La finestra di Bonifacio. Quel prode signore “baciato dal mare”…

Voglio raccontarvi una storia. Siamo a casa da oltre 1 mese ormai e, dalle finestre, vedo i resti dell’antica Torre d’Avise, corrispondente alla torre sud-occidentale dell’originale cinta romana. Abito in una posizione decisamente fortificata in effetti… dentro le mura con, verso nord, la Torre detta “del Lebbroso” (che, di questi tempi, è l’emblema stesso della reclusione); verso est la mole possente del castello di Bramafam e, infine, a sud-ovest, ciò che il tempo ha risparmiato (assai poco, purtroppo), della torre d’Avise.

Ecco, oggi protagonista del racconto sarà lui, il nobile Bonifacio d’Avise. Prode, battagliero, deciso. Storie di viaggi e battaglie. Ma anche, come un gioco di scatole cinesi, storie di contatti, scambi e committenze tra le Alpi e il Mare, dalla Valle d’Aosta alle tumultuose coste della Puglia passando dalla raffinata corte napoletana.

Una storia densa e coinvolgente che, lo vedrete, si adatta assai bene anche con la ricorrenza di oggi, Venerdì Santo. Ma non basta ancora: una vicenda che, ad un ulteriore livello, rende un particolare omaggio al Santo patrono d’Italia. Quindi, pronti?

Cominciamo dalla sua terra…

Una delle contrade più suggestive della Valle d’Aosta, incastonata tra prati e vigneti, scoscese pareti di roccia e inaspettati altipiani. Qui la valle viene rinserrata in una gola e la Dora si insinua in un solco stretto in una morsa di pietra. E’ questo un passaggio forzato; non c’è alternativa a meno che non si voglia allungare di molto il viaggio e salire, salire.. per poi scendere, sì.. ma chissà dove! La montagna è mutevole: le sue forre, i burroni, i boschi fittissimi impediscono di ragionare “in linea d’aria”.

PierreTaillée

Già gli antichi Romani avevano deciso che questo stretto passaggio doveva essere strategicamente controllato; infatti qui realizzarono, lottando strenuamente contro una natura ostile, uno dei tratti più affascinanti e aerei della Via delle Gallie: la Pierre Taillée. Il baratro sotto i piedi e la mole sovrana del Monte Bianco all’orizzonte.

Qui, dove paura e sublime si fondono, in epoca medievale sorse un piccolo regno.

E’ la terra dei nobili Signori d’Avise.

Un luogo che ancora oggi conserva la sua selvaggia bellezza. Un luogo che sa difendersi grazie alla natura stessa. Un luogo perfetto per controllare chi arrivava dall’alta Valgrisenche, dal Col du Mont (e quindi dalla transalpina Tarantasia), e voleva attraversare proprio in questo punto per salire verso Saint-Nicolas e da lì proseguire verso l’alta valle del Gran San Bernardo da dove continuare alla volta della Svizzera. Il tutto senza dover scendere fino ad Aosta.

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E’ qui che sin dal XII secolo la potente famiglia d’Avise stabilisce il suo quartier generale. Una delle casate più antiche del Ducato di Savoia  il cui stesso cognome racchiude e rivela la natura guerriera: una famiglia “di guardia”, appunto. Oltre a dominare questa significativa porzione di territorio tra il fondovalle centrale e la Valdigne, i d’Avise estendevano le loro proprietà su Arvier, Gignod, Quart, fino a Ayme-en-Tarentaise.

Il loro potere era rappresentato sul territorio da diversi castelli e caseforti. Ben due ad Avise cui si aggiungono Rochefort (dove oggi sorge il santuario che domina Leverogne e Arvier), Montmayeur, Planaval: una linea fortificata che risaliva l’aspra Valgrisenche con torri e punti di avvistamento distribuiti lungo l’asse di penetrazione di questa vallata irta di pericoli.

Questa la stirpe da cui nacque Bonifacio.

Cavaliere e signore d’Avise, nella prima metà del ‘400 sposò Alexie Malluquin grazie alla quale entrò in possesso dei beni che questa famiglia possedeva a Courmayeur e in tutta l’Alta Valle, nonché a Gignod e ad Etroubles. Vi dico questo affinché vi sia chiaro in quali porzioni di territorio lui esercitasse la sua autorità.

XV secolo, tempo di lotte contro i Turchi. Il Mediterraneo era in subbuglio e il Vaticano nutriva fondate preoccupazioni. Fu così che Papa Sisto IV decise di inviare una missiva “urbi et orbi” per chiamare a raccolta i nobili, i cavalieri, i soldati che volessero partire contro l’impero ottomano. Era circa il 1480; il prode Bonifacio d’Avise parte alla testa di ben 800 uomini d’arme reclutati nella sola Valle d’Aosta.

E’ grazie alla poderosa “Storia dei Papi” di Ludovico Von Pastor che possiamo ricostruire almeno le tappe fondamentali di questa missione sulle rotte del Sud. Bonifacio coi suoi si imbarcò a Genova dove proprio dal 1480 il cardinale legato Savelli stava predisponendo una flotta di 34 navi da guerra destinate alle “forze cristiane” dell’Italia nord-occidentale.

30 giugno 1481: l’armata fa il suo ingresso a Roma.

4 luglio 1481: unitasi alle altre navi pontificie fa vela per Napoli dove si unisce alla flotta di re Ferrante I, al secolo Ferdinando d’Aragona. L’intero contingente si diresse, quindi, alla volta di Otranto, tragicamente capitolata proprio nel 1480 sotto l’assedio, lungo e logorante, dei Turchi capitanati dal sultano Maometto II. Durante l’atroce battaglia di Otranto furono uccise e trucidate oltre 800 persone e venne raso al suolo il Monastero di San Nicola di Casole (a pochi km a sud di Otranto), dove era stata costituita la più vasta biblioteca d’Occidente allora conosciuta, oltre ad avere istituito la prima forma di “college” nella storia, che ospitava ragazzi provenienti da tutta Europa che si recavano a Otranto per studiare.

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Ma la città, nonostante l’eccidio, era animata da una viscerale voglia di riscatto. In questo clima giunsero le flotte pontificie; tra queste anche quella su cui viaggiava il fiero signore d’Avise, Bonifacio, giunto sin qui dalla sua remota terra alpina.

Dall’11 agosto al 10 settembre 1481 si invertono i ruoli: stavolta sono le truppe cristiane a cingere Otranto d’assedio per poi riuscire a riconquistarla. I progetti del papa avevano previsto un prolungamento della crociata sull’altra sponda dell’Adriatico, a Valona, ma l’autunno ormai alle porte, le spese esorbitanti ed una terribile epidemia di peste scoppiata sulle navi, costrinsero la flotta a rientrare anzitempo. Ai primi di ottobre si era già a Civitavecchia.

Cosa vide Bonifacio in questi mesi? Chi conobbe? E cosa di questo viaggio, in termini di conoscenza oltre che di sofferenza e timore, si portò a casa, in Valle d’Aosta? Di certo questo itinerario tra Genova, Roma, Napoli e la Puglia avrà avuto inevitabili ed importanti implicazioni, non solo sotto l’aspetto socio-culturale, ma anche artistico. Orizzonti figurativi decisamente diversi dal panorama valdostano cui era abituato.

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Ma perché queste riflessioni? Perché la chiesa parrocchiale di Sant’Ilario, a Gignod, racchiude affreschi davvero particolari, attribuiti ad un anonimo “Maestro di Gignod” che non sembra essere locale… anzi… si fa portatore di un linguaggio figurativo e di una luce che potremmo definire “baciati dal mare”. Ma quale mare? Un mare grande, dal respiro europeo: nel tocco e nelle scelte del Maestro di Gignod possiamo trovare echi fiamminghi (non dimentichiamo le frequentazioni artistiche fiamminghe alla corte di Napoli), voci provenzali, carezze partenopee. Quella luce soprattutto; così intensa… si insinua tra i volumi, sottolinea le pieghe dei panneggi, modella le forme e accende di iridescenze la preziosa stoffa rosata degli abiti della Maddalena e di San Sebastiano. Non è una luce alpina, né nordica. E’ la luce del sud.

Chissà se durante questo suo lungo viaggio, Bonifacio conobbe qualcuno che decise, non sappiamo perché, di seguirlo fin quassù. Un artista che poi diede prova di sé in quella chiesa parrocchiale che ancora oggi porta la firma d’Avise, dato che fu sempre Bonifacio a pagare il nuovo campanile e il restauro di tutto l’edificio, condotti magistralmente dal capomastro Yolli de Vuetto di Gressoney.

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Quella magnifica e struggente “Pietà” in fondo alla navata di destra, unita al ciclo dei Profeti nei sottarchi, risale quindi a prima o a dopo il 1481? Difficile ad oggi poterlo dire. Ma il giro d’anni è quello. Anni in cui il signore di quei luoghi, Bonifacio d’Avise, rientra da una lunga e pericolosa missione e mette mano, forse con ardore ancora più grande, ai lavori di abbellimento della chiesa, con tutta la portata simbolica che quell’iniziativa portava con sé.

Chi era il “Maestro di Gignod”? Un indizio in più ci viene dal tipo di croci che lui dipinge: croci a “tau”, francescane. Non così frequenti nelle nostre vallate per l’epoca. E infatti San Francesco compare anche tra i Santi ai piedi della croce, vicino a San Sebastiano. Dall’altra parte la Maddalena ed un’altra santa oggi perduta (forse Sant’Agata).

La scena ha luogo su un prato verde chiaro, animato in primo piano da fiorellini e pianticelle, il cui accennato pendio sale in lontananza, verso un castello turrito, forse a voler inserire la scena in un paesaggio valdostano o comunque più famigliare. Incorniciata in una composizione dal rigoroso impianto piramidale, la tragicità del momento è ben rappresentata dal volto disperato di Maria: un dolore immane sebbene non privo di una potente maestà.

Va subito notato come la figura di San Francesco rivesta un’importanza notevole. Il santo infatti viene collocato immediatamente a destra della croce di Cristo e, come lui, reca le stigmate; regge inoltre nella mano destra una croce lignea analoga a quella di Gesù. Una stretta serie di corrispondenze che evidenziano Francesco come alter Christus. Possiamo supporre che un qualche esponente dell’ordine francescano abbia avuto un ruolo significativo nella realizzazione del ciclo di Gignod?

Sappiamo che il committente Bonifacio d’Avise aveva solidi contatti con l’Ordine di Aosta, tanto che proprio lui diede loro in concessione una sua proprietà a Vertosan dove fece costruire anche una cappella.

E subito il pensiero corre ad uno straordinario luogo sacro oggi perduto: San Francesco di Aosta, una splendida chiesa cancellata dal tempo e, ahimè, dall’uomo. Ma non dimenticata! Una chiesa il cui spirito potente ancora permane tra piazza Chanoux e piazza San Francesco. Lì, a pochi passi dalla Cattedrale di Aosta, un tempo sorgeva uno dei complesso conventuali francescani più grandi e prestigiosi dell’Occidente alpino. Chissà se questo misterioso “maestro di Gignod” potrà mai aiutarci a saperne qualcosa in più…

Frà Giocondo, frà Bartolomeo della Porta, il Beato Angelico… tutti attivi tra la fine del XIV e il XV secolo. Ma non sono certo i soli. Numerosi nella storia dell’arte i pittori divenuti monaci o monaci pittori. 

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Quante storie ancora da svelare si celano dietro all’ombra potente di Bonifacio d’Avise e nelle navate della chiesa di Gignod. Una chiesa che già nel santo cui è dedicata racchiude una sorta di “vocazione guerriera” a difesa della fede. Già, Sant’Ilario di Poitiers, vissuto nel IV secolo d.C., fu un pagano poi convertitosi che divenne un infaticabile oppositore della dottrina ariana che per ben due secoli, tra IV e VII secolo d.C., imperversò e dilagò tra Oriente e Occidente.

E proprio tra Occidente ed Oriente si mosse il prode Bonifacio d’Avise. Dai monti della valle d’Aosta fino alle sponde insanguinate di Otranto e ritorno. La battaglia della fede che lo condusse sulle rotte del Sud. Le stesse rotte dell’enigmatico “Maestro di Gignod”.

Mi riaffaccio alla finestra. Tra quelle mura diroccate incorniciate dal tenue viola delle serenelle e dall’ultimo giallo fulgore delle forsizie, un nobile spirito gioisce per essere stato ricordato.

La finestra di Bonifacio d’Avise.

Stella

 

Il TOR che attraversa le rocce tra natura, storia e leggenda

Ciao amici! Caspita… non mi sono resa proprio conto di quanto tempo sia passato dal mio ultimo post… e me ne scuso! Ad ogni modo ho utilizzato queste settimane per raccogliere materiale e … idee!!

Quindi, da ora, si ricomincia! Promesso!

Vorrei dedicare il post di oggi al mitico #Tor des Géants! Io non sono certo una trailer..anzi, forse ne rappresento l’antitesi! Insomma, mi piace andare a camminare in montagna e sul lungo periodo reggo pure discretamente, ma fermandomi e con moooolta calma!! Guardo questi eroi con infinita ammirazione, stupore, spesso condite da incredulità! Mi chiedo come facciano e mi dico che, almeno a livello di testa, vorrei avere anch’io questa forza interiore! Insomma, mi piace pensare che pur nel mio piccolo anch’io mi impegno con una certa costanza! E, in ogni caso, ognuno nella sua vita vive a suo modo il suo personalissimo #TOR quotidiano, no?!

A parte queste considerazioni para-filosofiche, vorrei dedicare a questi Giganti e alla nostra splendida piccola/grande regione, questo mio contributo.. Un #TOR diverso, o meglio: è a tutti gli effetti il Tor, ma visto con un occhio più..”culturale”. Quindi, almeno per questa breve (ma spero piacevole lettura) prendiamoci il nostro tempo e, col pensiero, corriamo!

SALITE E DISCESE

Il paesaggio segue la corsa, a volte dà la carica, spinge, sostiene, a volte asseconda i momenti di respiro (anche mentale) con le sue balconate panoramiche. Oppure dà il benvenuto nelle valli con le sue architetture caratteristiche, i suoi borghi, le chiesette, i campanili. Li vedi magari dall’alto, da lontano: ecco la prossima meta, un punto di riferimento nella tua cartina mentale e psicologica.

È la bellezza del salire e dello scendere, del veder cambiare i paesaggi con un ritmo naturale che accompagna quello del cuore a 1000 e del respiro: i borghi, poi i boschi, sempre più fitti e scuri; poi i pascoli, le ampie radure luminose in quota, fino alle tracce segnate sugli altipiani, i colli, le rocce, la neve residua o appena arrivata. Assaggi d’inverno in una montagna senza tempo.

E quanta storia si nasconde, più o meno segreta, lungo il percorso, nelle pieghe di questa terra così ondulata, severa e dolce allo stesso tempo. C’è un tratto, poi, in particolare: quello da Pontboset a Perloz. Terre dove la storia ha lasciato tracce ben visibili su cui anche i “giganti” del Tor sono obbligati a passare.

Pontboset, villaggio dei ponti: ben 6, sospesi sugli orridi e sui torrenti. Agganciati alle rocce levigate dai movimenti degli antichi ghiacciai. Ponti ricchi di poesia, testimoni di un’arte del costruire, che affonda le sue radici nelle secolari tradizioni delle genti di montagna: pietre, malta, tenace maestria. Ponti “romantici”, anche nel senso più ottocentesco e anglosassone del termine, che improvvisamente occhieggiano dal folto dei boschi di castagno. Ponti a schiena d’asino che, in piccolo, richiamano a modo loro il continuo “saliscendi” del Tor.

E arrivi giù, nel fondovalle, a Hône. Non puoi fermarti, ma lo sai, lo hai letto da qualche parte che lì c’è una chiesa incredibile: sotto di lei, sotto il pavimento, si nascondevano altre 4 chiese precedenti. Sì, è la Chiesa di San Giorgio; magari con calma ci ritorni, perché è davvero sorprendente!

Altro ponte storico e via, si passa la Dora, regina delle acque valdostane.

Ed eccoci in uno scrigno medievale: Bard. Uno dei borghi più belli d’Italia. Un’unica strada che ricalca la via romana delle Gallie e la Via Francigena. Un’unica strada che si insinua tra edifici fiabeschi, corti segrete, sottopassaggi, archi e sottarchi. Sempre sorvegliata dall’imponente e austero Forte sabaudo che, dall’alto della rocca, ricorda antichi presidi a guardia delle leggendarie Clausurae Augustanae, barriera inespugnabile di una Valle tra le rocce.

Donnas, Pont Saint Martin, Perloz

E poi di nuovo giù, verso Donnas, correndo sulla Storia, sui secoli che hanno disegnato questi luoghi, fino a che…eccola! Incredibile, quasi un miraggio: devi per forza passare sulla strada delle Gallie, calpestare pietre con oltre 2000 anni di storia, passare sotto un arco “risparmiato” nella roccia che sta lì da quando le legioni di Augusto decisero di domare la terra dei Salassi.

E tu corri, per forza, magari rallenti e riesci persino a voltarti. Che posto! Un “gate” temporale, sottolineato dall’enigmatica chiesetta di Sant’Orso che segna l’accesso al borgo di Donnas.

Continui la tua corsa: è davvero il Tor des Géants! Ma non solo per le vette, per i “4 4.000” cui si sfiorano i “piedi”, ma anche per questa imponenza storica, per questo passato così evidente, così “presente” che è impossibile da ignorare!

L’arrivo a Pont Saint Martin si celebra con un altro di questi “giganti”: lo splendido ponte romano che consente di superare il torrente Lys. Si erge poderoso dalle rocce umide; un inno ad una regione dall’indiscutibile identità itineraria: soldati, mercanti, pellegrini, imperatori, contrabbandieri, viaggiatori d’ogni genere…quanta gente nei secoli è passata di qui!

E di nuovo su: si attacca la sinuosa sequenza di curve che porta a Perloz, villaggio sospeso, circondato da vigneti audacemente aggrappati alla montagna. Antiche nobili dimore si affacciano silenziose lungo la strada: il castello Charles, il castello Vallaise e, fuori dal borgo, la Tour d’Héréraz, di cui si vociferano leggendarie origini romane.

E intorno una miriade di piccole e graziose frazioni in cui si viene solleticati dal profumo lontano del pane nero cotto come una volta, nei forni comunitari.

Altro torrente da superare, altro magnifico ponte a dorso d’asino: il Pont de Moretta. Incastonato dai boschi, questo ponte del 1710 rievoca ancora oggi storie e leggende tra cui, la più nota, ricorda di un terribile drago che qui, un tempo, viveva. Il prode Vignal lo uccise con l’inganno dandogli una pagnotta infilzata in una spada che trafisse la gola del mostro; ma il sangue del drago, avvelenato, uccise lo stesso Vignal. Un’impronta, una strana forma, visibile ancora oggi sotto il ponte: è il segno lasciato dalla zampa del drago.

Ma devi correre, devi andare avanti, e così ora sono le tue quelle impronte che imprimono la polvere e ti lasci alle spalle il fantasma di quel drago per raggiungere altri villaggi, altri prati, altre quote.

E la corsa continua: fino al Rifugio Coda, fino ai laghi della lunare Riserva del Mont Mars, e su su…verso i Giganti.

Stella

La collina “VIP” di Augusta Praetoria

Aosta romana aveva anche una sua “Beverly Hills”. La prima collina doveva essere punteggiata di ville eleganti e raffinate. Solo una, però, è arrivata fino a noi.  Si tratta di una sontuosa villa urbano-rustica, cioé in parte residenziale e in parte agricola, splendidamente esposta a sud sulla prima collina di Augusta Praetoria. Riuscite ad immaginarvi il contesto? Prati, orti, frutteti e vigneti; una villa terrazzata aperta verso sud, un trionfo di cortili, porticati, giardini e giochi d’acqua. Una dimora elegante, raffinata, ariosa, invasa dal sole…

Prendete via Xavier de Maistre che da piazza Chanoux prosegue verso nord. Uscirete attraversando la cinta muraria romana in corrispondenza di una tozza torre oggi occupata da un asilo, il Mons. Jourdain, anticamente nota come Tour Perthuis, cioé Torre del Pertugio, l’angusta apertura che consentiva di fuoriuscire dalle mura in questo punto. Guardate con attenzione il lato occidentale di questa torre (quello che prospetta sulla strada): noterete una parte di intonaco mancante che consente di apprezzare “cosa c’è sotto”. In pratica: sotto l’intonaco attuale, sotto i secoli moderni e medievali, ancora sopravvive il “fantasma” della torre romana“gemella” (se vogliamo) della Tour du Pailleron che le corrisponde sul lato sud, vicino alla stazione dei pullman.

Una distanza pari a circa 400 metri in linea d’aria dalla cinta romana, in falso piano e, nella parte finale, in leggera salita. Sempre dritto lungo C.so Padre Lorenzo, sottopasso di Via Parigi e sù per Strada dei Cappuccini che deve il suo nome alla presenza, sulla vostra destra, del Seminario Minore oggi sede dell’Università della Valle d’Aosta e di un liceo. Alla prima svoltate a destra e percorrete una graziosa stradella incorniciata da villette e giardinetti fino ad arrivare ad uno spiazzo con alberi e aiuole dove spicca, sempre sulla destra, un edificio basso in cemento evidente meta di molti writers cittadini. Potrete chiedervi come mai una copertura tanto invadente; è perché negli anni ’80 da qui avrebbe dovuto passare una strada, una “bretella” tra Via Parigi e Via Gran San Bernardo. Ma gli abitanti della zona si ribellarono e riuscirono a bloccarne la costruzione, sebbene la copertura della villa, adatta a sostenere appunto il peso di una strada, era già stata fatta. Siete arrivati! Siamo in regione “Consolata” così chiamata per la presenza dell’oratorio dedicato a Nostra Signora della Consolazione, tappa lungo il percorso che portava alla collina de “Les Fourches” luogo deputato alle impiccagioni.

ARIOSI AMBIENTI DI RAPPRESENTANZA

Appena entrati affacciatevi alla ringhiera: siete sul lato est, immersi nella penombra, su un corridoio che si sviluppa alto rispetto ai resti della villa che individuerete sotto i vostri piedi. Davanti a voi un ampio cortile quadrangolare con una cavità quadrata al centro: si tratta dell’atrium, o meglio, di uno dei (probabili) due atria che davano luce e aria alle varie stanze della villa. La cavità centrale è quanto resta dell’antico impluvium, cioè la vasca utile alla raccolta delle acque meteoriche; al di sopra, infatti, il tetto non c’era. Questo spazio era invaso di aria e luce.

A sud dell’atrio un ampio pavimento color albicocca con delle irregolarità: si tratta dell’imponente tablinum , cioè un salone di rappresentanza dove accogliere gli ospiti. Il pavimento si mostra oggi completamente svestito delle “piastrelle” di marmo bianco e nero che lo decoravano; ciò che si vede è la preparazione in cocciopesto (malta con tritume di mattoni). Questo salone doveva essere aperto verso sud dove possiamo immaginare la presenza di un peristilio (cortile porticato) con giardini.

TERME PRIVATE E RICERCATEZZE “POMPEIANE”

Esattamente sotto i vostri piedi vedrete i resti degli antichi balnea: ebbene sì, questa villa possedeva delle piccole ma lussuose terme private composte da un piccolo spogliatoio, uncalidarium (collegato alla cucina tramite la bocca del forno attraverso cui passava l’aria calda nelle suspensurae), un tepidarium ed infine, seppure quasi del tutto scomparso, unfrigidarium. Questa era la sequenza canonica. Quindi, per capirsi, bagni di acqua calda, tiepida e infine fredda. L’ambiente era dunque riscaldato sia a pavimento che a parete, con l’aria calda che correva in speciali mattoni forati sistemati in un’intercapedine apposita.Aguzzando la vista riuscirete a notare l’impiego dell’opus reticulatum, cioè i muri sono composti da una “rete” vera e propria di piccoli blocchetti di pietra. Tale tecnica è tipica del centro-sud Italia e non certo di queste latitudini. Anche perché i blocchetti, per essere così tagliati e sagomati, dovevano essere in una pietra tenera come ad esempio il tufo, che qui è presente solo in scarsissime quantità. Questo significherebbe che la villa è stata costruita da maestranze non locali e, molto probabilmente, in un momento antecedente o in parte coincidente con la fondazione della città, notoriamente avvenuta nel 25 a.C. Che fosse un notabile, un comandante, comunque una personalità di spicco di origine centro-italica insediatosi qui durante la costruzione della nuova colonia? Ciò è assolutamente verosimile!

E perché farla proprio qui? In primis perché il posto doveva essere meraviglioso, e inoltre perché appena a monte della villa correva una strada, già pre-romana, che portava si allacciava al percorso diretto al colle del Gran San Bernardo. In questo luogo dovevano esserci già insediamenti salassi confermati dal ritrovamento di sepolture. Quindi una zona strategica e ben servita dalla viabilità già esistente.

GLI AMBIENTI A NORD

Procedete quindi lungo il corridoio: in successione vedrete sotto di voi la cucina (culina) col praefurnium (l’imboccatura del forno) collegata al calidarium e il bancone per la preparazione dei cibi; quindi una serie di ambienti nei quali, durante le epoche tardoantiche, contro il grande muraglione di contenimento verso nord (la vostra destra) vennero sistemate delle sepolture. Infine, sull’angolo, vedrete un ambiente con delle basi quadrate sul pavimento: si tratta di basi per dei sostegni che, forse, reggevano un soppalco in legno: si tratta di un ambiente che ha subito diversi rimaneggiamenti. In epoca romana, quando la villa era in uso, questo grande vano si presentava diviso in due ambienti di cui uno, quello più vicino al triclinium, possedeva un pavimento in cementizio, mentre quello accanto ha restituito solo un piano in terra battuta. L’ambiente più vicino al triclinium avrebbe potuto essere un piccolo soggiorno o una stanza di servizio collegata alla sala da pranzo. Quello più a nord, invece, un vano più rustico, forse già un deposito, poi ampliato e rimaneggiato quando ormai la villa, già in disuso e in parziale abbandono, aveva perso la sua destinazione residenziale di lusso per privilegiare quella agricola.

I MOSAICI

Svoltate quindi sul lato est. Sotto di voi noterete il triclinium, la sala da pranzo, così chiamata per la presenza dei canonici tre letti a due posti con mensa centrale. La collocazione dei tre letti è intuibile dai relativi posti disegnati sul pavimento dalle tessere rosa. Aguzzate la vista: il suolo è rivestito da delicate tessere chiare con una decorazione a fiorellini sparsi. Si differenzia solo il corridoio di collegamento con le stanze vicine. Una stanza di passaggio, un disimpegno e, più in là, verso la base della copertura, la zona “notte.

Qui sono visibili (seppure troppo da lontano e con una luce non sufficiente), due camere da letto, una doppia a due letti ed una singola: sono i cubicula. Qui i pavimenti sono in tessere scure con disegni in tessere bianche. La camera doppia presenta un grande motivo a rosetta centrale circondato da fasce a meandro; la singola è vivacizzata da motivi a squame, meandri e rombi. I cubicula non avevano finestre perché ci si stava unicamente per dormire e solitamente le dimensioni erano ridotte all’essenziale.

Dovete usare molto la vostra immaginazione e la fantasia per ridare a questa dimora tutti i suoi colori, la sua luce, i suoi spazi aperti sul paesaggio circostante. E’ comunque un sito notevole ed importante: unico in Valle d’Aosta. Voluptas, luxuria et amoenitas sulla collina “VIP” di Aosta romana.

Concludo regalandovi questo suggestivo viaggio virtuale in una villa romana (generica).

Stella

La Fata della morena di Gressan. Una passeggiata tra natura, leggende e musica.

Solo una manciata di km da Aosta risalendo il corso della Dora; solo una manciata di km per ritrovarsi immersi in uno scenario da favola. Prati in leggero pendio i cui confini sfumano nei freschi boschi dell’envers, riccioluti meleti e vigne ordinate ricamano il territorio di Gressan.

Il capoluogo e tante frazioni, gruppetti di case strette le une alle altre; strade, stradine che si inerpicano tra antichi fontanili, ruscelli, orti, giardini e venerande cappelle. E ancora torri, antiche dimore, granai e fienili sorvegliati dalla mole tondeggiante del Castello di Villa.

Al centro di questo paesaggio si erge un’altura: la morena della Côte de Gargantua. Allungata e sinuosa si dice conservi il dito mignolo del leggendario gigante Gargantua, figlio di Grandgousier sovrano del regno di Utopia. La Côte è una lingua morenica che si allunga nella pianura dividendo i villaggi di Gressan; è una riserva naturale protetta nata da depositi di origine glaciale contraddistinta da un ambiente steppico, prevalentemente arido, regno di numerose specie animali e vegetali. Qui  si possono incontrare la lucertola muraiola, il ramarro, il biacco e molte specie di lepidotteri e coleotteri.

NELLA TERRA DELLE FATE

Ma non solo. Questo è un posto magico, denso di leggende e di racconti popolari. Se da un lato si crede che la morena sia legata ad un Gigante, altre voci la vogliono creata dalle Fate. Si narra infatti di due Fate tessitrici che, coi loro fili, scesero a valle dai ghiacciai e, tessendo tessendo,formarono un enorme gomitolo: la morena di Gressan. Qui si stabilirono, ma poi vennero cacciate da San Grato perché ritenute creature malvagie.

Un’altra versione parla invece di un’unica Fata, abilissima nel lavorare la lana, che chiese ospitalità agli abitanti di Gressan i quali, però, timorosi, gliela negarono. Per vendetta la fata raccolse nel suo gomitolo magico la terra e le vigne creando una barriera che divise per sempre i villaggi della piana.

Un luogo insolito questa morena. Un luogo dove, comunque siano andate le cose, la fata si era ritirata in solitudine e, silenziosa, si era negata per secoli. In pochi la sanno vedere; in pochi sanno riconoscerne la voce e l’eterea presenza. Una di queste persone è l’artista Giuliana Cunéaz: una donna la cui mente e le cui mani infaticabili sanno cogliere le sfumature dell’invisibile per dare loro nuova forma, nuova vita. Giuliana ha saputo recuperare queste antiche leggende, queste arcane credenze popolari, riportandole nei loro luoghi.

Le Fate. Creature del sogno, della fantasia, nate dall’immaginazione dell’uomo che solo in questo modo poteva dare forma a qualcosa di immateriale o di inspiegabile. La Valle d’Aosta, terra di montagne, è ricca di storie che narrano di strane creature ed esseri fantastici, benevoli o malevoli a seconda dell’atteggiamento e della natura degli uomini. Vivono nelle rocce, dentro le grotte, nei laghi, nelle sorgenti, nei boschi o in luoghi isolati dove le attività umane sono difficili se non impossibili.

E  sabato 7 giugno 2014 è tornata a parlare la Fata della morena di Gressan e la sua voce riesce a ha trasportare in un’altra dimensione; ognuno col suo sentire, ma tutti uniti da un “filo rosso”, il filo del gomitolo, simbolo della Fata tessitrice.

E’ trascorso oltre un anno, ma la Fata sa ancora farsi sentire da chi la va a cercare con animo aperto al dialogo con la natura.

Una volta saliti sulla cresta morenica troverete il leggio incantato: provate ad ascoltare…

Stella

Girali, fogliami e bestiari. Tra Medioevo e Rinascimento nel chiostro “segreto” della Cattedrale di Aosta

Esco oggi con questo mio contributo al bellissimo chiostro quattrocentesco della Cattedrale di Aosta perché, in qualche modo, proprio ieri (8 giugno) era il suo “compleanno”… o quasi! Eh sì, infatti fu proprio l’8 di giugno del 1442 che otto canonici della cattedrale stipulavano il contratto per la ricostruzione del chiostro capitolare con l’architetto savoiardo Pierre Berger di Chambéry. Inizio vero e proprio dei lavori previsto per marzo 1443.

Il rapporto di lavoro con il Berger non andò a buon fine, pare per lungaggini e spese eccessive, tanto che l’architetto transalpino sparì presto dalla circolazione. Si procede a rilento e, nel frattempo, cambiarono pure le maestranze. Ancora nel 1456 si sottolineava lo stato di degrado del vecchio chiostro romanico così come di altri edifici del complesso capitolare. Venne così ufficialmente istituita la Fabbriceria della Cattedrale.

Appena 4 anni più tardi, nel 1460, il chiostro era effettivamente terminato. Capo cantiere il “lathomus” Marcel Gérard di Saint Marcel.

Bene, dopo questo necessario avant-propos, entro subito in medias res. Due domeniche fa, complice una mostra sulla vita di Santa Teresa d’Avila allestita proprio nel chiostro, riesco a rientrarci e ad apprezzarne nuovamente la particolare luce e l’atmosfera raccolta. Quella porta nella navata nord, purtroppo sempre tragicamente chiusa, era aperta! Quella porta che consente l’accesso a questo vero e proprio gioiello quattrocentesco. Naturalmente non è il primo e l’unico! Prima di questo qui sorgeva un altro chiostro di epoca romanica, quello che si decise di sostituire a causa della sua imbarazzante vetustà e i cui materiali superstiti vennero reimpiegati nelle fondazioni dei “nuovi” muri perimetrali.

Una pianta rettangolare ma irregolare; uno spazio relativamente ridotto e assolutamente violentato dalla costruzione dell’ingombrante cappella neogotica del Rosario che lo ha radicalmente defunzionalizzato interrompendo il corridoio sud.

L’occhio immediatamente viene attratto dalla luminosità dell’insieme, dominato dall’argento dei pilastri e delle colonnine e dall’oro degli archi e dei capitelli. Sì, perché queste sono le sfumature cromatiche cui rimandano i materiali qui impiegati: l’argento del marmo bardiglio e l’oro dell’alabastro unito a quello, più caldo, del travertino. Poi, a guardare con più attenzione, ci si rende conto che sono almeno due le qualità di bardiglio utilizzate: una più ruvida e omogenea, l’altra con delle splendide venature madreperlate. In tanti aspetti si potrebbe riconoscere l’alternarsi dei due gruppi di maestranze: dalla scelta del marmo, fino allo stile dei capitelli e dei due portali d’accesso che collegano il chiostro alla navata nord della cattedrale.

Già, i capitelli. Appena entrati si viene accolti, sulla destra, da un “mostriciattolo”, una sorta di doppio diavoletto cornuto, naturalmente posto in angolo, quasi a voler controllare le due direzioni e a voler simboleggiare le scelte umane, spesso “diaboliche”, spesso ingannevoli…

Ci si potrebbe aspettare una serie di capitelli istoriati e figurati, un pò sulla scorta di quanto magari già visto a Sant’Orso. E invece no! Intanto non dimentichiamo che questo chiostro è del XV secolo! Sì, ma qui si assiste ad un ibrido affascinante… Niente di gotico innanzitutto! Una sequenza armonica di arcate a tutto sesto rimanda subito all’orizzonte classico romanico, a quelle teorie di arcatelle così frequenti sui sarcofagi… Linee nitide, geometricamente pulite, dall’aria famigliare e addirittura “mediterranea”, ravvisabile soprattutto nei decori a fogliame di molti capitelli. Non solo figure o animali insoliti, infatti, ma tanti elementi vegetali, dalla vite (coi suoi pampini ricchi di evangelico senso), al colto e raffinato girale d’acanto corinzieggiante. Per approdare, infine, ai numerosi capitelli recanti il nome dei canonici, così come dei maestri d’arte operanti in cantiere.

La lavorazione dei pilastrini binati delle arcate, poi, è davvero un capolavoro d’arte e maestria. Guardateli con attenzione: sono sfaccettati come fossero pietre preziose! E inoltre notate la straordinaria ricercatezza: il lato interno e quello esterno non sono lavorati alla stessa maniera: qui linee tondeggianti e poligonali si alternano, volumi cilindrici si contrappongono e si richiamano arrivando a comporre quasi un chiostro “double face” di eccezionale eleganza.

Possibili confronti? Certo, entrambi savoiardi: Il chiostro della cattedrale di Saint-Jean-de-Maurienne e quello (ahimé solo parzialmente conservatosi) del priorato del Bourget du Lac.

Un luogo assolutamente suggestivo in cui si fondono le eredità del medioevo alpino, le solide reminiscenze classiche e le influenze del primo Rinascimento. Questo chiostro va considerato come uno dei monumenti più significativi ed emblematici del tardo gotico delle Alpi occidentali, come già sottolineò Bruno Orlandoni (“Architettura in Valle d’Aosta. Il Quattrocento”, 1996).

Con tutti questi pensieri e queste riflessioni arrivo fino a dove mi è concesso, fino al portale orientale, quello col profilo modanato che, forse, si attribuisce a Marcel Gérard. Peccato non poter compiere l’intero percorso, da veri aspiranti “peripatetici”. Peccato questa cappella proprio nel mezzo! Mi fermo, mi siedo sotto un’arcata. Guardo, cerco di assaporare il gusto di ogni minimo dettaglio: i chiaroscuri della luce che rimbalza tra le arcate dei portici, le ombre dei rilievi che profilano i decori dei capitelli così come le venature cangianti dei materiali lapidei, il beige poroso e “romaneggiante” del calcare, la solida trasparenza dell’alabastro (che si dice cavato a Courmayeur, forse alle falde del Mont Chétif), l’eleganza imperitura del bardiglio (Aymavilles o Villeneuve?) e la lontana voce dei riempieghi…alcune lastre forse in origine appartenenti alla pavimentazione del foro romano, passate poi nel chiostro del XII secolo e poi…forse ero seduta proprio su una di quelle!

Trascorrere del tempo qui, in questo chiostro appartato e ricco di storia, è un’esperienza meditativa dal sapore insolito e mistico… peccato sia praticamente sempre (tristemente) chiuso… appena visibile attraverso la grata di un cancello.

Stella

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Nel piccolo e prezioso giardino del castello di Issogne. Il trionfo dell’amore.

Niente torri merlate. Niente caditoie né fossato. Niente feritoie, né inferriate, né ponti levatoi. Niente di tutto questo. Issogne splende in eleganza e raffinatezza. Ad Issogne rifulge la vita, non la guerra. Grandi e luminose finestre crociate, delicati affreschi ricchi di colore che mescolano realtà e fantasia…Lusso, ricercatezza, gusto del buon vivere: questo troverete ad Issogne. E’ una vera piccola corte dominata dalla cultura e dai fasti di una sontuosa dimora signorile. Un nobilissimo edificio che, ancora oggi, riflette lo stile, il gusto e l’intelletto del priore Giorgio di Challant, “uomo del Rinascimento”, sicuramente il più grandioso mecenate che la Valle d’Aosta ricordi.

IL GIARDINO ALL’ITALIANA

Non è nostra intenzione raccontarvi qui la lunga storia del castello, né illustrarvi le sue fasi architettoniche e decorative; né anticiparvi le tante meraviglie artistiche che incontrerete nelle sue stanze o sotto i suoi loggiati. Ci soffermeremo su un luogo molto particolare del palazzo. Un luogo “sempre verde” dove ogni elemento racchiude un simbolo. Un luogo che è un vero inno alla vita: il giardino.

Uno scrigno di luce dal disegno sapiente e geometrico. Un viridario umanistico profilato da siepi e stradelle ghiaiose. Uno spazio intimo, privilegiato, simbolico legame tra l’edificio e la natura che lo circonda. Qui uomo e natura si incontrano, si sposano ritrovando l’armonia. La corte di Issogne è ingentilita da un piccolo ma ben curato giardino all’italiana. Estraneo al mondo esterno ma pulsante di vita; animato da aiuole e vialetti, inondato dal sole e incorniciato dalla perfetta sequenza delle finestre e delle arcate.

LA FONTANA DEL MELOGRANO

Di fronte, in evidente allineamento, spicca un vero gioiello scultoreo ed iconografico:l’emblematica Fontana del Melograno.

Entrando, dopo aver superato l’ombra dei porticati e dell’androne, eccola lì, proprio davanti agli occhi. Quasi vi aspettava… Da più di mezzo secolo gorgoglia e rallegra la corte interna del castello. Di certo colpisce per l’eccezionale maestria che la produsse, per la sua fama che la fece addirittura riprodurre nel borgo medievale del Valentino di Torino.

Un capolavoro, senza dubbio. Ma, a ben guardare, c’è di più!

Partiamo dalla vasca. Perfetta, geometrica, ma soprattutto…ottagonale. Come i battisteri. L’8 simboleggia la vita, il ciclo infinito di nascita-morte-rinascita (l’ottavo giorno è infatti quello della Resurrezione). Ambizione ed augurio di eternità. Molti studiosi, per questo (ma anche per altri) motivi, vi avrebbero visto una sapiente e colta riproduzione della Fontana dell’eterna giovinezza, mistica e leggendaria sorgente di rinascita ed eterna gioventù spesso raffigurata nelle opere d’arte medievali. Pensiamo, solo per fare un esempio, a quella del Castello della Manta a Saluzzo (CN), non così distante da noi per area geografico-culturale, né per epoca di realizzazione. Ultimi decenni del XV secolo: Issogne viene plasmata dalla mani e dall’intelligenza di Giorgio di Challant. Quattro zampilli, interpretati come i 4 fiumi del mitico giardino dell’Eden: il Tigri, l’Eufrate, il Ghicon (forse il Nilo) e il Pison (probabilmente il Gange).

Questa fontana fu voluta come dono per le nozze del conte Filiberto con Louise d’Aarberg, avvenute nel 1502.

Un matrimonio che, quindi, si sperava felice, eterno (appunto) e prolifico. Sì, perché al centro di questa vasca si erge un albero. Nonostante il nome ormai noto, non è un semplice melograno. E’ un intrigante ibrido tra un melograno e una quercia. Chiaramente voluto. Noterete, infatti, le foglie della quercia unite ai frutti del melograno. E sapete perché?

La quercia è l’albero forte e robusto per antonomasia. E’ grande, imponente, coriacea. In piùracchiude in sè l’idea stessa di eternità perché sulla sua folta chioma nascono i fiori di entrambi i sessi. Per la civiltà classica (di cui il priore Giorgio era pregno) la quercia, robur alla latina, era l’albero scelto da Giove, l’albero cosmologico per eccellenza. Il più alto, quello che sapeva unire terra e cielo.

Il melograno da sempre simboleggia il matrimonio, la sessualità, la fecondità. Antica pianta sacra della dea Giunone, veniva regalata in occasione delle nozze (appunto). Il frutto del melograno rappresenta l’utero della donna al cui interno giacciono tanti semini, in attesa di dare l’atteso e molteplice frutto assicurando la continuità della famiglia.

In più, aguzzando la vista, si potranno distinguere, mimetizzati tra i rami, le foglie e le volute,piccoli esseri fantastici: dei draghi, ad esempio, il cui compito era quello di proteggere l’albero tenendo lontani il male e l’invidia.

Una continuità resa apossibile da fortunati matrimoni che vengono celebrati e ricordati dalla ricca sequenza di stemmi araldici dipinti tutt’intorno sulle pareti del cortile. E’ Le Miroir des Enfants de Challant, lo Specchio dei figli di casa Challant, altro espediente per sottolineare l’elevata nobiltà del casato e gli importanti ed illustri vincoli di parentela contratti per matrimonio.

E quindi, quale stagione migliore se non la primavera per visitare un simile palazzo? Tra gli ariosi e colorati loggiati, le scene di vita quotidiana si rincorrono, alternandosi all’araldica e a tutta una raffinata rete di simboli più o meno evidenti. Ma il tutto converge sulla Fontana. Vita, amore, augurio di eterna salute e felicità.

Stella

#Liberiamola Cultura. #CondividiamoBellezza. L’Aosta romana dei ragazzi: #InvasioniDigitali 2015!

Sì, è vero..manco da circa una settimana…ma, sapete, invadere per tre giorni di fila una città romana non è proprio cosa abituale!!

Sì, perché la scorsa settimana sono stata impegnata nelle vesti di “invasore digitale”!! Con prodi manipoli di ragazzi delle scuole superiori di Aosta, Verrès e Moncalieri (TO) la città di Aosta romana è (forse) riuscita a diventare “virale”!!

Conoscete il progetto “invasioni digitali”? Se ancora la vostra risposta è “NO”, allora andate subito sul sito www.invasionidigitali.it per capirne di più! E’ un’iniziativa di carattere internazionale che vuole “liberare la cultura” per superare la vecchia visione del “pubblico” a favore del “turista protagonista”.

Le Invasioni vogliono far sì che tutti possano avvicinarsi al nostro splendido patrimonio culturale “personalizzandolo” con foto o video densi di personalità e creatività da diffondere su tutti i canali social disponibili e invadere la rete!

Abbiamo voluto #condividerebellezza diffondendo gli angoli romani della nostra bella e antica città! Dal ponte romano fino al monumentale Arco di Augusto; dall’imponente Porta Praetoria fino al quartiere degli spettacoli col magnifico Teatro romano e col vicino ma segreto Anfiteatro, racchiuso all’interno del convento di Santa Caterina e protetto dai meli e dal giardino delle suore. Da lì fuori lungo le mura rasentando la suggestiva Torre dei Balivi, gelosa custode della nascita di Augusta Praetoria, fino a raggiungere piazza della Cattedrale: qui si incontra un vero gioiello: il Criptoportico forense, tra i meglio conservati e meglio fruibili tra i 36 censiti in tutte le province occidentali dell’Impero romano. E ancora al MAR (il Museo Archeologico Regionale) che, per l’occasione, ci ha persino aperto i suoi sotterranei.

Conclusione in Via Croce di Città, l’antico Kardo Maximus della città romana dove abbiamo puntato sguardo e obiettivi verso sud, verso quei monti da cui, nei giorni del solstizio d’inverno, sorge il sole di Aosta celebrando, anno dopo anno, secolo dopo secolo, il suo antico rito di fondazione e ricordandone l’orientamento “sub signo Capricorni” in omaggio ad Ottaviano Augusto, suo fondatore.

Ma cominciamo dall’inizio… Punto fisso di ritrovo l’Arco di Augusto..impossibile sbagliarsi e impossibile non trovarsi! Da lì subito a est, fuori dal pomoerium, al ponte romano che scavalca l’antico letto del torrente Buthier, poi spostatosi in seguito ad una terribile alluvione avvenuta nel Medio Evo. Ma dai, un ponte qui? E perché? E possiamo andarci sotto? Ma certo…e via di foto! Ma sempre con la nostra simpatica mascotte, lo space invader (gioco digitale giapponese del 1978). Dal culmine del ponte siamo in asse con l’Arco, laggiù…certo era un’infilata unica e, in lontananza, dovevano comparire le mura di Augusta Praetoria!

Lasciamo quindi il “Ponte di Pietra” ed il suo grazioso grappolo di case per incamminarci nuovamente alla volta dell’Arco… e naturalmente ci andiamo sotto! Certo! Perché l’Arco va fruito così, in maniera storicamente e filologicamente corretta! Gli Invasori dilagano nell’aiuola e scattano! Selfie, belfie, foto di gruppo, particolari “installazioni” umane per ottenere simpatici giochi ottici… e notare, con sorpresa, che sotto il cornicione sporgente, ancora ci sono delle decorazioni: motivi floreali inseriti dentro cornicette romboidali, piccole gocce e palmette sugli angoli…ma chi l’avrebbe mai detto?!

Ragazzi, non dimenticate che qui siamo ancora fuori città! Non abbiamo ancora superato le mura e la Porta Praetoria ci aspetta là in fondo, davanti a voi! Piccola ma utile “spiega” su com’è fatta, com’è stata costruita, con che materiali, le fasi di monumentalizzazione, gli scavi, i restauri… i ragazzi chiedono informazioni sull’ultima campagna di scavo che tante polemiche ha generato…il perché, il “per come”…e le passerelle, e cosa c’è esattamente lì sotto e quando sarà possibile vedere tutti i resti…quante cose, quante curiosità! E’ uno spunto, uno stimolo da cogliere…questo cantiere così strategico ed importante non è stato capito fino in fondo, non è stato comunicato né sufficientemente condiviso…Alla fine, molti mi han detto: ” Ah…adesso è chiaro perché è così! Speriamo che si possano presto finire i lavori”.

Finito lo “shooting” alla Porta, pieghiamo a destra verso il Teatro. Tutti i ragazzi di Aosta lo conoscono, quelli di Moncalieri naturalmente no… e non se lo sarebbero mai aspettato così! “Cavoli, sembra di essere a Pompei”!, esclama qualcuno! “Sì, ma con le montagne e la neve tutt’intorno!”, chiosa qualcun altro… Enorme, immenso, con quel muro di facciata alto 22 metri! Sì, ma nessuno di loro, nemmeno gli aostani, sapevano che, in origine, l’interno doveva essere tutto un rifulgere di marmoree policromie: orchestra pavimentata con almeno tre diversi tipi di marmo colorato (cipollino, porfido e giallo di Numidia), proscaenium e scaenae frons su due piani colonnati…immaginate, ragazzi..immaginate… wow!!

L’ultimo giorno di Invasioni, con un gruppo di sole donne appassionate e molto reattive, dato lo scarso numero, e il tempo a disposizione, abbiamo deciso un’invasione “last minute” all’Anfiteatro di Aosta. Busso alla porta del convento e la suora, molto gentile, ci permette di entrare. “Lei sa già dove andare?”, “Sì, non si preoccupi, ci penso io!”… Ed eccoci in un giardino invaso dal sole, verde di un verde abbagliante dopo la pioggia del giorno prima, i meli e, in lontananza, la facciata del Teatro. Il giardino ha una pendenza particolare, verso il centro, e una forma indiscutibilmente ellissoidale. “Ragazze, siamo nell’Anfiteatro!”. Meraviglia, stupore..un posto fantastico…vaghiamo nel prato alla ricerca dei resti delle gallerie anulari che occhieggiano qua e là! E già che ci siamo, perché non spendere 2 parole anche sulla Torre dei Balivi che ci domina da nord-est? “Sì, avevo letto qualcosa sui giornali…”, ma sentirlo raccontare è tutta un’altra cosa! “Ma quando si potrà vedere la famosa pietra decorata?”…ragazze, non perdiamo la speranza…magari si riuscirà a costruire un accesso in quel punto!! Un ultima attenzione alle 8 arcate superstiti poi riutilizzate come appartamenti o depositi… e via! Si procede alla volta del MAR!

Decidiamo di percorrere via San Giocondo che, in una giornata di primavera com’era quella di giovedì 30 aprile, è un’oasi di vera campagna in pieno centro! A destra lo sguardo spazia dai campanili della Cattedrale sù sù fino alle vette di Aosta: la Becca di Nona e l’Emilius… Più basse le chiome degli alberi da frutta e i glicini che si rincorrono sui muri di cinta delle case…

Arriviamo alle spalle del Criptoportico. Ragazze, siamo sulla terrazza sacra del foro: qui sorgevano i due templi gemelli dedicati, probabilmente, ad Augusto divinizzato e alla dea Roma. Da qui, verso sud, il foro si sviluppava nella platea commerciale con le botteghe e i porticati (attuale piazza S. Caveri) e procedeva ben oltre la stretta via De Tillier. Non è ancora chiaro dove sia la basilica, ma è certo che non era sul lato corto opposto ai templi; molto probabilmente si allungava parallelamente al Kardo Maximus, quindi dovete immaginarvela sul lato orientale di via Croce di Città…un foro immenso, non c’è che dire!! “Ma a cosa serviva esattamente questo Criptoportico??”… Innanzitutto aveva una funzione edile: doveva contenere l’apporto artificiale di terreno creato per realizzare la terrazza dei templi; ma aveva anche una funzione processionale che si presume collegata alla liturgia del culto imperiale. Non doveva assolutamente essere un magazzino (horreum in latino)!! Ma voi mettereste mai un deposito di cereali nella cripta di una cattedrale? Sarebbe più o meno così…I Romani stavano molto attenti a queste cose! E poi gli horrea erano fatti diversamente: un corridoio con delle cellette sui lati ( o su uno solo) utili allo stoccaggio ordinato delle merci. E poi i tanti confronti e i casi di studio offerti da altri criptoportici forensi sparsi in varie zone dell’attuale Europa, hanno permesso di capire che si trattava comunque di ambienti di prestigio dove potevano persino trovare posto dei cicli statuari imperiali (statue ritratto dinastiche) così come delle iscrizioni menzionanti le élites cittadine. In alcuni casi le gallerie presentano affreschi o stucchi, indice di una destinazione d’uso di alto livello. La mascotte di InvasioniDigitali appare e scompare giocando tra le arcate. Le ragazze girano persino un time laps… Ok, fatto! Ora tutti al MAR!!

La luminosa facciata gialla dell’ex caserma Challant ci accoglie in piazza Roncas. Entriamo mostrando in bella vista le nostre mascotte digitali e i cartelli da Invasori…sguardi curiosi e divertiti ci accompagnano all’interno del Museo Archeologico Regionale. Cominciamo subito dai sotterranei. Ancora chiusi al pubblico, per l’occasione gli Invasori sono riusciti ad accedervi! Si apprezzano i resti della Porta Principalis Sinistra di Augusta Praetoria, ossia la Porta nord che si apriva in direzione della strada diretta al Gran San Bernardo, e di alcune murature appartenenti alle fondamenta di un corpo scenografico a forma di cavea di teatro che chiudeva il complesso forense a nord. Illuminato da calde luci arancioni tutto ciò che è di epoca romana; in luce bianca il post-romano. I ragazzi sono stati particolarmente impressionati dall’effetto “labirinto”, secondo alcuni simile ad una “casa degli spettri”, per non parlare di quel pozzo…così profondo…

Risaliti ci dedichiamo alle sale del museo: da quella delle stele antropomorfe di Saint-Martin-de-Corléans (cosa sono? cosa rappresentano? a cosa servivano? quando sarà aperta l’area megalitica?? ops!!), ai monili salassi (e quindi cosa c’è esattamente nell’area dell’ospedale? chi è il guerriero trovato nel tumulo?)…quante domande, quante curiosità!! E’ bello però che i giovani, i teen-agers, abbiano questa voglia di sapere e di conoscere meglio la loro città! Entusiasmo al grande plastico della città romana…come se la riscoprissero di nuovo vedendola ” a volo d’uccello”.. E poi ancora: le necropoli, la sala dei culti (“Ah…ecco cos’è un balteo!!); e poi ancora verso gli ambienti domestici, gli oggetti di una quotidianità passata, ma non perduta!

E con la foto finale suggelliamo, nel cortile del MAR, l’ #InvasioneCompiuta!! Un’esperienza divertente e didattica; ricreativa ma non solo…anche creativa! Un progetto di marketing umano, prima ancora che digitale! Grandi ragazzi!! Abbiamo vissuto Aosta, anzi, Augusta Praetoria, non come semplici turisti, ma da veri protagonisti!!

Stella

Archeo-story-telling per passione! Il mio mondo (antico) a colori!

Amici, forse alcuni di voi si saranno chiesti quale sia l’obiettivo di questo mio archeo-blog

Insomma, non è propriamente un blog di aggiornamento in materia; non è un blog di critica ma è una specie di “archeo-TRAVEL” blog! è l’archeologia “a modo mio”.

E’ l’archeologia ” a colori” che da sempre mi ha spinto a studiarla, a ricercarla, a viverla e farla vivere.

Sì, l’avrete capito, mi piace un sacco raccontare e raccontarmi. In ogni sito dove ho avuto la fortuna di lavorare, in ogni viaggio, quelle pietre, quegli orizzonti hanno saputo raccontarmi una storia lasciandomi immagini vivissime nel cuore e nell’anima.

Posso ricordare un soffio di vento, un odore, un sapore…e naturalmente posso ricordare i colori…un mondo come una tavolozza. Un passato in HD che sempre mi ha fatto sentire emozionalmente in “3D” e i cui ricordi ed impressioni sono ancora adesso tanto profondamente incisi dentro di me che non posso non comunicarveli.

A volte qualcuno sottolinea un mio stile un pò “fantasy”.. verissimo! Non lo nego e non lo abbandonerò mai! Forse la mia è un’archeologia un tantino “romanzata”, ma è la mia archeologia a colori!

Ve l’avevo detto sin dai primi post: mi ritengo un’archeologa “narrante” che, se proprio è costretta a fermarsi dal viaggiare, non potrà mai fermare la propria fantasia!

Oggi è noto, il mondo antico non rifulgeva di un niveo ed algido candore, ma di una brillante e quasi disorientante policromia! I templi, le statue… paesaggi assolutamente colorati ricchi di vita, privi di assurdi tabù! Ebbene, questa è ancora oggi la mia archeologia. Viva, colorata, comunicante ed emozionante!

Insomma, cerco di far emozionare anche chi mi legge come, in una certa situazione ed occasione, mi sono emozionata io… Io riesco ad immergermi in un sito, in un’atmosfera, in un’epoca per quanto lontana. E’ come se vedessi gli edifici rialzarsi, la gente aggirarsi tra le colonne, nelle piazze, sulle scalinate… come se le sentissi parlare… è una specie di magia totalmente coinvolgente! E vorrei farla sentire anche a voi.

E se questi miei racconti riusciranno a farvi venire voglia di partire per visitare un luogo o per apprezzare da vicino un’opera o calpestare la millenaria terra di un sito…beh…nessuno sarà più felice di me!!

E concludo con questa frase che trovo assolutamente calzante: “Il lavoro di un pittore non finisce nel suo quadro; finisce negli occhi di chi lo guarda”  (A. Sughi)

#LiberiamolaCultura!

Stella

Alpis Graia. Le pietre degli dei tra Italia e Francia

Il 19 marzo 2014 abbiamo festeggiato i 50 anni del Traforo del Gran San Bernardo. E quest’anno, il 16 luglio, celebreremo i 50 del Tunnel del Monte Bianco. Opere grandiose, anni di lavoro e fatica per unire Paesi confinanti in modo più rapido ed agevole. Frutto dei tempi moderni e della necessità di velocizzare ed incrementare i transiti. Ma prima? Da sempre le montagne uniscono i popoli..sì, li uniscono! Dall’alba della sua esistenza l’uomo le attraversa, le abita, le vive.

Colli. Valichi. Vere e proprie “terre di mezzo” dove i confini, nei secoli, non sono in fondo mai stati così netti, così geometricamente definiti. Sono le terre dei pascoli in quota, degli alpeggi, dei laghetti effimeri che appaiono dopo lo scioglimento delle nevi e che, con l’autunno, di nuovo scompaiono. Luoghi dove sembra che tutto rallenti. Luoghi dove, solo in certi casi più fortunati, alla natura si mescolano le tracce di una Storia grandiosa dal respiro millenario.

Cominciamo il nostro viaggio dal Piccolo San Bernardo; lì dove Italia e Francia si guardano, si toccano e si parlano. In antico veniva indicato come Alpis Graia, in omaggio al Graium numen, al (semi)dio greco, Ercole che, secondo molti miti e credenze, da qui passò. Interessante ricordare un passo del Satyricon di Petronio che, stando a molti, si riferirebbe proprio a questo colle:

“Alpibus aeriis, ubi Graio numine pulsae descendunt rupes et se patiuntur adiri, est locus Herculeis aris sacer : hunc niue dura claudit hiemps canoque ad sidera uertice tollit. Caelum illinc cecidisse putes: non solis adulti mansuescit radiis, non uerni temporis aura, sed glacie concreta rigent hiemisque pruinis: totum ferre potest umeris minitantibus orbem”. (Petr., Satyricon, 122)

E’ bello tradurre questi versi per assaporarne l’intensa e, direi, visiva poesia.

Là, sulle Alpi vicine al cielo, dove, spinte da una divinità greca, le rocce si abbassano tollerando di lasciarsi avvicinare, si trova un luogo sacro agli altari di Ercole: qui l’inverno chiude i luoghi con una dura coltre di neve e solleva il capo candido verso le stelle. Potresti pensare che il cielo sia attaccato a quelle cime: né il sole, nel pieno delle sue forze, né le brezze di primavera possono addolcire questo clima rigido, ma ogni cosa è indurita dal ghiaccio e dai rigori invernali: (sembra che) l’intera volta celeste possa essere sorretta sulle spalle di queste vette minacciose”.

É la terra dominata dalla magia ancestrale del cromlech: cerchio megalitico risalente secondo alcuni all’Età del Rame (III millennio a.C.), secondo altri all’Età del Ferro iniziale (IX-VI secolo a.C.) composto da una cinquantina di pietre che, simbolicamente, sottolinea una zona di transito, di scambio, di fusione tra popoli e culture. E’ vero che, nei secoli, molte volte queste pietre sono state prese, spostate, maneggiate..ma alcune sono ancora in posizione primaria; una in particolare che, stando ad alcuni studiosi, avrebbe aiutato ad individuare l’orientamento astronomico del cerchio litico al solstizio d’estate. E da alcuni anni ormai, al tramonto del 21 di giugno, c’è sempre un folto gruppo di appassionati che si reca lassù ad assistere al fenomeno della proiezione di due falci d’ombra che progressivamente si abbracciano quando gli ultimi raggi di sole scivolano dietro la sella del Lancebranlette, all’orizzonte nord-occidentale.

É quel limes, ossia quell’invisibile ma presidiata linea di confine voluta dalle legioni romane che qui, a 2.188 metri di quota, dal I secolo a.C. si sono insediate costruendo due mansiones (punti tappa lungo la via delle Gallie). Oggi ne abbiamo una in terra italiana ed un’altra già oltre il confine francese, ma è una situazione venutasi a creare solo dopo lo sfortunato esito del Secondo Conflitto Mondiale: prima, infatti, erano entrambe su suolo nazionale! La strada romana passava alta, più o meno in linea col monumento ai Caduti e, di conseguenza, gli accessi delle mansiones si aprivano su quel lato. Ma è chiaro: lassù la strada era al sicuro dai pantani che si creavano al disgelo! Le mansiones prevedevano una corte centrale su cui si affacciavano una serie di ambienti utili al riposo di uomini ed animali. La mansio orientale (quella “nostrana”) presenta, inoltre, in corrispondenza dell’angolo sud-ovest, fino a poco tempo fa a bordo strada (ora la strada compie un giro più ampio e non taglia più il cromlech a metà), i resti (l’esatta metà) di un fanum: un piccolo tempio di forma quadrangolare, a pianta centrale, costituito da una cella circondata da un corridoio. Si tratta di un edificio di culto tipicamente gallico di cui si può apprezzare un altro bell’esempio a Martigny nella Fondation Gianadda.

Gli scavi condotti negli anni Trenta del XX secolo da Piero Barocelli avevano interessato entrambe le mansiones portando altresì al ritrovamento delle lamine votive e del noto busto in argento di Iuppiter Dolichenus ora conservati al MAR di Aosta. E’ insolito questo aggettivo “Dolichenus“: che mai vorrà significare? Si tratta di un appellativo aggiuntosi al nome di Giove tra il II ed il III secolo d.C. andando così a sovrapporre alla principale divinità latina un dio orientale, proveniente dalla città anatolica di Dolico. Una sorta di Baal, di dio trionfatore, protettore dei soldati, reggitore del mondo umano e cosmico. Il suo culto restò in sordina fino al regno di Marc’Aurelio per poi toccare l’apice sotto Commodo e i Severi. Il busto del “Piccolo” ci offre una divinità matura, dal volto barbuto e dalla folta chioma riccioluta; lo sguardo è ieratico e penetrante: grandissimi gli occhi con la pupilla ben delineata, tratto tipico della ritrattistica tardo-imperiale che proseguirà in epoca costantiniana. Indossa una corazza e, appena sotto la spalla destra, si riconosce l’immancabile fascio di fulmini.

Ospitalità e sacralità: caratteristiche da sempre abbinate nei valichi lungo percorsi di particolare risalto. In quell’atmosfera “sospesa” delle mitiche “terre di mezzo”.

Stella

Courmayeur. Insospettabili (ma non così tanto) presenze romane ai piedi del Bianco

Ciao! Oggi elargirò alcune “pillole” della lunga storia del mio paese d’origine: Courmayeur. Certo, dici “Courmayeur” e subito pensi alle montagne più alte d’Europa, alle splendide piste da sci, ai negozi alla moda, ai locali VIP…. agli hotel 5 stelle…al turismo di lusso. Ma Courmayeur ha un’anima antica, tutta da scoprire nei suoi angoli più nascosti e meno appariscenti. Come la piccola frazione di La Saxe.

La Saxe, un grappolo di case annidato alle pendici dell’omonimo monte che lo sovrasta. Un villaggio leggermente defilato rispetto alla viabilità principale, che conserva tutta la poesia ed il fascino di un tempo. La Saxe: nata dalla roccia, come il suo stesso nome, del resto, dichiara.

Guardiamoci attorno: la candida muraglia del Monte Bianco, la piramide rocciosa del Mont Chétif, le umide pendici boscose del Mont Cormet e, infine, il macigno pietroso del Mont de La Saxe. Quest’ultimo, probabilmente, quel “saxum” (anzi, “saxa”, al plurale) che ha dato nome a questa piccola e suggestiva frazione.

ROCCE ROMANE

Un nome antico; un nome che, se vogliamo, in qualche modo anticipa, seppur velatamente, l’antica frequentazione di questo discreto lembo montano.

Nei pressi della graziosa cappella dedicata ai Santi Leonardo, Michele e Anna, si insinua una stradina dal nome a dir poco evocativo: Rue Trou des Romains (Via [del]Buco dei Romani), che prende nome proprio dalle miniere che si dicono romane. Fu lungo questa via che, nel 1927, in occasione di alcuni lavori edili, fu rinvenuta una tomba romana ad incinerazione databile, grazie agli oggetti del corredo ritrovati al suo interno, tra la fine del I secolo a.C. e la metà del secolo successivo. La tomba, infatti, aveva restituito diversi materiali ceramici tra cui una lucerna, ed una significativa armilla (ossia un bracciale) in pietra ollare: un monile tipico delle parures galliche alpine. All’epoca la scoperta ebbe una certa risonanza tanto che si decise di collocare temporaneamente gli oggetti nel Museo Alpino Duca degli Abruzzi in modo che potessero essere apprezzati anche dai sovrani d’Italia, Re Umberto II e Maria José.

Purtroppo non si hanno ulteriori informazioni storico-archeologiche su quest’area, ma pare impossibile pensare ad una tomba isolata anche in considerazione del fatto che tale fortuito ritrovamento parlerebbe di oggetti sia maschili che femminili, quindi si può supporre la presenza di  almeno un nucleo famigliare. Quindi “insospettabili”, forse, ma non poi così tanto dato che la Strada romana delle Gallie da Pré-Saint-Didier girava sù verso l’attuale La Thuile (l’antica Ariolica) diretta al valico dell’Alpis Graia (il colle del Piccolo San Bernardo), quindi non transitava lontano. In più questa era, allora molto più che adesso, una zona meravigliosa coi suoi pianori soleggiati, i pascoli, le folte foreste, protetta dai venti e ricca di acque..insomma, un luogo ideale dove fermarsi e vivere coltivando la terra e dedicandosi, come già i predecessori Salassi, alle attività minerarie.

Ci piace immaginare che, sia per l’origine chiaramente latina del nome del villaggio, sia per quanto ci narra lo storico Strabone in merito alle fantastiche miniere d’oro ambite dai Romani ( le note “aurifodinae” ipotizzate proprio nella zona del Mont de La Saxe), qui vi fosse un piccolo insediamento frutto della convivenza tra Romani (perlopiù militari) e popolazione autoctona.

ANTICHI LABIRINTI SOMMERSI

La via Trou des Romains si trasforma in un piacevole sentiero che si inoltra in un bosco di latifoglie; oltrepassato il torrente Tsapy si raggiunge la vicina frazione del Villair superiore e, da qui, si può attaccare la salita verso la selvaggia Val Sapin. E’ questa una vallata severa e scarna, ma ricca di un certo fascino antico e quasi dimenticato, tipico di quei luoghi montani appartati dove protagonista è solo la Natura. Dove oggi si odono perlopiù i muggiti delle mandrie e il lontano vociare degli escursionisti, in antico questa zona doveva risuonare degli echi metallici delle forge e delle voci dei minatori. Ci siamo. Queste sono le pendici delle “aurifodinae”, miniere di piombo argentifero probabilmente già conosciute e sfruttate dai nativi Salassi prima che da Roma.

Nel XVIII secolo queste miniere erano state definite il “Labyrinthe” proprio per il loro intricato sviluppo sotterraneo ed il difficile ingresso. In effetti è un luogo pericoloso: appena oltre la bocca d’entrata, infatti, un baratro protegge i segreti di queste antichissime gallerie.

Stella