#OltreConfine. Una gita all’ “Alba” della storia tra torri, portici e prelibatezze!

Eccoci al terzo appuntamento di #OltreConfine. “Petites pastilles d’escapades” come direbbero i Francesi. “Pillole di viaggio” per oltrepassare i confini, per ora solo col pensiero e con un desiderio di viaggiare che aumenta ogni giorno di più!

Oggi si va nel vicino Piemonte: ad Alba, la regina delle Langhe!

Eh sì, lo so… viene subito quella certa acquolina in bocca, vero? Perché non appena nomini “Alba” sono innanzitutto queste le cose che vengono in mente… tartufo, battuta di fassona, un trionfo di carni squisite, di formaggi profumati, di vini eccezionali…per non parlare del risotto al Barolo (ne vado matta!), delle gentili nocciole locali e… insomma un vero “Bengodi”!

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Ma a queste immancabili leccornie non possiamo non abbinare l’interesse per la storia e l’arte di questa cittadina gioiello, rossa di cotto, calda ed accogliente. Dopo alcuni giri lungo le strade del Barolo e del Barbaresco punteggiate da manieri e sontuose dimore barocche, decidiamo di trascorrere una giornata ad Alba.

A 50 km a nord-est di Cuneo, Alba sorge sulla riva destra del Tanaro, in prossimità della sua confluenza col torrente Cherasca, in un’ariosa e verdeggiante conca pianeggiante bordata da dolci colline coltivate a vigneto. Un sito abitato sin da epoca preistorica; le prime tracce di insediamento, infatti, risalgono al Mesolitico (10.000-6.000 anni a.C.): piccoli gruppi dediti alla caccia e alla pesca. Effettivamente questa particolare posizione la rendeva quanto mai appetibile…

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Addentriamo nelle vie del centro storico dove un’infilata di bei palazzi medievali e barocchi ci accompagnano lungo tutto il percorso. Portici (quanto adoro i portici!), facciate in cotto ricche di decorazioni, chiese dai prospetti curvilinei, torri (non a caso Alba è anche chiamata “città dalle Cento Torri“!), campanili e immancabili (nonché imperdibili!) vetrine debordanti di mille golosità!

Alba ha 8.000 anni di storia e il territorio che la circonda è ricco di sorprese. Vieni a scoprirle!”

Merita senz’altro una visita il museo civico di archeologia e storia naturale “Federico Eusebio”, situato nella luminosa corte del complesso dell’antico convento della Maddalena.

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Le sue sale ospitano il retaggio della millenaria storia cittadina, fin dai suoi esordi risalenti al VI millennio a.C. (il villaggio preistorico è stata una stazione fondamentale del Neolitico del Nord Italia) per giungere ai suoi periodi di maggiore splendore, come quando sotto la dominazione romana assunse il nome di Alba Pompeia, o come quando, negli ultimi secoli del Medioevo fu Libero Comune.

Langhe all’Alba della storia

E’ qui, nel territorio dove sorgerà Alba, che si ha testimonianza della più antica colonizzazione del Piemonte meridionale datata agli inizi del Neolitico (6.000-5250 a.C.) con stretti e frequenti contatti coi vicini Liguri. Vivace l’attività agricola con coltivazioni di farro, orzo e frumento contestualmente al recupero di macine e macinelli.

Con l’epoca protostorica, Età del Bronzo antico (2.200-1.700 a.C.), notiamo significative analogie con Aosta. Anche qui è stato individuato un santuario in cui con tutta probabilità venivano venerate le spoglie mortali degli antenati o comunque di personaggi di rango elevato assai in vista nella società del tempo. Ci colpisce in particolare una sepoltura particolare detta “del Guerriero”, databile tra Bronzo medio e recente, quindi tra 1700 e 1300 a.C.; sicuramente una presa di possesso del territorio che anche nelle sepolture privilegiate dichiarava l’importanza e la forze dei clan, dell’élite guerriera locale.

Dalle “case degli antenati” del Neolitico e dell’Età del Rame, fino alle armi dell’Età del Bronzo (pugnali, spade), arriviamo all’Età del Ferro: siamo nella propaggine nord-orientale del territorio del popolo dei Bagienni (anticipo che Augusta Bagiennorum sarà tra le prossime mete #OltreConfine!)

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Fu il console Gneo Pompeo Strabone, padre del più noto Pompeo Magno, a fondare Alba Pompeia. Siamo dunque in piena età repubblicana, ma purtroppo le fasi della città relative a questo suo periodo delle origini non sono note. E’ invece la fase augustea quella che ha restituito il maggior numero di resti; è con Ottaviano Augusto, infatti, che questo centro viene monumentalizzato e dotato di un perfetto impianto urbanistico ed architettonico.

Ma perché “Alba”? Non perché c’entri il colore bianco, ma perché questo termine di origine ligure indica l’insediamento principale di un certo territorio; pensiamo, infatti ad ALB-enga, l’antica ALB-ingaunum, o a Ventimiglia il cui nome antico era, non a caso, ALB-intimilium

Una posizione privilegiata che in breve tempo rese Alba un centro strategico per gli scambi commerciali, un ponte importante tra il Mar Ligure e le Alpi, tra il Mediterraneo e la piana del Po.

A questo si aggiunga l’efficiente e capillare rete stradale romana in cui le vie principali si affiancavano ad un incredibile reticolo di strade secondarie, assai spesso ricalcate su precedenti piste conosciute ed utilizzate sin dalla Preistoria.

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La città romana presenta una forma irregolarmente ottagonale; quasi al centro di uno spazio urbano suddiviso in 52 insulae sorgeva il foro nelle cui vicinanze si trovavano le terme ed il teatro.

Che fosse una città ricca ed opulenta è facile intuirlo: il museo dipana un’abbagliante sequenza di lacerti di pavimenti marmorei multicolori, di affreschi parietali straordinari, di frammenti di statuaria monumentale e non solo… per non parlare dei corredi funerari, del vasellame ceramico e vitreo, dei monili, dei gioielli, dei cippi funerari elegantemente decorati e le tante, tantissime, iscrizioni i cui nomi e i cui titoli aiutano a ritrovare gli albesi del tempo.

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Due sono le cose che più di tutte tenevo a vedere e che, come mi aspettavo, sono rimaste impresse nella mia mente. Innanzitutto l’incredibile affresco col Capricorno e i delfini proveniente dalla ricchissima domus di via Acqui. Sebbene la didascalia presente al museo parli di “animali marini fantastici”, io mi permetterei di azzardare che si tratta, senza troppi dubbi, di un Capricorno, mitico animale dalla doppia identità marina (coda di pesce) e terrestre (protome cornuta), se non addirittura dalla tripla identità in quanto trattasi di costellazione, quindi anche celeste!

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Sarà che negli ultimi anni di Capricorni ne ho studiati davvero tanti… ma mi sentirei di averne trovato un altro e decisamente notevole! Capricorno, simbolo dell’imperatore Augusto, accompagnato da delfini, non a caso mammifero marino scelto dal fidato Agrippa.

Altro elemento di forte attrattiva per me era la nota testa colossale raffigurante una divinità femminile diademata. Questa testa venne ritrovata nel 1839 nei pressi del Duomo (zona forense quindi). Purtroppo ad Alba si trova una copia poiché l’originale è esposto al Museo di Antichità di Torino…peccato… ma presto anche Augusta Taurinorum sarà protagonista di #OltreConfine! Tuttavia, al di là di complesse vicissitudini storiche, ritengo sia assolutamente importante che i pezzi, soprattutto se così rilevanti e in qualche modo “rari”, tornino nel luogo dove furono scoperti!

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Si tratta di una statua di culto realizzata con la tecnica detta dell’acrolito, ossia con diversi materiali; la testa, in lucente e prezioso marmo greco, andava inserita in un corpo realizzato in altro materiale, magari con altro colore per accentuare il contrasto tra le carni e le vesti. Si data tra la fine del II sec. a.C. e l’inizio del secolo seguente.

Quello sguardo rivolto verso l’alto, il possente collo leggermente ritorto, le corpose ciocche di capelli a fatica trattenute dal diadema, ma soprattutto quella bocca piccola ma carnosa leggermente socchiusa quasi stesse sussurrando antiche litanie, portano direttamente ai canoni stilistici di età ellenistica. Un sogno…

Quando si potrà, dedicate un week-end ad Alba, vi stupirà! E non solo per la sua straordinaria enogastronomia o per la sua accogliente atmosfera, ma anche per le ricche testimonianze del suo lungo e variegato passato, così come per il suo sottosuolo! Ebbene sì, non potete perdervi la visita di Alba sotterranea insieme agli archeologi!

Alba, capitale delle Langhe, un vero scrigno di arte e di storia da vivere… con gusto e “sottosopra”!

Stella

#OltreConfine. Da Aosta a Aoste nell’Isère seguendo un … prosciutto!

Cari amici di #Archeologando, da tempo ormai non riusciamo più a viaggiare! E così, proviamo a farlo coi nostri ricordi e racconti. Inauguro oggi la rubrica #OltreConfine!

Mi piacerebbe cominciare accompagnandovi alla scoperta (a meno che non ci siate già stati, e allora diventa un simpatico “amarcord”) di alcune “Aoste sorelle” del circondario.

Tutte quelle città fondate da Ottaviano Augusto di cui portano il nome e l’impronta. Inizieremo con quelle che, come Aosta, ancora oggi si chiamano così. E non andremo molto distanti, pur varcando i confini nazionali (somma trasgressione!). Ma siamo nell’impero romano, e quindi il problema non sussiste(va)!

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La prima “sorellina” che vi invito a visitare si trova a circa 2 ore e mezza di auto da Aosta, poco più di 220 km. Dobbiamo andare nel département numero 38, l’Isère. Una città che oggi viene spesso confusa con la nostra Aosta, soprattutto per colpa di un prosciutto! Lì, infatti, viene prodotto un crudo marchiato “Aoste” che però nulla ha a che vedere col Jambon de Bosses-Vallée d’Aoste che, oltretutto, è anche un DOP!

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Avete già capito? Si tratta dell’attuale graziosa cittadina di Aoste, l’antico Vicus Augustus (denominazione attestata dalle numerose epigrafi della zona).

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Benché non ci sia stata tramandata dalle fonti l’anno esatto di fondazione, si ipotizza di poter collocare la nascita di questo insediamento negli anni tra il 16-13 a.C., quando Augusto si recò a Lugdunum (Lione) per organizzare l’apparato amministrativo delle province galliche. Effettivamente risalgono a questo periodo i depositi archeologici più antichi rinvenuti nel sito, in particolare l’interessante forno per ceramiche di cui vi dirò tra poco.

La cittadina conosce, lungo l’intero I secolo d.C., un momento di notevole ricchezza e prosperità, essenzialmente dovuta alle tante e floride attività commerciali ed artigianali presenti. Tale vitalità si mantiene almeno fino al IV d.C.

Intanto il nome: “vicus“, che sta ad indicare un gruppo di case disposte lungo una strada, una sorta di agglomerato viario. In Gallia i vici erano comunque dotati di specifica identità giuridica e amministrati attraverso un capoluogo che, nel caso in oggetto, era rappresentato dalla non distante città di Vienne, Colonia Julia Viennesis, capitale del territorio occupato dal popolo degli Allobrogi.

Vicus Augustus (o più comunemente Augustum) è riportata anche da documenti quali la Tabula Peutingeriana o l’Itinerarium Antonini. Era quindi un importante snodo di traffico, ubicato al centro di assi viari molto frequentati che univano la Gallia Transalpina alla Gallia Cisalpina, i monti e il mare, i grandi fiumi e le vaste pianure.

Purtroppo non si hanno né notizie né elementi fisici sufficienti a ricostruire l’aspetto originario dell’abitato; tuttavia il ritrovamento di un altare quadrifronte ubicato all’incrocio dei principali assi stradali attesta quello che era il centro dell’insediamento.

Si deve poi all’archeologo Stephane Bleu l’individuazione di una piattaforma sopraelevata di circa m 300 x 160 situata dove oggi sorgono la chiesa e il municipio, quindi nel cuore dell’abitato. Scavi passati qui condotti hanno restituito fusti di colonne ed epigrafi al genius dell’imperatore. Si sarebbe pertanto tentati di ravvisarvi il centro monumentale, magari composto da un tempio e da un mercato.

L’elemento che emerge maggiormente è la quantità di forni per ceramica: ben 9! Uno di questi, situato nei pressi di una casa rifugio per anziani, è stato oggetto di valorizzazione in un’area verde. Si può entrare e vedere la struttura del forno col piano di cottura forato e le scale dirette alla fossa di argilla.

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Gli ateliers dei vasai dominano la scena artigianale del vicus. A questo si aggiunge la quantità straordinaria di anfore e vasi in genere rinvenuta nella zona e ben rappresentati nel locale Museo archeologico.

Il territorio era fortunato. Sono presenti, infatti, ben due tipi di argilla, diversamente utilizzate dai mastri vasai dell’antica Aoste. Una più calcarea e resistente alle sollecitazioni meccaniche per la produzione di vasellame da tavola; un’altra, refrattaria, per quello da cucina e da fuoco.

Ma i vasai di Aoste erano riusciti a specializzarsi soprattutto nella produzione di un oggetto: il mortaio. Numerosi infatti quelli contrassegnati dalla scritta Atisii, una famiglia di notabili allobrogi. Almeno tre di loro risultano proprietari di figlinae nella zona. I mortai di Aoste sono stati ritrovati un pò tutte le province occidentali dell’impero romano, anche in aree esse stesse produttrici di ceramiche (e di mortai). Era forse legato alla preparazione di un cibo particolare? O forse rientrava in circuiti commerciali molto ben controllati dagli Atisii? Sono comunque tre le aree di commercializzazione privilegiate: l’altopiano elvetico, la valle della Saona e la via del Reno. Certamente i grandi fiumi si rivelavano assi di circolazione delle merci assai utilizzati.

Stando ai ritrovamenti, è noto che ad Aoste si producevano anche vetro e oggetti in metallo. In più era un vivace centro di scambio e mercato. Vi è poi una sorta di produzione “di nicchia” costituita da un gruppo di anfore di piccole dimensioni, forse legate ai “grands crus” allobrogi, a quanto pare molto apprezzati anche a Roma!

E’ l’enciclopedista Plinio il Vecchio, nel libro XIV della sua Naturalis Historia, a descrivere un ceppo di uva nera chiamata “allobrogica” o ancora “picata(traducibile come “resinato”, “piccante”), assai adatta ai climi freddi e capace di maturare anche durante le gelate. Chissà che non vi sia qualche “parentela” con uve attuali valdostane; è comunque curiosa la somiglianza etimologica con la qualità “picotendro”, no?! Anche se è il Fumin quello dall’aroma più “pepato”… Agli esperti di viti chiedo di approfondire!

Tra gli dei più venerati, accanto a quelli ufficiali del pantheon romano, ve ne sono di locali “romanizzati”. Tra questi quello il cui culto risulta maggiormente e più capillarmente diffuso (come del resto un pò in tutta la Gallia) è Mercurio, protettore delle strade, dei viaggi, dei mercati e dei mercanti. I suoi attributi ricorrenti sono lo stambecco (!) e il galletto (!!). Perché ho messo dei (!!)? Ma non vi vengono in mente gli animali “totemici” identificativi della Valle d’Aosta? Non vi viene in mente l’esercito di galletti tradizionali che fanno bella mostra di sé nella Fiera di Sant’Orso e in tutte le vetrine di negozi di artigianato?! Per non parlare dello stambecco… insomma, vi ho fatto venire qualche curiosità?

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Ulteriore curiosità: da Beaucroissant, cittadina poco a nord di Grenoble, proviene un’epigrafe in cui Mercurio è associato all’epiteto Artaios, ossia un’associazione ad una divinità autoctona degli orsi (in greco antico, non a caso, ἄρκτος (leggi arktos) è “orso”) e della caccia. Il risultato è una sorta di “Mercurio Ursino”. Unite questa suggestione ai simboli di cui sopra e… viene voglia di andare oltre, no?!

Un’ultima menzione la merita il Museo Archeologico di Aoste. Piccolo ma molto curato, ricco e coinvolgente. In effetti rimarrete stupiti dalla ricchezza e varietà delle sue collezioni, soprattutto inerenti ritrovamenti di epoca romana (anzi, “gallo-romana”!). Dopo Vienne e Saint-Romain-en-Gal è un sito di tutto rispetto assolutamente da visitare.

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Il museo è un’istituzione molto attiva; diversi gli ateliers rivolti ai più piccoli e alle famiglie. Non mancano inoltre manifestazioni di rievocazione storica in costume, sempre molto simpatiche e apprezzate!

E con questo mi sentirei di chiudere questo primo post sulle “Aoste”. Abbiamo quindi visto la piccola ma super interessante Aoste.. quale sarà la prossima? Non vi dico niente se non che saremo nuovamente oltre confine! Buon viaggio, allora!

Stella

Saint-Marcel. Il castello dell’Acqua Verde

Nel piccolo borgo adagiato sui prati del fondovalle tutti aspettavano con ansia l’arrivo della primavera. Già da oltre vent’anni, infatti, gli inverni erano più lunghi e freddi che mai.  Lì, ai piedi dei grandi monti boscosi dove comunque le ombre usavano attardarsi più a lungo rispetto ad altri luoghi della valle; Lì, nel villaggio raggomitolato tra le braccia pietrose della montagna, si sapeva che il sole faticava ad allungare i suoi raggi.

Ma da oltre vent’anni c’era un problema che gli abitanti non sapevano risolvere…

Vi fu un tempo, infatti, in cui con l’inizio di ogni primavera, con lo scioglimento delle nevi, dalle sorgenti nascoste nella foresta iniziava a sgorgare, copiosa, l’Acqua Verde!

Le Acque Verdi di Saint- Marcel (centrovalledaosta)
Le Acque Verdi di Saint- Marcel (centrovalledaosta)

Un’acqua magica, che portava salute e prosperità, che faceva fiorire i campi e germogliare i raccolti. Un’acqua che, si narrava, era il magico dono di una fata generosa e potente: la fata Everda, la cui misteriosa dimora era da sempre custodita dalla folta vegetazione dei boschi.

Da oltre vent’anni, però, l’Acqua Verde non scorreva più. Il piccolo borgo di Saint-Marcel si stava lentamente spopolando…. chi resisteva le aveva provate tutte, ma della sorgente non vi era più traccia! La foresta, un tempo amica e accogliente, si era fatta ostile, scura e insidiosa. Chi vi si addentrava rischiava di non fare ritorno! Cos’era successo?!

Da oltre vent’anni, non solo l’Acqua Verde era sparita, trasformandosi in un maleodorante rigagnolo paludoso, ma anche il bel castello dei Signori del luogo era caduto in rovina. Con la morte dell’ultimo proprietario, infatti, il castello era passato in mano alla famiglia della perfida moglie: gente avida e assetata di potere.

In breve tempo l’eredità era stata letteralmente spazzata via e quel castello abbandonato, perché non più ritenuto all’altezza del rango e della ricchezza dei suoi nuovi abitanti che, mai amati, si erano da subito accaniti contro la gente del villaggio.

Avevano distrutto tutto! Avevano abusato del loro potere per sfruttare il territorio all’estremo, senza alcun rispetto per la natura! Avevano persino tentato di impossessarsi dell’Acqua Verde per venderla…ma senza riuscirvi! L’Acqua Verde era scomparsa. Il castello abbandonato, lasciato ai rovi e alle ortiche. Il paese nella miseria.

Anche quella volta, tutti speravano che qualcosa cambiasse; solo la vecchia Marcella, la saggia del villaggio, sentiva che non era ancora giunto il momento… e per questo veniva additata e ritenuta una porta-sfortuna!

Un pomeriggio, sul tardi, l’anziana donna passeggiava lungo quello che un tempo era il ruscello dell’Acqua Verde. Ad un tratto, ai piedi del grande castagno secolare, intravide un fagottino adagiato tra le felci. Si avvicinò con cautela e… “Oddio! Ma… è un neonato!”-esclamò incredula.

Prese quel fagottino tra le braccia: sembrava in buona salute, il colorito era roseo. Il piccolo fece un paio di smorfiette, socchiuse gli occhi e accennò un sorriso. La vecchia Marcella, che non aveva avuto figli, pensò fosse un dono del cielo e portò il bimbo a casa.

Apprestandosi a cambiarlo, però: “Ma sei una femminuccia!” esclamò Marcella, ancor più felice! Ma non credette ai suoi occhi quando si accorse di un particolare: sotto il piedino sinistro c’era una macchia… una voglia molto particolare!

“Il segno! Allora tu sei… E sei capitata a me! Dovrò educarti… ma soprattutto, piccola, dovrò difenderti!”, le disse la vecchia Marcella accarezzandole il visino. “Il segno di chi cammina sulle rocce, il segno di un’antica stirpe che si credeva perduta! Ti chiamerò Sylvette, perché sei figlia del bosco e lì ti ho trovata!”. La piccola sgranò due enormi occhi turchesi e sorrise allungando la manina verso “nonna” Marcella. La attendeva un destino importante!

Mia figlia Ottavia
Mia figlia Ottavia

Ma cosa aveva visto Marcella? Di che segno parlava? Era il cosiddetto “piede di strega”: una voglia a forma di piede sotto il piede, appunto! Una voglia che aveva la stessa forma di una strana impronta che si credeva fosse stata lasciata da una strega (o secondo altri una fata) secoli e secoli addietro sopra un enorme masso da tutti ritenuto magico! Sullo stesso masso una miriade di fori circolari che si pensava fossero stati lasciati dal bastone di quella misteriosa creatura, inafferrabile spirito delle rocce e delle miniere!

Il masso con coppelle e "impronta di piede" nel villaggio di Seissogne (SaintMarcel)-(www.archeosvapa.eu)
Il masso con coppelle e “impronta di piede” nel villaggio di Seissogne (SaintMarcel)-(www.archeosvapa.eu)

La fata era buona, ma gli uomini ne avevano paura e perciò lei si era rifugiata nel cuore della montagna. E infatti quei cunicoli segreti, illuminati da colori incredibili quasi come se fossero accesi da luci nascoste, erano creduti la sua misteriosa dimora.

La miniera di Servette (Saint-Marcel)
La miniera di Servette (Saint-Marcel)

La scomparsa dell’Acqua Verde si pensava fosse un chiaro segnale che la fata se ne era andata, offesa per sempre! Ma adesso quella neonata poteva cambiare molte cose… se solo…

Passarono gli anni. Sylvette era un’adolescente molto sveglia, intelligente e curiosa. E anche molto bella! L’anziana Marcella l’aveva educata e istruita passandole tutte le sue conoscenze ma mettendola sempre in guardia:”Non girare mai scalza, mi raccomando! Non mostrare mai il tuo piede! A nessuno!”. Sylvette era obbediente, ma in cuor suo proprio non capiva il motivo di quel divieto…

Giacomo, il giovane figlio del borgomastro era poco più grande di Sylvette: bello e aitante, era corteggiato da tutte le ragazze della contrada…tutte, tranne quella che a lui interessava davvero: la bellissima, sfuggente, misteriosa Sylvette!

Suo padre lo aveva più volte messo in guardia su quella strana ragazza: “Non si sa nemmeno di chi sia figlia! E’ una trovatella raccolta nel bosco da quella pazza di Marcella! Sarà una strega come lei… stanne alla larga!”.

Immaginando Sylvette (wattpad)
Immaginando Sylvette (wattpad)

Ma più il padre insisteva, e più lui proprio non riusciva a levarsela dalla testa. Finché un giorno la seguì di nascosto: Sylvette aveva imboccato il sentiero nel bosco, si era fermata davanti al grande castagno forato e lì si era tolta le scarpe (certa di essere sola!). Poi aveva proseguito inerpicandosi sù per le rocce più agile di un camoscio!

Il giovane Giacomo faticava a starle dietro – “ma dove diavolo sta andando?!”, si chiedeva sospettoso. Sylvette giunse in un posto nel bosco noto come Eteley, “il campo delle stelle” – come le aveva insegnato Marcella – e lì si fermò. Si sedette su una strana protuberanza tonda sporgente dalla parete rocciosa e chiuse gli occhi. WE fu in quel momento che Giacomo vide il suo piede!

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macine-SaintMarcel (AndarperSassi)

“Ma che diamine!…”. “Allora sei tu! Sei la strega delle miniere! Aveva ragione mio padre! E’ colpa tua! Restituiscici l’Acqua Verde, maledetta!!”, le urlò a squarciagola il ragazzo, totalmente fuori di sè.

Sylvette, terrorizzata, cercò rifugio all’interno di una galleria che si infilava nel ventre della montagna. Giacomo la inseguì, ma non avendo la stessa agilità, né conoscendo l’oscura galleria, precipitò in una voragine che per magia si richiuse immediatamente sopra la sua testa.

Sylvette aveva osservato la scena esterrefatta, senza parole! Si avvicinò con cautela al punto in cui Giacomo era precipitato e toccò la roccia venata di turchese.

La galleria si illuminò improvvisamente. Le rocce splendevano d’azzurro, giallo oro e viola acceso. La voragine si riaprì e ne uscì un vortice di nebbia azzurra che, poco a poco, prese la forma di una donna.

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“Eccoti Sylvette. Sei giunta a me. Ora hai l’età giusta. Sono Everda, la strega (come mi chiamano gli uomini che non sanno) delle miniere! Io non sono una strega; sono lo spirito protettore di questi luoghi e dei tesori che custodiscono. Per anni uomini senza scrupoli hanno torturato la natura e le montagne accecati dalla peggiore delle illusioni: il denaro e il potere! Finché non verrà posta mano al castello al cui interno si cela la porta che conduce alle sorgenti dell’Acqua Verde, vivranno miserabili e senza speranza!

“Ma io cosa posso fare, Everda?” – chiese Sylvette disorientata.

Everda le mostrò il suo piede:” Tu sei come me, sei una figlia delle rocce! Se riuscirai a convincere il popolo del paese a darti ascolto e a restaurare l’antico castello, potrai aiutarmi a ridare loro l’Acqua Verde. Sarà difficile, ma qualora ne avessi bisogno, mostra questo amuleto: è un granato color rubino. E’ il segno della pietra, è il gioiello dimenticato! Forse, e sottolineo forse, capiranno… Buona fortuna figlia mia!”.

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granato grezzo

E la saggia Everda scomparve in un vortice di luce turchese. La galleria tornò buia e silenziosa.

Tornata in paese Sylvette fu accolta da una gran confusione. Qualcuno aveva visto il giovane Giacomo seguirla nel bosco senza fare ritorno.

Venne aggredita dal borgomastro:” Maledetta strega! Cos’hai fatto a mio figlio?! Lo sapevo che avresti portato sciagure! Avrei dovuto cacciarti molto tempo fa! Tu e quella vecchia pazza che ti ha cresciuta!”.

“Ma no… Marcella non…”. Sylvette non riuscì a finire la frase che, spintonata, venne condotta verso le prigioni. “No! Se mi imprigionate non potrò aiutarvi! Io posso salvare vostro figlio e tutti voi! Io posso far tornare l’Acqua Verde!!” – urlò Sylvette. “Portatemi al castello! Per favore!” – supplicò.

Sollevata di peso, tutti indicavano il suo piede e la maledicevano; fu in quel momento che Sylvette mostrò l’amuleto. “E questo? Questo non vi dice nulla? Siete davvero diventati tanto sciocchi? Avete dimenticato il vostro passato?”.

Tutti urlavano,. Ma nel frastuono generale si levò, incredibilmente, la voce tonante del borgomastro:” Il granato! Il granato magico! L’amuleto dei nostri antenati, maestri cavatori e abili intagliatori. Il segno del popolo delle macine di pietra! Come fai ad averlo?!”. E allora, sceso il silenzio, Sylvette con voce ferma disse:” Seguitemi e capirete”.

Si recò quindi al castello, ormai ridotto a rudere: scuro, vuoto, pericolante. Alcuni lo credevano persino maledetto e abitato da fantasmi. Sylvette vi entrò, leggera come un gatto. Il borgomastro provò a seguirla, ma il pavimento scricchiolava paurosamente e una trave si spezzò sotto il suo peso. Capì che non avrebbe potuto proseguire. I suoi occhi incrociarono quelli di Sylvette; solo allora si rese conto di quanto quelle due gemme turchesi brillassero anche nel buio. E si fidò. “Per favore, ciò che più mi sta a cuore è che tu riporti a casa mio figlio!”.

Sylvette sorrise e come un’ombra scivolò tra le macerie infilandosi nei sotterranei del maniero.

Si trovò davanti ad una parete di roccia: nel mezzo una protuberanza tonda a lei nota. “Eccola! La macina!”. E incastrò il granato rubino nel foro al centro della macina. Quest’ultima scricchiolando cominciò a girare fino a che si bloccò: si aprì un varco tra le rovine. Sylvette vi si addentrò. Dal fondo una luce turchese si fece sempre più viva e avvolgente. La ragazza si ritrovò nel cuore di una miniera; tutt’intorno la roccia brillava di mille colori e sfumature preziose.

Miniere turistiche di Saint-Marcel (foto di Fabio Marguerettaz)
Miniere turistiche di Saint-Marcel (foto di Fabio Marguerettaz)

Continuò a camminare. Si voltò per vedere il varco da cui era entrata, ma non c’era più! Proseguì: iniziò a udire delle voci e nella semi-oscurità iniziò a distinguere delle figure umane;: erano tutti quelli che negli anni si erano avventurati alla ricerca delle sorgenti dell’Acqua Verde, mossi però da fame di ricchezza. Ora, sorvegliati da Everda, lavoravano legati nel cuore della miniera accatastando macine su macine. Ad un tratto Sylvette riconobbe anche Giacomo. Lui non lavorava con gli altri, ma era stato imprigionato sotto l’Acqua Verde: poteva respirare, era vivo, ma addormentato!

Non appena lo vide, Sylvette sfiorò l’acqua che per magia evaporò. Il giovane si risvegliò di soprassalto; vide Sylvette e si mise a piangere. I due si guardarono. Non servirono altre parole. “Ti aiuterò, Sylvette! Conta su di me!”-le disse Giacomo abbracciandola.

“Sono qui per liberarvi, amici!” – esordì la ragazza – “Sarete presto a casa, ma dovrete impegnarvi tutti per ricostruire il castello e rispettare le ricchezze della natura! Solo così tornerà l’Acqua Verde, il benessere e la felicità!”.

L’intero paese aspettava, assiepato intorno al castello… all’improvviso un chiarore: e uno dopo l’altro i compaesani smarriti uscivano dai detriti del maniero crollato, sani e salvi! Ne uscì anche Giacomo, abbracciato alla sua Sylvette. Il padre lo accolse in lacrime. “Da domani tutti qui! Lavoreremo uniti e il castello risorgerà tornando anche più bello di prima! E sarà nostro, di tutta la comunità! Sarà la dimora della nostra storia!”.

Il castello di Saint-Marcel oggi (lavori in corso) - centrovalledaosta
Il castello di Saint-Marcel oggi (lavori in corso) – centrovalledaosta

In breve tempo il castello di Saint-Marcel tornò al suo antico splendore. Niente più streghe né fantasmi. Niente più miseria o superstizione.

Le Acque Verdi di Saint-Marcel (da mapio.net)
Le Acque Verdi di Saint-Marcel (da mapio.net)

L’Acqua Verde era tornata a scorrere, i campi a fiorire, i raccolti a germogliare. La magica porta delle sorgenti custodita nei sotterranei del maniero, protetta dalla magia di Everda e del misterioso granato rubino.

Stella

 

Tor des géants. Correre tra montagne di storia. Da Pont-Saint-Martin a Courmayeur

Ed eccoci giunti nel fondovalle, lì dove la piana della Dora si allunga dolcemente nel Canavese; lì dove i fitti filari dei vigneti eroici si sfrangiano tra le colline dell’Erbaluce fino a perdersi nell’orizzonte lineare disegnato dalla morena di Ivrea, tenace testimonianza dell’ultima glaciazione.

Un continuo saliscendi tra colli e valli, un continuo sbalzo di quota che mette a dura prova fisico, nervi e anima! Ma tu non puoi, non vuoi mollare! Ora hai lasciato alle spalle l’Alta Via n. 2 e la montagna stessa ti chiama; senti la sua voce possente rimbombare nelle gambe, nella testa, nel cuore! E quindi, vai! Hai toccato il punto più basso di questo giro e ora aneli a riguadagnare quota… e ai tuoi piedi, novello Mercurio, spuntano ali tenaci!

Pont-Saint-Martin. Una località che deve il suo nome innanzitutto al magnifico ponte romano del I secolo a.C. e alla leggenda di San Martino di Tours che, proprio per costruire questo ponte, avrebbe sconfitto il diavolo. Il sentiero risale il corso del torrente del Lys accompagnando alla scoperta delle terre della potente famiglia Vallaise.

Perloz, un grappolo di case arditamente agganciate al pendio roccioso, dominato da nobili caseforti sotto la protezione del santuario di Notre-Dame-de-La-Garde. Un borgo medievale che lega inoltre il suo nome alla lotta partigiana, grazie al ricco museo della Resistenza intitolato all’ardimentosa Brigata Lys.

Il ponte di Moretta (E. Romanzi)
Il ponte di Moretta (E. Romanzi)

Attenzione, però, questa è terra di leggende… Dovrete passare sul ponte di Moretta: li intorno è pieno di oscuri cunicoli… ebbene, pare siano stati scavati da un terribile drago che vi si nascondeva. Un drago che terrorizzava gli uomini e divorava il bestiame! Solo un uomo ebbe l’ardire di affrontarlo, un certo Vignal! Lo uccise, sì, ma uno schizzo del velenosissimo sangue della belva fu letale anche per lui!

Terra di magie, si diceva. Certo, come quella del non distante villaggio di Chemp, un gioiello d’arte a cielo aperto dove si nascondono strane presenze e spiriti montani: se il vento è buono potreste anche udirne la voce…

https://www.youtube.com/watch?v=tKWMXxUH9iE
https://www.youtube.com/watch?v=tKWMXxUH9iE

Oltrepassando il Lys si continua su una balconata a mezzacosta che conduce a Lillianes, accolti dal suggestivo ponte in pietra costruito nel 1733, l’unico a quattro arcate in Valle d’Aosta. Un primo “assaggio” della valle di Gressoney; in questo tratto il circuito ripercorre parte dell’Altavia n. 1, di cui fa parte un tratto del Walser Waeg, suggestivo sentiero che segue le orme della cultura Walser.

E mentre sali verso il Rifugio Coda, attento che potresti cadere nel sottile incantesimo del magico Plan des Sorcières dove un misterioso masso reca, sotto forma di coppelle, la costellazione delle Pleiadi così come doveva apparire, sembra, intorno al 5.000 a.C.

Il masso coppellato del Plan des Sorcières di Lillianes (M.G.Schiapparelli-flickr)
Il masso coppellato del Plan des Sorcières di Lillianes (M.G.Schiapparelli-flickr)

E poi ecco il Mont Mars, un nome che, al di là dei terreni zuppi d’acqua, evoca presenze divine e latitudini planetarie. E i Giganti attraversano distese “lunari”, brulle e dolci, di verde e d’argento, ingioiellate di laghi, come il Vargno, e ricamate di tenaci rododendri.

Raggiungi la zona del colle della Barma, valico di arcaica e radicata religiosità che da remoto culto delle rocce portatrici di salute e fertilità, si trasforma in luogo di devozione mariana… quassù, a due passi dal cielo, in una terra di confine brulicante di massi e pietraie, già risplende il nero volto della Madonna d’Oropa.

E dico di più: il tratto che dalla cappella dl Pillaz porta al Colle è un percorso antichissimo lungo il quale si trovano anche dei massi con coppelle; quindi un itinerario frequentato sin da tempi remotissimi che conduceva al “Masso” con la “M” maiuscola, quello di Oropa.

E allora non trailers in lotta col tempo, ma lunghe file di pellegrini d’altura, oranti e col capo velato di bianco…

Processione di Oropa al Col della Barma (foto: Rifugio Barma)
Processione di Oropa al Col della Barma (foto: Rifugio Barma)

Ed ecco che dal Colle della Vecchia, tra Valle d’Aosta e Biellese, si entra ufficialmente nella terra dei Walser, nella preziosa terra dove trovò dimora, tra XII e XIII secolo, il coraggioso popolo giunto da nord che ancora oggi le dà nome e lingua. Già, i Walser, l’ardimentosa gente di origine germanica che, lasciata la sua terra natìa, attraverso dure e spesso inesplorate vie alpine, si creò nuove patrie in un’ampia zona che va dalla Savoia francese al Vorarlberg austriaco, quasi sempre ad altitudini superiori ai 1000 metri.

Emblematico il simbolo di questa comunità radicatasi in Valle d’Aosta. Al centro appare un cuore con dieci stelle, ognuna delle quali rappresenta un paese di questa minoranza etnico-linguistica presente in Italia. Il cuore, che esprime il forte legame con la terra di origine, è sovrastato da una “croce ad angolo”, originariamente una runa, ossia un carattere dell’alfabeto nordico poi ripreso dai Romani per simboleggiare il dio Mercurio, protettore dei mercanti: allusione, questa, al mestiere principale esercitato in passato dai Walser. Infine il bianco e il rosso: i colori della bandiera del Canton Vallese.

Il simbolo dei Walser (ecomuseo walser- Gressoney-La-Trinité)
Il simbolo dei Walser (ecomuseo walser- Gressoney-La-Trinité)

Vedete quindi come davvero gli dei accompagnino questi eroi “dai piedi alati” nel loro lungo e arduo giro che, se ci pensiamo, porta anch’esso un nome divino: il dio nordico Thor, figlio del dio del cielo, Odino, signore degli dei, e della dea della terra. Thor, dio del fulmine e della forza: rapido, preciso, potente. Il suo animale identificativo? Il caprone…oppure lo stambecco! Vedete? La forza, la rapidità, la montagna….

Thor sul suo carro (VitAntica)
Thor sul suo carro (VitAntica)

(Piccolo inciso: in questo momento sto ascoltando la musica epica ed emozionale del grande Vangelis… e vi assicuro che, non potendolo fare con le gambe, sto correndo veloce con la testa, la fantasia e le dita sulla tastiera!)

Ma continuiamo insieme a volare e guardare dall’alto questo straordinario paesaggio. Vediamo i graziosi villaggi walser, usciti dalle fiabe: Niel, Ober Loo… fino alla splendida Gressoney-Saint-Jean, fulgida tra boschi e prati, col suo castello della Regina Margherita che sembra fatto di ghiaccio e cristallo (potrebbe davvero aver ispirato gli sceneggiatori di Frozen!)

Fiabe, leggende, dei e regine… la nostra cavalcata di onirico sudore s’invola alla volta di un altro villaggio incantato: Alpenzu! E da lì proseguiamo per sconfinare in un’altra magnifica valle di mitici e ardimentosi mercanti: la Val d’Ayas!

Antagnod
Antagnod

E la mitologia continua ad accompagnarci: Castore e Polluce, i divini gemelli, noti anche come Dioscuri (letteralmente) “figli di Zeus” e di Leda (anche se forse concepiti da padri diversi… ma si sa i miti sono miti anche per questo!); entrambi valenti atleti (vedete? Ennesima conferma!). Talmente uniti che, quando Castore muore, Polluce, seppure dotato di natura immortale, decide anch’egli di morire implorando il padre  Zeus di ucciderlo. Ma i due staranno sempre insieme: 6 mesi negli Inferi, 6 mesi sull’Olimpo e… tra le vette della Val d’Ayas, in eterno, nel gruppo del Rosa, insieme allo sfavillante Breithorn!

Come la vicina valle di Gressoney, anche questa condivide un’impronta culturale walser ed una vocazione commerciale. Secondo recenti studi, infatti, da qui passava la via che tra 1200 e metà del 1600, arrivando al Colle del Teodulo (nella Valtournenche), metteva in contatto i centri della pianura Padana con le città del centro Europa, in particolare con le ricchissime Fiandre.
Questa via di comunicazione, alternativa a quella del Gran San Bernardo, sarebbe stata intensamente utilizzata durante il periodo di ritiro dei ghiacciai, e sarebbe poi stata abbandonata, addirittura fino a far perdere notizia della sua esistenza, a seguito dei rivolgimenti storici e climatici del 1600: Controriforma, peste, inizio della “piccola era glaciale” che rese impraticabile il Colle del Teodulo.

E si raggiunge l’antico abitato di Saint Jacques des Allemands, la cui chiesa risalirebbe addirittura al XIII secolo e dove, sparsi ovunque tra strade, piazzette e abitazioni, si notano i caratteristici “coni” di pietra ollare, scarti inequivocabili della lavorazione di una materia prima di cui questa valle è ricca, ampiamente utilizzata sin dall’età tardoantica e altomedievale per la produzione di pentole, bicchieri, macine e stufe. Una pietra fredda ma sorprendentemente malleabile, più verde più grigia, più pura o con granati, ma dallo straordinario effetto visivo e resa artistica.

Coni di pietra ollare, scarti di tornitura (Rivista Environnement)
Coni di pietra ollare, scarti di tornitura (Rivista Environnement)

Ma procediamo! La Valtournenche ci aspetta! Superato il Grand Tournalin col suo rifugio storico costruito nel 1876 e dedicato a Georges Carrel, ci si avvicina alla vallata dominata dal “più nobile scoglio d’Europa”, il Cervino, come lo definì il poeta John Ruskin. Una terra che immediatamente richiama gli ardori del primo alpinismo, imprese avventurose e uomini divenuti icone. Da Edward Whymper a Jean-Antoine Carrel. Senza dimenticare l’imponente figura dell’abate Aimé Gorret, originario di Cheneil, ultimo di 7 fratelli, apparentemente gracile nel fisico ma poi esploso per forza, tenacia, ingegno e acume tanto da essere definito “l’orso della montagna”.

Chissà se Ruskin immaginava che nella sua splendida e iconica descrizione vi fosse del vero… Già, perché centinaia di milioni di anni fa le Alpi erano .. un immenso oceano! E le nostre cime giacevano sott’acqua in un mare preistorico pullulante vi vita! Poi, col muoversi delle grandi placche continentali, le montagne iniziarono a risvegliarsi ed è affascinante immaginare il Cervino spuntare da una distesa di antiche onde e ampie lagune come una straordinaria isola appuntita…

E chi penserebbe che le piste di Cime Bianche racchiudano nel loro nome oltre al candore delle nevi, un più antico richiamo ai candidi limi di remote paludi?

E, avvicinandoci di diversi millenni, la Valtournenche ha restituito tracce dei suoi primi abitanti. Verso la fine del terzo millennio a.C., infatti, il clima era di tre o quattro gradi più caldo dell’attuale, per cui le aree coltivabili si spostavano di circa quattrocento metri più alto, così come si verificava per i boschi e i pascoli d’alta quota. Ciò favoriva la sopravvivenza delle primitive popolazioni fino alla quota di 2400 metri; queste genti, attraverso il colle del Teodulo (nei cui pressi venne ritrovata una significativa ascia in pietra verde levigata), sin dall’Età del Rame intrattenevano rapporti commerciali con il vicino Vallese.

Sulla Valtournenche preistorica e protostorica si potrebbe scrivere per giorni… questa certo non è la sede ma attraversando rapidamente la valle possiamo citare le incisioni rupestri di Antey, quelle in loc. Barmasse di Valtournenche, per non parlare poi del fascino inusuale del grande villaggio salasso sul Mont Tantané in comune di La Magdeleine!

Campagna di scavo 2009 nel villaggio salasso sul Tantané (S. Bertarione)
Campagna di scavo 2009 nel villaggio salasso sul Tantané (S. Bertarione)

E dal rifugio Barmasse ci produciamo in un allungo fino al Cunéy dove, a 2.656 metri di quota, sorge il santuario mariano più alto d’Europa. Prima della sua costruzione il luogo era frequentato per la presenza di una sorgente benedetta: gli abitanti di Saint-Barthélemy e di Nus vi si recavano per pregare nei periodi di grave siccità. Una leggenda narra che alcuni pastori, trovata nei pascoli di Cunéy una statua della Madonna, la portarono a Lignan per riporla nella chiesa, ma la statua tornò miracolosamente a Cunéy manifestando così il suo volere: lassù doveva essere costruito un luogo di culto.

Rifugio e santuario di Cunéy (www.rifugiocuney.it)
Rifugio e santuario di Cunéy (www.rifugiocuney.it)

Testimonianza di una religiosità che pervade la storia di questa terra dalla particolare vocazione mariana, capace di ergere croci e cappelle votive anche nei luoghi più aspri e difficili per invocare protezione contro l’imprevedibile furia della natura, o per favorire la clemenza del tempo e la fecondità dei campi.

E non dimentichiamo che siamo nella vallata che accoglie anche i resti di un altro incredibile villaggio salasso con abitazioni ricavate in una sella morenica analogo all’insediamento del Tantané: quello del Col Pierrey!

L'abitato salasso del Col Pierrey (Nus)
L’abitato salasso del Col Pierrey (Nus)

Questi scaltri e inafferrabili Salassi che tanto han fatto dannare le armate romane usando, per anni, come unica vera arma quella che meglio conoscevano e padroneggiavano: la montagna! Con la sua natura forte e aspra, fatta di pericoli anche non immediatamente visibili, di trappole, di frane e slavine improvvise, di forre e burroni spaventosi…

Questi Salassi figli delle rocce, capaci di costruire villaggi sfruttando selle, gole, ripiani o alture difficili da vedere e da raggiungere ma dalle quali loro, invece, potevano controllare tutto e anticipare attacchi!

L'altura., oggi ricoperta di boschi, dove sorge il castelliere protostorico di Lignan (S. Bertarione)
L’altura., oggi ricoperta di boschi, dove sorge il castelliere protostorico di Lignan (S. Bertarione)

Uno di questi è senza dubbio il castelliere di Lignan, nato alla fine dell’Età del Bronzo e sviluppatosi nell’ Età del Ferro (1200-800 a.C. ca.). Un abitato di forma ellittica, ben protetto da mura a controllo di vie di transito in quota, un tempo ben più attive e frequentate di oggi utili, agli scambi e alle comunicazioni tra vallate confinanti sia da est a ovest che in senso nord-sud. Da vedere! Oltretutto nei pressi dell’Osservatorio astronomico regionale! Lassù, vicino alle stelle….

E sotto stelle più brillanti e vicine che mai eccoci raggiungere Oyace, luogo dal fascino autentico ed essenziale: una natura rigogliosa dominata dal severo profilo della Tornalla, una torre del XII secolo di forma ottagonale, caratteristica che la rende unica in Valle d’Aosta!

La Tornalla di Oyace (S. Bertarione)
La Tornalla di Oyace (S. Bertarione)

La leggenda la vuole costruita da un non meglio precisato gruppo di Saraceni (presenza comunque assai diffusa nelle tradizioni popolari delle Alpi nord-occidentali!) per poi divenire proprietà di altrettanto poco noti Signori di Oyace i quali, macchiatisi di iniqui comportamenti, vennero estromessi dai Savoia fino al sopraggiungere, sul finire del Duecento, dei Signori di Quart che estesero la loro giurisdizione in tutta la Valpelline.

Siamo in una vallata strategica e molto importante sin dalle epoche più remote; una vallata che lega il suo nome alla divinità alpina Pen, il dio delle vette, cui era dedicata anche la rupe sacra al colle del Gran San Bernardo. Una vallata permeabile, una vera cerniera tra popoli del nord e del sud della catena alpina.

Raggiungiamo Ollomont, già conosciuto al tempo degli antichi Salassi che comunicavano con le genti del Vallese per lo scambio di metalli e bestiame attraverso la Fenêtre Durand che si apre in fondo alla valle a 2803 m, fra il Mont Gelé e il Mont Avril. Sembra che proprio attraverso la Fenêtre Durand, Calvino, riformatore protestante, si sia rifugiato in Svizzera dopo le storiche giornate del 1536, quando i valdostani presero la decisione di rimanere fedeli alla religione cattolica e cacciarono i protestanti. Una targa ricorda poi l’espatrio clandestino in Svizzera, nel settembre del 1943, di Luigi Einaudi, futuro Presidente della Repubblica, costretto alla fuga dalla polizia nazifascista. Colpito dalla tranquillità e dalla bellezza dei luoghi, il Presidente scelse la Conca di By come meta delle proprie vacanze.

Anche in questo selvaggio angolo di montagne, ascoltando attentamente il rumore del vento misto allo scrosciare delle acque, potremmo udire una voce sottile, a tratti un mormorio, un canto “silenzioso” che si imbriglia tra i rami degli alberi e danza tra le rocce rimbalzando sui fiori…è la voce della Fata di Ollomont, da poco riportata “a casa” dall’artista Giuliana Cunéaz.

Lungo il Ru  du Mont, narra le leggenda, in un tempo lontano viveva una fata che poteva assumere l’aspetto di un serpente bianco. Questa fata benevola era la guardiana del Ru che, grazie a lei, continuava a scorrere e funzionare. Purtroppo un giorno un nuovo custode geloso si fece avanti e uccise il candido rettile che aveva il suo rifugio nei pressi di una galleria scavata nella roccia.

Fu fatale! La morte della Fata portò sventure e disgrazie e il Ru franò miseramente… Oggi ul bianco spartito ricollocata da Giuliana Cunéaz, insieme ad altri sparsi un pò sull’intero territorio regionale, tra cui ricordiamo la morena di Gressan, Ozein e il Miage di Courmayeur, si pone l’obiettivo di far rivivere le Fate e far ripercepire il loro melodioso silenzio.

Ma lasciamo ora la valle di Ollomont e, oltrepassato il Rifugio Champillon, entriamo nella valle del “Grande”, nel territorio di Saint-Rhémy-en-Bosse, storica borgata di strada nata e sviluppatasi lungo l’antica Via romana delle Gallie.

Una zona a dir poco strategica e per tale ragione abitata sin da quando i ghiacci si sciolsero lasciando pascoli, boschi e tanta acqua. Si ha notizia di necropoli tardo-neolitiche messe in luce nei pressi della chiesa a metà Ottocento.Ma il tracciato diretto al sacro valico del dio Pen, prima di venire romanizzato e dedicato al Sommo Giove, era un sentiero ripido e pericoloso infestato da briganti, Con l’insediarsi del controllo romano, quel sentiero si allargò fino a diventare strada militare e commerciale con l’imperatore Claudio, colui che trasformò l’insediamento veragro di Octodurus nella colonia di Forum Claudii Vallensium, l’attuale Martigny.

Valle di storie e passaggi;dai romani alla Via Francigena, qui, esattamente e metà strada tra Roma e Canterbury.

Mappa_Via_Francigena

Per non parlare, poi, del famoso passaggio di Napoleone Bonaparte, da poco divenuto Primo Console della Repubblica Francese, quando, nel maggio dl 1800, alla testa della Grande Armata (di cui faceva parte anche un certo Stendhal) superò arditamente i gioghi e i dirupi del Sommo Pennino influenzando, a sua insaputa, la vivace e colorata tradizione carnevalesca locale con le maschere delle Landzette. Le cronache dell’epoca evidenziano che il villaggio di Saint-Rhémy, insieme a quelli della valle del Gran San Bernardo, dovette sostenere ingenti spese per ospitare l’intero esercito napoleonico al suo passaggio.

Napoleone valica il San Bernardo (J.L. David)
Napoleone valica il San Bernardo (J.L. David)

E lasciandoci quindi alle spalle una vallata dove avremmo voluto fermarci solleticati dall’invitante profumino del Jambon de Bosses DOP, un prosciutto crudo dolce e aromatico stagionato alla frizzante aria del “Grande”, eccellenza della charcuterie regionale,  allunghiamo il passo ormai “in riserva” per muscoli e polmoni, addentrandoci nel selvaggio vallone di Merdeux che, con quello vicino di Thoules è oggi regno incontrastato della wilderness!

Thoules… consentitemi un altro piccolo inciso perché la mia “mente malata da archeologa” mi porta lì, a Thule…  Un nome tramandato dalla storia, dalla leggenda e dalla fantasia popolare, un luogo che, da sempre, identificava una terra lontana. Tule: terra sperduta e dimenticata nei ghiacci del nord (Dante, ad esempio, la colloca nell’attuale Islanda); per altri l’estremo lembo di terra occidentale oltre le colonne d’Ercole.

Cosa sia veramente Thule forse siamo destinati a non scoprirlo mai: sicuramente è una Terra che ha suscitato l’interesse dei popoli antichi, creando un mito che si è trasformato in leggenda fino ad arrivare ai giorni d’oggi. E queste vallate nude, scabre, popolate da stambecchi, me la evocano istintivamente…

Basta sognare e “perder tempo”! C’è ancora un arduo tratto da percorrere! Una tappa (indispensabile) alla base-vita del provvidenziale Rifugio Frassati prima di tirare letteralmente il collo per raggiungere lui, il mitico col Malatrà! Un nome decisamente significativo: presumibilmente un derivato dal latino tardo “mala strata” poi divenuto “malastrà”, cioè un “passaggio cattivo”, molto difficile!

Tor des Géants 2010 (© Stefano Torrione). Col Malatrà - Courmayeur.
Tor des Géants 2010 (© Stefano Torrione). Col Malatrà – Courmayeur.

Penso sia un sogno di chi partecipa al Tor arrivare quassù, in questa impervia breccia tra le rocce a 2925 mt, dove l’ultimo tratto è stato attrezzato con scalini ed una corda, per scattare quella foto… la foto emblematica che dice che sei quasi arrivato! Da qui la discesa alle Alpi di Giuè e Malatrà superiore, quindi al Rifugio Bonatti (2025 m) e da questo al fondo valle in località la Remisa (1695 m) ti porterà fino a Courmayeur sulla passerella degli eroi! Da quassù dove riesci a sentirti un gigante tra i Giganti, dover ti senti più vicino alle cime degli dei, apri le braccia, respiri forte e davanti ai tuoi occhi si apre uno spettacolo mozzafiato: tutt’intorno la catena del Gigante più gigante di tutti, il Monte Bianco.

L’orizzonte si apre, si allarga e si allunga fino alla Val Veny dove si ergono le sagome inconfondibili delle Pyramides Calcaires! Sulla destra si stagliano la mole possente della Brenva e il profilo acuminato dell’Aiguille Noire du Peuterey.

La Val Ferret serpeggia scendendo di quota rivestita di un manto verdeggiante. E laggiù, tu lo sai, laggiù l’ultimo riso d’Italia, Courmayeur, da dove eri partito, ti aspetta!

Ci sei! Ben tornato, ero dei Giganti!

Stella

Tor des Géants. Correre tra montagne di storia! Da Courmayeur a Pont-Saint-Martin.

Ci sono tanti modi di partecipare al Tor des Géants. L’Endurance-Trail più duro al mondo avrebbe festeggiato quest’anno la sua undicesima edizione…, caspita! Una gara molto più di una gara… è il TOR!
C’è chi corre per arrivare tra i primi e chi corre in montagna perché ama questa disciplina; chi corre per filosofia, per auto-analisi, per sfidare se stesso. C’è chi partecipa al Tor provenendo dall’altra parte del mondo perché vuole esserci, punto e basta! Ma c’è anche chi, nonostante i ritmi da super-eroe, vuole prendersi i suoi tempi per godersi dei momenti speciali. Momenti unici e irripetibili tra le montagne della Valle d’Aosta!

Il paesaggio segue la corsa, a volte dà la carica, spinge, sostiene, a volte asseconda i momenti di respiro (anche mentale) con le sue balconate panoramiche. A volte può esserti ostile, spezzarti le gambe e troncarti il fiato… Oppure ospitale dandoti il benvenuto nelle valli con le sue architetture caratteristiche, i suoi borghi, le chiesette, i campanili. Li vedi magari dall’alto, da lontano: ecco la prossima meta, un punto di riferimento nella tua cartina mentale e psicologica.

È la bellezza del salire e dello scendere, del veder cambiare i paesaggi con un ritmo naturale che accompagna quello del cuore a 1000 e del respiro: i borghi, poi i boschi, sempre più fitti e scuri; poi i pascoli, le ampie radure luminose in quota, fino alle tracce segnate sugli altipiani, i colli, le rocce, la neve residua o appena arrivata. Assaggi d’inverno in una montagna senza tempo che scivola dolcemente nell’autunno.

E quanta storia si nasconde, più o meno segreta, lungo il percorso, nelle pieghe di questa terra così ondulata, severa e dolce allo stesso tempo.

A cominciare da subito, da Courmayeur! Che emozione, ogni volta, la partenza…Uno spettacolo vedere questo fiume colorato e brulicante di atleti che attendono frementi un count-down da brivido ai piedi del “Gigante dei Géants” sfolgorante di bianco e di roccia!

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Tor_Geants_18_Day1_Courmayeur_start_ph-Stefano-Jeantet_LD-23

Certo, dici “Courmayeur” e subito pensi alle montagne più alte d’Europa, alle splendide piste da sci, ai negozi alla moda, ai locali VIP…. agli hotel 5 stelle…al turismo di lusso. Ma Courmayeur ha un’anima antica, tutta da scoprire nei suoi angoli più nascosti e meno appariscenti. Come nelle viscere segrete della chiesa di S. Pantaleone, dove le testimonianze archeologiche più antiche risalgono verosimilmente al III secolo d.C.!

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O come la piccola frazione di La Saxeun grappolo di case annidato alle pendici dell’omonimo monte che lo sovrasta. Un villaggio leggermente defilato rispetto alla viabilità principale, che conserva tutta la poesia ed il fascino di un tempo. La Saxe: nata dalla roccia, come il suo stesso nome, del resto, dichiara.

Guardiamoci attorno: la candida muraglia del Monte Bianco, la piramide rocciosa del Mont Chétif, le umide pendici boscose del Mont Cormet e, infine, il macigno pietroso del Mont de La Saxe. Quest’ultimo, probabilmente, quel “saxum” (anzi, “saxa”, al plurale) che ha dato nome a questa piccola e suggestiva frazione.

Un nome antico; un nome che, se vogliamo, in qualche modo anticipa, seppur velatamente, l’antica frequentazione di questo discreto lembo montano.

Nei pressi della graziosa cappella del villaggio si insinua una stradina dal nome a dir poco evocativo: Rue Trou des Romains (Via [del]Buco dei Romani), che prende nome proprio dalle miniere che si dicono romane.

Fu lungo questa via che, nel 1927, in occasione di alcuni lavori edili, fu rinvenuta una tomba romana ad incinerazione databile, grazie agli oggetti del corredo ritrovati al suo interno, tra la fine del I secolo a.C. e la metà del secolo successivo. La tomba, infatti, aveva restituito diversi materiali ceramici tra cui una lucerna, ed una significativa armilla (ossia un bracciale) in pietra ollare: un monile tipico delle parures galliche alpine. All’epoca la scoperta ebbe una certa risonanza tanto che si decise di collocare temporaneamente gli oggetti nel Museo Alpino Duca degli Abruzzi in modo che potessero essere apprezzati anche dai sovrani d’Italia, Re Umberto II e Maria José.

LaSaxe--veduta_1930
LaSaxe–veduta_1930

Purtroppo non si hanno ulteriori informazioni storico-archeologiche su quest’area, ma pare impossibile pensare ad una tomba isolata anche in considerazione del fatto che tale fortuito ritrovamento parlerebbe di oggetti sia maschili che femminili, quindi si può supporre la presenza di  almeno un nucleo famigliare. In più questa era, allora molto più che adesso, una zona meravigliosa coi suoi pianori soleggiati, i pascoli, le folte foreste, protetta dai venti e ricca di acque..insomma, un luogo ideale dove fermarsi e vivere coltivando la terra e dedicandosi, come già i predecessori Salassi, alle attività minerarie.

Ci piace immaginare che, sia per l’origine chiaramente latina del nome del villaggio, sia per quanto ci narra lo storico Strabone in merito alle fantastiche miniere d’oro ambite dai Romani ( le note “aurifodinae” ipotizzate proprio nella zona del Mont de La Saxe), qui vi fosse un piccolo insediamento frutto della convivenza tra Romani (perlopiù militari) e popolazione autoctona.

La via Trou des Romains si trasforma in un piacevole sentiero che accompagna fino nella selvaggia Val Sapin. E’ questa una vallata severa e scarna, ma ricca di un certo fascino antico e quasi dimenticato, tipico di quei luoghi montani appartati dove protagonista è solo la Natura. Dove oggi si odono perlopiù i muggiti delle mandrie e il lontano vociare degli escursionisti, ma in antico questa zona doveva risuonare degli echi metallici delle forge e delle voci dei minatori. Ci siamo. Queste sono le pendici delle “aurifodinae”, miniere di piombo argentifero probabilmente già conosciute e sfruttate dai nativi Salassi prima che da Roma.

Nel XVIII secolo queste miniere erano state definite il “Labyrinthe” proprio per il loro intricato sviluppo sotterraneo ed il difficile ingresso. In effetti è un luogo pericoloso: appena oltre la bocca d’entrata, infatti, un baratro protegge i segreti di queste antichissime gallerie.

Ma il Tor prosegue veloce; restano sommersi sotto i piedi degli atleti questi millenari segreti. Tutt’intorno il trionfo delle vette e dei ghiacciai. Il fiato si mozza e allora, forza, alza la schiena, alza le gambe, apri le spalle e respira più che puoi!

Da Courmayeur si piega sull’Alta Via numero 2. Tra colli e passaggi incredibili; tra scenari dalla bellezza a dir poco eccezionale e pendenze da brivido!

E si arriva nella zona di La Thuile, l’antica Ariolica, la “terra di mezzo” dell’eroe greco, il Graio semidio cui vennero qui dedicati altari leggendari. Il Piccolo San Bernardo, il colle di Giove dall’impenetrabile volto d’argento.

Il busto in argento di Giove Graio rinvenuto al Piccolo S. Bernardo (regione.vda)
Il busto in argento di Giove Graio rinvenuto al Piccolo S. Bernardo (regione.vda)

E da qui a Valgrisenche, altra strategica terra di scambi e passaggi. Quello scabro Col du Mont dal quale nei secoli son passati soldati, mercanti, artisti e partigiani. Valgrisenche, così selvaggia ed autentica, eppure insospettabile scrigno di fulgide cappelle barocche, piccoli camei di arte alpina. Lo splendore del sacro in una natura abbagliante dove persino il cielo si fa palpabile.

Valgrisenche capoluogo (comune.valgrisenche.ao.it)
Valgrisenche capoluogo (comune.valgrisenche.ao.it)

E si corre, si continua tra le rocce alla volta di Rhêmes-Notre-Dame dove, in una Natura dominante, già nei confini del Parco Nazionale del Gran Paradiso, a ben guardare si noterà una moltitudine di mulini, forni e chiesette spesso incastonati in villaggi da favola.

Rhemes-Notre-Dame (valdirhemes.net)
Rhemes-Notre-Dame (valdirhemes.net)

Ma non ci si può fermare! Col de l’Entrelor, Eaux Rousses, Col Loson attraversando, quasi a volo d’uccello, la selvaggia Valsavarenche. Profondi canaloni, boschi di larici, abeti rossi e pini cembri; tappeti di rododendri di incomparabile bellezza; anfiteatri rocciosi e alpeggi… null’altro se non i fischi delle marmotte, il grido dell’aquila e il silenzioso volteggiare dei gipeti.

Valsavarenche-la cappellina di Levionaz Dessous (M.G. Schiapparelli)
Valsavarenche-la cappellina di Levionaz Dessous (M.G. Schiapparelli)

E si raggiunge Cogne. Una meravigliosa perla che dei lunghi periodi di isolamento e dei frequenti contatti col Piemonte ha fatto ricchezza e peculiarità. Cogne è frutto di una magia: la magia dei lunghi inverni, la magia della neve che blocca ma preserva, bianca e severa custode delle genti e delle loro tradizioni.

Narra la leggenda che i primi abitanti di Cogne provenissero dalla Val Soana, nel vicino Piemonte. Una vallata il cui nome deriverebbe dal latino “soprana”: una valle alta, terra di pastori e transumanze, dunque, ma anche terra di miniere nonché di continui andirivieni e sovrapporsi di popoli. Quanti i legami con Cogne!

Un legame che si riallaccia nella misteriosa figura di San Besso, uno dei martiri della mitica legione tebea e che si intreccia nella figura di Sant’Orso (cui è intitolata la parrocchiale). E’ tradizione infatti che Orso, arcidiacono di Ploceano, il malvagio vescovo di Aosta, sfuggendo alla persecuzione degli Ariani, predicasse nella Valle Soana contro le eresie; ed in Campiglia (non a caso la località dove, si dice, venne martirizzato Besso) si trova un sito tuttora chiamato platea S. Ursi ( la piazzetta di fronte alla chiesa parrocchiale)… vedete voi…

Cogne-la facciata della chiesa parrocchiale di Sant'Orso
Cogne-la facciata della chiesa parrocchiale di Sant’Orso

Per non parlare, poi, della meraviglia archeologica situata ad una manciata di km da Cogne scendendo verso Aymavilles: il ponte-acquedotto del Pont d’Ael, risalente all’anno 3 a.C.! Un vero capolavoro di ingegneria idraulica romana voluto da un privato, peraltro ben inserito nella cerchia dell’imperatore Ottaviano Augusto: il padovano Caius Avillius Caimus. Costui investì “pecunia sua” per realizzare questa infrastruttura utile a convogliare le acque del Grand Eyvia da Chevril (dov’è stata riconosciuta l’opera di presa) fino alle cave di bel marmo grigio venato di Aymavilles, un materiale ampiamente utilizzato nella monumentalizzazione della colonia di Augusta Praetoria!

Ebbene, Caio Avillio Caimo era un  esponente di una ricchissima famiglia di origine veneta legata al settore dell’industria edile e al trattamento delle materie prime,
soprattutto dei materiali lapidei e dei metalli. Proprietari di numerose nonché decisamente attive figlinæ (fabbriche di laterizi) nella loro terra natìa, gli Avilli sono attestati come imprenditori edili anche nel Piemonte nord-occidentale, in particolare nelle valli di Lanzo e dell’Orco (e la Soana è proprio lì!). Altro interessante indizio storico dello stretto legame tra questi due versanti, non vi pare?

Il respiro del grande prato di Sant’Orso; la dolcezza della Valnontey; il fascino delle cascate di Lillaz; i complicati giochi dei tomboli e l’enigmatica figura del dottor César-Emmanuel Grappein, il più celebre cognein di tutti i tempi, vissuto a cavallo tra XVIII e XIX secolo.

Veduta di Cogne verso la Valnontey (ThinkNatureinCogne)
Veduta di Cogne verso la Valnontey (ThinkNatureinCogne)

Senza dimenticare naturalmente la lunga storia mineraria che per secoli ha segnato profondamente non solo il territorio, ma lo stesso tessuto sociale e la vita degli abitanti di Cogne.

Cogne-miniere (ecobnb)
Cogne-miniere (ecobnb)

E dal villaggio di Lillaz si attacca la grande traversata che, dal Rifugio Sogno, condurrà al Misérin, al Dondena e infine a Champorcher.

Terre alte, dall’aspetto poeticamente severo e dolce allo stesso tempo. Altipiani incastonati tra vette ricamate da lunghe lingue nevose e impreziositi da laghi trasparenti, spesso effimeri. Terre magiche dove da sempre l’uomo avverte il respiro divino. E non è un caso se attraversando gli spazi e i silenzi di questi luoghi, si incontri da vicino Lei, la Madonna, protettrice di chi sale (Assunta), protettrice di chi cammina e di chi si avvicina così tanto al cielo…

Il santuario mariano del Misèrin, a 2.583 metri di quota sulle rive dell’omonimo specchio d’acqua, ad esempio, è davvero un luogo speciale avvolto da un’atmosfera che attrae e rapisce. Un luogo magnetico dove, fatalmente, troviamo ancora traccia della leggendaria legione tebea i cui componenti (da San Besso a Sant’Ilario, da San Vittore a San Maurizio) hanno profondamente segnato la storia religiosa delle nostre vallate.

La leggenda vuole, infatti, che un militare romano cristiano di questa legione, sfuggito ad un massacro, si fosse rifugiato nell’alta valle di Champorcher portando con sè una statua della Madonna. Nel XVI Secolo, la statua fu rinvenuta sulle rive del lago da alcuni pastori e si decise che fosse quello un segno divino affinché venisse costruito un luogo di culto.

Santuario al lago Misérin
Santuario al lago Misérin

C’è un tratto, poi, in particolare: quello da Pontboset a Perloz. Terre dove la storia ha lasciato tracce ben visibili su cui anche i “giganti” del Tor sono obbligati a passare.

Pontboset, villaggio dei ponti: ben 6, sospesi sugli orridi e sui torrenti. Agganciati alle rocce levigate dai movimenti degli antichi ghiacciai. Ponti ricchi di poesia, testimoni di un’arte del costruire, che affonda le sue radici nelle secolari tradizioni delle genti di montagna: pietre, malta, tenace maestria. Ponti “romantici”, anche nel senso più ottocentesco e anglosassone del termine, che improvvisamente occhieggiano dal folto dei boschi di castagno. Ponti a schiena d’asino che, in piccolo, richiamano a modo loro il continuo “saliscendi” del Tor.

Pontboset-(foto-Enrico-Romanzi)
Pontboset-(foto-Enrico-Romanzi)

E arrivi giù, nel fondovalle, a Hône. Non puoi fermarti, ma lo sai, lo hai letto da qualche parte che lì c’è una chiesa incredibile: sotto di lei, sotto il pavimento, si nascondevano altre 4 chiese precedenti. Sì, è la Chiesa di San Giorgio; magari con calma ci ritorni, perché è davvero sorprendente!

Hone-la parrocchiale di San Giorgio durante gli scavi archeologici (G. Sartorio)
Hone-la parrocchiale di San Giorgio durante gli scavi archeologici (G. Sartorio)

Altro ponte storico e via, si passa la Dora, regina delle acque valdostane.

Ed eccoci in uno scrigno medievale: Bard. Uno dei borghi più belli d’Italia. Un’unica strada che ricalca la via romana delle Gallie e la Via Francigena. Un’unica strada che si insinua tra edifici fiabeschi, corti segrete, sottopassaggi, archi e sottarchi. Sempre sorvegliata dall’imponente e austero Forte sabaudo che, dall’alto della rocca, ricorda antichi presidi a guardia delle leggendarie Clausurae Augustanae, barriera inespugnabile di una Valle tra le rocce.

Bard-borgo e Forte (Artemagazine)
Bard-borgo e Forte (Artemagazine)

E poi di nuovo giù, verso Donnas, correndo sulla Storia, sui secoli che hanno disegnato questi luoghi, fino a che…eccola! Incredibile, quasi un miraggio: devi per forza passare sulla strada delle Gallie, calpestare pietre con oltre 2000 anni di storia, passare sotto un arco “risparmiato” nella roccia che sta lì da quando le legioni di Augusto decisero di domare la terra dei Salassi.

Donnas, il tratto più emozionante della strada romana delle Gallie
Donnas, il tratto più emozionante della strada romana delle Gallie

E tu corri, per forza, magari rallenti e riesci persino a voltarti. Che posto! Un “gate” temporale, sottolineato dall’enigmatica chiesetta di Sant’Orso che segna l’accesso al borgo di Donnas.

Donnas-la chiesetta di Sant'Orso fa capolino sulla strada romana (M.G.Schiapparelli)
Donnas-la chiesetta di Sant’Orso fa capolino sulla strada romana (M.G.Schiapparelli)

Continui la tua corsa: è davvero il Tor des Géants! Ma non solo per le vette, per i “4 4.000” cui si sfiorano i “piedi”, ma anche per questa imponenza storica, per questo passato così evidente, così “presente” che è impossibile da ignorare!

L’arrivo a Pont Saint Martin si celebra con un altro di questi “giganti”: lo splendido ponte romano che consente di superare il torrente Lys. Si erge poderoso dalle rocce umide; un inno ad una regione dall’indiscutibile identità itineraria: soldati, mercanti, pellegrini, imperatori, contrabbandieri, viaggiatori d’ogni genere…quanta gente nei secoli è passata di qui!

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Pont-Saint-Martin, ponte romano del I secolo a.C. (tordesgeants.it)

“Il Viaggiatore del Nord”. Ad Aosta quel guerriero venuto da lontano

Decise di attraversare quelle montagne… Si strinse ancor di più nel suo pesante mantello di lana cotta e, dopo aver incoraggiato il suo destriero, intraprese un viaggio che avrebbe segnato il suo destino. Montagne alte, innevate, spesso sferzate da venti gelidi. Montagne abitate da antichi dei e popolate da decine di leggende. Una terra severa, stretta ed impervia nel cui cuore, però, si vociferava di un’ampia e fertile pianura solcata da un grande fiume d’argento figlio dei ghiacci eterni. Quel cavaliere partì. Ma non fece ritorno. Dopotutto era un viaggiatore… “il Viaggiatore del Nord”.

IL CANTIERE DELL’OSPEDALE “U. PARINI” DI AOSTA

Là, dove molti anziani si ricordano la partenza della storica gara automobilistica “Aosta-Gran San Bernardo”.

Ao-GSB 9 agosto 1931 (foto concessa da Massimo Acerbi)
Ao-GSB 9 agosto 1931 (foto concessa da Massimo Acerbi)

Là, dove ancora alcuni “over” ricordano la vecchia palestra “CONI”.
Là, dove si estendeva il vecchio cimitero rimasto in uso fino agli anni ’30 del Novecento, anticipato dalla graziosa cappella neogotica di Saint-Jean-de-Rumeyran…
Là, in questa ampia area delimitata a ovest da Viale Ginevra, dominata dalla mole “eliomorfa” dell’ospedale (ex Mauriziano) terminato all’inizio degli anni ’40;

I bolidi dell'Aosta-GSB sfilano rombando davanti al nuovo, grandioso ospedale,1947 (foto concessa da Massimo Acerbi)
I bolidi dell’Aosta-GSB sfilano rombando davanti al nuovo, grandioso ospedale,1947 (foto concessa da Massimo Acerbi)

 

a nord dalla trafficatissima via Roma e a sud dalla residenziale via Guedoz… gli scavi e le ricerche archeologiche, avviate ancora dalla scomparsa Patrizia Framarin e proseguite sotto la supervisione scientifica di Alessandra Armirotti​, hanno regalato alla città di Aosta nuovi importanti elementi di conoscenza le cui radici si spingono fino al IV millennio a.C.!
Una porzione di territorio da sempre cruciale, un tramite fondamentale tra la piana della Dora Baltea, le prime pendici collinari baciate dal sole di Mezzogiorno (sedi privilegiate per l’impianto di insediamenti e di colture agricole) e la via d’accesso alle alte vallate del nord che si insinuavano tra i monti alla volta del Passo con la “P” maiuscola, il Summus Poeninus, il valico del Gran Sa Bernardo…
Un paesaggio in continua evoluzione.
Agricolo. Sacro. Funerario.
Dietro quella recinzione, nei mesi si è aperta una strepitosa finestra su oltre 6000 anni di storia.
Dietro quella recinzione si celava una porzione di un probabile immenso circolo di pietre, inequivocabile simbolo di ancestrale sacralità.
Dietro quella recinzione ha riposato, per secoli, custodito da un’eterna dimora di pietra, il misterioso Viaggiatore venuto dal Nord…

UN CANTIERE STRAORDINARIO E COMPLESSO

 

Metti un cantiere urbano, con le sue tante problematiche e le sue innegabili, immancabili difficoltà. Metti un cantiere attivo anche in inverno, l’inverno alpino, quello che ogni mattina ti fa trovare la neve e il ghiaccio sullo scavo. Quello che ti gela le mani e ti spacca la pelle. Un cantiere forse più complesso e difficile di altri, denso di aspettative e di preoccupazioni. In Aosta città, lungo viale Ginevra, proprio di fronte all’Ospedale “U. Parini”, prendeva forma quest’area di scavo preliminare ai lavori di ampliamento dello stesso ospedale. Che la potenzialità archeologica dell’area fosse elevata, era noto, ma mai si sarebbe creduto di trovare quel che poi la terra ha fatto riemergere. Fuori dal cantiere campeggia una scritta: “Il futuro nasce sempre con un cantiere”. Verissimo, ma è anche vero che “il passato torna sempre grazie ad un cantiere”.

Il cantiere per l'ampliamento dell'ospedale ad Aosta. (Akhet-Stevanon)
Il cantiere per l’ampliamento dell’ospedale ad Aosta. (Akhet-Stevanon)

Sentirete il freddo pungente di quelle mattine; sentirete l’odore del fango umido e il rumore degli attrezzi sul terreno. Tutt’intorno il traffico della città. Ma lì, sotto quel tendone, quello “strano” cumulo di pietre stava per rivelare un lontano segreto: la storia di un giovane uomo la cui esistenza si perdeva in secoli remoti, probabilmente fin oltre le montagne. Ben presto il “cumulo” si manifestò per quello che effettivamente era in origine: un Tumulo. Questione di una semplice consonante iniziale che, però, ha cambiato radicalmente le prospettive degli scavatori. Quelle pietre non erano messe lì a caso, non erano state malamente accatastate per semplici fini agricoli. No. Quelle pietre erano la tomba monumentale, la dimora eterna, di qualcuno di importante.

L'archeologo David Wicks verifica il rilievo del tumulo (Akhet-Stevanon)
L’archeologo David Wicks verifica il rilievo del tumulo (Akhet-Stevanon)

Quel “qualcuno”, in maniera misteriosa ma senza dubbio evocativa, è stato definito “il Viaggiatore del Nord”.

Un viaggiatore speciale che, grazie al bel documentario prodotto dalla ditta Akhet srl e dal regista Alessandro Stevanon, ha aperto la XXVII  Rassegna Internazionale del Cinema Archeologico di Rovereto, tenutasi dal 4 all’8 ottobre 2016.

Un appuntamento importante, di risonanza europea se non mondiale, ben noto ai tanti appassionati del settore. Documentari, docufilm, cortometraggi; il meglio della cinematografia a tema archeologico qui può fare bella mostra di sé accompagnando gli spettatori in tanti viaggi diversi ai quattro angoli del mondo suscitando, storia dopo storia, emozioni sempre nuove e coinvolgenti.

Questo documentario ci fa rivivere dal di dentro una scoperta incredibile ed eccezionale che, per la prima volta, ci viene raccontata dai suoi stessi protagonisti.

LA SCOPERTA

“Teschio!” , esclama ad un certo punto l’archeologo David Wicks. I suoi occhi azzurri hanno riconosciuto quelle lamelle biancastre mimetizzate dal fango. Teschio… forza, scaviamo!Sì, sotto il crollo dei lastroni di copertura ci sono le spoglie mortali di qualcuno. Riuscite ad immaginare l’emozione? La sentite correre sulla vostra pelle? Ecco che gli attrezzi cambiano; dalla trowel si passa al bisturi, si lavora lentamente e meticolosamente. Per progressiva sottrazione ecco che le mani sapienti degli archeologi eliminano i depositi superflui e portano in luce la struttura ossea. Un’atmosfera sospesa, da trattenere il fiato come se si stesse compiendo un rituale; una luce quasi irreale sotto quel tendone. La luce della Storia, di una storia passata e lontana che sta lentamente riemergendo dalle nebbie del tempo e dalle tante nevicate che nei secoli hanno ricoperto questi luoghi sigillando, sotto coltri di limi, la tomba di quest’uomo. Una tomba a tumulo databile al periodo denominato “Hallstatt C” (Prima Età del Ferro, 800-600 a.C.).

L'osteoarcheologo Ian Marsden al lavoro sulla sepoltura (Akhet-Stevanon)
L’osteoarcheologo Ian Marsden al lavoro sulla sepoltura (Akhet-Stevanon)

Un uomo, ora gli archeologi lo sanno! Le ossa di mandibola e bacino parlano chiaro. Un uomo giovane, robusto, alto. Un uomo senza dubbio appartenente ad una classe sociale di rango elevato. Un guerriero, o comunque un capo, con il suo lungo spadone appoggiato alla gamba, con le fibulae (fibbie) dell’abito un tempo utili a trattenere magari pelli o stoffe pesanti. E con oggetti assai particolari di chiara appartenenza al mondo culturale celtico. Quegli oggetti non appartengono al territorio valdostano, ma arrivano da nord. E lui? Anche quest’uomo arrivava da nord? C’è ancora molto da capire e da scoprire.

Ma il guerriero non riposava in un campo deserto, tutt’altro. A brevissima distanza dal tumulo un altro ritrovamento straordinario: una porzione di un circolo di pietre di cui sono stati individuati 25 elementi lapidei. Un circolo che, sulla base dei dati stratigrafici, parrebbe appartenere al medesimo orizzonte cronologico della tomba. Un’area sacra e funeraria. Un’area dove, come a Saint-Martin-de-Corléans, il cielo dialogava con la terra e il presente con l’al di là.

Il guerriero viaggiatore nella sua eterna dimora (Akhet-Stevanon)
Il guerriero viaggiatore nella sua eterna dimora (Akhet-Stevanon)

La Rassegna di Rovereto 2016, quindi, si era aperta proprio col racconto di questa scoperta straordinaria di notevole portata scientifica, soprattutto per quanto riguarda le attuali conoscenze sulla protostoria dell’arco alpino.

Un viaggiatore-principe-guerriero che senza dubbio riuscirà a colpire l’immaginario di quanti potranno conoscerne la storia, fino ad oggi gelosamente custodita da quell’imponente scrigno di pietre racchiuso tra le alte montagne della Valle d’Aosta.

Stella

Un’antica chiesa disegnata dalla Luna e protetta da una montagna sacra. L’Abbazia di Saint Maurice d’Agaune (CH)

Ad un mesetto dalla Pasqua vorrei suggerirvi una breve ma spero interessante gita “fuori porta” nel vicino Vallese svizzero, ad una manciata di km da Martigny: Saint Maurice d’Agaune, l’antica Agaunum, centro dei Galli Veragri. Un luogo assolutamente strategico, già noto ai Romani, che qui avevano creato uno snodo viario e militare lungo l’asse di collegamento tra Roma e le regioni germaniche.

E proprio a Pasqua è il momento migliore per visitare la splendida e antichissima Abbazia di Saint Maurice d’Agaune, fondata da San Sigismondo, re dei Burgundi, nel 515 d.C. e di cui nel 2015 si sono festeggiati i 1500 anni!

Sigismondo, miracolosamente toccato dalla grazia divina, decise di venire a chiedere perdono dei suoi peccati sulle tombe dei martiri della mitica legione Tebea, soldati dell’esercito romano convertitisi al Cristianesimo, primo su tutti, San Maurizio che, coi suoi fedeli compagni, venne martirizzato proprio in questo luogo nel III sec. d.C.

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Il complesso dell’Abbazia visto dall’alto

Già prima del burgundo Sigismondo, nel 380 d.C., San Teodulo, primo vescovo di Martigny, rende onore a questi martiri facendo deporre le loro spoglie in un santuario apposito ai piedi della roccia di Agaunum, non solo semplice insediamento abitativo, ma anche importante luogo sacro dei Celti indigeni. I Romani, precedentemente, vi avevano ricavato sia una necropoli che un ulteriore santuario dedicato alle Ninfe dell’acqua. Il complesso voluto da Sigismondo venne quindi danneggiato da una terribile incursione longobarda nel 574 d.C.; seguì una terza chiesa poi ancora ampliata. Finché, sul finire dell’VIII secolo d.C., si realizzò una quarta chiesa ancora più grande e connotata dalla particolarità di avere l’abside ad Occidente anziché, come di solito, ad Oriente.

Ma i guai non erano finiti: appena un secolo più tardi l’intero complesso fu nuovamente vittima della barbarie saracena. Quindi, nell’XI secolo fu ancora ricostruito dall’abate Burcardo I che volle, come emblematico ingresso monumentale alla chiesa, un originale campanile-nartece.

Qui ingenti e complesse campagne di scavo (tra cui le più significative condotte dall’archeologo Louis Blondel negli anni ’40 – ’60 del secolo scorso) hanno permesso di riportare in luce questo millennio e mezzo di vita monastica con resti architettonici che vanno dal IV al XVII secolo d.C. … una rarità!

Un denso ed intricato sovrapporsi di architetture sempre volute, costruite e ricostruite addosso a quello sperone roccioso impregnato di antica sacralità. Un baluardo naturale che, però, fu anche la causa di una devastante rovina.

Nel 1611, infatti, proprio da lì si staccò quell’enorme macigno che distrusse completamente la bella chiesa romanica obbligando i monaci a farne costruire una nuova ma con diversa collocazione, ruotata di 90° sebbene sempre adiacente alla parete rocciosa. Quello che si vede oggi è lo scavo aperto tra la parete rocciosa e l’edificio seicentesco che risulta privo di facciata, poiché è inglobata nella roccia.

Della prima chiesa del IV secolo solo poche tracce sono, ahimè, giunte fino a noi e con fatica riconosciute e rilevate da Blondel. Ad ogni modo, oltre a datarla grazie al metodo del Carbonio14 agli anni compresi tra 380 e 390 d.C., è stato anche possibile calcolarne l’orientamento, elemento assai curato e al quale si prestava sempre grande attenzione. Insomma, questa prima chiesa (quella del vescovo Teodulo per capirci) risulta allineata sull’orizzonte locale con il sorgere della Luna piena al lunistizio estremo superiore, evento che, negli anni della presunta costruzione, era associato alla Luna piena il 22 dicembre del 386 andando così a coincidere col solstizio d’inverno, un momento astronomico (come si è già osservato più volte) decisamente ricercato e carico di aspettative per i popoli dell’Antichità. 

In quell’anno, il 386 d.C. appunto, la Luna sorgeva verso le 15:40 sull’orizzonte astronomico e appariva dietro la montagna ben visibile nel cielo circa due ore dopo, nel momento in cui il Sole stava tramontando. Che impatto straordinario doveva essere vedere quel grande disco luminoso spuntare dietro il profilo aguzzo ed incombente della montagna…

La chiesa voluta da Sigismondo, invece, parrebbe allineata verso il tramonto del Sole nel giorno della festa di San Maurizio, ossia il 22 settembre: “Agaune Natalem sanctorum Mauricii“.

Decisamente rilevante, inoltre, come l’antico edificio battesimale burgundo, oggi non più visibile ma di cui sono state rilevate ed analizzate le tracce in fondazione, risulti allineato al sorgere del Sole del 19 aprile del 515 d.C.: Pasqua!

Siccome si tratta di una ricorrenza mobile, è difficile dimostrare, in assenza di testimonianze scritte incontrovertibili, che la prima pietra sia stata posata proprio in quella circostanza, ma alcuni studi recenti dimostrano come in diversi casi di fondazione di battisteri (e non solo) ricorrano allineamenti analoghi.

Per chi desiderasse approfondire l’argomento, segnalo l’interessante articolo della dott.ssa Eva Spinazzè dal titolo “Un Santo, una Pasqua e un lunistizio a Saint Maurice d’Agaune, pubblicato negli Atti del Convegno “Il Cielo in Terra ovvero dalla giusta distanza” promosso dalla Società Italiana di Archeoastronomia e tenutosi a Padova nel 2013.

 

Allora, vi va di andare a vedere di persona?

Vi troverete davanti ad un vero gioiello assai ben valorizzato la cui visita, almeno per me, ha occupato più di 2 ore! Imperdibile anche il Museo del Tesoro con preziosi oggetti di arte sacra (oltre 100!) che vanno dall’età merovingia ai giorni nostri.

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L’interessante sito archeologico annesso all’Abbazia

Da qui passa la Via Francigena e l’Abbazia, da sempre, costituisce una tappa di tutto rilievo dove risanare corpo e spirito e respirare tutto il sacro della roccia, dell’acqua, del Sole e, soprattutto, della Luna.

Stella

Monte Bego. Il “meraviglioso” regno di roccia del Dio della Tempesta

Quando odi tra i monti il cupo rimbombo del tuono che riecheggia e si spande tra le valli; quando vedi scuri nuvoloni addensarsi sulle vette e poi piano piano sfrangiarsi e arrotolarsi tra i boschi impigliandosi nei rami dei pini… Ebbene, è quella la voce del Dio della Tempesta!

Giusto 2 anni fa ho avuto finalmente il privilegio di andare di persona alla corte di questo dio misterioso, amato e temuto. Vi voglio raccontare questo viaggio e portarvi con me appena oltre confine: a #Tenda ( per dirla in francese, Tende), nel dipartimento delle Alpi Marittime. Dalla Valle d’Aosta non è lontano: direzione Cuneo, poi Limone Piemonte e via verso il tunnel del colle di Tenda.

Una valle lunga e stretta, dalla natura severa ma dai villaggi incantati. Una specie di piccola Valle d’Aosta “al contrario” dove, nonostante si sia in territorio francese, quasi tutti hanno cognomi italiani, le insegne dei locali e degli alberghi sono spesso in italiano così come i nomi delle strade, delle piazze… tutti capiscono e molto spesso parlano l’italiano. Una terra di confine che nel tempo è sempre stata sballottata dagli eventi e dalla geo-politica un po’ di qua e un po’ di là!

#Tenda è abbarbiccata sul pendio di un monte; sembra quasi uno di quei pittoreschi borghi del Centro Sud d’Italia. Le case strette le une alle altre e la grande chiesa lassù, in alto, nascosta tra i vicoli ma splendente di una facciata color corallo. E ancora più sù, miracolosamente “sospeso” su una cresta rocciosa, il castello dei Conti Lascaris, arricchitisi grazie all’esazione di “salati” pedaggi lungo la… Via del Sale (non a caso).

Prima tappa (imperdibile!) il Museo “delle Meraviglie”, nel centro di Tenda. Ma perché si chiama così? Perché al suo interno custodisce le “meraviglie” di quest’area disegnata, incisa nel senso più letterale del termine, dallo scorrere della storia. Una Storia con la “S” maiuscola, plurimillenaria, che ha iniziato a lasciare tracce sin dal VI millennio a.C., in epoca neolitica. Siamo infatti nella Valle delle Meraviglie, inserita insieme alla vicina Valle di Fontanalba, nel Parco naturale del Mercantour.

Una Valle dal nome fiabesco che le credenze popolari hanno, però, sempre un pò temuto. I pastori sapevano di quegli strani segni incisi sulle lisce pietre levigate da antichi ghiacciai ormai scomparsi. Una valle dall’aspetto lunare…direi assai simile alla nostra zona del Mont Avic, nella sua parte più alta. Strani segni, dicevamo… Figure zoomorfe e geometriche incise sulle rocce. Decine, centinaia, migliaia… a perdita d’occhio! Adagiate ai piedi della vetta rocciosa del Monte Bego (2872 metri), le valli delle Meraviglie e di Fontanalba presentano un interesse archeologico, etnografico e naturalistico unico!

Un paesaggio geologico glaciale dal fascino pervasivo racchiude circa 40.000 incisioni rupestri per la maggior parte datate tra IV e III millennio a.C.! Oltre 4.000 rocce, infatti, presentano segni con caratteristiche ricorrenti. Primeggiano i “cornuti”, i segni interpretati come bovidi, spesso affrontati tra loro… sì, un pò come nelle “batailles des reines”! Anzi, al Museo di Tende sono anche visibili degli oggetti in pietra ed in osso raffiguranti questi bovini (molto stilizzati) con grandi corna! Le corna, simbolo dei grandi bovini, dei tori. Il toro, sin dalla notte dei tempi e in numerose culture, animale totemico legato alla forza, alla virilità, ma anche al dirompere dell’acqua. Si pensi alle classiche divinità dei fiumi nel mondo greco, romano e medio-orientale assimilate a tori. Singoli, aggiogati o affrontati..questi animali ricorrono spessissimo; un leit-motiv quasi ossessivo! Costanti, ripetuti, ricalcati… una sorta di litania di pietra sulla pietra…

Insieme ai bovini altri segni tra i quali si distinguono dei quadrati suddivisi al loro interno di parcelle, come delle scacchiere: i campi coltivati? Dei villaggi cintati visti dall’alto?

Ma appaiono anche oggetti: molti pugnali, ma anche alabarde. Strumenti guerrieri, aristocratici, ma anche cultuali. Pugnali interpretati anche come fulmini, come le saette brandite dal dio delle tempeste. Potevano non provarne paura le popolazioni della zona incapaci di interpretare questi segni? La storia alla base della leggenda. La leggenda che nasconde e dissimula la storia.

Ecco da cosa sono nate le diverse credenze. Valli abitate da demoni e  da streghe; valli dove poteva essere molto pericoloso attardarsi, perdersi..magari per non tornare mai più! Non è lontana da qui la Valmasca (in Piemonte) il cui nome include lei, la “masca”, ossia la “strega”. Splendide escursioni, a piedi o con l’aiuto di mezzi 4×4, si possono fare tra Francia e Italia, in questa zona così vissuta, segnata, contesa. Tra la Via del Sale, la Strada Reale sabauda e una costellazione di fortificazioni e casematte.

Valli abitate da esseri fantastici e temibili. Un’altra vetta laterale della Valle delle Meraviglie ancora oggi si chiama la Cima del Diavolo; si dice che quando il tempo peggiora, le prime nuvole minacciose, nere, cariche di pioggia, arrivino proprio da lì… oltre che dal Monte Bego, vero sovrano di questo luogo. Assomiglia al Mont Avic: isolato, appuntito, ruvido e spigoloso. Lassù, si narra, risiede le Dieu de l’Orage, il Dio della Tempesta. E infatti lassù, in vetta, non ci sono segni. Lassù non servono perché è la casa del dio; il divino è immanente! Quel dio tanto invocato e pregato proprio attraverso le migliaia di segni ed incisioni sparsi in queste valli così scabre, dove stagionalmente appaiono laghi effimeri simili ai laghi incantati delle fate; dove le piogge abbondanti e violente trasformano gli scivoli rocciosi in terribili cascate d’acqua. Una terra di pastori, perlopiù. Una terra dove l’acqua è preziosa, indispensabile. Dove per avere quest’acqua così sospirata bisogna pregare, e tanto, ancora oggi!

Qui si possono fare delle escursioni “meravigliose”… meravigliose per davvero, nel senso letterale del termine! Ve lo racconto perché le ho fatte! Con l’aiuto di una delle bravissime e preparatissime guide locali potrete inoltrarvi in questo magico regno di roccia e scoprire, leggere ed interpretare queste “preghiere” su pietra lontane millenni. Ma non solo: c’è un’iscrizione latina dal gergo un po’… triviale. E brani di preghiere cristiane; addirittura un’immagine taurina trasformata in volto di Cristo! E nomi, date, firme…ricordi.. che si perdono tra vite di pastori e di soldati, quassù, dove il mondo è lontano, apparentemente inafferrabile. Vi giuro che mi sto ancora emozionando adesso che vi scrivo di questi luoghi, di questi orizzonti, di queste vette. Due volte sono stata qui e per due volte, pur con una mattinata di sole, nel pomeriggio abbiamo udito quella voce cupa ed inconfondibile… la voce del tuono, accompagnata dalla pioggia. La nostra escursione-preghiera aveva funzionato? Oppure il Dio della Tempesta manifestava la sua ira?

E infine arrivi là, davanti allo “sciamano”: così è chiamato un segno composto da altri segni combinati tra loro cui si aggiungono, lateralmente, delle “manine” reggenti due pugnali. Lo Sciamano, non a caso, “guarda” direttamente verso la cima del Monte Bego. E’ lui, il sacerdote più importante, il mezzo, l’ambasciatore, il tramite tra l’uomo e la divinità.

E quando poi ritorni a valle ancora te la senti dentro (certo, se si è sufficientemente sensibili) quell’energia, quella sottile ma palpabile magia emanata dalle rocce. Hai avuto il privilegio di recarti al cospetto del Dio della Tempesta, ripetendo dei passi e ricalcando dei sentieri percorsi da migliaia di uomini per migliaia e migliaia di anni.

Stella

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Area Megalitica di Aosta. Il trend del Passato d’Avanguardia

Musée de la Préhistoire. Les Eyzies-de-Tayac, Dordogna, Francia
Musée de la Préhistoire. Les Eyzies-de-Tayac, Dordogna, Francia

 

Musée de Préhistoire des Gorges du Verdon. Quinson, Alpes de Haute-Provence (Francia)
Musée de Préhistoire des Gorges du Verdon. Quinson, Alpes de Haute-Provence (Francia)

 

Musée des Gaulois de Bibracte. Borgogna, Francia
Musée des Gaulois de Bibracte. Borgogna, Francia
Museo Retico. Sanzeno, Val di Non, Trentino Alto Adige, Italia
Museo Retico. Sanzeno, Val di Non, Trentino Alto Adige, Italia

 

Neanderthal Museum, Dusseldorf. Germania
Neanderthal Museum, Dusseldorf. Germania

 

Laténium-le plus grand musée archéologique de Suisse. Neuchatel, Vallese, Svizzera
Laténium-le plus grand musée archéologique de Suisse. Neuchatel, Vallese, Svizzera

 

Museo archeologico di Aguntum. Dölsach, Tirolo, Austria.
Museo archeologico di Aguntum. Dölsach, Tirolo, Austria.

 

Museo de la Evolución Humana, Burgos, Spagna
Museo de la Evolución Humana, Burgos, Spagna

 

Nuovo Museo dell'Acropoli. Atene, Grecia
Nuovo Museo dell’Acropoli. Atene, Grecia

 

Metropol Parasol Antiquarium-museo archeologico. Siviglia, Spagna
Metropol Parasol Antiquarium-museo archeologico. Siviglia, Spagna

 

Musée départemental de l'Arles antique. Arles, Provenza, Francia
Musée départemental de l’Arles antique. Arles, Provenza, Francia

 

E questi sono solo alcuni dei musei archeologici tra i migliori in Europa.

Ebbene, vi sembra ancora così inguardabile, così brutta, così vergognosamente sovradimensionata e inappropriata l’Area Megalitica di Aosta? Sì? Beh, sui gusti personali di ognuno certo non voglio entrare, ma vorrei solo spingervi a riflettere su come ormai da alcuni anni, se non di più, la tendenza sia quella di inserire e musealizzare siti archeologici, in particolare preistorici e protostorici, in contenitori dal sapore nettamente futuristico che volutamente contrastano con quanto li circonda.

Questo perché? Perché l’intento è di segnalare incisivamente la presenza di testimonianze assai diverse dalla nostra quotidianità, dalla nostra rassicurante “comfort zone”. Testimonianze provenienti da un mondo lontano se non remoto, da civiltà che si credevano perdute ma che ancora vogliono raccontarci qualcosa di loro, da epoche decisamente diverse, “altre” dalla nostra.

Ecco che i contenitori sono filosofia fatta architettura, sia all’esterno che all’interno.

Esternamente con forme e materiali spesso inusuali, stravolgenti, futuristiche, scabre, taglienti, essenziali. In fondo, scusate, ma cosa c’è di più essenziale, sobrio, basico e concettuale del passato più remoto? Quali forme sono giunte a noi da quelle epoche?

Quanto ancora riesce a sconvolgerci la preistoria coi suoi linguaggi spesso criptici e per nulla immediati?

Per non parlare degli interni. Rampe improvvise e pozzi del tempo da cui riemergere con percorsi a spirale, a zigzag o concentrici. Linee, a volte spezzate, a ricordo della lunga e non semplice evoluzione umana. Giochi di luce,di specchi e di riflessi perché in questo modo siamo chiamati a confrontarci con quello che dopotutto è il nostro stesso passato, con quelli che altro non sono che i nostri antenati più visceralmente lontani.

Giochi inattesi di luci, ombre, lampi e buio. Il lento ma continuo ed inesorabile scorrere delle stagioni, delle costellazioni, dei giorni e delle notti, dei soli e delle lune. Albe millenarie e tramonti senza fine su vestigia apparentemente fredde e mute ma dall’eloquente, sebbene enigmatico, silenzio.

E’ su tutto questo che edifici del genere, così disorientanti e impattanti vogliono giocare.

E cosa c’è di più simile alla Preistoria dell’Arte Contemporanea, coi suoi tagli, le sue nude geometrie, i suoi sconcertanti accostamenti, la sua difficile essenzialità?

Lo ha cantato persino Francesco Gabbani un paio di Festival di Sanremo orsono: “Contemporaneo come l’uomo del Neolitico” e non è solo uno scherzo o una similitudine azzardata da tormentone radiofonico.

Scusate, ma cosa c’è di più essenziale e nudo di più splendidamente ed eloquentemente concettuale, di più decisamente contemporaneo di una stele?!

 

 

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Stella

 

 

 

 

 

Palmira, splendida “sposa del deserto”. Racconto di un viaggio che (ancora) non ho fatto

Questo che vi scrivo col cuore a mille è un post diverso dal solito. Non è un archeoracconto. E non è neppure un suggerimento di viaggio ispirato da qualcosa che ho fatto davvero. E’ uno sfogo, un urlo rappreso tra le sabbie di quel deserto oggi così martoriato. E’ un sogno, un desiderio: quello di visitare la Siria, magica ed antica terra dove l’uomo ha iniziato a lasciare le sue tracce sin dal periodo Paleolitico con la cultura detta “di Giabrud”.

Tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila ho viaggiato moltissimo nel Mediterraneo. Mi sono riempita gli occhi con le sontuose e possenti rovine di Leptis Magna, di Dougga e di Sabratha. Ho potuto salire gli scalini del teatro cretese di Gortyna. Mi sono emozionata tra i colonnati di Gerasa e persa tra le enigmatiche tombe rupestri di Petra. E ancora la Turchia, con le sue scenografiche città terrazzate e i paesaggi struggenti di millenaria bellezza. Ma per varie ragioni non son mai riuscita a fare un viaggio in Siria, cosa che invece avrei sempre voluto.

Una terra strategica, porta d’accesso per il deserto d’Arabia ma anche per le importanti vie carovaniere che si spingevano verso Oriente con carovane cariche di spezie, tessuti preziosi, gioielli e profumi. Città carovaniere ammantate di fascino come Palmira, la splendida sposa del deserto, che diede i natali a cotanta regina: Zenobia la straordinariamente bella, colta e coraggiosa sovrana, moglie di Odenato, che osò sfidare la potenza di Roma.

Palmira, un nome che trasuda poesia, una sorta di lontana armonia d’Oriente riecheggiata dai venti e dalle fluide dune del deserto. Quella platea, cioé quella lunghissima via colonnata al cui centro si apre, come un respiro, la famosa piazza ovale con arco tetrapilo (distrutto!) e con quell’originale, inusuale, esotico arco di snodo a pianta triangolare! E quel gioiello che era (purtroppo dobbiamo usare l’imperfetto) il teatro, anch’esso distrutto!

Te la immagini, evanescente sogno di colonne e fregi arricciati, persa tra le atmosfere opalescenti dell’alba o accesa dalle luci infuocate del tramonto. Da sempre, sin dai tempi del liceo, un mio grande sogno.

Dicono sia un viaggio non semplice quello per Palmira; occorre dragare, nel senso letterale del termine, uno scomodo e sgradevole tratto di deserto ghiaioso e polveroso per raggiungere un bivio (che definirei drammatico): a sinistra Palmira, a destra Bagdad.

Un brivido, un timore che scorre sotto pelle anche standosene a casa… e si procede verso questa città fatata persa nella storia e minacciata dal più oscuro presente che a fatica si possa (sebbene non si voglia) immaginare. Palmira, simbolo di un Paese, di un popolo.

Dicono che all’alba il sole sembri levarsi più lentamente del solito su questi resti carichi di magia, quasi a volerli vedere più da vicino, a volerli accarezzare con la sua luce rosea e dorata, quasi a voler lui per primo, ogni giorno, assistere a questo spettacolo color ocra ritagliato contro un cielo che da lilla si fa blu e poi ancora più blu, come i lapislazuli che adornavano le dame palmirene.

Credo che aver visto Gerasa (oggi in Giordania) in parte mi aiuti. Mi aiuti a ritrovare quei colori, quei profumi, quelle sfumature… ma anche quelle persone: i venditori di acqua, di thè aromatizzato al cardamomo, di tappeti e di kefiah. Quei volti di donne dai profondi occhi scuri ammantate in colori sgargianti che fugacemente mostrano denti bianchissimi aprendosi in un sorriso di saluto e di benvenuto. Quei visetti sempre un pò arruffati di dolcissimi bimbi dagli immensi occhi neri, felici di farsi scattare una foto e ricevere una caramella o un chewing-gum o magari, perché no, qualche moneta… Vivo il ricordo di una bimba che all’epoca avrà avuto suppergiù 3 anni, dal profilo dolce, le lunghe ciglia nere, protetta da un cappellino rosa con la visiera che la faceva sembrare una bambola di porcellana brunita… Lei era felice e serena; giocava coi ninnoli che la madre proponeva ai turisti e ci fissava curiosa. Vorrei che anche oggi tutti i bimbi di Siria fossero come era lei quel pomeriggio: felici, sereni e curiosi, non travolti da un orrore indescrivibile troppo più grande di loro…

Petra-bimba

Dichiarata patrimonio dell’Umanità nel 1980, oggi vituperata e violentata come la sua stessa gente. Una terra dove oggi, ahimé, le stelle stesse si nascondono, la luna stessa si nasconde, per fuggire all’incubo. Ma è una terra fiera, resa nei secoli potente dalla sua geografia e dalla sua storia, culla dell’umanità neolitica europea, culla delle prime civiltà di villaggio e dell’idea stessa di città se pensiamo a siti come Ugarit e Tell Ramad, o come Hama sull’Oronte. Per non parlare di Ebla, città egemone dal punto di vista economico e culturale sin dall’Età del Bronzo. Città in perenne bilico tra difficili e fragili equilibri fra le diverse potenze mesopotamiche, ambita da potenze straniere, ma sempre rialzatasi e nuovamente arricchitasi.

La poderosa fortezza di Dura Europos, fondata da Seleuco I Nicatore sui resti di un preesistente insediamento semitico, “padre” della dinastia dei raffinati sovrani Seleucidi in posizione dominante sulla riva destra dell’Eufrate. E se pensate che proprio qui è stata identificata una delle primissime chiese cristiane (!!), datata alla metà del III secolo d.C. Una città piazzaforte, baluardo strategico contro i temibili e temuti Parti, ma che vide nel 165 d.C. la vittoria trionfante dell’imperatore Lucio Vero. Siamo su una linea di frontiera, di presidio delicatissimo; un presidio sempre presente ma mimetizzato tra le sabbie e tra le sinuosità di una raffinata sequenza di fortezze e punti di avvistamento basata sulla mobilità delle truppe, delle merci e dei mercanti. Strade quasi a volte impercettibili, ma stabili e conosciute. Percorsi camaleontici ma battuti. Non certo una “muraglia cinese”, ma un limes fluido ed elastico, ancor più di quello africano, fatto di veri e propri fasci di strade ritagliate tra le oasi e le ingannevoli dune.

I Seleucidi. Una potenza ellenistica che, dopo periodi di straordinaria ricchezza e dopo aver fondato decine di floride colonie tra cui citerei Antiochia sull’Oronte, Apamea e Laodicea, si sono dedicati a rendere prestigiosa, elegante e raffinata questa terra. Un’attività edilizia irrefrenabile, costosa e monumentale; commerci fiorenti. Templi grandiosi. Puro spettacolo. Finché giunsero all’inevitabile scontro con Roma che si risolse con la sconfitta subita da Antioco III da parte di Lucio e Publio Cornelio Scipione prima alle Termopili e poi a Magnesia sul Sipilo nel 189 a.C.La Siria divenne provincia imperiale romana.

E quella che i Seleucidi chiamarono Beroea e che noi oggi conosciamo come Aleppo, antica e fulgida “capitale del nord”, non lontana dal confine con la Turchia. Una delle città più antiche del mondo, abitata ininterrottamente dall’XI secolo a.C. e dichiarata Patrimonio dell’UNESCO dal 1986. Un territorio da sempre strategico, a metà strada tra il mare e l’Eufrate; un centro da sempre cosmopolita in quanto città carovaniera dove si incrociavano mercanti e milizie provenienti da ogni angolo del Mediterraneo così come dalle più remote terre d’Oriente. Una città gioiello, in filigrana di pietra grigia, oggi quasi del tutto rasa al suolo da una furia cieca e senza scrupoli.

 

Vorrei citare un passo delle memorie di viaggio redatte dallo storico dell’arte Cesare Brandi (1906-1988) e apparso per la prima volta nel volume “Città del deserto” del 1958:

“Su quella vegetazione contenuta ma violenta, il cielo si tendeva come gonfiato dal vento. La città assurda e straordinaria, che godé di una potenza quasi inconcepibile – arrivò sino all’Egitto – era riapparsa, porto asciutto di sabbia per le dondolanti navicelle dei cammelli, emporio di merci lontane. Tutto il panorama, nel suo perimetro antico, s’abbracciava con un’occhiata, il Tempio di Bel, e la Via colonnata, l’Agorà, il Teatro: tutto era chiaro come in un plastico, e invece stava sotto gli occhi nella sua realtà e per un’estensione che non si riusciva a definire, perché non c’era una misura reciproca fra i monti e le colonne.”

E quindi? Cos’è questo post? Un viaggio impossibile? No! Un viaggio che si auspica sia di nuovo fattibile e che questa terra magnifica torni a risplendere nel ricordo del suo glorioso passato e in omaggio a Khaled Asaad, eroico direttore del sito archeologico di Palmira che per non rivelare i luoghi in cui aveva nascosto i reperti più preziosi è stato barbaramente ammazzato. Per lui è stato chiesto il Nobel.

Un viaggio che tutti potremo fare quando finalmente le stelle torneranno a sorridere da dietro la cortina di polvere che le ha oscurate. Quando quei bimbi innocenti torneranno a guardare il mondo sereni e curiosi e, coi visetti puliti e sorridenti, potranno diventare adulti con la voglia di cambiare il mondo!

Stella