale motivo che ci recheremo al Pantheon.

Già, il Pantheon: indiscusso capolavoro della più alta e raffinata ingegneria romana. Un tempio nato da una sfera ed in questa perfettamente inscrivibile. Un tempio dalla copertura a cupola così ampia e sorprendente da voler richiamare la stessa volta celeste. Un tempio, però, dall’orientamento apparentemente inspiegabile in quanto rivolge il suo ingresso a nord. Perché?

Il primo Pantheon fu voluto da Augusto, imperatore che molto bene sapeva leggere ed utilizzare il potere delle stelle e che altrettanto strategicamente sapeva costruire le città con sagaci allineamenti “parlanti”. E proprio a tale proposito pensiamo al non lontano Campo Marzio: un’area abbracciata da un’ansa del Tevere che, fino ad Augusto, non era mai stata davvero valorizzata. Qui il princeps volle realizzare un luogo monumentale denso di simbolismi, di richiami e di messaggi. Qui infatti venne realizzato il Mausoleo per Augusto; qui l’Ara Pacis; qui il Solarium Augusti ( o Horologium Augusti); qui, infine, venne innalzato l’obelisco importato dall’Egitto. Qui doveva essere il regno del Sole, il Sole di Augusto. L’immensa pavimentazione della piazza riportava la scansione del tempo: stagioni, mesi, ore, zodiaco. L’obelisco fungeva da gnomone, ma solo in un preciso giorno proiettava la sua lunga ombra in maniera emblematica: al tramonto del 23 settembre (giorno di nascita di Augusto) l’ombra ricadeva dal Mausoleo fino all’ingresso dell’Ara Pacis (posizionata diversamente rispetto ad oggi). Il messaggio era: Augusto è nato per portare la Pace (personificata come una vera e propria divinità!).

Il Mausoleo è orientato nord-sud con la porta d’ingresso a meridione. Immaginando di tirare una linea retta annullando tutte le costruzioni che nei secoli hanno riempito tale distanza, arriveremmo fino all’ingresso del Pantheon. Si tratta di un’intuizione e del frutto della ricerca condotta dai Proff. Giulio Magli, docente di Archeoastronomia al Politecnico di Milano, e  Robert Hannah, docente di letteratura classica presso l’Università di Otago (Nuova Zelanda).

Un legame tra Augusto, divi filius, e la sacra dimora di tutti gli dei. Quegli stessi dei che favorirono e patrocinarono la nascita di Roma e che annovereranno anche l’imperatore dopo la sua morte.

21 di aprile. Mezzogiorno. Il Sole passa alto sopra la grande cupola e intercetta, in un momento preciso, in un istante di eternità, il vuoto sommitale. I raggi entrano nell’aula sacra, la invadono e poi si spostano fino ad incontrare il portale d’accesso. Le cornici di marmo si accendono e l’intero edificio quasi rifulge per una luce interiore che richiama i passanti invitandoli a fermarsi, ad osservare, ad entrare. E’ il Natale di Roma e tutti gli dei ne festeggiano la nascita.

Mi auguro che oggi sull’Urbe eterna, il Sole non nasconda il suo volto…

Auguri Roma!

Stella

#OltreConfine. Viaggio a Martigny: “la Romaine” del Vallese svizzero.

Oggi #OltreConfine vi porta verso nord, oltre la cortina montana che separa la Valle d’Aosta dal Vallese svizzero. Dalle cime dove la neve sosta per almeno 6 mesi l’anno, planeremo su un fondovalle incorniciato di vigneti dove risplende Martigny, vera capitale culturale di questo grazioso cantone elvetico, non a caso gemellata con Vaison“la Romaine”, ça va sans dire!

La storica ed eroica strada romana delle Gallie, da Aosta saliva affrontando gli impervi tornanti che conducevano al Summus Poeninus (il colle del Gran San Bernardo, o “il Grande” come familiarmente viene indicato in Valle d’Aosta)) da cui si “scollinava” per raggiungere l’attuale Martigny (Forum Claudii Vallensium) per poi proseguire alla volta di Magonza (Mogontiacum) e Treviri (Augusta Treverorum). Fermiamoci dunque a dare un’occhiata archeologica a questa graziosa cittadina del Vallese! Guardate, merita davvero!

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Ricostruzione di Forum Claudii Vallensium (la Martigny romana)

Questa città elvetica può vantare oltre 2000 anni di storia. Stando a quanto ci racconta Giulio Cesare in merito alle sue campagne contro gli Elvezi, doveva essere un oppidum (centro fortificato) dei Veragri, nominato Octodurus. Fu proprio qui che le truppe cesariane subirono una sonora sconfitta nel 57 a.C.! In seguito, sotto l’imperatore Claudio (I sec. d.C.) la città divenne Forum Claudii Vallensium, capitale della provincia delle Alpes Poeninae.

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I Galli Veragri controllano l’avanzata delle truppe di Cesare. Battaglia di Octodurus del 57 a.C. (ricostruzione grafica nel museo locale)

Forum Claudii Vallensium fu quindi creata negli anni tra 41 e 47 d.C. sviluppata su 3 file di 6 insulae ciascuna con l’area forense al centro. Da sempre un importante e strategico snodo commerciale di indubbio valore viabilistico nonché militare. Caratteristiche che condivide con la non lontana Aosta del resto. Città sentinelle dei valichi alpini.

Le tante e ben conservate vestigia di epoca romana valgono il viaggio! Scoprirete siti come il fanum, tempio di origine gallica ritrovato nell’area dove oggi sorge la Fondation Gianadda (i suoi resti corrispondono al quadrilatero in muratura proprio al centro del complesso): assolutamente imperdibile il museo gallo-romano locale! #DaVedere

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Il centro della Fondation Gianadda: il quadrilatero in muratura è quanto ci resta dell’antico tempio gallico

La città è anche conosciuta per il suo Anfiteatro romano, costruito intorno al 100 d.C. e oggetto di importanti interventi di valorizzazione. Ultimati da non molto, questi lavori hanno provvisto l’antico edificio di spettacolo di 3 nuovi ordini di gradinate (reversibili e indipendenti dalla struttura antica) per consentire a più persone di presenziare alle di norma numerose manifestazioni estive. Inoltre sono state collocate statue bronzee raffiguranti gli imperatori romani che, più di altri, hanno fatto la grandezza di Martigny LA ROMAINE: Cesare, Augusto e Claudio.

Vi segnalo inoltre la cosiddetta Domus del Genio domestico, così battezzata in seguito al ritrovamento di una statuetta di Lare (nota divinità protettrice della casa) al suo interno. Datata al II secolo d.C. è una dimora decisamente lussuosa, appartenuta senza troppi dubbi ad un personaggio di spicco della comunità; presenta un bel peristilio (giardino circondato da portici), un triclinium, balnea privati, hortus e frutteto.

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Non lontano dalla Fondation Gianadda si trovano anche i resti di un mitreo risalente al II sec. d.C., l’unico santuario dedicato al dio Mitra aperto al pubblico in tutta la Svizzera. Ne abbiamo anche uno ad Aosta, ma nel sottosuolo dei giardini di Via Festaz… quindi, non visibile! L’esemplare di Martigny doveva essere un edificio decisamente impressionante ed austero: un corridoio conduce alla grotta sacra chiamata spelaeum, cuore del culto mitraico, dominata da una scena di tauroctonia in cui il dio Sole Invincibile (Sol Invictus) uccide il Toro col pugnale.

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Il Tepidarium delle Terme romane di Martigny

E sempre in prossimità della Fondation Gianadda, in Rue du Forum, vi segnalo il sito del Tepidarium delle antiche Terme romane, musealizzato e valorizzato nel 2011. Il testo del passo del De Bello Gallico relativo alla difficile battaglia di Octodurus contro Veragri e Sequani (andata male per Roma) domina il fondale di questo particolare allestimento creato appositamente per dare risalto ai resti della vasca dei bagni tiepidi, assolutamente ben conservata e facilmente leggibile nelle sue caratteristiche tecniche, compreso il sistema di riscaldamento dell’acqua. Infine due copie di teste in bronzo di Cesare e Claudio ricordano i due personaggi che più di altri hanno inciso nella storia della città e del suo territorio.

In particolare sottolineo che la testa dell’imperatore Claudio riproduce quella messa in luce dagli scavi condotti nel teatro di Vaison-la-Romaine, splendida cittadina francese del Vaucluse (Provenza) ricca di testimonianze romane, gemellata con Martigny di cui vi ho raccontato nel post precedente.

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Ercole e Apollo citaredo. Con queste due meravigliose statue il gemellaggio è stato consolidato e suggellato nel 2015. Plasmate in candido e brillante marmo di Paros, queste sculture furono rinvenute nel luglio del 2011 in occasioni di interventi di riqualificazione del quartiere “des Morasses” a Martigny. Ricordo perfettamente la profonda invidia che tale ritrovamento suscitò in tutti noi archeologi valdostani… I “vicini di casa”, infatti, possono vantare un patrimonio di statuaria, sia lapidea che bronzea, che noi purtroppo non abbiamo. “La più importante scoperta di opere d’arte antica dal 1883, ossia da quando vennero ritrovati i grandi bronzi di Martigny!”, esclamò l’amico archeologo vallesano (oggi in pensione) François Wiblé.

Apollo citaredo, realizzato nel I sec. d.C., e Ercole (con la sua inconfondibile leonté) datato al II sec. d.C., dovrebbero provenire da un atelier del Mediterraneo orientale e, probabilmente, decoravano una grande sala del complesso termale privato relativo alla lussuosa domus nel cui contesto furono individuate. Una scoperta mozzafiato!

Sapientemente esposte nel ricco Museo archeologico locale, queste due divinità sprigionano un fascino magnetico.

Per non tacere, poi, della splendida statuetta marmorea di Venere, anch’essa ritrovata a Martigny nel 1939, replica dell’Afrodite di Cnido di Prassitele, figura ammirevole nella perfezione delle sue forme, che, nello splendore della sua nudità, si appresta al bagno. Prestigioso oggetto che ornava una domus del Forum Claudii Vallensium.

Non c’è che dire: l’epoca romana segna un momento decisamente fausto per questo antico centro transalpino. Quando ci andrete, consigliamo di seguire la bella Promenade archéologique, segnata e illustrata da pannelli esplicativi, che vi accompagnerà alla scoperta dei numerosi siti cittadini:

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Con la cristianizzazione, Martigny diventa uno dei primi centri episcopali di Svizzera e la città riesce ancora oggi ad affascinare i visitatori coi quartieri storici de La Batiaz (così chiamato dal castello che lo domina) e del Vieux-Bourg.

Concludo ricordando la presenza, ad una manciata di km da Martigny, la splendida e antichissima Abbazia di Saint Maurice d’Agaune, fondata da San Sigismondo, re dei Burgundi, nel 515 d.C. e di cui, nel 2015, si sono festeggiati i 1500 anni! Sigismondo, miracolosamente toccato dalla grazia divina, decise di venire a chiedere perdono dei suoi peccati sulle tombe dei martiri della mitica legione Tebea, soldati dell’esercito romano convertitisi al Cristianesimo, primo su tutti, San Maurizio che, coi suoi fedeli compagni, venne martirizzato proprio in questo luogo nel III sec. d.C.

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Il complesso dell’Abbazia visto dall’alto

Nel 380 d.C., San Teodulo, primo vescovo di Martigny, rende onore a questi martiri facendo deporre le loro spoglie in un santuario apposito ai piedi della roccia di Agaunum, antico insediamento e luogo sacro dei Celti indigeni.

Qui ingenti e complesse campagne di scavo hanno permesso di riportare in luce questo millennio e mezzo di vita monastica con resti architettonici che vanno dal IV al XVII secolo d.C.! Una rarità! Un vero gioiello assai ben valorizzato la cui visita, almeno per me, ha occupato più di 2 ore! Imperdibile anche il Museo del Tesoro con preziosi oggetti di arte sacra (oltre 100!) che vanno dall’età merovingia ai giorni nostri.

Decisamente notevole il cosiddetto vaso, o bicchiere, di San Martino: un meraviglioso cammeo dalle sfumature cangianti tra azzurro e blu scuro intagliato a regola d’arte con scene a tema funerario, interpretate come la morte di Marco Claudio Marcello, nipote prediletto di Ottaviano Augusto e suo successore designato. A lui Augusto, infatti, concesse di sposare la figlia Giulia nel 25 a.C.

« Heu, miserande puer, si qua fata aspera rumpas,
Tu Marcellus eris. »
« O, giovane degno di pietà, se solo tu potessi rompere il tuo fato crudele, Tu sarai Marcello »
(Virgilio, Eneide)

Un cursus honorum rapido e folgorante; ambizioni, progetti e gloriose previsioni che, ahimé, si infransero in maniera tanto rapida quanto misteriosa nel 23 a.C., in piena ascesa. Un’oscura e sorda antipatia correva tra Marcello e Agrippa, braccio destro di Augusto, nonché con Tiberio. Marcello si spense per un’ignota malattia non ancora ventenne.

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Un oggetto originariamente di epoca romana imperiale successivamente reimpiegato e arricchito da una preziosa incastonatura in oro, granati e pietre dure. La leggenda narra che questo vaso cadde dal cielo nelle mani di San Martino per raccogliere il sangue dei martiri tebani. Secondo la versione storica potrebbe aver fatto parte delle ricche donazioni da parte del burgundo Sigismondo.

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L’interessante sito archeologico annesso all’Abbazia

Da qui passa la Via Francigena e l’Abbazia, da sempre, costituisce una tappa di tutto rilievo dove risanare corpo e spirito.

E prendendo infine la via del ritorno, nel lasciare Martigny, sarà impossibile non notare la grande statua bronzea del “Minotauro” al centro della rotonda di Avenue de la Gare.

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Un’opera contemporanea ma che sintetizza non solo la storia millenaria di questa graziosa cittadina, ma evoca potentemente, quasi a suggellarne il ricordo, la grande testa del “Toro tricorne”, il pezzo più celebre e suggestivo dei Grands Bronzes di Martigny trovati, come si accennava, nel 1883 nell’area della basilica forense.

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Il Toro tricorne, creatura del mito in cui un animale carico di significato sin dalla notte dei tempi, simbolo di forze e virilità, si carica di un’ulteriore valenza legata al mondo sacro e culturale gallo-romano. Eh sì, i 3 corni rappresentano la triade sacra dei Galli: Lugh (il dio degli dei), Dagda (dio druidico del cielo) e Ogma (dio della Guerra). Il 3 è IL numero per antonomasia: 3 le spirali unite del triskelès (simbolo di vita e rigenerazione continua), 3 i volti della Dea (figlia, madre e sposa). 3: creazione, crescita, perfezione.

Altro esemplare straordinario è “le taureau tricorne d’Avrigney” (I sec. d.C.) trovato nel 1756 nell’omonima località francese della Borgogna.

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Il culto del toro tricorne presso i Galli, anche contestualmente alla romanizzazione, è sempre stato profondamente radicato ed è attestato in modo diffuso soprattutto tra Svizzera e Francia. Quello di Martigny è forse l’esemplare più monumentale, grandioso e celebre. Troneggiava nella basilica del foro, là dove, pare, sorgeva anche un luogo di culto dedicato alle divinità autoctone, sapientemente inglobate e incluse nel pantheon ufficiale come spesso accade.

Che fosse proprio questo toro il protettore dell’antica Octodurus…difficile a dirsi, ma … dicono i Vallesani, senza dubbio era un fantastico esemplare della razza d’Hérens, la forte e combattiva razza bovina tipica della zona!

E anche su questo aspetto i Valdostani, con le vacche castane locali, le “Regine“, non sono certo da meno! Regine, quasi dee, di una sorta di radicata e sentita, comunque pacifica e spontanea, caratteristica dell’indole di questi animali, “tauroctonia” istintiva che spinge queste razze a combattere per definire il capo branco, la Reina dell’alpeggio.

Una sorta di “culto” per questi animali, emblemi di forza ma anche di fertilità e nutrimento, che accomunano un’altra triade: Valle d’Aosta, Alpi francesi e Alpi svizzere!

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Stella

#OltreConfine a Vaison. Inaspettate “vacanze romane” al profumo di lavanda.

Queste magnifiche giornate, più miti e più lunghe, la luce diversa, gli alberi in fiore, i prati sempre più verdi mi hanno fatto tornare alla mente una terra che io adoro: la Provenza!

#OltreConfine ci porta in Vaucluse nella splendida civitas di Vaison-la-Romaine che, come in un perfetto quadro impressionista, incastonata in un paesaggio pennellato nei toni del giallo ocra, del lavanda, del verde e dell’azzurro, si apre tra le colline e la pianura attraversata dal torrente Ouvèze.

Vigneti, uliveti, campi di lavanda e girasoli… colpi di luce talvolta accecanti in questa terra meravigliosa dove spesso si vorrebbe non solo trascorrere una vacanza, ma un’intera vita.

Le case rosate di Vaison emergono nella piana dominata dal Gigante di Provenza, quel Mont Ventoux cantato dal Petrarca (dopo aver ripreso fiato perché, a quanto dice, la salita lo sfiancò!): verso nord scruta le vette alpine; verso sud, strizza l’occhio alle onde mediterranee: tra monti e coste, dalle nevi alle onde seguendo antichi tracciati preistorici, protostorici, romani e medievali che hanno disegnato un sorprendente e vasto territorio liaison tra Italia e Francia.

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Siamo nel dipartimento del Vaucluse, dicevamo, nella terra che in antico corrispondeva alla provincia romana della Gallia Narbonense. Vaison-la-Romaine, ossia Vasio Vocontiorum, civitas foederata di Roma, ci restituisce oggi l’area archeologica aperta al pubblico più vasta e meglio conservata di Francia: ben 15 ettari a cielo aperto armonicamente inseriti in un contesto urbano e paesaggistico dalla bellezza quasi commovente. Tutta la poesia della dolce Provenza con oltre 2000 anni di storia alle spalle!

Vasio (derivante probabilmente da una radice celtica col significato di “sorgente”): forse un oppidum della tribù celtica dei Galli Vocontii, in merito ai quali l’enciclopedista “tuttologo” Plinio il Vecchio cita un particolare vino dolce e leggermente effervescente davvero squisito! Ci racconta che i Vocontii conservavano il segreto di conferire a questo vino la giusta effervescenza, pare, lasciandolo per lungo tempo nell’acqua fredda dei torrenti…Che sia l’antenato dello champagne?!

I Vocontii fanno la loro comparsa nel IV secolo a.C. calando da nord; la regione a loro piace molto (non mi sorprende!) e decidono di stabilirvisi creando due “capitali”: Vasio, appunto, e Lug (attuale Luc-en-Diois). Roma conquista queste terre tra il 125 ed il 118 a.C. e, in breve tempo, le due cittadine diventano i centri più floridi dell’intera Narbonense, come del resto ci racconta lo storico Pompeo Trogo.

L’Ouvèze, in passato navigabile, divide la città in due parti: la città alta, nata nel Medioevo intorno al severo maniero dei conti di Toulouse, vero gioiello rimasto apparentemente fermo al XIII-XIV secolo! E la città bassa, sorta e sviluppatasi sui resti del centro romano che, tuttavia, dopo le campagne di scavo di inizio Novecento, per ben 15 ettari fanno bella mostra di sé tra le case, accanto alle chiese, nei giardini…

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Il centro moderno è a dir poco delizioso. Domina una calda e rassicurante luce rosa-dorata che accende i colori degli innumerevoli vasi e balconi ridondanti di fiori. Piccoli vicoli ombreggiati conducono a piazzette “gioiello” spesso con fontana, sempre rivestite di fiori. Negozi carinissimi e ristorantini accattivanti occhieggiano tra piante di pomodori, aglio e cipolle; i profumi del timo, dell’origano e dell’immancabile lavanda vi accompagneranno ovunque!

Ma iniziamo a dedicarci all’aspetto più strettamente culturale.

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La mia visita era partita con l’area della Villasse, corrispondente ad un ricco quartiere residenziale (con magnifiche domus) e commerciale (con botteghe e porticati). Le tabernae si aprono su un tratto del Kardo Maximus diretto alle vicine terme. Degne di interesse due dimore patrizie: la Domus del Busto d’Argento e la Domus del Delfino. La prima, costruita all’inizio del I sec. d.C., raggiungeva una superficie totale di ben 5000 mq ed è la più vasta ed imponente dimora romana di tutta Vaison al momento messa in luce. La seconda, così chiamata in seguito al ritrovamento di un piccolo delfino in marmo, venne abbellita ed ingrandita nel corso del II secolo d.C.; sul retro, lato sud, uno splendido giardino con piscina. Residenze di lusso, senza dubbio!

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Altro sito imperdibile è quello chiamato del Puymin. In posizione leggermente sopraelevata, ospita altre dimore di pregio, un santuario e, udite udite, un fantastico edificio teatrale!

2000 i mq di superficie (solo parziale!!) ad oggi noti per la Domus dell’Apollo laureato, con un tablinum incredibile dal pavimento a marmi policromi affacciato sul peristilio. Per non parlare dell’immensa Domus della Pergola che raggiunge i 3000 mq (e anche questa non è stata scavata del tutto!). Il nome le deriva dal pergolato che caratterizza un amplissimo triclinium estivo affacciato sulla corte centrale. Una zona sud prettamente residenzial-suntuaria (dotata anche di balnea privati) ed una a nord dalle funzioni rustiche e di servizio (un pò come nella Villa della Consolata di Aosta).

E ancora, la visita prosegue con un vasto ed arioso santuario costituito da un periptero porticato aperto su un giardino con vasca centrale. Da qui si può accedere ad un quartiere artigianale.

Ma il “pezzo forte” del Puymin è lui, il teatro! Tutelato come “monumento storico” sin dal 1862, si tratta di un superbo esemplare di epoca claudia realizzato scavando il versante settentrionale della collina del Puymin, cosa che ha assicurato al teatro un’ubicazione al riparo dai venti e, allo stesso tempo, fresca ed ombreggiata. Ulteriormente oggetto di abbellimenti nel II e nel III d.C., si pensa venne distrutto dopo l’emanazione dell’editto di Onorio nel 407 d.C. quando tutte le statue di dei e imperatori che ne ornavano la scaenae frons furono abbattute e/o volutamente sepolte. Durante il Rinascimento del teatro si conoscevano soltanto due arcate, uniche testimoni della grandezza passata. Oggi la cavea con le sue 32 gradinate è stata radicalmente ricostruita, ma il teatro è vivo e vissuto, splendida sede di eventi, spettacoli e manifestazioni.

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La cavea del teatro romano (da http://www.monumentum.fr)

Terra di Provenza. Una terra dove “romano” (in francese “romain”), va a braccetto con “romanico” (in francese “roman”). Due termini che nel gallico idioma sono separati e distinti solo da una semplice “i”. Due aggettivi che rievocano due epoche imprescindibili, due culture sfavillanti che forse qui più che altrove hanno saputo avvicinarsi e fondersi. Non di rado infatti accade che una cattedrale romanica altro non sia che il magnifico risultato, architettonico ma anche fortemente ideologico e simbolico, di sapienti e mirati reimpieghi dell’età di Roma.

E anche a Vaison vi consiglio di visitare la suggestiva cattedrale di Notre Dame de Nazareth col suo poetico chiostro; un luogo dello spirito dove fermarsi a guardare fuori ma soprattutto dentro di sé. Un luogo di silenzio e di pace dove la luce potente del Sud si infrange tra le arcate e le colonnine rimbalzando sulle bifore e saltellando sulle mostruose creature che ornano stipiti e portali.

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La facciata della Cattedrale di Notre Dame de Nazareth a Vaison (da http://www.vaucluse-visites-virtuelles.com)

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Il chiostro di Notre Dame de Nazareth (S. Bertarione)

E ancora il Museo Archeologico “Theo Desplans”. Non grande ma assai curato, luminoso, coinvolgente e con reperti di notevole interesse che ben raccontano i fasti passati di una cittadina dall’economia fiorente e vivace, per quanto vi sia esposto meno della metà di quel che ci si aspetterebbe… Ci viene detto, infatti, che nei secoli le collezioni sono andate disperse e che reperti provenienti dagli scavi di Vaison sono finiti in tutti i musei di Francia e anche oltre oceano! A tale proposito un’associazione locale ha creato un sito che consente di sapere dove questi si trovano e dove andarli a ricercare.

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Sala della statuaria

Vaison, Vasio Julia Vocontiorum. Una perla di Provenza che ben fa il paio con la forse più conosciuta Orange. Una terra dai forti contrasti dove il mare si perde nei monti e l’azzurro si confonde col verde, dove la dolcezza dei campi fioriti quasi improvvisamente lascia spazio alla rude severità delle rocce calcaree e dei manieri arroccati. Contrasti che, forse, stando a recenti studi storici, si possono persino ritrovare nella prosa del grande storico Tacito di cui si vociferano origini galliche. In effetti, a ben pensarci, la sua lucida analisi di un impero che pur nella sua struttura centralizzata doveva saper fare i conti con l’elemento “barbaro” forse è frutto di un gallo romanizzato piuttosto che di un autoctono romano purosangue… chi lo sa…

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Vi lascio quindi con questa poesia di Provenza e con questi colori negli occhi; ma soprattutto con la voglia di trascorrere delle “vacanze romane” molto particolari nella terra che venne a buon titolo definita sempre dal nostro amico Plinio Italia verius quam provincia”.

Stella

#OltreConfine. Una gita all’ “Alba” della storia tra torri, portici e prelibatezze!

Eccoci al terzo appuntamento di #OltreConfine. “Petites pastilles d’escapades” come direbbero i Francesi. “Pillole di viaggio” per oltrepassare i confini, per ora solo col pensiero e con un desiderio di viaggiare che aumenta ogni giorno di più!

Oggi si va nel vicino Piemonte: ad Alba, la regina delle Langhe!

Eh sì, lo so… viene subito quella certa acquolina in bocca, vero? Perché non appena nomini “Alba” sono innanzitutto queste le cose che vengono in mente… tartufo, battuta di fassona, un trionfo di carni squisite, di formaggi profumati, di vini eccezionali…per non parlare del risotto al Barolo (ne vado matta!), delle gentili nocciole locali e… insomma un vero “Bengodi”!

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Ma a queste immancabili leccornie non possiamo non abbinare l’interesse per la storia e l’arte di questa cittadina gioiello, rossa di cotto, calda ed accogliente. Dopo alcuni giri lungo le strade del Barolo e del Barbaresco punteggiate da manieri e sontuose dimore barocche, decidiamo di trascorrere una giornata ad Alba.

A 50 km a nord-est di Cuneo, Alba sorge sulla riva destra del Tanaro, in prossimità della sua confluenza col torrente Cherasca, in un’ariosa e verdeggiante conca pianeggiante bordata da dolci colline coltivate a vigneto. Un sito abitato sin da epoca preistorica; le prime tracce di insediamento, infatti, risalgono al Mesolitico (10.000-6.000 anni a.C.): piccoli gruppi dediti alla caccia e alla pesca. Effettivamente questa particolare posizione la rendeva quanto mai appetibile…

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Addentriamo nelle vie del centro storico dove un’infilata di bei palazzi medievali e barocchi ci accompagnano lungo tutto il percorso. Portici (quanto adoro i portici!), facciate in cotto ricche di decorazioni, chiese dai prospetti curvilinei, torri (non a caso Alba è anche chiamata “città dalle Cento Torri“!), campanili e immancabili (nonché imperdibili!) vetrine debordanti di mille golosità!

Alba ha 8.000 anni di storia e il territorio che la circonda è ricco di sorprese. Vieni a scoprirle!”

Merita senz’altro una visita il museo civico di archeologia e storia naturale “Federico Eusebio”, situato nella luminosa corte del complesso dell’antico convento della Maddalena.

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Le sue sale ospitano il retaggio della millenaria storia cittadina, fin dai suoi esordi risalenti al VI millennio a.C. (il villaggio preistorico è stata una stazione fondamentale del Neolitico del Nord Italia) per giungere ai suoi periodi di maggiore splendore, come quando sotto la dominazione romana assunse il nome di Alba Pompeia, o come quando, negli ultimi secoli del Medioevo fu Libero Comune.

Langhe all’Alba della storia

E’ qui, nel territorio dove sorgerà Alba, che si ha testimonianza della più antica colonizzazione del Piemonte meridionale datata agli inizi del Neolitico (6.000-5250 a.C.) con stretti e frequenti contatti coi vicini Liguri. Vivace l’attività agricola con coltivazioni di farro, orzo e frumento contestualmente al recupero di macine e macinelli.

Con l’epoca protostorica, Età del Bronzo antico (2.200-1.700 a.C.), notiamo significative analogie con Aosta. Anche qui è stato individuato un santuario in cui con tutta probabilità venivano venerate le spoglie mortali degli antenati o comunque di personaggi di rango elevato assai in vista nella società del tempo. Ci colpisce in particolare una sepoltura particolare detta “del Guerriero”, databile tra Bronzo medio e recente, quindi tra 1700 e 1300 a.C.; sicuramente una presa di possesso del territorio che anche nelle sepolture privilegiate dichiarava l’importanza e la forze dei clan, dell’élite guerriera locale.

Dalle “case degli antenati” del Neolitico e dell’Età del Rame, fino alle armi dell’Età del Bronzo (pugnali, spade), arriviamo all’Età del Ferro: siamo nella propaggine nord-orientale del territorio del popolo dei Bagienni (anticipo che Augusta Bagiennorum sarà tra le prossime mete #OltreConfine!)

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Fu il console Gneo Pompeo Strabone, padre del più noto Pompeo Magno, a fondare Alba Pompeia. Siamo dunque in piena età repubblicana, ma purtroppo le fasi della città relative a questo suo periodo delle origini non sono note. E’ invece la fase augustea quella che ha restituito il maggior numero di resti; è con Ottaviano Augusto, infatti, che questo centro viene monumentalizzato e dotato di un perfetto impianto urbanistico ed architettonico.

Ma perché “Alba”? Non perché c’entri il colore bianco, ma perché questo termine di origine ligure indica l’insediamento principale di un certo territorio; pensiamo, infatti ad ALB-enga, l’antica ALB-ingaunum, o a Ventimiglia il cui nome antico era, non a caso, ALB-intimilium

Una posizione privilegiata che in breve tempo rese Alba un centro strategico per gli scambi commerciali, un ponte importante tra il Mar Ligure e le Alpi, tra il Mediterraneo e la piana del Po.

A questo si aggiunga l’efficiente e capillare rete stradale romana in cui le vie principali si affiancavano ad un incredibile reticolo di strade secondarie, assai spesso ricalcate su precedenti piste conosciute ed utilizzate sin dalla Preistoria.

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La città romana presenta una forma irregolarmente ottagonale; quasi al centro di uno spazio urbano suddiviso in 52 insulae sorgeva il foro nelle cui vicinanze si trovavano le terme ed il teatro.

Che fosse una città ricca ed opulenta è facile intuirlo: il museo dipana un’abbagliante sequenza di lacerti di pavimenti marmorei multicolori, di affreschi parietali straordinari, di frammenti di statuaria monumentale e non solo… per non parlare dei corredi funerari, del vasellame ceramico e vitreo, dei monili, dei gioielli, dei cippi funerari elegantemente decorati e le tante, tantissime, iscrizioni i cui nomi e i cui titoli aiutano a ritrovare gli albesi del tempo.

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Due sono le cose che più di tutte tenevo a vedere e che, come mi aspettavo, sono rimaste impresse nella mia mente. Innanzitutto l’incredibile affresco col Capricorno e i delfini proveniente dalla ricchissima domus di via Acqui. Sebbene la didascalia presente al museo parli di “animali marini fantastici”, io mi permetterei di azzardare che si tratta, senza troppi dubbi, di un Capricorno, mitico animale dalla doppia identità marina (coda di pesce) e terrestre (protome cornuta), se non addirittura dalla tripla identità in quanto trattasi di costellazione, quindi anche celeste!

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Sarà che negli ultimi anni di Capricorni ne ho studiati davvero tanti… ma mi sentirei di averne trovato un altro e decisamente notevole! Capricorno, simbolo dell’imperatore Augusto, accompagnato da delfini, non a caso mammifero marino scelto dal fidato Agrippa.

Altro elemento di forte attrattiva per me era la nota testa colossale raffigurante una divinità femminile diademata. Questa testa venne ritrovata nel 1839 nei pressi del Duomo (zona forense quindi). Purtroppo ad Alba si trova una copia poiché l’originale è esposto al Museo di Antichità di Torino…peccato… ma presto anche Augusta Taurinorum sarà protagonista di #OltreConfine! Tuttavia, al di là di complesse vicissitudini storiche, ritengo sia assolutamente importante che i pezzi, soprattutto se così rilevanti e in qualche modo “rari”, tornino nel luogo dove furono scoperti!

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Si tratta di una statua di culto realizzata con la tecnica detta dell’acrolito, ossia con diversi materiali; la testa, in lucente e prezioso marmo greco, andava inserita in un corpo realizzato in altro materiale, magari con altro colore per accentuare il contrasto tra le carni e le vesti. Si data tra la fine del II sec. a.C. e l’inizio del secolo seguente.

Quello sguardo rivolto verso l’alto, il possente collo leggermente ritorto, le corpose ciocche di capelli a fatica trattenute dal diadema, ma soprattutto quella bocca piccola ma carnosa leggermente socchiusa quasi stesse sussurrando antiche litanie, portano direttamente ai canoni stilistici di età ellenistica. Un sogno…

Quando si potrà, dedicate un week-end ad Alba, vi stupirà! E non solo per la sua straordinaria enogastronomia o per la sua accogliente atmosfera, ma anche per le ricche testimonianze del suo lungo e variegato passato, così come per il suo sottosuolo! Ebbene sì, non potete perdervi la visita di Alba sotterranea insieme agli archeologi!

Alba, capitale delle Langhe, un vero scrigno di arte e di storia da vivere… con gusto e “sottosopra”!

Stella

Storie incantate di Natale. Le Fate del Monte Bianco

Le Fate. Creature del sogno e della fantasia, nate dall’immaginazione dell’uomo che solo in questo modo poteva dare forma a qualcosa di immateriale o di inspiegabile. La Valle d’Aosta, terra di alte montagne, di nevi perenni e poderosi ghiacciai, dove Madre Natura si fa severa, implacabile ed esigente, è ricca di storie che narrano di strane creature ed esseri fantastici, benevoli o malevoli, sicuramente volubili.

Creature oniriche, impalpabili, che vivono nelle rocce, dentro le grotte, nei laghi, nelle sorgenti, nei boschi o in luoghi isolati dove le attività umane sono difficili se non impossibili. Luoghi dove le fate si nascondono sottraendosi alla vista, chiuse in un silenzio incantato che, però, se lo si sa ascoltare, a volte può lasciar sentire la melodiosa voce delle fate. Una voce simile ad un canto le cui note solo il vento sa suonare.

Il territorio del Monte Bianco vede la presenza di almeno due fate protagoniste di racconti locali, entrambe individuate in Val Veny: quella nascosta nei ghiacci della Brenva, in un luogo a monte di Plan Ponquet; ed una, forse più famosa, e forse non da sola, che ha stabilito la sua dimora nel lago del Miage.

La Fata del Lago del Miage-Courmayeur (Foto: Giuliana Cuneaz)
La Fata del Lago del Miage-Courmayeur (Foto: Giuliana Cuneaz)

Le leggende narrano che vi fu un tempo in cui, dove ora si stendono le propaggini ghiacciate della Brenva e si apre il lago del Miage, vi fosse una conca verdeggiante ricca di fiori ed erbe profumate dove le splendide fate della grande montagna amavano riunirsi e danzare.

Un giorno, però, la loro voce incantevole e la loro straordinaria bellezza attirarono l’attenzione dei demoni annidati tra le rocce aguzze di quello che veniva chiamato, non a caso, il Mont Maudit (ossia il Monte Maledetto, primo nome della “spaventosa” montagna che diventerà Monte Bianco).

I demoni iniziarono ad insidiare le fate con profferte d’amore sempre più insistenti e sgradevoli.

Le fate fuggirono inorridite e trovarono rifugio nel ventre della montagna, protette da un cerchio di magia invalicabile.

I demoni, accecati dall’ira, scossero le alte vette facendo franare massi enormi e facendo raggelare la dolce vallata in un inverno senza fine. Solo il lago del Miage resistette all’avanzata del ghiaccio e, alcuni dicono, che laggiù, sul fondo da qualche parte, le fate vivano ancora.

“Oh sorgete, soffiate impetuosi,

venti d’autunno, su la negra vetta;

nembi, o nembi, affollatevi, crollate

l’annose querce; tu torrente, muggi

per la montagna, e tu passeggia, o Luna,

per torbid’aere, e fuor tra nube e nube

mostra pallido raggio…”

 

I versi del leggendario bardo Ossian, anche noto come l’ “Omero del Nord”, dipingono perfettamente lo scenario naturale dell’alta Val Veny di Courmayeur che viene quasi ritratta dal canto ossianico: la “negra vetta” sembra infatti richiamare l’aguzzo profilo della scura Aiguille Noire e, al di là del riferimento all’autunno, spesso le serate estive ai piedi del Monte Bianco riservano temporali, vento e rincorrersi di nubi. Per non parlare dell’inverno: lungo, gelido, cristallino, che riveste la valle di una spessa e candida coltre ghiacciata, accompagnandola per mesi in un sonno ovattato ed impenetrabile. Quelle vette imponenti ed appuntite, scintillanti al sole e alla neve, sembrano davvero il regno della misteriosa regina dei ghiacci, ma anche la dimora di fate inafferrabili ed invisibili.

Pareti rocciose incombenti e tormentate, lavorate da antichi movimenti glaciali, sagomate dal vento che vi si annida e vi si rotola, accarezzate dalle piogge e levigate dalle gelate invernali. Ma c’è dell’altro.

Qui domina il silenzio, ma è un silenzio strano, che ti assale, ti avvolge, ti fa quasi il solletico, ti fa venire i brividi. Qui, tra le pieghe ghiacciate della grande Brenva, così come nelle mute acque argentate del Lago del Miage, dimorano le fate di queste montagne, signore di un regno inaccessibile e misterioso che va contemplato fermandovisi ai margini.

In pochi le sanno vedere; in pochi sanno riconoscerne la voce e l’eterea presenza. Una di queste persone è l’artista valdostana Giuliana Cunéaz, una donna la cui mente e le cui mani infaticabili sanno cogliere le sfumature dell’invisibile per dare loro nuova forma, nuova vita. Giuliana ha saputo recuperare queste antiche leggende, queste credenze popolari, riportandole nei loro luoghi: 24 in tutta la Valle d’Aosta.

Nel progetto chiamato, appunto, “Il silenzio delle Fate” (1990), ha voluto evocare queste diafane presenze attraverso un particolare percorso circolare toccando località in cui si narra che una fata sia apparsa. In ognuno di questi luoghi Giuliana Cunéaz aveva installato un leggio in ferro su cui poggiava uno spartito in marmo bianco. Su ogni spartito era riportato uno stralcio di un brano musicale composto appositamente dal musicista torinese Armando Prioglio. A causa dell’uomo e della natura, oggi molti leggi non sono più al loro posto. Riunendo i 24 brani si otteneva un’unica melodia che, mescolandosi al vento, al fruscio dell’acqua e amplificata dalla grandiosità degli scenari naturali, evocava un antico canto, melodioso e silenzioso allo stesso tempo; evoca “il silenzio delle fate”.

Castello Sarriod de La Tour. Le sirene gemelle, il magico forziere e un Grillo troppo curioso

La vita nella valle scorreva lenta e tranquilla. Il fluire delle stagioni e l’avvicendarsi delle costellazioni segnavano le consuete occupazioni contadine. Gli abitanti del piccolo borgo aggrappato alla roccia e circondato di viti erano felici di questa rassicurante quotidianità e i frutti della terra erano per loro la più grande soddisfazione.

Ma non era così proprio per tutti. C’era un giovane che non riusciva a digerire quella monotonia. No, lui avrebbe voluto di più! In realtà nemmeno lui sapeva esattamente a cosa aspirasse, ma stava di fatto che quelle quattro case, quelle quattro mucche e quelle solite facce gli stavano stretti.

E poi non andava d’accordo con nessuno! Rimasto orfano ancora in fasce, era stato cresciuto da un’anziana del paese che tutti additavano come strega (in fondo era solo una brava erborista molto più intelligente di tante “brave donne” angeli del focolare, ma si sa… la lingua della gente spesso non conosce freno né misura!). E proprio come lei, anche per lui le dicerie e i pettegolezzi erano all’ordine del giorno! Non solo per quel suo carattere strano, per le sue bizze, per quell’insana tendenza a ficcarsi sempre nei guai e a spiare nelle case degli altri, ma anche per quel suo non felicissimo aspetto fisico che gli era valso il soprannome di “grillo“.

Eh sì, purtroppo quelle gambe e quelle braccia eccessivamente lunghe e magre montate su un busto tozzo e squadrato, sormontato a sua volta da un testone veramente troppo grande con quella buffa bocca larga… beh… pareva proprio un grillo! In più, se si considera che di voglia di faticare non ne aveva (nonostante, quando decideva di impegnarsi, fosse un ottimo falegname!) e che trascorreva gran parte delle sue giornate a bighellonare in giro nei campi strimpellando la sua vecchia ghironda e cantando, beh.. un “grillo” fatto e finito!

E anche con le ragazze non andava bene…figuriamoci! Bruttino, tendenzialmente arrogante, un po’ “grezzo” e senza un lavoro…tutte gli stavano alla larga!

Fu così che una notte si alzò di scatto dal letto, prese due cose indispensabili, la sua ghironda e se ne andò di casa. Basta, quel villaggio noioso che non lo capiva non era il suo posto!

Ad un certo punto, nel cuore di una notte che più scura non si può, smarrito il sentiero, si accorse di essere giunto sulle scoscese rive di un fiume impetuoso; le sue acque gonfie e turbolente rumoreggiavano e biancheggiavano sbattendo contro le rocce. Grillo era stanco, aveva fame e, non neghiamolo, aveva anche paura. Si sedette sul bordo del fiume e per tranquillizzarsi si mise a suonare canticchiando sommessamente.

Dopo pochi istanti gli parve di udire delle voci, una sorta di controcanto… voci femminili, soavi, leggere. Smise di suonare e ascoltò con attenzione. Nulla. Riprese a suonare fissando l’acqua.

Ecco, ancora quelle voci! Fissò l’acqua e dalla spuma argentea gli parve di vedere levarsi dei bagliori cangianti: subito sembravano due trote iridescenti, poi, no, due creature con testa di donna ma coda di pesce, no..ecco: erano due luminose ragazze. Pensò ad allucinazioni. E invece, no! Davanti ai suoi occhi presero forma due splendide fanciulle che cantavano in un modo difficile da descrivere. Voci angeliche. Una coppia di giovani donne dai lunghissimi capelli talmente chiari da sembrare fili di luce lunare, con una pelle quasi trasparente, magnifiche vesti intessute col brillìo delle onde e degli enormi occhi azzurri dalle mille sfumature; occhi maliardi, che potevano ipnotizzare per sempre un uomo.

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Spiriti? Sirene? Fate? ” Buonasera giovane amico, benvenuto sulle nostre acque, sei un gradito ospite. La tua musica ci ha risvegliato e la tua voce ci ha stupite. Siamo le fate del fiume, le fate gemelle, e siamo felici della tua compagnia”.

Grillo era rimasto immobile, non riusciva neppure a sbattere le palpebre, le due gemelle erano perfettamente identiche e parlavano all’unisono, come se fosse una voce unica. Una voce suadente e ammaliante, capace di stordirti.

Le due fate uscirono dal fiume e si sedettero accanto a Grillo instillando in lui la sensazione del sentimento d’amore, della passione che diventa presto vera e propria dipendenza. Grillo prese ad andare ogni notte in quel luogo, una sorta di rada ai piedi di una balza di roccia strapiombante, raggiungibile dopo aver superato campi in pendenza e un’enorme ghiaione. Grillo era convinto di amare smodatamente le due sorelle che, almeno lui lo credeva, sembravano ricambiarlo entrambe in ugual misura. Finalmente si sentiva apprezzato, lusingato, considerato!

Dopo alcune notti, però, le fate iniziarono a chiedere a Grillo prove del suo amore, pena l’abbandono e la maledizione di una vita raminga e senza affetto. Grillo senza esitazione si disse pronto a superare per loro qualsiasi prova.

“Molto bene. Allora per prima cosa portaci la trota più grossa e colorata che esiste in questo fiume. Ma attento, non è una trota qualsiasi: è una trota magica e colui che riuscirà a pescarla diventerà l’uomo più ricco al mondo!”.

Grillo si mise in marcia e perlustrò il fiume dalla sorgente alla foce, perlustrò ogni suo affluente e, alla fine, riuscì a stanare il grosso pesce nascosto sotto alcuni ripari di roccia, in un luogo di piscine naturali color verde smeraldo. Catturata la trota, tutto baldanzoso la portò alle fate aspettandosi grandi ricompense.

Ma le due, non soddisfatte, capricciose com’erano, chiesero a Grillo altre prove. Inizialmente vollero che portasse loro il più grande noce esistente nella valle, un noce capace di dare frutti tutto l’anno e dalla cui corteccia stillava un olio profumato, introvabile altrimenti.

Grillo girò in lungo e in largo, ma alla fine riuscì a trovarlo, cresciuto non si sa bene come quasi sull’orlo di un precipizio. Ci vollero ben 3 giorni per tagliarlo e trasportarlo fino a valle.

Ma le fate sirene non erano ancora soddisfatte e diventavano sempre più volubili.

Gli chiesero di catturare il grande stambecco bianco tricorno che viveva sulle vette dei monti. Grillo, comunque assai tenace e totalmente plagiato dalle fate, ci riuscì anche stavolta seppur dopo oltre un mese di ricerche e appostamenti.

Le due fate, che in fondo, ormai stufe, speravano solo di liberarsi di lui, gli chiesero quindi di costruire, in una sola notte, una torre possente ed altissima sull’orlo della ripida balza rocciosa che strapiombava sul fiume, proprio lì dove loro vivevano, perché volevano finalmente dimorare in un castello. Se non ci fosse riuscito, per lui sarebbe stata la fine!

Questa volta Grillo era disperato; il luogo era pressoché inaccessibile e lui non era per niente un bravo muratore: non ce l’avrebbe mai fatta!

Si sedette sulla riva del fiume e scoppiò a piangere disperato chiedendo al cielo che gli inviasse un aiuto, un segno…

Ad un certo punto notò un vortice al centro del fiume che diventava sempre più ampio e turbinoso; si sollevarono onde altissime ed una violenta raffica di vento scosse gli alberi. Grillo dovette tenersi ad una roccia per non cadere in acqua…

Ecco che dalle profondità del fiume si alzò un gigante: simile al dio Nettuno, si erse dall’acqua un uomo alto quasi tre metri, con la barba blu scura e i lunghi capelli bagnati simili a piante palustri. Indossava un corta tunica color dell’acqua e si appoggiava ad un bastone di legno tutto intagliato ancora più alto di lui.

“Grillo, anche tu, con la tua ingenuità e la voglia di arricchirti in fretta, sei caduto vittima di quelle due terribili fate sirene! Sono furbe e malvagie, e ti hanno fatto credere di amarti e di agire per il tuo bene, ma non è così! Sono qui per aiutarti. Ma dovrai obbedirmi ed eseguire i miei ordini, altrimenti sarà peggio per te!”.

Grillo, attonito ed incredulo, si mise subito al servizio di questo omone immenso che, in quella stessa notte, lo aiutò a costruire una torre solida e bellissima esattamente nel punto indicato dalle fate. Quando le due se ne accorsero, irritate, tentarono di penetrare nella torre per distruggerla, ma il gigante intervenne prontamente: le catturò in una rete incantata e le rinchiuse in un forziere magico.

Quindi il gigante aiutò Grillo a riportare al loro posto la trota magica, il grande noce e lo stambecco bianco dai tre corni. Grillo era sereno, finalmente si sentiva appagato dalle sue buone azioni. Il gigante era buono con lui e gli chiedeva di aiutarlo ad ingrandire sempre più la torre per farla diventare un castello vero e proprio. In più gli ordinò di iniziare a scolpire delle figure di legno molto particolari di cui lui gli dava i disegni: dovevano essere fatte esattamente in quel modo e, una volta realizzate, doveva lasciargliele fuori dalla porta della sua stanza privata.

Inizialmente Grillo obbedì senza alcun problema. Poi, però, la sua indole ribelle e curiosa, allergica alla monotonia, ricominciò a fare capolino in lui. Grillo si chiedeva come mai il gigante non voleva farlo entrare in quella stanza… chissà cosa nascondeva, chissà quali ricchezze vi conservava… e comunque non era giusto perché era lui l’abile intagliatore, era lui a scolpire quelle figure alla perfezione e non poteva nemmeno entrare ma restare come un cane fuori dalla porta!

Il gigante si accorse che Grillo stava cambiando. Aveva capito e decise di metterlo alla prova. Gli disse che da quella sera avrebbe potuto entrare nella sua stanza in sua assenza e lasciare le statuine sul tavolo.

Grillo era soddisfatto e lusingato di questa tanto attesa novità. Entrò e si ritrovò in una grande stanza… vuota! Sì, completamente vuota! Al centro un enorme tavolo e sopra di esso un forziere: un forziere gigante come il suo proprietario, magnifico, interamente rivestito di bizzarre figure ad altorilievo. Un vero capolavoro!

Per alcune sere Grillo si attenne ai patti: lasciava le sculture sul tavolo e se ne andava. Ma non c’era niente da fare; la sua natura curiosa e impicciona emerse ancora.

“Chissà cosa nasconde in quel forziere! Chissà quali splendidi tesori che vuole tenere solo per sé! Ed io che sono un bravo e zelante artigiano non vengo neppure pagato! Non è giusto! Devo aprire quel forziere!”.

Grillo provò a cercare la serratura, ma non ve ne era traccia! Possibile? Prese allora un grosso piede di porco e iniziò a forzare in corrispondenza del coperchio. Niente! Gettò il forziere a terra e tentò di romperlo con violenza. Ad un certo punto gli parve di udire delle voci provenire dall’interno della cassa. Voci a lui note… ma certo! Erano le fate del fiume!

“Grillo, Grillo, amato Grillo, per favore aiutaci! Il perfido gigante ci ha catturate e ci tiene segregate qui dentro dove è buio e fa freddo! Grillo, ripeti ciò che ti diciamo per tre volte, poi gira tre volte su te stesso e batti per tre volte a terra prima il piede sinistro poi il destro. Solo così il forziere magico si aprirà!”.

“Siamo sorelle, le fate gemelle, siam le più belle, luce di stelle. Siamo sirene e dal fiume proviene un potere incantato che il gigante ha rubato”.

Grillo obbedì e, finita la formula, improvvisamente tutto intorno a lui prese a girare, il forziere si aprì e …

… oltre alle due sirene, ne uscirono mostri, demoni, spiriti, esseri deformi e creature sconosciute. In un frastuono insopportabile, Grillo si trovò circondato da questi esseri mentre le due sorelle si prendevano gioco di lui ridendo a squarciagola. Il poveretto invocò l’aiuto del gigante. Una luce azzurra fortissima entrò dalle finestre e, nella sua immensità, apparve il gigante. Agitando il suo altissimo bastone intagliato ingaggiò una lotta con le sirene e le altre creature uscite dal forziere. Dopo scontri indescrivibili, per fortuna il gigante ebbe la meglio.

I mostri e le varie creature vennero trasformate in figure di legno e intrappolate per sempre sul soffitto della stanza che, successivamente, venne battezzata “Sala delle Teste”.

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Le due terribili fate sirene furono trasformate in dipinti e immobilizzate nei muri della cappella, sorvegliate in eterno dallo sguardo divino.

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E Grillo? Grillo venne punito per la sua intemperanza e, trasformato in un essere buffo e ridicolo, imprigionato anche lui nel muro della cappella, proprio in mezzo alle due fate sirene, la sua ossessione. Lì sconterà la sua pena col compito di proteggere quel luogo dal malocchio e dalle invidie.

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E il gigante? Lui prese dimora all’esterno della cappella, in modo da proteggere e controllare per sempre quel castello che, sapeva, sarebbe appartenuto per secoli ad una famiglia potente.

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Un castello fatato, insolito, apparentemente disordinato, ma che racchiudeva un fascino tutto particolare.

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Quel castello esiste ancora! E’ il castello Sarriod de La Tour a Saint-Pierre, in Valle d’Aosta. Sarete in grado di ritrovare Grillo, le fate, il gigante e i vari esseri usciti dal magico forziere?

Ringrazio l’amico Enrico Romanzi per la splendida foto che ho usato come copertina. Sarriod de La Tour visto dal basso, dal fiume, forse dal luogo dove vivevano le due fate sirene…

Stella