Il 19 marzo 2014 abbiamo festeggiato i 50 anni del Traforo del Gran San Bernardo. E quest’anno, il 16 luglio, celebreremo i 50 del Tunnel del Monte Bianco. Opere grandiose, anni di lavoro e fatica per unire Paesi confinanti in modo più rapido ed agevole. Frutto dei tempi moderni e della necessità di velocizzare ed incrementare i transiti. Ma prima? Da sempre le montagne uniscono i popoli..sì, li uniscono! Dall’alba della sua esistenza l’uomo le attraversa, le abita, le vive.
Colli. Valichi. Vere e proprie “terre di mezzo” dove i confini, nei secoli, non sono in fondo mai stati così netti, così geometricamente definiti. Sono le terre dei pascoli in quota, degli alpeggi, dei laghetti effimeri che appaiono dopo lo scioglimento delle nevi e che, con l’autunno, di nuovo scompaiono. Luoghi dove sembra che tutto rallenti. Luoghi dove, solo in certi casi più fortunati, alla natura si mescolano le tracce di una Storia grandiosa dal respiro millenario.
Cominciamo il nostro viaggio dal Piccolo San Bernardo; lì dove Italia e Francia si guardano, si toccano e si parlano. In antico veniva indicato come Alpis Graia, in omaggio al Graium numen, al (semi)dio greco, Ercole che, secondo molti miti e credenze, da qui passò. Interessante ricordare un passo del Satyricon di Petronio che, stando a molti, si riferirebbe proprio a questo colle:
“Alpibus aeriis, ubi Graio numine pulsae descendunt rupes et se patiuntur adiri, est locus Herculeis aris sacer : hunc niue dura claudit hiemps canoque ad sidera uertice tollit. Caelum illinc cecidisse putes: non solis adulti mansuescit radiis, non uerni temporis aura, sed glacie concreta rigent hiemisque pruinis: totum ferre potest umeris minitantibus orbem”. (Petr., Satyricon, 122)
E’ bello tradurre questi versi per assaporarne l’intensa e, direi, visiva poesia.
“Là, sulle Alpi vicine al cielo, dove, spinte da una divinità greca, le rocce si abbassano tollerando di lasciarsi avvicinare, si trova un luogo sacro agli altari di Ercole: qui l’inverno chiude i luoghi con una dura coltre di neve e solleva il capo candido verso le stelle. Potresti pensare che il cielo sia attaccato a quelle cime: né il sole, nel pieno delle sue forze, né le brezze di primavera possono addolcire questo clima rigido, ma ogni cosa è indurita dal ghiaccio e dai rigori invernali: (sembra che) l’intera volta celeste possa essere sorretta sulle spalle di queste vette minacciose”.
É la terra dominata dalla magia ancestrale del cromlech: cerchio megalitico risalente secondo alcuni all’Età del Rame (III millennio a.C.), secondo altri all’Età del Ferro iniziale (IX-VI secolo a.C.) composto da una cinquantina di pietre che, simbolicamente, sottolinea una zona di transito, di scambio, di fusione tra popoli e culture. E’ vero che, nei secoli, molte volte queste pietre sono state prese, spostate, maneggiate..ma alcune sono ancora in posizione primaria; una in particolare che, stando ad alcuni studiosi, avrebbe aiutato ad individuare l’orientamento astronomico del cerchio litico al solstizio d’estate. E da alcuni anni ormai, al tramonto del 21 di giugno, c’è sempre un folto gruppo di appassionati che si reca lassù ad assistere al fenomeno della proiezione di due falci d’ombra che progressivamente si abbracciano quando gli ultimi raggi di sole scivolano dietro la sella del Lancebranlette, all’orizzonte nord-occidentale.
É quel limes, ossia quell’invisibile ma presidiata linea di confine voluta dalle legioni romane che qui, a 2.188 metri di quota, dal I secolo a.C. si sono insediate costruendo due mansiones (punti tappa lungo la via delle Gallie). Oggi ne abbiamo una in terra italiana ed un’altra già oltre il confine francese, ma è una situazione venutasi a creare solo dopo lo sfortunato esito del Secondo Conflitto Mondiale: prima, infatti, erano entrambe su suolo nazionale! La strada romana passava alta, più o meno in linea col monumento ai Caduti e, di conseguenza, gli accessi delle mansiones si aprivano su quel lato. Ma è chiaro: lassù la strada era al sicuro dai pantani che si creavano al disgelo! Le mansiones prevedevano una corte centrale su cui si affacciavano una serie di ambienti utili al riposo di uomini ed animali. La mansio orientale (quella “nostrana”) presenta, inoltre, in corrispondenza dell’angolo sud-ovest, fino a poco tempo fa a bordo strada (ora la strada compie un giro più ampio e non taglia più il cromlech a metà), i resti (l’esatta metà) di un fanum: un piccolo tempio di forma quadrangolare, a pianta centrale, costituito da una cella circondata da un corridoio. Si tratta di un edificio di culto tipicamente gallico di cui si può apprezzare un altro bell’esempio a Martigny nella Fondation Gianadda.
Gli scavi condotti negli anni Trenta del XX secolo da Piero Barocelli avevano interessato entrambe le mansiones portando altresì al ritrovamento delle lamine votive e del noto busto in argento di Iuppiter Dolichenus ora conservati al MAR di Aosta. E’ insolito questo aggettivo “Dolichenus“: che mai vorrà significare? Si tratta di un appellativo aggiuntosi al nome di Giove tra il II ed il III secolo d.C. andando così a sovrapporre alla principale divinità latina un dio orientale, proveniente dalla città anatolica di Dolico. Una sorta di Baal, di dio trionfatore, protettore dei soldati, reggitore del mondo umano e cosmico. Il suo culto restò in sordina fino al regno di Marc’Aurelio per poi toccare l’apice sotto Commodo e i Severi. Il busto del “Piccolo” ci offre una divinità matura, dal volto barbuto e dalla folta chioma riccioluta; lo sguardo è ieratico e penetrante: grandissimi gli occhi con la pupilla ben delineata, tratto tipico della ritrattistica tardo-imperiale che proseguirà in epoca costantiniana. Indossa una corazza e, appena sotto la spalla destra, si riconosce l’immancabile fascio di fulmini.
Ospitalità e sacralità: caratteristiche da sempre abbinate nei valichi lungo percorsi di particolare risalto. In quell’atmosfera “sospesa” delle mitiche “terre di mezzo”.
Stella