Il Natale non è soltanto una festa: è un incanto che si rinnova ogni anno, un momento sospeso in cui la realtà sembra tingersi di meraviglia. Le strade si illuminano di luci dorate, il caldo profumo di biscotti riempie le case, e i cuori si aprono alla speranza.
È il tempo delle fiabe, quando i bambini attendono con occhi sognanti l’arrivo di Babbo Natale e gli adulti riscoprono la gioia di credere ancora nei piccoli miracoli. Ogni gesto diventa simbolo: un dono sotto l’albero, una candela accesa, una storia raccontata davanti al camino.
Il Natale ci invita a fermarci e ad ascoltare: le voci della tradizione, i ricordi che tornano, le promesse di un futuro più luminoso. È un tempo che ci ricorda che la vera magia non sta nei regali, ma nella capacità di condividere amore, calore e gentilezza.
Il Natale ci invita a fermarci e ad ascoltare: le voci della tradizione, i ricordi che tornano, le promesse di un futuro più luminoso. È un tempo che ci ricorda che la vera magia non sta nei regali, ma nella capacità di condividere amore, calore e gentilezza.
Come nelle fiabe, tutto sembra possibile: la neve che cade silenziosa diventa un tappeto di sogni, le stelle brillano come segreti da custodire, e ogni sorriso è una porta che si apre verso un mondo migliore.
E un libro di fiabe è uno dei regali più magici che si possano consigliare a Natale: un dono che porta con sé storie senza tempo, atmosfere incantate e la possibilità di condividere momenti di lettura in famiglia. Significa donare un mondo di sogni e avventure che non finiscono mai, oppure, come nel caso di questo libro, che possono essere ritrovati nella realtà!
“Castelli da fiaba in Valle d’Aosta ta realtà e fantasia“, scritto da Stella Bertarione, può essere un ottimo modo per donare la Valle d’Aosta e i suoi castelli densi di storia e suggestioni. Ogni storia racchiude un castello (che esiste davvero!) e ogni racconto porta con sé un pezzo di territorio ammantato di magia. Montagne, boschi, villaggi, leggende, tradizioni … tutto si mescola per narrare una terra incantata dove sognare a occhi aperti.
Uscito a luglio 2024, questo volume si può acquistare solo nelle librerie e cartolibrerie della Valle d’Aosta; non si trova online, ma chi è interessato può contattare direttamente l’autrice attraverso questo blog.
Il Natale è, in fondo, la fiaba più bella che possiamo vivere insieme.
Il lungo inverno è giunto al termine… o quasi! Ai primi di maggio il colle del Piccolo San Bernardo, al confine tra Valle d’Aosta e Savoia, giaceva ancora sotto metri di neve.
Il 30 maggio, sempre se le condizioni meteo lo consentiranno, i mezzi italiani e francesi taglieranno nuovamente quella candida mole ghiacciata riaprendo la strada: un evento che da sempre va celebrato e festeggiato!
E non una strada qualsiasi, ma un collegamento che affonda le sue radici molto indietro nel tempo, probabilmente fino allo scorcio finale dell’epoca neolitica, periodo al quale risalirebbe il misterioso cromlech al centro del passo, situato a 2188 metri di quota.
E non è un caso se proprio da qui passa il Cammino di San Martino, Itinerario culturale d’Europa: 2500 km che collegano l’odierna città di Szombathely (l’antica Savaria) in Ungheria, dove Martino nacque nel 316 d.C., e la francese Tours, dove riposano le sue spoglie.
Il Colle del Piccolo San Bernardo, una vera e propria “terra di mezzo” dove i confini, nei secoli, non sono in fondo mai stati così netti, così geometricamente definiti. E’ la terra dei pascoli in quota, degli alpeggi, dei laghetti effimeri che appaiono dopo lo scioglimento delle nevi e che, con l’autunno, di nuovo scompaiono nella morsa dei ghiacci.
Il Colle del Piccolo San Bernardo, testimone di oltre 4000 anni di storia, è uno di quei rari luoghi in cui l’alpinismo, lo sport e l’avventura, si fondono al respiro e alle tracce del più remoto passato.
Vi propongo una pausa di alcuni minuti per gustarvi un video a mio avviso splendido, realizzato in occasione di un recente Progetto Interreg Alcotra dedicato, appunto, a questo prezioso patrimonio transfrontaliero.
Il cromlech è costituito attualmente da 46 pietre allungate e appuntite, poste ad una distanza di 2 o 4 metri una dall’altra, disposte a formare vagamente una circonferenza di circa 80 metri di diametro. Alcune di queste pietre presentano forme particolari: una in particolare si distingue per le sue dimensioni: larga circa 80 cm, ha una forma squadrata e leggermente appuntita, e risulta più alta rispetto alle vicine.
Il cromlech com’è attualmente dopo gli scavi condotti dalla Soprintendenza nel 2009 che hanno portato alla modifica del tracciato stradale che prima tagliava il cerchio di pietre a metà.
Nelle vicinanze venne inoltre scoperto, negli anni Venti del secolo scorso, un fanum, ossia un tempietto a pianta centrale di tradizione gallica utilizzato fino alla tarda età romana che, seppur di epoca molto successiva al cromlech, testimonierebbe il fatto che tutta la zona è stata un importante ed emblematico luogo di culto nell’antichità.
Qui, soldati, mercanti e viaggiatori si fermavano a pregare Giove, padre degli dei, presente in ogni più sperduta landa del vasto e multiforme Impero.
Busto di Giove Graio in argento sbalzato, rinvenuto sul Colle del Piccolo San Bernardo, associato a un ricco corredo rituale.
Scritti di autori locali testimoniano la presenza di un’alta colonna di porfido grezzo, la Columna Jovis, sormontata da un grosso rubino detto l’occhio di Giove o Escarboucle, dotato di poteri magici capaci di disorientare gli uomini e far perdere loro la strada; questa colonna in origine doveva far parte del fanum gallo-romano, mentre ora è di sostegno alla statua di San Bernardo.
Petronio descrive questo luogo come sacro a Ercole Graio, riferendosi al mito del passaggio dell’eroe attraverso l’Alpis Graia che, non a caso, proprio da lui prende il nome:
“Nelle Alpi vicine al cielo, nel luogo in cui, scostate dalla potenza del Graio nume, le rocce si vanno abbassando, e tollerano di essere valicate, esiste un luogo sacro, in cui si innalzano gli altari di Ercole: l’inverno lo copre una neve persistente e alza il suo bianco capo verso gli astri” (Petronio, Satyricon,122)
É quel limes, ossia quella linea di confine voluta dalle legioni romane, oggi invisibile ma sempre percepibile, che qui, a 2.188 metri di quota, sin dai primi transiti umani ha reso sacro il luogo del passaggio attraverso le montagne.
Un sito archeologico grandioso che racchiude oltre 6000 anni di storia.
Con i suoi 10.000 mq è l’area megalitica coperta più vasta d’Europa.
Megaliti in città! Un sito megalitico urbano nel quartiere ovest di Aosta.
Un viaggio nel tempo alla scoperta di una lontana e affascinante Preistoria alpina.
Emozionarsi davanti ad un paesaggio arcano e inatteso illuminato dal millenario susseguirsi di albe e tramonti.
Sorprendersi davanti ad arature tracciate più di 6000 anni fa.
Meravigliarsi per gli emblematici allineamenti creati per far dialogare terra e cielo.
Scoprire le prime grandi statue della Preistoria: stele dal profilo umano rivestite di motivi decorativi ma tuttora avvolte da un enigmatico “mistero”.
Stupirsi davanti alle grandiose tombe collettive, leggendarie opere di “giganti”, testimoni di ricchezza e potere.
Uscire dal centro per scoprire un parco archeologico avveniristico, multimediale ed interattivo decisamente “fuori dal coro”.
“Lasciare la città per finire lassù, in mezzo alle montagne… da solo… beh, del resto non ho scelta!”. Così si lamentava il giovane barone, rampollo di una nobile ed importante famiglia, costretto dai parenti a trasferirsi nel piccolo villaggio di Saint-Pierre.
“Hai ereditato l’antico maniero di famiglia, Emanuele!”, tuonava l’arcigno zio, “tuo compito è prendertene cura! Quindi, fattene una ragione e prepara i bagagli! Tra una settimana al massimo il castello di Saint-Pierre sarà la tua dimora! E vediamo se, confinato lassù, tu non metta la testa a posto!”.
Emanuele non aveva scelta. Tutta la famiglia era contro di lui.. Purtroppo negli ultimi anni non si era certo guadagnato una buona fama: conduceva una bella vita sperperando denaro in ogni possibile modo, frequentava compagnie ritenute “pericolose e inopportune”… un continuo litigio con lo zio! Forse era davvero meglio andarsene… poche comodità, pochi soldi, ma almeno sarebbe stato in pace e avrebbe fatto ciò che voleva!
Rapidamente arrivò il giorno della partenza. La diligenza correva veloce sulle strade polverose. In poco tempo le campagne lasciarono il posto al dolce profilo delle colline che vennero presto sostituite dalle alte montagne della Valle d’Aosta.
L’aria aveva cambiato profumo: Emanuele era inebriato da quella fragranza mista di pino, erba, muschio e terra. Gli sembrava che il sangue corresse con più vigore alimentato dalle brezze fresche che rotolavano giù dai ghiacciai.
All’improvviso, dopo un’ultima curva, eccolo: l’antico maniero lasciatogli dal nonno!
Veduta del castello di Saint-Pierre prima degli interventi in stile neogotico (stampa di E. Aubert, 1860)
Su un roccione svettava la vecchia torre maestra, già in stato di avanzato degrado, circondata dalle possenti mura medievali in buona parte sbrecciate. Gli edifici residenziali erano spogli (solo i mobili essenziali), bui e umidi. Emanuele sospirò:” Mio Dio… ci vorrebbero dei lavori, ma come li pago? Solo questo mi hanno lasciato e lo zio non mi da più un soldo… vedremo… per ora va ancora bene: per fortuna è estate! Chiederò nel villaggio se qualche manovale può venire a dare un’occhiata…così…giusto per non avere la neve in casa o spifferi gelati quest’inverno… “.
Tuttavia, nonostante lo sconforto iniziale, Emanuele avevo ben presto imparato ad amare quel luogo. Il paesino era carinissimo e gli abitanti avevano accolto con simpatia “quel giovane barone scapestrato e ribelle, amante della natura, fuggito dalla grande città!” (così dicevano di lui).
In una stanza col camino, dove ancora si vedevano resti di antichi affreschi e si potevano magicamente percepire gli echi delle leggendarie feste organizzate dai ricchissimi proprietari oltre 200 anni prima, Emanuele aveva creato il suo angolino prediletto.
Da subito aveva iniziato a perlustrare i dintorni: che meraviglia! Prati verdissimi, meleti, vigneti, orti e, in lontananza, boschi color smeraldo che, con le loro tonalità scure, esaltavano ancor di più il bagliore delle nevi perenni.
Quell’estate cominciata così male, si era rivelata una benedizione. Da solo, in totale libertà! Grazie al suo bel carattere, ai modi educati e, perché no, al gradevole aspetto, il giovane barone si era ben integrato e riceveva aiuto da tutti: cibo e biancheria pulita non gli mancavano!
Le quotidiane lunghissime passeggiate gli avevano fatto riscoprire e aumentare una passione che aveva da bambino: quella per la raccolta di erbe, foglie fiori. La natura così ricca e multiforme di quei luoghi avevano risvegliato in lui una profonda curiosità e in poco tempo si era creato una collezione botanica di tutto rispetto; “così, se mai un giorno dovessi tornare in città, un pò di questi luoghi verrà con me…”, pensava.
Gli era poi venuta in mente un’idea: voleva trasformare l’alta corte del castello in un suo personale giardino segreto. Un pò “giardino dei semplici” con erbe aromatiche e medicamentose; un pò giardino all’inglese con piante ornamentali capaci di creare atmosfere incantate e suggestive. Quello sarebbe stato il suo giardino, chiuso al mondo eccetto che a lui!
Una sera, al tramonto, attardandosi sulla terrazza, notò per la prima volta un fiore straordinario attaccato al muro della torre. Si avvicinò: era una specie di orchidea. Un fiore grande dai colori cangianti, insoliti: i petali erano uno diverso dall’altro, quasi a formare un arcobaleno, lucidi e setosi.
Decise di coglierlo per ripiantarlo ed eventualmente ricavarne semenza. Provò a strapparlo, ma il fiore incredibilmente si chiuse e si ritrasse.”No, devo aver sognato”, pensò, “è impossibile!”.
Ci riprovò: niente. Quel fiore si richiudeva su se stesso. Provò a reciderlo con delle forbici: niente!
Prese allora un martello e iniziò a distruggere il muro:”Verrà fuori, no!? Lo estirperò con tutte le radici!”. Risultato: il muro della torre si crepò terribilmente fino a sgretolarsi!
L’operazione aveva prodotto un’enorme voragine nel vecchio muro cadente mentre il fiore era rimasto ben incastrato nella sua pietra.
“No, ma… è impossibile!”. Emanuele non riusciva a crederci. “Che razza di pianta è mai questa?!”. Raccolse allora la pietra con la pianta dentro, deciso a portarla in casa per esporla così com’era, come fosse un oggetto esotico e meraviglioso.
La mise sul comodino accanto al letto e andò a dormire.
Ma non fu una notte come tutte le altre… Emanuele venne svegliato da un fruscio insistente, come se un insetto gli volasse sul viso. Quando aprì gli occhi rimase senza parole: dalla pietra la pianta era uscita a dismisura arrivando fino a lui e i fiori si erano moltiplicati e ingranditi fino a formare una coperta. Emanuele si alzò di scatto, ma qualcosa lo bloccava impedendogli di scendere dal letto.
Ad un tratto la coperta di fiori si mosse, si avvolse su se stessa e si trasformò in una giovane fanciulla alata.
“Ma… ma chi… cosa…chi sei tu?” balbettò Emanuele confuso e spaventato. “Tranquillo, io sono Flora, la fata della Natura. Conosco la tua passione per il mio regno, ma oggi hai fatto qualcosa di grave: ti sei ostinato ad appropriarti di un fiore assai raro e prezioso, di me! Avevo provato a farti capire che non dovevi né potervi toccarmi, ma hai insistito fino a distruggere addirittura la tua casa! Hai commesso un errore. E ora, se non vi poni rimedio, la voragine nella torre si allargherà a tal punto che tutto il castello potrebbe crollare! Vuoi che accada?”.
“No, no… certo che no… ma..e ora? Come posso rimediare? Quel fiore era talmente bello che…”;
“talmente bello che avresti dovuto rispettarlo e lasciarlo dov’era”, concluse Flora.
E continuò:” Ad ogni modo, visto il tuo amore per il mio mondo, voglio aiutarti.”. Improvvisamente la stanza si riempì di strane creature, metà uomini e metà foglie, o metà uomini e metà fiore; c’erano anche uomini-stelo, uomini-ramo.. un vero e proprio esercito di esseri del piccolo regno al servizio della loro regina, la fata Flora.
Leafman (tratto dal film animato “Epic. Il mondo segreto”)
Emanuele era sbalordito! “Loro sono i miei fedeli servitori. Ti aiuteranno a ricostruire la torre maestra, a patto che tu segua i miei ordini! Voglio una torre alta ed elegante con quattro torrette, una per ogni angolo.
Ogni torretta corrisponde ad una stagione e, a seconda della stagione, dovrai lasciarmi (con la mia pietra) nella torretta corrispondente. Nessun uomo però potrà entrarvi! Nemmeno tu! Mi dovrai lasciare all’ingresso, poi saranno i soldati-foglia a trasportarmi all’interno! Sii preciso, non farti trascinare dalla curiosità. Se un uomo dovesse entrare in una torretta, l’intero castello crollerà e per te sarebbe la rovina. Se invece ti atterrai ai patti per almeno 50 anni, il tuo castello diventerà la dimora del piccolo mondo alla portata di tutti e il tuo giardino segreto sarà dono per gli altri così che possano conoscere, scoprire, amare e proteggere il mondo di Flora”.
Emanuele non aveva altra scelta; nonostante un fondo di incredulità, obbedì alla fata Flora e, la mattina seguente, dopo una notte che gli parve lunga un’eternità, la torre non era più la stessa. Gli uomini-foglia e le donne-fiore avevano magicamente creato qualcosa di spettacolare: “ecco, ora posso dire di vivere nel castello delle fiabe”, esclamò il giovane barone.
“Non solo!”, lo corresse la fata, “puoi dire di essere un ospite speciale del regno di Flora”.
Il giardino segreto del barone divenne, col tempo, un tesoro di erbe, fiori ed essenze esotiche a disposizione di tutti. Nelle torrette nessuno mise mai piede e si narra che, ancora oggi, a seconda della stagione, il fiore-dimora della fata Flora vi fiorisca, ancorato alla sua pietra, di volta i volta con un colore ed un profumo diverso.
Riprendiamo, quindi, il nostro viaggio alle origini attraverso il sito megalitico di Saint-Martin-de-Corléans, ad Aosta. Ricordate la discesa lungo la rampa del tempo?
Ebbene, eccoci a 6 metri sottoterra, avvolti nella penombra cangiante che, ad intervalli regolari, si accende e si colora ricordando lo scorrere dei giorni e delle notti. Ma dove siamo?
Guardando verso sinistra, laggiù sul fondo, emerge una struttura di grosse pietre circondata da strati di pietrame più minuto. E’ una tomba, la cosiddetta “Tomba 2”. Una tomba megalitica, appunto, costruita al di sopra di una particolare piattaforma di pietre a forma di freccia. Da qui ancora non la si vede bene, la scoperta avverrà progressivamente. Si cammina intorno a questo sito incredibile, forse un po’ distanti, è vero, ma è quasi simbolico dell’effettiva distanza che ci separa da quelle epoche avvolte nella notte dei tempi, da quei riti, da quelle preghiere, da quelle persone.
Una cosa si avverte: il senso del sacro. Il senso di un luogo non certo abitativo, ma contraddistinto da una sorta di flusso comunicativo tra il “sotto” e il “sopra”, tra la terra e il cielo.
Chiudete gli occhi. Immaginate una musica, una di quelle epiche, dalle sonorità prima soffuse che si fanno poi via via sempre più imponenti, coinvolgenti, trionfali. Una musica capace di accompagnarvi in questo viaggio a ritroso facendovi percepire la forza della Storia.
ANTICHISSIME ARATURE
E ora immaginate una piana. Verso sud, sul fondo, lo scintillio di un fiume incorniciato da ampie zone paludose. La Dora Baltea. Lo sguardo sale fino ad incontrare i boschi e poi raggiungere le alte vette. In particolare due, molto alte, a ridosso della pianura alluvionale, così simboliche, così presenti… chissà con quale nome venivano chiamate in quei tempi lontani. Oggi sono l’Emilius e la Becca di Nona, sentinelle del Sud, monumentali gnomoni di roccia puntati verso il cielo, meridiane naturali per il fluire delle ore e delle stagioni.
Ed ora delle voci. Voci di uomini intenti ad un gesto antico: l’aratura. Un gesto consueto ma che gli uomini avevano appreso non da molto. Una prima mattina di un giorno di inizio estate sul finire del V millennio a.C., quegli uomini stanno arando questa vasta pianura. Lenti movimenti avanti e indietro, e poi ancora avanti e indietro; lunghe strisce ininterrotte aprono il terreno e solcano i depositi limosi lasciati dal fiume e dai movimenti dei ghiacciai. La terra si apre sotto il passaggio del vomere in legno.
Ma questa non è un’aratura qualsiasi. Qui l’agricoltura si fa rito, si fa preghiera.
La terra solcata viene invocata affinché sia nutrice di genti eroiche e di una solida stirpe di guerrieri. Quegli stessi solchi non restituiranno però dei semi, ma denti umani, perlopiù incisivi. Quella terra doveva dare il cibo a uomini forti e valorosi. In questo gesto, che a noi può apparire tanto insolito, riemerge il mito di quel gruppo di circa 50 eroi che, sotto la guida del prode Giasone, intraprese l’avventuroso viaggio a bordo della nave Argo.
Un viaggio che li condurrà nelle ostili terre della Colchide, alla conquista del vello d’oro. Gli Argonauti, i marinai che fecero l’impresa. Giasone chiese il vello d’oro al re Eeta, il quale acconsentì a concederglielo, ma solo dopo che fosse stato arato un campo per seppellire i denti di un drago ucciso da Cadmo. Questa sepoltura doveva garantire la nascita di uomini armati. Le antiche leggende parlano di draghi; qui si parla di uomini. Delle loro ambizioni, delle loro credenze e delle loro speranze.
Storie antiche frammiste al mito e alla leggenda che, però, ci narrano di eroi, di aventure, di lunghi viaggi verso terre sconosciute, di draghi e sovrani avidi e superbi, di alberi carichi di frutti più o meno proibiti (storia ben nota!), di tori furenti e indomabili, di serpi e draghi spaventosi. Storie che ci raccontano di intrepide ricerche: di terre, di metalli, di ORO!
10.000 mq (ma diventeranno 18.000!) che racchiudono oltre 6000 anni di storia dove tutto ebbe inizio dalla terra, da molteplici e ripetute arature. In campagna non vi è gesto forse più famigliare e consueto. Che però, qui, assume tutto un altro sapore. Qui l’aratura si fa rito, si fa culto, si fa preghiera. Merita una riflessione la ricchezza di significato di un’azione agricola apparentemente semplice come quella dell’arare.
Significa delimitare una porzione di terreno per farla in qualche modo “propria”. Significa incidere la Madre Terra affinché accolga quei semi da cui dovrà nascere una nuova realtà, in termini di raccolto così come in termini di insediamento. La portata sociale e religiosa di questo gesto è incredibile; si perde nella notte dei tempi e attraversa le epoche. Un gesto anticamente “nuovo”, NEOlitico, e per questo profondamente rivoluzionario; l’uomo da nomade cacciatore-raccoglitore si è stabilizzato e ha imparato a coltivare e ad addomesticare. Un cambiamento epocale! E quella terra era ed è SACRA. Terra da invocare, pregare, venerare… affinché sia benevola e non “matrigna”. Una terra che più MADRE non si potrebbe! E, perciò, sacra!
I “POZZI”. OFFERTE NEL SOTTOSUOLO
E non solo di aratura si tratta. La nostra scoperta del sito ci porta ad incontrare una serie di grandi fosse (o pozzi) che, in alcuni casi, arrivano a ben 2 metri di profondità.
Tra IV e III millennio a.C., mani devote non solo hanno scavato queste cavità, ma sul fondo vi hanno deposto cereali, resti di frutti e macine. Leguminose come vecce e cicerchie; cereali come il farro e il frumento. Carboni di quercia e di pino. Resti che ci parlano di un paesaggio agrario remoto e di contadini che lavoravano la Natura venerandone le forze imperscrutabili.
Probabilmente offerte alle divinità della terra: divinità ctonie e feconde. Quegli dei che presiedevano agli eterni cicli di vita, morte e rinascita. Un seme nella terra muore e rinasce per germogliare di nuovo. Una speranza di vita che obbligatoriamente doveva passare attraverso una morte inevitabile.
A ben pensarci è lo stesso dualismo che, in altre epoche e ad altre latitudini, si ritrova nelle più note dee greche Demetra e Persefone, tra loro madre e figlia. Demetra, la Madre terra portatrice di messi e la figlia Kore-Proserpina-Persefone, simbolo della primavera, della nuova vita che germoglia, ma anche sposa di Ade e signora dell’Oltretomba.
Due dee che ben rappresentano il ciclo della natura: 6 mesi di sonno, di morte apparente (autunno ed inverno); 6 mesi di fioriture e raccolti (primavera ed estate). Ecco perché anche le forze divine nascoste nel sottosuolo andavano invocate e blandite affinché fossero benigne.
ER’ l’eterno ciclo del seme che di fatto tornerà anche nel Cristianesimo: il seme deve “morire”, essere sepolto, per poi rifiorire in una nuova vita e dare frutto. La vita che passa da una morte necessaria vista, però, come transito e mutamento.
Saint-Martin-de-Corléans: un luogo davvero particolare, dove vita e morte dialogano e si rincorrono fin quasi a sovrapporsi. Seguiteci, il nostro viaggio non è ancora finito…
Metti una passeggiata ad Aosta. Ma non una passeggiata qualsiasi. Una di quelle che ti portano a scoprire la città, la sua anima, ma soprattutto la sua storia. Una storia che qui si fa plurimillenaria. Lasciatevi dunque alle spalle la rassicurante cortina muraria di epoca romana. Lasciate la monumentale Augusta Praetoria e avventuratevi verso ovest. Attraverserete zone forse ancora poco note della città; i quartieri delle caserme, quelli residenziali, quelli più popolari. Arriverete così a Saint-Martin-de-Corléans. Nucleo del quartiere la graziosa chiesetta romanica dedicata a San Martino. Al di là di un’apparenza forse poco accattivante, è questo un luogo davvero straordinario, dove leggenda, storia e credenze popolari si mescolano e si sovrappongono tra sacro e profano, a cavallo tra mondo pagano e mondo cristiano.
SAINT-MARTIN-DE-CORLÉANS. UN QUARTIERE DAL NOME INTERESSANTE
Il nome stesso di questo quartiere ci catapulta in questa dimensione strana e disorientante. Perché “de Corléans”? Cosa significa? In primo luogo parrebbe ormai comprovato che “Corléans” sia un prediale di matrice romana, intendendo con “prediale” un nome indicante un lotto di terreno, una proprietà fondiaria. L’origine sarebbe da ricercare in un antico Cordelianum, a sua volta derivante da un presunto Cordelius. Ma non è tutto. Ancestrali echi di lontane leggende riecheggiano in questo nome, collegato alla mitica Cordela, “capitale perduta” del popolo dei Salassi, popolo di cultura celtica residente nelle nostre montagne all’arrivo di Roma. A Cordela e al suo fondatore, ossia Cordelo, figlio di Statielo, seguace di Ercole.
Gorlach, the legend of Cordelia
Miti di viaggio, di lunghi spostamenti, di migrazioni di popoli provenienti dall’Asia Minore. In fin dei conti un po’ di verità c’è. E lo vedremo.Scriveva Silio Italico, politico e poeta romano del I sec. d.C.:“Ercole affrontò le vette inviolate: Fu il primo. Gli dei vedono stupitiCome fende nubi, fracassa alture,Doma possente rupi mai battute“.Vagava, il semidio, da Oriente a Occidente cercando fra i ghiacciai la via per i Giardini del Tramonto, dove le Esperidi avrebbero custodito gelosamente i propri frutti.
VIAGGIO ALLE ORIGINI
I miti si intrecciano in queste origini leggendarie di Aosta, alla cui base però si rileva come fosse comunque nota una presenza antica, misteriosa, difficilmente descrivibile altrimenti. Probabilmente si sapeva che in questa zona la Storia aveva lasciato testimonianze particolari, le cui origini e le cui motivazioni affondavano in un’epoca “perduta”, troppo lontana nei secoli e nei millenni perché si riuscisse a meglio contestualizzarla. Ma, col XX secolo, in un modo del tutto fortuito, sarebbero stati gli archeologi a svelare la reale identità di questo enigmatico luogo.
Ci troviamo, infatti, al cospetto dell’area megalitica, unico e prezioso scrigno di testimonianze archeologiche risalenti fino all’epoca Neolitica (V millennio a.C.). Un’area composta da un sito archeologico pluristratificato le cui testimonianze vanno dalla Preistoria al Medioevo passando, come nel miglior manuale di Storia, attraverso le Età del Rame, del Bronzo, del Ferro fino a tutta l’epoca romana, l’età tardoantica e altomedievale. Un Parco archeologico all’avanguardia che ha aperto definitivamente i battenti il 24 giugno 2016 e che, senza alcun dubbio, merita una visita!
Un’area estremamente suggestiva e densa di storia, dove cielo e terra, uomini e dei, dialogano sin dalla notte dei tempi. Un grande, straordinario, santuario preistoricodove funzioni cultuali e funerarie si sono avvicendate e trasformate nei secoli fino all’utilizzo dell’area a fini non solo sepolcrali ma anche agricoli in epoca romana, per poi approdare (nuovamente) al contatto col divino nell’Alto Medioevo attraverso l’emblematica figura di San Martino.
Un santo scelto a ragion veduta. Martino era un soldato, nato nel 316 d.C. nell’antica Pannonia (l’attuale Ungheria) e di cui proprio nel 2016 la Chiesa ha celebrato i 1700 anni dalla nascita. Prima al servizio dell’esercito di Roma, e poi al servizio di Dio. Un santo-soldato, poi divenuto monaco esorcista e infine vescovo, che vigila e presidia: ecco perché, nella stragrande maggioranza dei casi, lo si ritrova lungo le mura delle città, in corrispondenza di castelli strategici oppure in prossimità di importanti e frequentati assi viari. Inoltre ci troviamo in un luogo dove le tracce del paganesimo erano profondamente radicate e testimoniate da eloquenti indizi probabilmente ancora noti o comunque percepiti o percepibili in epoca tardoantica. Occorreva pertanto eradicare queste antiche credenze, i cui strascichi probabilmente si protraevano nel tempo e nella società “spaventata” dalle angosce della fine dell’Impero romano. Occorreva esorcizzare luoghi del genere richiamando la forza e l’attrattività di un santo così amato dal popolo quale era, appunto, San Martino di Tours, l’apostolo delle Gallie.
L’AREA MEGALITICA
Ma non indugiamo oltre ed entriamo, varcando la soglia di questo complesso esteriormente così moderno e avveniristico che, con gli anni, diventerà un importante centro non solo museale, ma di studio e ricerca dedicato alla Preistoria alpina, un settore ancora poco conosciuto e dalle frontiere ancora in buona parte inesplorate.
L’avvicinamento al sito avviene scendendo lungo una rampa dove gli intrecci delle travi in acciaio con le strategiche aperture vetrate consentono di vivere l’azione stessa dello scendere. In una scenografia che sa quasi di archeologia industriale, si vede chiaramente che si sta “bucando” il terreno circostante e si sta andando in un luogo sotterraneo; la cappella si fa più alta e più lontana. L’Aosta dell’oggi sta lasciando il posto all’Aosta “perduta”, a quell’area senza nome avvolta dal torpore dei millenni, l’area “dalle grandi pietre”, l’area megalitica.
Sembra quasi di essere su un’astronave, in viaggio al di là del tempo e dello spazio alla ricerca di mondi solo apparentemente perduti. E non a caso era il 1969 quando questo sito venne scoperto. Giugno 1969. Un mese prima che l’uomo mettesse piede per la prima volta sulla Luna. E, davvero, percorrere questa rampa del tempo per raggiungere un luogo così insolito ed inaspettato, può per molti aspetti essere paragonato al mettere piede su un altro pianeta!
E in effetti, la stessa impressione si può avere sin dall’esterno. Forme taglienti, spezzate, che interrompono il presente per accompagnare, quasi come su una nave spaziale, in un inatteso viaggio nel più remoto passato. Forme lucide, vetrate, riflettenti e trasparenti che vogliono appositamente attrarre la luce che, sia diurna che notturna, si rivela componente fondamentale ed imprescindibile all’origine del sito e dei suoi allineamenti, vere forme “ponte” tra cielo e terra.
La rampa continua la sua discesa, le luci progressivamente si affievoliscono e ci si ritrova a 6 metri sotto terra. I colori scuri aiutano la percezione di un sottosuolo al confine con una dimensione “altra”. Bisogna prepararsi ad un salto cronologico importante.
All’ improvviso ci si ritrova in uno spazio immenso. Ci si sente piccoli piccoli in questa sorta di lunare vastità. Ci si potrebbe anche chiedere dove si è e, soprattutto, cosa si debba guardare. Le luci cambiano e sfumano; dal buio quasi totale ad un chiarore freddo, fino ad una luminosità dorata e diffusa, per poi passare ad una calda tonalità aranciata che, virando sul violetto e poi sul blu, riporta di nuovo la notte.
E’ il susseguirsi dei giorni e delle notti, delle albe e dei tramonti, delle lune e delle costellazioni che nei millenni hanno visto la nascita, lo sviluppo, gli utilizzi e i cambiamenti di quest’area straordinaria. Un’area in origine pensata e costruita a contatto diretto col paesaggio e col cielo, ma che oggi, inserita com’è nel tessuto urbano e dotata di un deposito archeologico tanto corposo quanto fragile e vulnerabile, ha necessitato una copertura. Non ci sono solo “pietre”, c’è molto di più! E’ il più grande sito megalitico coperto d’Europa!
Queste magnifiche giornate, più miti e più lunghe, la luce diversa, gli alberi in fiore, i prati sempre più verdi mi hanno fatto tornare alla mente una terra che io adoro: la Provenza!
#OltreConfine ci porta in Vaucluse nella splendida civitas di Vaison-la-Romaine che, come in un perfetto quadro impressionista, incastonata in un paesaggio pennellato nei toni del giallo ocra, del lavanda, del verde e dell’azzurro, si apre tra le colline e la pianura attraversata dal torrente Ouvèze.
Vigneti, uliveti, campi di lavanda e girasoli… colpi di luce talvolta accecanti in questa terra meravigliosa dove spesso si vorrebbe non solo trascorrere una vacanza, ma un’intera vita.
Le case rosate di Vaison emergono nella piana dominata dal Gigante di Provenza, quel Mont Ventoux cantato dal Petrarca (dopo aver ripreso fiato perché, a quanto dice, la salita lo sfiancò!): verso nord scruta le vette alpine; verso sud, strizza l’occhio alle onde mediterranee: tra monti e coste, dalle nevi alle onde seguendo antichi tracciati preistorici, protostorici, romani e medievali che hanno disegnato un sorprendente e vasto territorio liaison tra Italia e Francia.
Siamo nel dipartimento del Vaucluse, dicevamo, nella terra che in antico corrispondeva alla provincia romana della Gallia Narbonense. Vaison-la-Romaine, ossia Vasio Vocontiorum, civitas foederata di Roma, ci restituisce oggi l’area archeologica aperta al pubblico più vasta e meglio conservata di Francia: ben 15 ettari a cielo aperto armonicamente inseriti in un contesto urbano e paesaggistico dalla bellezza quasi commovente. Tutta la poesia della dolce Provenza con oltre 2000 anni di storia alle spalle!
Vasio (derivante probabilmente da una radice celtica col significato di “sorgente”): forse un oppidum della tribù celtica dei Galli Vocontii, in merito ai quali l’enciclopedista “tuttologo” Plinio il Vecchio cita un particolare vino dolce e leggermente effervescente davvero squisito! Ci racconta che i Vocontii conservavano il segreto di conferire a questo vino la giusta effervescenza, pare, lasciandolo per lungo tempo nell’acqua fredda dei torrenti…Che sia l’antenato dello champagne?!
I Vocontii fanno la loro comparsa nel IV secolo a.C. calando da nord; la regione a loro piace molto (non mi sorprende!) e decidono di stabilirvisi creando due “capitali”: Vasio, appunto, e Lug (attuale Luc-en-Diois). Roma conquista queste terre tra il 125 ed il 118 a.C. e, in breve tempo, le due cittadine diventano i centri più floridi dell’intera Narbonense, come del resto ci racconta lo storico Pompeo Trogo.
L’Ouvèze, in passato navigabile, divide la città in due parti: la città alta, nata nel Medioevo intorno al severo maniero dei conti di Toulouse, vero gioiello rimasto apparentemente fermo al XIII-XIV secolo! E la città bassa, sorta e sviluppatasi sui resti del centro romano che, tuttavia, dopo le campagne di scavo di inizio Novecento, per ben 15 ettari fanno bella mostra di sé tra le case, accanto alle chiese, nei giardini…
Il centro moderno è a dir poco delizioso. Domina una calda e rassicurante luce rosa-dorata che accende i colori degli innumerevoli vasi e balconi ridondanti di fiori. Piccoli vicoli ombreggiati conducono a piazzette “gioiello” spesso con fontana, sempre rivestite di fiori. Negozi carinissimi e ristorantini accattivanti occhieggiano tra piante di pomodori, aglio e cipolle; i profumi del timo, dell’origano e dell’immancabile lavanda vi accompagneranno ovunque!
Ma iniziamo a dedicarci all’aspetto più strettamente culturale.
La mia visita era partita con l’area della Villasse, corrispondente ad un ricco quartiere residenziale (con magnifiche domus) e commerciale (con botteghe e porticati). Le tabernae si aprono su un tratto del Kardo Maximus diretto alle vicine terme. Degne di interesse due dimore patrizie: la Domus del Busto d’Argento e la Domus del Delfino. La prima, costruita all’inizio del I sec. d.C., raggiungeva una superficie totale di ben 5000 mq ed è la più vasta ed imponente dimora romana di tutta Vaison al momento messa in luce. La seconda, così chiamata in seguito al ritrovamento di un piccolo delfino in marmo, venne abbellita ed ingrandita nel corso del II secolo d.C.; sul retro, lato sud, uno splendido giardino con piscina. Residenze di lusso, senza dubbio!
Altro sito imperdibile è quello chiamato del Puymin. In posizione leggermente sopraelevata, ospita altre dimore di pregio, un santuario e, udite udite, un fantastico edificio teatrale!
2000 i mq di superficie (solo parziale!!) ad oggi noti per la Domus dell’Apollo laureato, con un tablinum incredibile dal pavimento a marmi policromi affacciato sul peristilio. Per non parlare dell’immensa Domus della Pergola che raggiunge i 3000 mq (e anche questa non è stata scavata del tutto!). Il nome le deriva dal pergolato che caratterizza un amplissimo triclinium estivo affacciato sulla corte centrale. Una zona sud prettamente residenzial-suntuaria (dotata anche di balnea privati) ed una a nord dalle funzioni rustiche e di servizio (un pò come nella Villa della Consolata di Aosta).
E ancora, la visita prosegue con un vasto ed arioso santuario costituito da un periptero porticato aperto su un giardino con vasca centrale. Da qui si può accedere ad un quartiere artigianale.
Ma il “pezzo forte” del Puymin è lui, il teatro! Tutelato come “monumento storico” sin dal 1862, si tratta di un superbo esemplare di epoca claudia realizzato scavando il versante settentrionale della collina del Puymin, cosa che ha assicurato al teatro un’ubicazione al riparo dai venti e, allo stesso tempo, fresca ed ombreggiata. Ulteriormente oggetto di abbellimenti nel II e nel III d.C., si pensa venne distrutto dopo l’emanazione dell’editto di Onorio nel 407 d.C. quando tutte le statue di dei e imperatori che ne ornavano la scaenae frons furono abbattute e/o volutamente sepolte. Durante il Rinascimento del teatro si conoscevano soltanto due arcate, uniche testimoni della grandezza passata. Oggi la cavea con le sue 32 gradinate è stata radicalmente ricostruita, ma il teatro è vivo e vissuto, splendida sede di eventi, spettacoli e manifestazioni.
Terra di Provenza. Una terra dove “romano” (in francese “romain”), va a braccetto con “romanico” (in francese “roman”). Due termini che nel gallico idioma sono separati e distinti solo da una semplice “i”. Due aggettivi che rievocano due epoche imprescindibili, due culture sfavillanti che forse qui più che altrove hanno saputo avvicinarsi e fondersi. Non di rado infatti accade che una cattedrale romanica altro non sia che il magnifico risultato, architettonico ma anche fortemente ideologico e simbolico, di sapienti e mirati reimpieghi dell’età di Roma.
E anche a Vaison vi consiglio di visitare la suggestiva cattedrale di Notre Dame de Nazareth col suo poetico chiostro; un luogo dello spirito dove fermarsi a guardare fuori ma soprattutto dentro di sé. Un luogo di silenzio e di pace dove la luce potente del Sud si infrange tra le arcate e le colonnine rimbalzando sulle bifore e saltellando sulle mostruose creature che ornano stipiti e portali.
Il chiostro di Notre Dame de Nazareth (S. Bertarione)
E ancora il Museo Archeologico “Theo Desplans”. Non grande ma assai curato, luminoso, coinvolgente e con reperti di notevole interesse che ben raccontano i fasti passati di una cittadina dall’economia fiorente e vivace, per quanto vi sia esposto meno della metà di quel che ci si aspetterebbe… Ci viene detto, infatti, che nei secoli le collezioni sono andate disperse e che reperti provenienti dagli scavi di Vaison sono finiti in tutti i musei di Francia e anche oltre oceano! A tale proposito un’associazione locale ha creato un sito che consente di sapere dove questi si trovano e dove andarli a ricercare.
Sala della statuaria
Vaison, Vasio Julia Vocontiorum. Una perla di Provenza che ben fa il paio con la forse più conosciuta Orange. Una terra dai forti contrasti dove il mare si perde nei monti e l’azzurro si confonde col verde, dove la dolcezza dei campi fioriti quasi improvvisamente lascia spazio alla rude severità delle rocce calcaree e dei manieri arroccati. Contrasti che, forse, stando a recenti studi storici, si possono persino ritrovare nella prosa del grande storico Tacito di cui si vociferano origini galliche. In effetti, a ben pensarci, la sua lucida analisi di un impero che pur nella sua struttura centralizzata doveva saper fare i conti con l’elemento “barbaro” forse è frutto di un gallo romanizzato piuttosto che di un autoctono romano purosangue… chi lo sa…
Vi lascio quindi con questa poesia di Provenza e con questi colori negli occhi; ma soprattutto con la voglia di trascorrere delle “vacanze romane” molto particolari nella terra che venne a buon titolo definita sempre dal nostro amico Plinio “Italia verius quam provincia”.
Eccoci al terzo appuntamento di #OltreConfine. “Petites pastilles d’escapades” come direbbero i Francesi. “Pillole di viaggio” per oltrepassare i confini, per ora solo col pensiero e con un desiderio di viaggiare che aumenta ogni giorno di più!
Eh sì, lo so… viene subito quella certa acquolina in bocca, vero? Perché non appena nomini “Alba” sono innanzitutto queste le cose che vengono in mente… tartufo, battuta di fassona, un trionfo di carni squisite, di formaggi profumati, di vini eccezionali…per non parlare del risotto al Barolo (ne vado matta!), delle gentili nocciole locali e… insomma un vero “Bengodi”!
Ma a queste immancabili leccornie non possiamo non abbinare l’interesse per la storia e l’arte di questa cittadina gioiello, rossa di cotto, calda ed accogliente. Dopo alcuni giri lungo le strade del Barolo e del Barbaresco punteggiate da manieri e sontuose dimore barocche, decidiamo di trascorrere una giornata ad Alba.
A 50 km a nord-est di Cuneo, Alba sorge sulla riva destra del Tanaro, in prossimità della sua confluenza col torrente Cherasca, in un’ariosa e verdeggiante conca pianeggiante bordata da dolci colline coltivate a vigneto. Un sito abitato sin da epoca preistorica; le prime tracce di insediamento, infatti, risalgono al Mesolitico (10.000-6.000 anni a.C.): piccoli gruppi dediti alla caccia e alla pesca. Effettivamente questa particolare posizione la rendeva quanto mai appetibile…
Addentriamo nelle vie del centro storico dove un’infilata di bei palazzi medievali e barocchi ci accompagnano lungo tutto il percorso. Portici (quanto adoro i portici!), facciate in cotto ricche di decorazioni, chiese dai prospetti curvilinei, torri (non a caso Alba è anche chiamata “città dalle Cento Torri“!), campanili e immancabili (nonché imperdibili!) vetrine debordanti di mille golosità!
“Alba ha 8.000 anni di storia e il territorio che la circonda è ricco di sorprese. Vieni a scoprirle!”
Merita senz’altro una visita il museo civico di archeologia e storia naturale “Federico Eusebio”, situato nella luminosa corte del complesso dell’antico convento della Maddalena.
Le sue sale ospitano il retaggio della millenaria storia cittadina, fin dai suoi esordi risalenti al VI millennio a.C. (il villaggio preistorico è stata una stazione fondamentale del Neolitico del Nord Italia) per giungere ai suoi periodi di maggiore splendore, come quando sotto la dominazione romana assunse il nome di Alba Pompeia, o come quando, negli ultimi secoli del Medioevo fu Libero Comune.
Langhe all’Alba della storia
E’ qui, nel territorio dove sorgerà Alba, che si ha testimonianza della più antica colonizzazione del Piemonte meridionale datata agli inizi del Neolitico (6.000-5250 a.C.) con stretti e frequenti contatti coi vicini Liguri. Vivace l’attività agricola con coltivazioni di farro, orzo e frumento contestualmente al recupero di macine e macinelli.
Con l’epoca protostorica, Età del Bronzo antico (2.200-1.700 a.C.), notiamo significative analogie con Aosta. Anche qui è stato individuato un santuario in cui con tutta probabilità venivano venerate le spoglie mortali degli antenati o comunque di personaggi di rango elevato assai in vista nella società del tempo. Ci colpisce in particolare una sepoltura particolare detta “del Guerriero”, databile tra Bronzo medio e recente, quindi tra 1700 e 1300 a.C.; sicuramente una presa di possesso del territorio che anche nelle sepolture privilegiate dichiarava l’importanza e la forze dei clan, dell’élite guerriera locale.
Dalle “case degli antenati” del Neolitico e dell’Età del Rame, fino alle armi dell’Età del Bronzo (pugnali, spade), arriviamo all’Età del Ferro: siamo nella propaggine nord-orientale del territorio del popolo dei Bagienni (anticipo che Augusta Bagiennorum sarà tra le prossime mete #OltreConfine!)
Fu il console Gneo Pompeo Strabone, padre del più noto Pompeo Magno, a fondare Alba Pompeia. Siamo dunque in piena età repubblicana, ma purtroppo le fasi della città relative a questo suo periodo delle origini non sono note. E’ invece la fase augustea quella che ha restituito il maggior numero di resti; è con Ottaviano Augusto, infatti, che questo centro viene monumentalizzato e dotato di un perfetto impianto urbanistico ed architettonico.
Ma perché “Alba”? Non perché c’entri il colore bianco, ma perché questo termine di origine ligure indica l’insediamento principale di un certo territorio; pensiamo, infatti ad ALB-enga, l’antica ALB-ingaunum, o a Ventimiglia il cui nome antico era, non a caso, ALB-intimilium…
Una posizione privilegiata che in breve tempo rese Alba un centro strategico per gli scambi commerciali, un ponte importante tra il Mar Ligure e le Alpi, tra il Mediterraneo e la piana del Po.
A questo si aggiunga l’efficiente e capillare rete stradale romana in cui le vie principali si affiancavano ad un incredibile reticolo di strade secondarie, assai spesso ricalcate su precedenti piste conosciute ed utilizzate sin dalla Preistoria.
La città romana presenta una forma irregolarmente ottagonale; quasi al centro di uno spazio urbano suddiviso in 52 insulaesorgeva il foro nelle cui vicinanze si trovavano le terme ed il teatro.
Che fosse una città ricca ed opulenta è facile intuirlo: il museo dipana un’abbagliante sequenza di lacerti di pavimenti marmorei multicolori, di affreschi parietali straordinari, di frammenti di statuaria monumentale e non solo… per non parlare dei corredi funerari, del vasellame ceramico e vitreo, dei monili, dei gioielli, dei cippi funerari elegantemente decorati e le tante, tantissime, iscrizioni i cui nomi e i cui titoli aiutano a ritrovare gli albesi del tempo.
Due sono le cose che più di tutte tenevo a vedere e che, come mi aspettavo, sono rimaste impresse nella mia mente. Innanzitutto l’incredibile affresco col Capricorno e i delfini proveniente dalla ricchissima domus di via Acqui. Sebbene la didascalia presente al museo parli di “animali marini fantastici”, io mi permetterei di azzardare che si tratta, senza troppi dubbi, di un Capricorno, mitico animale dalla doppia identità marina (coda di pesce) e terrestre (protome cornuta), se non addirittura dalla tripla identità in quanto trattasi di costellazione, quindi anche celeste!
Sarà che negli ultimi anni di Capricorni ne ho studiati davvero tanti… ma mi sentirei di averne trovato un altro e decisamente notevole! Capricorno, simbolo dell’imperatore Augusto, accompagnato da delfini, non a caso mammifero marino scelto dal fidato Agrippa.
Altro elemento di forte attrattiva per me era la nota testa colossale raffigurante una divinità femminile diademata. Questa testa venne ritrovata nel 1839 nei pressi del Duomo (zona forense quindi). Purtroppo ad Alba si trova una copia poiché l’originale è esposto al Museo di Antichità di Torino…peccato… ma presto anche Augusta Taurinorum sarà protagonista di #OltreConfine! Tuttavia, al di là di complesse vicissitudini storiche, ritengo sia assolutamente importante che i pezzi, soprattutto se così rilevanti e in qualche modo “rari”, tornino nel luogo dove furono scoperti!
Si tratta di una statua di culto realizzata con la tecnica detta dell’acrolito, ossia con diversi materiali; la testa, in lucente e prezioso marmo greco, andava inserita in un corpo realizzato in altro materiale, magari con altro colore per accentuare il contrasto tra le carni e le vesti. Si data tra la fine del II sec. a.C. e l’inizio del secolo seguente.
Quello sguardo rivolto verso l’alto, il possente collo leggermente ritorto, le corpose ciocche di capelli a fatica trattenute dal diadema, ma soprattutto quella bocca piccola ma carnosa leggermente socchiusa quasi stesse sussurrando antiche litanie, portano direttamente ai canoni stilistici di età ellenistica. Un sogno…
Quando si potrà, dedicate un week-end ad Alba, vi stupirà! E non solo per la sua straordinaria enogastronomia o per la sua accogliente atmosfera, ma anche per le ricche testimonianze del suo lungo e variegato passato, così come per il suo sottosuolo! Ebbene sì, non potete perdervi la visita di Alba sotterranea insieme agli archeologi!
Alba, capitale delle Langhe, un vero scrigno di arte e di storia da vivere… con gusto e “sottosopra”!
“E tu? Qual è il tuo mondo?” Può suonare strana come domanda, vero? Eppure era questo il modo curioso che Irene usava, sin dalla scuola dell’infanzia, per chiedere a qualcuno… beh, quale fosse il suo mondo! Cioè dove abitava, cosa faceva, come viveva insomma!
E spesso si domandava quale fosse il mondo del proprietario della grande casa nel parco…
“Non devi avvicinarti a quella casa! E’ pericoloso! Dicono sia abitata da un vecchio spaventoso, zoppo e gobbo! E’ sempre da solo e non ama ricevere visite! Men che meno da bambini ficcanaso! Stanne alla larga!”.
Glielo ripetevano ogni giorno, ma più ne sentiva parlare, e più la curiosità di entrare in quel vastissimo parco nascosto da un labirinto di alberi e cespugli, la tentava moltissimo. Era come se qualcuno la chiamasse… Mettici anche quella sua innata insofferenza alle regole e alle imposizioni; mettici quell’indole ribelle e controcorrente…mettici pure tutto, ma lei sarebbe riuscita a entrare là dentro!
Irene era fatta così! Anche se aveva solo 7 anni, possedeva già un caratterino notevole! Testarda e cocciuta, certo, ma anche molto intelligente e soprattutto irrimediabilmente curiosa! Proprio per questo motivo quella misteriosa villa seminascosta dagli alberi costituiva per lei un irresistibile richiamo.
Un immenso parco circondava da ogni lato quella strana dimora apparentemente disabitata. Una nebbia fitta avvolgeva costantemente le piante e i cespugli: quel luogo sembrava impenetrabile. Tutti ne stavano alla larga!
Ma Irene era diversa! E così, un giorno, decise che sarebbe riuscita ad entrare in quell’immenso giardino, anzi, che sarebbe riuscita persino ad entrare in quello strano “castello”.
“Voglio vedere questo sig. Gamba di cui tutti hanno paura! Insomma, sarà pure vecchio, brutto, gobbo e zoppo ma…dai! E’ pur sempre un uomo! Cosa potrebbe mai farmi? Al limite posso scappare: sono sicuramente molto più agile e veloce di lui!”, pensò la bambina.
Sembrava impossibile trovare l’ingresso di quella vastissima proprietà, ma dopo alcuni tentativi, Irene si accorse di un cancello mai notato prima. L’edera lo avvolgeva quasi del tutto, ma era stranamente aperto! Rimediò qualche graffio, si strappò la giacca, ma riuscì ad entrare! Non poteva crederci: finalmente era in quel parco! Emozionata ed eccitata, iniziò ad esplorare, quasi in punta di piedi, quel giardino incredibile così a lungo sognato. E presto si rese conto che, ad ogni passo, la nebbia si alzava lasciandole vedere, poco a poco, il paesaggio intorno a lei.
Era ancora più grande di quanto si immaginasse. Alberi altissimi, siepi folte e delle specie più diverse incastonavano viali e sentieri che si infilavano nelle nuvole e nel verde in un orizzonte confuso e oltremodo invitante.
Irene iniziò a correre ridendo, a braccia aperte: le sembrava di essere “Alice nel paese delle meraviglie”, si sentiva libera e felice in quell’immenso spazio tutto per lei, finché non sentì uno strano rumore alle sue spalle. Dei passi. Ma passi strani, diversi… Coraggiosa si voltò, pronta a tutto. Ma non vide nessuno.
Con grande meraviglia, però, vide che il sentiero alle sue spalle era coperto di neve! “Ma com’è possibile? Ci sono appena passata!”, osservò incredula. Era proprio così: davanti a lei la nebbia svelava una sgargiante primavera; dall’altra parte tutto era avvolto in un candido e silenzioso inverno.
Irene guardò con più attenzione il sentiero innevato: “Orme! Qualcuno è passato di qua! Era proprio dietro di me! Ma… che razza di impronte sono? Sono…diverse…Sembrano un piede e…una zampa? No! Forse è un bastone?… Ma certo! E’ lui! E’ Gamba! Mi stava seguendo!”
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Irene seguì l’istinto e d’impulso decise di seguire quelle tracce sulla neve. Il sentiero prese leggermente a salire in mezzo ad una galleria di alberi dalle fronde cariche di soffice e gelato candore. Raggiunse quindi una scalinata che la portò in cima alla collina.
Eccola, lì davanti a lei si ergeva possente quella grande casa scura. Per un attimo ebbe paura. “E se fosse meglio tornare indietro?”, pensò. Si voltò, ma la nebbia era di nuovo calata fitta e non si vedeva nulla. Ad un tratto il lampione accanto a lei si accese. Come una specie di lanterna, emetteva una rassicurante luce calda in tutto quel freddo candore. Istintivamente Irene vi si appoggiò: con un lento scricchiolìo il grande portone d’ingresso si aprì.
Col fiato sospeso, la bimba si diresse, quasi in punta di piedi, verso la porta semiaperta. Tutto era avvolto da quel particolare silenzio ovattato che solo la neve sa creare. Si voltò ancora. Il lampione non c’era più! Guardò all’interno. “Ehi…c’è nessuno’ Sig. Gamba… è permesso?”.
E, una volta varcata la soglia, il portone si richiuse immediatamente.
Non ebbe nemmeno il tempo di capire se mettersi a urlare o a piangere, che l’androne fu invaso dalla luce di decine di lampade e una dolce melodia iniziò a diffondersi quasi invitando e “spingendo” la bimba a salire la prima rampa di scale.
“Ma..è una vera casa! Ed è anche molto bella!”, si disse Irene, inspiegabilmente a suo agio in quel luogo sconosciuto ma famigliare allo stesso tempo.
Si trovò quindi in un corridoio azzurro su cui si aprivano diverse porte, tutte chiuse. Poi, una di queste si aprì. Irene entrò e si trovò in un salone enorme dal soffitto altissimo, con le pareti di un rosso acceso. Al centro una statua nera, lucida e colossale: un uomo gigante dallo sguardo fisso e i piedi smisurati. “Chissà chi è…?”, pensò. “Ti chiedi chi sono?”: la profonda voce del colosso riempì la stanza e Irene non potè trattenere un grido. “Io sono il guardiano di questo palazzo! A te è stato concesso di entrare, dopo molti, molti anni! Solo tu, piccola Irene, potrai rompere l’incantesimo che avvolge questa casa, un tempo felice, e far sì che il sole torni a scaldarla, l’arte a colorarla e il sorriso sul volto del suo signore…”.
“Io?!”, esclamò Irene, “ma come…”. Non terminò la frase che la stanza iniziò a riempirsi di strani sassi, rocce dalle forme più diverse e dai colori cangianti. Le pietre aumentavano velocemente e il colosso, sebbene immobile, sembrava in lotta contro di loro per non farsi soffocare. Cercando una possibile via d’uscita, Irene notò la porta-finestra che dava sul loggiato. Vi si precipitò e la aprì. I grandi vasi di tulipani sistemati sulla loggia immediatamente si pietrificarono.
L’opera “vegetale” di Marina Torchio per l'”Assalto al castello” Gambas
Fu così, però, che le creature di roccia smisero di invadere il salone e le sembrò che il nero gigante le sorridesse.
L’installazione di Massimo Sacchetti per la mostra “Assalto al castello” al Gamba
Una luce irruppe, quindi, dalla stanza accanto: strane pareti doppie, con entrambe le superfici dipinte. Figure di donne, di bimbi, di madri… Le pareti iniziarono a muoversi e, da distanziate, cominciarono ad avvicinarsi le une alle altre. La stanza iniziò a rimpicciolirsi. A Irene di nuovo mancò l’aria. Il suo sguardo istintivamente cadde sull’unico dipinto a colori e lo toccò; sempre istintivamente chiamò “Mamma!” e le pareti si bloccarono! Osservò con maggiore attenzione: sempre le stesse figure. Madri e bimbi piccoli raffigurati ovunque, quasi ossessivamente. Il quadro colorato prese vita e la donna le parlò: “Brava Irene… tranquilla! Ora vai pure a giocare!”.
L’installazione di Pasqualino Fracasso per “Assalto al castello” Gamba
Irene non credeva ai propri occhi, nè alle proprie orecchie. Come sapeva il suo nome? E come mai quella voce le suonava famigliare?
Ma calò il buio e subito un’altra sala si illuminò.
Una stanza dalle pareti gialle con bellissimi quadri di paesaggi e montagne. A terra, invece, una distesa di grandi rocce lisce e piatte, mentre, appesi al soffitto, i fiori, chiusi in teche di vetro, sembravano le tristi farfalle di una crudele collezione. La bambina vide che quelle strane rocce iniziavano a muoversi… “Oh no! Anche qui!, esclamò! La superficie rocciosa iniziò a salire sui muri, tentando di coprire i quadri. Le venne spontaneo cercare di fermarla con le mani e la coltre di roccia si frantumò lasciando apparire, qua e là, un bellissimo e variopinto prato fiorito. Fiori che sembravano fatti di pietra. Petali di roccia.
L’installazione di Patrick Passuello per la mostra “Assalto al castello” al Gamba
Le farfalle si liberarono all’improvviso e in un turbinìo di colori, le pareti si aprirono lasciando il posto ad un’altra incredibile stanza. Questa volta Irene si trovò in un salotto. Era molto caldo e accogliente, pieno di libri. Incuriosita si avvicinò, fece per prenderne uno ma… era finto! L’intero salotto era un’illusione! Stando al centro della stanza sembrava reale, ma quando ci si avvicinava agli oggetti, si rivelava la finzione. Una sorta di gioco, di doppia realtà. La casa vera e quella immaginaria insieme come in un grande gioco di scatole cinesi.
L’installazione di Barbara Tutino per l'”Assalto al castello” Gamba
Superato questo senso di straniamento insolitamente piacevole (“Mi sentivo come dentro un quadro!”, si disse Irene), ecco che la porta successiva dava su una scala che non scendeva, ma saliva soltanto. “Beh, non ho scelta!, pensò la bambina. Si ritrovò quindi immersa in un ambiente spazioso ma molto buio. Fece per voltarsi, ma anche la scala da cui era appena salita era avvolta nel buio. “Ho capito sig. Gamba! Nella sua casa non si sa mai cosa può accadere! E va bene, ci sto!”, esclamò Irene ad alta voce.
Nell’oscurità, in fondo alla stanza, ecco quindi apparire un lontano bagliore azzurro. La bimba non si mosse, ma ebbe l’impressione che quella luce si stesse avvicinando da sola. Ad un certo punto si fermò. “Benvenuta, piccola avventuriera. Dunque sei tu colei che riporterà la gioia tra queste mura… avvicinati, forza”. Una melodiosa voce femminile riempì la stanza. Quasi un canto, come se provenisse dalle profondità del mare. Anzi, ascoltando con attenzione, Irene ebbe la netta percezione del rumore delle onde. Si avvicinò e il punto luminoso “esplose”: un’intera parete si aprì e, illuminato da una sfolgorante luna piena, davanti a lei, Irene aveva proprio… il mare! Quasi lo avrebbe potuto toccare… ne sentiva l’odore, la salsedine. E da quelle onde emerse lei, una creatura metà pesce e metà uccello e… anche metà donna! Proprio così: tre nature convivevano in quell’essere insolito e ipnotico. “Chi sei tu?”, chiese Irene, stranamente per nulla spaventata, “una fata? O forse una specie di sirena?”, incalzò.
Amabie interpretata da Paola Corti nell’installazione di Giuliana Cuneaz per la mostra “Assalto al castello” al Gamba
“Io sono Amabie. Sono tutto e nulla di ciò che tu dici. Io posso vivere negli abissi marini come in quelli celesti. Io volo sott’acqua e oltre le nuvole. Io porto salute e serenità. E, se vuoi, posso anche farti giocare con la luna!”, le propose ammiccante. A Irene venne spontaneo allungare le braccia e tendere le mani verso quella magica sfera lucente che Amabie le stava offrendo. Non ci poteva credere! Stava davvero toccando la luna! “Brava piccola”, le disse, “d’ora in poi, per molti anni, finalmente dopo difficoltà e sofferenza, le lune saranno amiche e benevoli. I raccolti saranno abbondanti e la gioia tornerà a riempire le case. Le ricchezze, prima perdute, ora possono essere recuperate e messe da parte! Prosegui il tuo cammino in questa dimora che, in sé, racchiude i simboli del mondo!“.
La luce scomparve. Amabie anche. Ma a Irene rimase la luna in mano! La luna che, come una magica lanterna, la guidò alla stanza accanto. Tutto buio; la bambina sbatté la testa contro degli strani oggetti che pendevano dal soffitto.
Un forte profumo di erba, fieno ed essenze aromatiche riempiva l’aria. “Mi sembra di essere in campagna da mia nonna!”, pensò la bambina incuriosita. Alzò la “sua” luna e… “Oohh…”: una vera e propria pioggia di delicate scatoline trasparenti ricadeva dall’alto. Scatoline apparentemente molto fragili, ma che in realtà, al tatto, non sembravano di vetro.
L’opera di Chicco Margaroli per “Assalto al castello” Gamba
“Che strane! Ma…cosa sono?!”, si chiese Irene. Osservandole più attentamente si accorse che racchiudevano qualcosa al loro interno. Dopo essersi assicurata di non essere vista, afferrò quella più vicina a lei e tirò; la misteriosa scatolina si staccò e si aprì tra le sue mani! Al suo interno c’era del fieno: era straordinariamente profumato! Su ogni scatolina notò che era scritta una parola. Una sola. In ognuna era racchiuso un valore, uno dei tanti sensi della vita. A ognuno scoprire il proprio. Irene illuminò il soffitto e le scatoline trasparenti cominciarono a brillare come se fosse una pioggia di stelle. Nell’apparente silenzio che avvolgeva quel luogo, le parole sulle scatoline risuonavano emanando, col fieno, tutto il profumo dei loro numerosi significati. Davvero in quella pazzesca dimora, quasi simile ad un castello, erano racchiusi tutti i simboli del mondo!
A Irene venne spontaneo respirare, allargare le braccia e mettersi a roteare. Si sentiva felice!
Un’improvvisa brezza la sfiorò e la indusse a cambiare stanza. Seguendo quello strano vento arrivato da chissà dove, Irene si ritrovò in un incredibile salone blu. Le pareti si accesero e presero a muoversi creando disegni, forme e profili quasi stordenti. La bambina continuava a girare su se stessa in mezzo a quelle sorprendenti pareti in movimento. Si muovevano come fasci luminosi. Le sembrava di essere tra le onde, oppure no… forse tra le nuvole…oppure, no… forse stava scivolando in una galleria di ghiaccio!
L’installazione di Andrea Carlotto per l’Assalto al castello” Gamba
“Ecco, vedi? Di nuovo sono io che posso vedere in questi segni tutto ciò che voglio! E comunque mi parlano e vogliono dirmi qualcosa”, riflettè Irene in cuor suo. “Chissà però come faccio adesso a uscire da qui…non vedo porte…”, si disse un po’ preoccupata.
“Beh? Cosa fai lì impalata? Non sali?”. Una possente ma gentile voce maschile irruppe nella stanza. Irene si guardò attorno per capire da dove provenisse, ma invano. Poi dal soffitto scese una scala che conduceva al piano di sopra. “Ma…chi é?”, chiese. “Come chi sono?! Sei entrata in casa mia, e mi chiedi chi sono’!”.
“Sig. Gamba!! E’ davvero lei? Mi aspetti!”, gridò Irene. Ma non ottenne più risposta.
Era una scala decisamente insolita: tutta di vetro e acciaio. Lieve e massiccia allo stesso tempo. Mentre saliva, aveva la netta sensazione che la scala ondeggiasse…o era forse quello che le stava intorno a muoversi? Finalmente raggiunse un corridoio in legno. Ai lati due pareti che, a prima vista, sembravano rivestite di quadri dai colori accesi e vivaci. Ma, avvicinandosi, Irene si accorse che quei quadri…erano vivi! Come se stesse guardando attraverso un vetro, restò stupita nel vedere animarsi una sorta di circo: scimmie e scimmiette, una piccolina su una capra nera, un’altra più grande con un vezzoso ombrellino orientale a fiori e un’altra ancora in piedi…
Un’opera di Marco Bettio per la mostra “Assalto al castello”
Tutte a bocca spalancata coi denti bene in mostra. C’era silenzio, ma quegli animali stavano urlando: forte il bisogno di comunicare, ma anche di avvertire e recepire la risposta, forse soprattutto emotiva, di chi forse le stava guardando. A Irene non sfuggì poi, a metà del corridoio, una sorta di doppio ritratto che divideva quello spazio esattamente in due. Da una pare uno scimpanzé con l’espressione pensierosa ma serena, quasi compiaciuta. E, come contraltare, un bellissimo viso di donna, dai capelli neri raccolti e grandi occhi grigio-verdi. “Sembra quell’attrice che piace tanto a mia nonna… come si chiama? Quella che aveva interpretato Cleopatra… Liz, Liz… sì ecco! Sembra proprio lei, Liz Taylor!” esultò la bambina.
Dal circo al cinema! Irene guardò con grande curiosità gli altri quadri, opere che colpivano immediatamente l’attenzione per i loro colori forti e sgargianti. Per non parlare delle figure femminili: bellissime, sinuose, affascinanti. Tuttavia, sotto quell’abbagliante bellezza sembravano nascondere altro, una sorta di tristezza, un senso di attesa e sospensione.
Fino al dipinto di una fanciulla distesa in un avvolgente tappeto di fiori rossi e rosa. “Sembra davvero Alice nel paese delle meraviglie” E’ vestita allo stesso modo!” esclamò Irene.
Una delle opere di Sarah Ledda per l’Assalto al castello
Irene osservava rapita quella figura abbandonata nel sonno, o forse in un sogno… A metà tra Alice o Dorothy, la protagonista del Mago di Oz. Il mondo delle fiabe. Il mondo delle meraviglie. Il mondo irreale per alcuni, ma non per tutti…fortunatamente! La fantasia: questa è una delle parole più importanti per Irene. La fantasia può darti la chiave per aprire mille porte, mille stanze, case, mondi!
“Forza, sali! Vieni sù nell’altana!”. Di nuovo quella voce. “Sig. Gamba! Arrivo subito! Lei mi aspetti, però! Non scompaia!”.
Irene percorse tutto d’un fiato gli ultimi scalini e si ritrovò al centro della torre del palazzo. Era più grande di quanto pensasse. Non vi era nulla. Dalle ampie finestre si poteva volare sul fondovalle, sopra i prati, sopra le case, sopra i boschi, fin sopra le nuvole sfiorando le vette dei monti.
Il bellissimo panorama dall’altana del Gamba guardando verso est
Si guardò attorno; “Sig. Gamba…dov’è?…” (“Ecco…è sparito di nuovo! Ma come fa?!”), pensò sconcertata. Poi un movimento. Come una piccola ombra scura davanti agli occhi. Pensò si trattasse di un insetto… Di nuovo! Irene osservò con attenzione. “Ma… sono scritte!”. Sul vetro comparivano e scomparivano delle parole: sembravano messe a caso, ma alla componevano delle frasi. Potevano sembrare sconclusionate, ma, anche questa volta, il senso lo dava chi leggeva. “Come nelle poesie!“, esclamò Irene; “sembrano scritte in modo strano, ma non è così! E ognuno ci legge, in fin dei conti, quello che sente nel suo cuore!”.
“E come nelle fiabe…vero Irene?”. Il sig. Gamba era lì! Irene si voltò: lui era davvero lì! Di spalle, in piedi affacciato alla finestra dietro di lei. Una sagoma scura ma che non incuteva alcun timore. In realtà non era zoppo, ma si appoggiava ad un bastone.
“Ti aspettavo, sai? Da quando te ne sei andata, molto tempo fa…poco più che in fasce, così, fragile, incapace di lottare contro quel terribile male e noi, tua madre Angélique ed io, incapaci di aiutarti. Io, cheavevo volutonquesta grande casa e questo immenso parco solo per voi…in poco tempo mi sono ritrovato solo. Sì, tua madre, la mia adorata Angélique, non seppe sopravvivere senza di te. Il suo cuore non era forte abbastanza. E io mi sono ritrovato solo. E mi sono chiuso sempre di più. Il mio spirito triste vagava tormentato tra le sale di questa dimora, senza un senso, senza pace. Una casadivenuta simbolo della mia vita, del mio mondo sognato e brutalmente perduto.
Ma adesso sei qui, mia piccola Irene! E posso trovare la mia dimensione, lasciare queste mura e raggiungere le mie donne. Tu, con lo stesso nome e gli stessi occhi della mia piccola, sei stata capace di superare paure e pregiudizi. La mia casa ti ha accolto e tu le hai ridato luce e colore. Adesso questo è tornato il mio fantastico mondo!
D’ora in poi sarà sempre aperta, a tutti, ma soprattutto agli spiriti liberi e all’arte, che soggiace ad ogni cosa rivestendola di senso e valore.
Grazie, Irene!”.
E svanì.
Da quel momento la grande casa nel parco non venne mai più richiusa e risplende accogliendo le persone in un avvolgente vortice di forme e colori, oltre le apparenze, oltre le consuetudini, cavalcando l’insolito, la fantasia e la creatività.
Quello che era lo scuro “castello” del “Gamba”, oggi è tornato a vivere e a regalare emozioni.
Il castello Gamba nell’ultima edizione di Plaisirs de Culture 2020
Le Fate. Creature del sogno e della fantasia, nate dall’immaginazione dell’uomo che solo in questo modo poteva dare forma a qualcosa di immateriale o di inspiegabile. La Valle d’Aosta, terra di alte montagne, di nevi perenni e poderosi ghiacciai, dove Madre Natura si fa severa, implacabile ed esigente, è ricca di storie che narrano di strane creature ed esseri fantastici, benevoli o malevoli, sicuramente volubili.
Creature oniriche, impalpabili, che vivono nelle rocce, dentro le grotte, nei laghi, nelle sorgenti, nei boschi o in luoghi isolati dove le attività umane sono difficili se non impossibili. Luoghi dove le fate si nascondono sottraendosi alla vista, chiuse in un silenzio incantato che, però, se lo si sa ascoltare, a volte può lasciar sentire la melodiosa voce delle fate. Una voce simile ad un canto le cui note solo il vento sa suonare.
Il territorio del Monte Bianco vede la presenza di almeno due fate protagoniste di racconti locali, entrambe individuate in Val Veny: quella nascosta nei ghiacci della Brenva, in un luogo a monte di Plan Ponquet; ed una, forse più famosa, e forse non da sola, che ha stabilito la sua dimora nel lago del Miage.
La Fata del Lago del Miage-Courmayeur (Foto: Giuliana Cuneaz)
Le leggende narrano che vi fu un tempo in cui, dove ora si stendono le propaggini ghiacciate della Brenva e si apre il lago del Miage, vi fosse una conca verdeggiante ricca di fiori ed erbe profumate dove le splendide fate della grande montagna amavano riunirsi e danzare.
Un giorno, però, la loro voce incantevole e la loro straordinaria bellezza attirarono l’attenzione dei demoni annidati tra le rocce aguzze di quello che veniva chiamato, non a caso, il Mont Maudit (ossia il Monte Maledetto, primo nome della “spaventosa” montagna che diventerà Monte Bianco).
I demoni iniziarono ad insidiare le fate con profferte d’amore sempre più insistenti e sgradevoli.
Le fate fuggirono inorridite e trovarono rifugio nel ventre della montagna, protette da un cerchio di magia invalicabile.
I demoni, accecati dall’ira, scossero le alte vette facendo franare massi enormi e facendo raggelare la dolce vallata in un inverno senza fine. Solo il lago del Miage resistette all’avanzata del ghiaccio e, alcuni dicono, che laggiù, sul fondo da qualche parte, le fate vivano ancora.
“Oh sorgete, soffiate impetuosi,
venti d’autunno, su la negra vetta;
nembi, o nembi, affollatevi, crollate
l’annose querce; tu torrente, muggi
per la montagna, e tu passeggia, o Luna,
per torbid’aere, e fuor tra nube e nube
mostra pallido raggio…”
I versi del leggendario bardo Ossian, anche noto come l’ “Omero del Nord”, dipingono perfettamente lo scenario naturale dell’alta Val Veny di Courmayeur che viene quasi ritratta dal canto ossianico: la “negra vetta” sembra infatti richiamare l’aguzzo profilo della scura Aiguille Noire e, al di là del riferimento all’autunno, spesso le serate estive ai piedi del Monte Bianco riservano temporali, vento e rincorrersi di nubi. Per non parlare dell’inverno: lungo, gelido, cristallino, che riveste la valle di una spessa e candida coltre ghiacciata, accompagnandola per mesi in un sonno ovattato ed impenetrabile. Quelle vette imponenti ed appuntite, scintillanti al sole e alla neve, sembrano davvero il regno della misteriosa regina dei ghiacci, ma anche la dimora di fate inafferrabili ed invisibili.
Pareti rocciose incombenti e tormentate, lavorate da antichi movimenti glaciali, sagomate dal vento che vi si annida e vi si rotola, accarezzate dalle piogge e levigate dalle gelate invernali. Ma c’è dell’altro.
Qui domina il silenzio, ma è un silenzio strano, che ti assale, ti avvolge, ti fa quasi il solletico, ti fa venire i brividi. Qui, tra le pieghe ghiacciate della grande Brenva, così come nelle mute acque argentate del Lago del Miage, dimorano le fate di queste montagne, signore di un regno inaccessibile e misterioso che va contemplato fermandovisi ai margini.
In pochi le sanno vedere; in pochi sanno riconoscerne la voce e l’eterea presenza. Una di queste persone è l’artista valdostana Giuliana Cunéaz, una donna la cui mente e le cui mani infaticabili sanno cogliere le sfumature dell’invisibile per dare loro nuova forma, nuova vita. Giuliana ha saputo recuperare queste antiche leggende, queste credenze popolari, riportandole nei loro luoghi: 24 in tutta la Valle d’Aosta.
Nel progetto chiamato, appunto, “Il silenzio delle Fate” (1990), ha voluto evocare queste diafane presenze attraverso un particolare percorso circolare toccando località in cui si narra che una fata sia apparsa. In ognuno di questi luoghi Giuliana Cunéaz aveva installato un leggio in ferro su cui poggiava uno spartito in marmo bianco. Su ogni spartito era riportato uno stralcio di un brano musicale composto appositamente dal musicista torinese Armando Prioglio. A causa dell’uomo e della natura, oggi molti leggi non sono più al loro posto. Riunendo i 24 brani si otteneva un’unica melodia che, mescolandosi al vento, al fruscio dell’acqua e amplificata dalla grandiosità degli scenari naturali, evocava un antico canto, melodioso e silenzioso allo stesso tempo; evoca “il silenzio delle fate”.