Molti anni fa una famigliola giunse nel villaggio di Amavilla, un grazioso borgo allo sbocco della valle di Cogne. La famigliola giungeva da un paese molto lontano e il viaggio era stato assai lungo. Non fu facile inserirsi, soprattutto per la lingua diversa e le altrettanto differenti abitudini.
Il piccolo Paolo aveva 7 anni e ancora non si era fatto nuovi amici. Timido e riservato faceva fatica ad adeguarsi a tutte quelle novità. Il papà e la mamma erano sempre impegnati al lavoro e lui si annoiava parecchio.
Un giorno in cui era più annoiato del solito decise di esplorare da solo quel nuovo paese; prima girovagò per le strade e per i vicoli del villaggio, poi iniziò ad allontanarsi sempre di più, sempre di più, finché non si trovò in un luogo stranissimo. Ripide pareti di roccia color argento facevano capolino qua e là nel mezzo di una fitta vegetazione: alberi e cespugli stavano piano piano ricoprendo un luogo incredibile: “Cavoli, sembra pietra lunare!”, esclamò stupito il bambino.
Aymavilles. Le cave di marmo abbandonate (da Wikipedia)
Intorno a lui scopriva blocchi di pietra dalle forme geometriche, alcuni spaccati altri ancora integri, con un colore grigio-azzurro quasi brillante. Paolo si perse ad esplorare quel posto così strano e non si accorse che presto si fece buio.
“Oh no… e adesso?! Come faccio a tornare a casa?!”. Il bimbo provè a tornare sui propri passi ma inciampò e proprio in quel momento si alzò un turbine di vento che gli fece entrare della sabbia negli occhi: “Ah! Che male! Non vedo più niente!”. Paolo provò a strofinare gli occhi, ma più lo faceva e più la sabbia penetrava. Incominciò a piangere e a chiamare il suo papà, gridando aiuto. Ma più piangeva e più la sabbia si cementava incollandosi alle ciglia finché formò un tappo sui suoi occhi.
Stremato dalla paura e dal freddo, dopo alcune ore Paolo crollò addormentato.
I suoi genitori, angosciati, lo avevano cercato tutta la notte ma non si erano spinti fin lassù; riuscirono a ritrovarlo solo al mattino. Paolo era vivo, ma i suoi occhi non si aprivano. Neppure il dottore sapeva cosa fare. E più Paolo piangeva, più il terribile tappo di sabbia si inspessiva.
Passarono alcuni giorni finché nel villaggio iniziò a circolare la voce che il conte stava tornando dal suo ennesimo viaggio. Era il nobile conte Vittorio, colto e raffinato proprietario di quelle terre.
Giunto in paese si informò sulle eventuali novità accadute in sua assenza ed un servitore gli parlò della povera famigliola di stranieri che viveva in una contrada isolata tra i boschi; gli disse anche del bimbo e della strana malattia agli occhi che lo aveva colpito dopo essersi smarrito nella vecchia cava di marmo abbandonata.
Il conte era noto per la sua estrema curiosità e per le sue incredibili conoscenze che spaziavano dalla storia alla geografia, dall’arte alla geologia, dalla filosofia alle scienze. La sua dimora infatti, dove quasi nessuno aveva mai potuto mettere piede se non espressamente invitato, si diceva fosse uno straordinario museo di bellezze e preziose rarità che lui raccoglieva in giro per il mondo in occasione dei suoi numerosi viaggi.
Il conte Vittorio Cacherano Osasco della Rocca Challant (da Wikipedia)
E fu così che il conte Vittorio si fece accompagnare a casa del piccolo Paolo. I due affranti genitori rimasero letteralmente senza parole ma una fiammella di speranza riaccese i loro cuori.
“Ebbene, ditemi, dov’è il piccolo? Posso vederlo?”, chiese il conte. Giunto vicino al letto di Paolo, si sedette, e lo guardò a lungo. Poi lo svegliò: “ Paolo, posso raccontarti la storia dei miei viaggi?”. Il bambino rimase meravigliato: finalmente qualcuno che non veniva lì per piangere e compatirlo. Finalmente qualcuno che cercava di distrarlo e farlo divertire, di farlo sognare!
“Oh sì, per favore! Ma … chi sei?”. “Sono un uomo che viaggia molto e che ha sempre voglia di conoscere il mondo, con tutte le sue differenze e curiosità”.
E il conte iniziò così a raccontare. Il viaggio in giro per l’Europa, i misteriosi manieri inglesi, le immense cattedrali francesi, i villaggi della verde Germania… E poi ancora le assolate lande spagnole, lo sfarzo di Madrid, la magia di Siviglia, e poi verso ovest, fino in Portogallo, fino alle colonne d’Ercole, fino all’infinito spumeggiante oceano. E ancora la Grecia, terra del mito, dove ogni albero e ogni pietra sprigionano il fascino senza tempo di una storia antichissima. L’Egitto, terra magica e affascinante, con le sue piramidi e le enigmatiche sfingi metà uomo e metà leone. E le Indie dai mille colori, profumate di spezie. E l’Oriente coi suoi straordinari alberi di pesco, i giardini curati come gioielli, quasi cesellati, dove le donne sembrano delicate bambole di porcellana…
Paolo non credeva alle sue orecchie, totalmente rapito dai racconti del nobile Vittorio, stava viaggiando con la fantasia e gli sembrava di vedere davvero tutti quei luoghi lontani. Aveva smesso di piangere, anzi, rideva.
E avvenne che, come per miracolo, rise talmente tanto che il tappo di sabbia si spaccò e cadde: Paolo vedeva di nuovo!
La felicità generale era indescrivibile; il conte aveva salvato il piccolo.
Uscendo disse: “Paolo, ora rimettiti del tutto. Tra una settimana manderò un mio servitore a prenderti: sei mio gradito ospite! A presto”.
Paolo iniziò un entusiasta conto alla rovescia; chissà che palazzo incredibile aveva il conte! Non stava più nella pelle!
E il giorno tanto atteso giunse: il servitore del conte fece salire il bimbo su una meravigliosa carrozza condotta da una coppia di magnifici cavalli bianchi dai nomi decisamente insoliti: Aimone e Amedeo.
“Eccoci piccolo, siamo arrivati!”.
Paolo scese e con suo grande stupore si trovò…nel nulla! Ebbene sì, era in cima ad una collina affacciata sul fiume e circondata di giardini e vigneti. Un posto senza dubbio molto bello, ma… il palazzo dov’era?!
“Benvenuto caro Paolo! Sono felice che tu sia qui!”. La voce ferma del conte rimbombò alle sue spalle. Paolo stava per fargli mille domande, ma il conte lo fermò immediatamente: “Non chiedermi nulla, Paolo. Fa quel che ti dico. Tieni, ti do un secchiello e una piccola pala. Vicino a me c’è della sabbia. Costruiscimi un castello, per favore, come piacerebbe a te!”.
Paolo non capèiva, ma sentiva che quel gioco avrebbe riservato una sorpresa! Riempì il suo secchiello pèiù volte, pressando bene la sabbia umida e realizzò quattro belle torri tonde. Poi le unì tra loro per creare un edificio che, infine, circondò con una cinta di difesa e un fossato.
“Ecco! Ho finito!”, esclamò Paolo soddisfatto.
“Mmmhh…direi un ottimo lavoro, Paolo! Solido ed elegante allo stesso tempo! Ora apri questa scatola: c’è un regalo per te!”.
“Un regalo?!! Wow!”, Paolo scartò il pacco con frenesia, pieno di entusiasmo. “Cos’è, un cannocchiale?”, chiese disorientato.
Il caleidoscopio
“Più o meno. Si usa come un cannocchiale, ma…guarda dentro!”.
Paolo avvicinò l’occhio a quel tubo leggero e colorato e… davanti a lui esplosero incredibili giochi di colori scintillanti dalle forme più diverse! “E’ un caleidoscopio”, disse il conte, “fa vedere ciò che di norma non si vede…fa sognare e volare con la fantasia. Ma su, non smettere; continua a girarlo e vedrai ancora più cose!”.
Paolo girava quel sorprendente caleidoscopio e ad un certo punto i colori lasciarono il posto ad immagini di luoghi incredibili, paesaggi ed edifici che sembravano usciti dal mondo delle fiabe.
“Ora guardati intorno”, disse il conte.
E fu così che Paolo si ritrovò ai piedi di un bianco edificio con quattro possenti torri agli angoli; una monumentale scalinata di marmo lucente conduceva ad un portone tutto decorato. “Vieni, seguimi!” lo spronò il nobile Vittorio. Una volta entrato Paolo credette di essere arrivato nel paese dei suoi sogni: intorno a lui ogni parete, ogni stanza, raccontava di un luogo, di un viaggio…
Un castello “caleidoscopico” da scoprire (collage di foto di Stella Bertarione)
Tutte le stanze erano diverse tra loro dando l’impressione di essere non solo in un altro paese, ma anche in un altro tempo con atmosfere antiche o di epoca medievale. E ovunque erano esposte le mille e mille rarità collezionate dal conte. Il bimbo era rimasto senza fiato e non avrebbe mai più voluto uscire da lì!
“Hai visto cosa si può fare con la sabbia, Paolo? L’importante è che sia sabbia magica; ma la vera magia che serve è quella dei nostri sogni! Benvenuto quindi nel mio palazzo, il magico castello di Aymavilles!”.
Stella
Ringrazio di cuore l’amico Enrico Romanzi per la bella immagine di copertina. Per il piccolo Paolo mi sono ispirata al figlio di nostri cari amici che abitano proprio ad Aymavilles.
I due destrieri che tirano la carrozza del conte portano i nomi dei due esponenti di casa Challant che hanno fatto sì che il castello acquisisse l’aspetto così particolare che conserva ancora oggi nonostante alcuni rimaneggiamenti successivi.
Il tempo scorreva lento nella valle della Dora, scandito dal ritmo delle stagioni e dei lavori nei campi. Dal fondovalle, il maniero dei ricchissimi signori di Clysi vedeva assai bene. Sin da lontano si scorgeva la sagoma della possente torre quadrangolare costruita direttamente nella roccia.
Nobile famiglia di uomini d’arme quella dei Cly, ramo collaterale dei potenti Visconti di Aosta, il cui feudo si estendeva a cavallo del Cervino prolungandosi fino al di là delle montagne in terra straniera. Un feudo incredibilmente vasto e decisamente strategico per il controllo di vie commerciali all’epoca molto frequentate; vie che riuscivano a passare attraverso colli e ghiacciai in punti che oggi non esistono forse nemmeno più.
Per decenni i signori di Cly si erano mostrati benevoli verso i loro sudditi, garantendo loro protezione e non facendo mai mancare cibo e lavoro. Ma fu con l’arrivo di Bonifacio che la situazione iniziò a peggiorare: avido e meschino, Bonifacio non si faceva scrupoli e non provava compassione per nessuno. Il tutto precipitò tragicamente quando il potere finì nelle mani di suo figlio Pietro, tanto bello quanto crudele.
Era un giovane uomo di sfolgorante bellezza: alto, muscoloso, capelli neri come la notte e occhi di un verde “raggelante”. Occhi capaci di far crollare chi lo fronteggiava, capaci di incutere timore, incapaci della minima pietà. Occhi di serpente: ipnotici e letali.
Erano dunque anni turbolenti, segnati dalla prepotenza e dalla collera di Pietro di Cly, che con la sua incredibile arroganza non si fermava di fronte a nulla, non riconosceva alcuna autorità se non la sua e percorreva i suoi possedimenti seminando panico e devastazione. Dopo aver sperperato rapidamente l’eredità paterna in giostre, tornei e feste solo per esibire la sua ricchezza e la sua prestanza fisica, aveva iniziato a razziare i villaggi, taglieggiare i viaggiatori e le carovane di mercanti, persino a sequestrare uomini importanti chiedendo cospicui riscatti, circondandosi di delinquenti e criminali ai quali offriva protezione.
Un giorno durante una delle sue abituali scorrerie, raggiunse una casupola isolata che, si diceva, fosse abitata da un’anziana sola, da molti ritenuta una saggia veggente, da altri considerata in odore di stregoneria. Persino i suoi malavitosi compagni avevano un certo timore ad avvicinarvisi.
Il Castello di Cly (Foto di Emi Dattolo-LYTD11)
“Femminucce! Ecco cosa siete! Vili conigli! E io che vi dò pure da mangiare! Avete paura di una nonnetta dunque? Venite con me o giuro che stasera le vostre teste rotoleranno giù dalla torre! Codardi che non siete altro!”.
Giunsero quindi davanti a questa povera casa. La porta era socchiusa, le galline razzolavano nell’aia e un gattone scuro sonnecchiava sul davanzale della finestra. Pietro scese da cavallo e per primo si fiondò all’interno. La stanza era nella penombra e sul fuoco c’era un grande calderone al cui interno ribolliva una zuppa. “Che puzza! Per Giuda, vecchia, ma cosa mangi! E rovesciò il pentolone a terra con stizza.
L’anziana sedeva placida in un angolo scuro e non sembrava affatto scossa o spaventata- “E quindi così vuoi dimostrare la tua forza, Pietro di Cly, al pari di un monellaccio di strada!”, sibilò l’anziana guardando a terra senza smettere di lavorare la lana.
“Ma come osi parlarmi così vecchia strega?! Pagherai con la vita la tua sfrontatezza! Anzi, mi seguirai trascinata dal mio cavallo, ti rinchiuderò nelle oscure segrete del mio castello e darò fuoco a questo porcile che tu chiami casa! E guardami quando ti parlo!!” gridò il feroce signore.
Pietro si avventò sulla donna e le strinse la gola. Lei allora alzò lo sguardo su di lui, ferma e immobile come fosse di pietra. in quel momento Pietro rimase bloccato da quegli occhi: uno nerissimo e uno di un celeste chiarissimo, quasi bianco.”
“Che tu sia maledetto, Pietro di Cly! Ecco la mia condanna: l’eterna vecchiaia, l’eterna infermità, e peggio ancora, l’eterna solitudine e l’eterna indifferenza! Questo patirai in eterno; non morirai perché sarebbe la fine delle tue sofferenze! Non ci sarà più nessuno con te! E non avrai neppure bisogno di sfamarti. Vivrai, o meglio, sopravvivrai a te stesso … e basta! Potrai salvarti solo se capiterà una notte con tre lune!”.
Pietro tentò di reagire con una risata sguaiata e incontrollata e strinse più forte che poteva il collo dell’anziana, ma… lei non c’era già più! Improvvisamente la casupola era fredda e vuota; il camino era spento e lui era improvvisamente solo! Chiamò i suoi uomini, ma nessuno rispose. Uscì: solo il vento e la neve. Improvvisamente l’estate era sparita per lasciare il posto al gelo e al silenzio. Anche il suo cavallo era scomparso. Solo il gatto era rimasto al suo posto. Pietro tentò di sfogare la sua ira su di lui ma il felino lo fissò con un tremendo paio di occhi: uno nero e uno celeste. Gli soffiò inferocito e scomparve nella nebbia.
Passarono mesi, anni, decenni. I villaggi intorno al castello erano andati spopolandosi. I campi erano incolti e le foreste si stavano riappropriando del paesaggio. Il castello di Cly si ergeva sul promontorio roccioso circondato da un fitto labirinto di alberi contorti, rovi e sterpaglie. Le mura erano ormai cadenti, i merli si stavano sgretolando e l’antica cappella era semi-diroccata. Non si udiva un suono né si vedeva anima viva. Il silenzio avvolgeva quello scenario spettrale con quell’unica grande torre a dominare su una landa sferzata da un vento che non conosceva fine.
Il Castello di Cly (Foto di Emi Dattolo.LYTD11)
Solo durante la notte, si raccontava nelle osterie del fondovalle, si poteva scorgere una sagoma ingobbita muoversi lentamente con una lucerna dietro le finestre del piano nobile.
Fu con grande stupore che i pochi contadini rimasti accolsero un mese di novembre insolitamente mite e straordinariamente senza vento. Un volgere d’autunno così non si vedeva da molti anni!
Una sera, sul far del tramonto, Denise raggiunse il minuscolo gruppo di case abitate. Stava compiendo un lungo viaggio. Giungeva da nord ed era diretta nella città più importante della valle, Aosta. Era quasi buio e decise di fermarsi; bussò ad una porta e una bimba venne ad aprirle. “Chi sei? Mamma! Vieni!”.
“Ciao piccola, mi chiamo Denise, Sono in viaggio da molto tempo. E’ quasi notte e sono stanca e infreddolita. Posso fermarmi da voi per favore? Non darò disturbo, mi basta una stuoia a terra vicino alla stufa”.
La bimba la fissava sorridente e fu solo quando la luce la illuminò che Denise notò il diverso colore dei suoi occhi: uno nero e l’altro celeste.
“Entra pure, straniera, che tu sia la benvenuta. Non abbiamo molto, ma un tozzo di pane e del formaggio spero possano bastare. Mi scuso ma non potrò dedicarti molto tempo perché il mio piccolo giace a letto molto malato! Da oltre una settimana non riusciamo ad abbassargli la febbre… non so se ce la farà e l’unico medico della vallata non viene qui da noi perché non possiamo pagarlo!”. La giovane madre era disperata e Denise ebbe l’istinto di abbracciarla: “Non temere! Cercherò di fare io qualcosa. Sono un’erborista e so guarire le persone con la sapienza degli antenati. Se hai fiducia in me, vedrai che andrà tutto bene!”.
La donna restò affascinata da quella ragazza forestiera dai lunghi capelli biondi e ricci e dal largo sorriso. Aveva il viso buono e sentì che poteva affidarle il suo bimbo.
Denise gli andò vicino, lo toccò sul viso, sul collo e sul petto. Si mise una mano sul cuore e recitò alcune preghiere nella sua lingua sconosciuta. Poi aprì la sua borsa e ne estrasse alcuni preparati che diede al piccolo. La mattina seguente la febbre era passata!
La donna gridò al miracolo e presto la notizia si diffuse nella valle. Un numero crescente di persone giungeva in cerca di Denise, la guaritrice venuta da Nord.
Fu dopo una decina di giorni che Denise, incuriosita dal castello che vedeva in lontananza, iniziò a chiedere informazioni su chi lo abitasse. Nessuno voleva o riusciva a darle una risposta soddisfacente. Una sera, però, venne inaspettatamente avvicinata dalla bimba dagli occhi bicolori: “Sei curiosa, vero? Scommetto che nessuno ti ha raccontato del misterioso signore di Cly e del sortilegio delle tre lune!”.
Denise la guardò sbalordita:”Misterioso signore? Sortilegio? Ma tu come sai queste cose? Raccontami, ti prego…”.
“Mia nonna mi ha raccontato di questo signore feroce e cattivo che venne punito da una nostra antenata, una vecchia saggia che lui aveva aggredito senza ragione. Quel signore era giovane, forte e straordinariamente bello. Fu condannato a vivere per sempre vecchio, malato e solo, nell’indifferenza generale”, spiegò la bimba.
“Vecchio, solo e malato… per sempre”, commentò Denise, “Ma cosa c’entrano le tre lune?”.
“Il perfido signore potrà guarire soltanto nella notte delle tre lune!”, le rispose la bimba.
“Tre lune, ma è impossibile! Tutte e tre insieme nel cielo?”. “Il sortilegio non parla del cielo, solo di tre lune insieme… Scusa ma ora è tardi, vado a dormire”.
Denise avrebbe voluto saperne molto di più; rimase lì, fuori, a guardare la notte e con la mente affollata da mille domande.
A lungo meditò su quanto la strana bimba dagli occhi diversi le aveva raccontato. Pensò e ripensò, cercando tra le sue conoscenze in campo erboristico se esistesse qualche arcano rimedio, qualcosa capace di guarire il signore, qualcosa che potesse far comparire contemporaneamente tre lune.
E fu così che una notte di dicembre, quella che precedeva la festa dell’Immacolata, dopo aver visto sul lunario che ci sarebbe stata luna piena, Denise si armò di coraggio e si diresse verso l’oscuro maniero intenzionata a capire e a rompere il sortilegio. Solo così, ne era sicura, quelle terre sarebbero tornate a rifiorire e i suoi abitanti a lavorare e a vivere meglio.
La luce della luna la guidò attraverso la cortina di rovi e rami nodosi facendole individuare un pertugio, una piccola breccia nel muro di cinta. Una volta entrata nel cortile del castello fu colpita da raffiche di vento gelido, il terreno era ghiacciato e il buio avvolgeva ogni cosa. Solo una luce, tremula e fioca, si muoveva dietro una finestra del piano nobile. Denise aguzzò la vista e riconobbe una sagoma malferma e gobba, quindi udì, portati dal vento, pianti e lamenti.
Raggiunse il punto più alto e aperto del cortile e si inginocchiò; si mise una mano sul cuore, come faceva di solito, e iniziò a recitare le sue preghiere. Come per magia la grande luna piena apparve nuovamente forando il buio pesto che avvolgeva il castello. Denise estrasse dal suo borsone un catino e vi versò dell’acqua benedetta. Quando la luna arrivò a specchiarsi nel catino riflettendo la sua immagine, Denise gettò nell’acqua una tonda perla di vischio, la pianta sacra capace di ridare forza e vigore, la pianta che i suoi avi ritenevano in grado di dare l’immortalità.
Ecco che così tre lune apparvero insieme: quella nel cielo, la sua immagine riflessa e la perla di vischio.
Una nebbia scese improvvisamente, densissima, e avvolse ogni cosa. Improvvisamente Denise avvertì una presenza accanto a sé e si sentì sfiorare il braccio: era la bimba dagli occhi diversi: “Brava! Davvero… dopo decenni sei l’unica ad aver sciolto il sortilegio. Questa terra tornerà a fiorire, sotto la protezione del vischio e delle tre lune. Le tue conoscenze e la tua intelligenza hanno trovato la formula giusta!
Ah, io mi chiamo Evenzia. Se vorrai trovarmi sali al colle che domina il villaggio là dove si passa per raggiungere le terre della grande montagna appuntita. E’ lì che viveva mia nonna”.
E, trasformatasi in un gatto scuro con un occhio nero ed uno celeste, svanì nel nulla.
Il castello di Cly dopo un temporale (Foto: Leonardo Acerbi)
Col gatto svanì anche la nebbia e Denise si ritrovò nella piazza d’armi del castello, circondata da soldati. I vessilli e i gonfaloni dei Cly si gonfiavano nel vento. Tutto era illuminato e c’era un via vai di uomini e animali. Il maniero di Cly era tornato a splendere. Le guardie si gettarono sulla ragazza ritenendola una ladra o una mendicante e fecero per catturarla quando il signore, Pietro di Cly, uscì correndo dal castello.
“Fermi! Non toccatela! Lei è una mia ospite”; poi, rivolgendosi a Denise, rimasta senza parole davanti a quel giovane incredibilmente bello, disse: “Grazie Denise. Mi hai salvato! E grazie a te ho capito molte cose. Riparerò i miei errori. Queste terre torneranno ricche e floride!”.
E fu così che Denise rimase a vivere a Cly, amata sposa di Pietro che, da parte sua, fece aggiungere tre lune crescenti allo stemma di famiglia a perenne ricordo di quanto accadutogli. Divenne un signore magnanimo, giusto e buono. A tutti dava ascolto e portava aiuto.
Lo stemma degli Challant Cly
Decise quindi di tornare, a piedi, alla casupola solitaria della vecchia che aveva tentato dio uccidere. Erano passati decenni.. chissà cosa ne era rimasto… chissà se esistevano dei nipoti, qualcuno da poter aiutare. Giunto lassù, al colle di San Pantaleone, vide che la casetta era esattamente come se la ricordava, nulla era cambiato. La porta era socchiusa ed entrò, in punta di piedi, con rispetto.
Una voce lo salutò da un angolo buio: “Bentornato Pietro, Signore delle Tre Lune! Ti stavo aspettando!”. Pietro si avvicinò e la vide: l’anziana donna con un occhio nero ed uno celeste era lì, seduta, immobile davanti a lui esattamente come era rimasta nei suoi ricordi. “Perdonami!”, disse Pietro inginocchiandosi, “ora porrò rimedio. Posso solo conoscere il tuo nome?”.
“Certo, Io sono la saggia Evenzia. Che tu sia il benvenuto! Viva Cly e il Signore delle tre lune!”.
Stella
Voglio ringraziare l’amico e fotografo Emi Dattolo per le bellissime foto concessemi per illustrare questo racconto. Nella storia ritroverete un pò tutto: il castello, naturalmente, ma anche il Comune di Saint-Denis (nella figura dell’erborista Denise), la festa del vischio che qui si celebra a inizio dicembre e la cappella solitaria di Saint-Evence (la saggia maga Evenzia e la sua casetta sul colle di Saint Pantaléon).
C’era una volta, non molto tempo fa, un giovane sovrano appassionato di montagna. La sua passione era talmente forte che sempre più spesso lasciava il grande palazzo di città per recarsi tra i suoi amati monti, dove sentirsi finalmente libero in mezzo a quella grandiosa natura.
Il viandante sul mare di nebbia (C. D. Friedrich, 1818)
Con gli anni era riuscito a costruire una dimora solo per sé, dove potersi rifugiare quando desiderava trascorrere del tempo in solitudine.
Era un castello in pietra, arroccato su un promontorio affacciato sul fiume e circondato di prati e vigneti. Nel mezzo della facciata rivolta verso le valli dominate dal Gran Paradiso, il giovane re aveva fatto innalzare una torre altissima che utilizzava come osservatorio per scrutare, col binocolo, le vallate selvagge che si aprivano a sud, davanti ai suoi occhi, ricche di camosci e stambecchi.
Il giovane amava moltissimo quegli animali: agili, veloci, fieri, imprendibili, capaci di saltare tra le rocce e quasi di volare sugli strapiombi montani. Inizialmente, anche seguendo le orme del padre, vi si era avvicinato con la voglia di cacciarli. Poi, però, aveva cambiato approccio: ora il suo obiettivo era quello di catturarli e tenerli tutti per sé nel grande parco annesso al castello. Non voleva ucciderli, ma averne a disposizione in gran numero e magari trasferirne alcuni nella vasta tenuta di famiglia per impressionare ospiti e amici.
Fu così che ben presto cominciò ad organizzare vere e proprie spedizioni, avvalendosi anche dell’aiuto e delle conoscenze della gente delle valli, per stanare, inseguire e catturare il maggior numero di bestie, cuccioli compresi. Purtroppo in breve tempo la sua passione lo divorò trasformandosi in una vera e propria malsana ossessione.
Il parco non era né sufficiente né adatto ad ospitare un così elevato numero di animali che, oltretutto, privati della libertà, soffrivano, si ferivano e spesso rifiutavano il cibo lasciandosi morire.
Queste catture, che non di rado avvenivano anche con ferocia e che avevano stimolato l’avidità di molti contadini del posto che vi vedevano una fonte di guadagno, provocarono l’allarme tra i branchi di camosci e stambecchi che iniziarono a diminuire e a migrare oltre confine. Una simile situazione, alla fine, risvegliò la potente fata Paradisia, protettrice di quelle vallate:” Chi, chi osa avventurarsi nelle mie terre oltraggiandole a tal punto? Chi ha osato offendermi devastando i branchi delle montagne?”.
Il giovane re non sapeva di aver causato una simile ira e presto sarebbe stato punito; Paradisia lo stava solo aspettando al varco!
Una notte di luna piena egli decise di inoltrarsi tra le rocce di una vallata selvaggia per tentare di individuare nuovi rifugi, tracce, segni lasciati dal passaggio degli animali. Ad un certo punto si ritrovò nel bel mezzo di una morena: attorno a lui solo massi, pietre instabili e rocce scivolosissime. La luna venne oscurata dalle nubi, in lontananza il rombo sordo di un temporale in arrivo; poi, un bagliore accecante come un lampo squarciò le tenebre. Una voce, una specie di eco che rimbalzava accentuato dal vento. Una voce di donna lo chiamava, ma lui era incapace di muoversi:” Emanuele, come hai osato?! Chi ti ha dato il diritto di depredare le mie terre e rapire i miei camosci e i miei stambecchi imprigionandoli nel tuo castello?”.
Il giovane re, ripresosi dall’iniziale spavento, rispose:” Chi sei? Come sai il mio nome? Queste sono le mie terre, non le tue! Io qui sono il re! Se hai coraggio, mostrati!”.
La notte si illuminò e dalle rocce emerse una figura di donna. Alta, dai lunghi capelli scuri abbigliata di vesti bianche, luminose come la neve adornate da diademi di stelle alpine, fiori e cristalli. Il suo apparire fu accompagnato da uno scroscio di cascate e dal correre di camosci tra le rocce. Accanto a lei, come se fosse un cane da guardia, immobile, uno splendido esemplare di stambecco dalle corna lunghissime: i suoi occhi gialli lo fissavano fieri e severi.
“Eccomi. Non ho certo paura di te, uomo. Io sono la signora di queste valli sin dalla notte dei tempi, voluta qui da Madre Natura, Dea Suprema, e non riconosco la tua autorità. So perfettamente chi sei e so che per alcuni uomini sei un re, ma queste, ripeto, sono le mie terre e tu le stai oltraggiando! Io sono la Fata Paradisia, colei che ha dato il nome alla grande montagna e alle vallate che ne dipendono”.
Emanuele, sebbene ancora intimorito, azzardò:” Come? Una fata? Ma per favore, non prenderti gioco di me! Come ti permetti, piuttosto? Attendo le tue scuse!”.
In tutta risposta Paradisia alzò un braccio e il gigantesco stambecco saltò in un baleno su Emanuele; un vortice luminoso e… il giovane sovrano era scomparso!
“Ma, ma… cosa mi sta succedendo? Dove sono? Che strano… che razza di posto è questo? Ma, non… non… riesco ad alzarmi, non capisco…”.
“Emanuele”, lo richiamò Paradisia, “avvicinati al lago e osserva!”.
Lo stupore fu immenso, la meraviglia indescrivibile! Emanuele era senza parole:” Cosa… chi… cosa mi hai fatto? In quale oscuro incantesimo mi hai intrappolato?”. Emanuele era… uno stambecco! Lo stesso magnifico esemplare che accompagnava Paradisia, ora era lui!.
“Ma scusa, camosci e stambecchi non sono forse la tua più grande passione? Ora sei uno di loro! Anzi, sei l’esemplare più bello, più fiero e più ambito di tutte le valli… ora vivrai come loro! Ma attento…”
“Attento? E a cosa? Forse mi hai davvero fatto un favore… Non mi troveranno più e il trono se lo prenderà qualcun altro! Io potrò vivere libero tra le montagne, capo branco!”.
“Ripeto, giovane re, stai attento! Guardati da quelli come te… superbo re Stambecco!”. E, dette queste parole, la fata scomparve tra le cascate.
I giorni di Re Stambecco scorrevano sereni; gli sembrava di essere stato stambecco da sempre. La quota, la libertà, arrivare dove altri non potevano… l’agilità, l’assenza di paura del vuoto e delle pendenze. Il branco ormai lo seguiva e lo riconosceva come suo capo, il grande Re Stambecco!
Ma, presto, l’avvertimento di Paradisia non tardò a dimostrarsi fondato. Cacciatori! Tanti, armati fino ai denti, senza scrupoli, si avventuravano sù per la vallata. erano anticipati da gruppi di avidi battitori incaricati di stanare gli animali e farli uscire allo scoperto in modo che fosse più facile colpirli o che cadessero nelle trappole o nelle fauci dei cani!
E lui, che ben conosceva le tattiche e le strategie dei cacciatori, cercava in ogni modo di guidare il branco, di mettere in salvo i più deboli, le femmine gravide, i più giovani… Finché, ahimé, non fu proprio lui a restare colpito! Venne ferito ad una zampa e, fuggendo, inciampò e se ne ruppe una seconda. I cacciatori lo raggiunsero e, mentre i loro cani gli abbaiavano addosso mostrando i denti affilati, venne legato senza troppi complimenti e buttato su un carro.
“Visto che bestione? Che corna! E’ splendido! Ci faremo un sacco di soldi! Portiamolo al signore del castello, ci ricompenserà profumatamente!”.
Il giorno dopo, mezzo stordito dal dolore, riconobbe l’ingresso del… suo palazzo! L’avevano portato lì, a casa sua! Ma, chi era il nuovo padrone se lui non vi aveva più fatto ritorno? I pensieri e le domande si affollavano nella mente del giovane re.
Giunto nel parco che ben conosceva, udì una voce stranamente famigliare:”Caspita ragazzi! Complimenti! Un esemplare magnifico! Che bellezza… solo che me lo avete azzoppato! Cosa me ne faccio? Al massimo potremmo dargli il colpo di grazia e imbalsamarlo! Comunque vi pagherò lo stesso, sebbene meno del dovuto! Era stato chiaro: animali sani, non in queste condizioni!”.
Emanuele era incredulo… quella voce… era la sua! Si voltò e si riconobbe! Lui era lì, era quello di sempre… ma com’era possibile? No! Non voleva essere ucciso! No!
Venne lasciato per la notte in una gabbia all’esterno; il giorno dopo avrebbero proceduto con l’imbalsamazione. Emanuele-Re Stambecco pianse amare lacrime. In quell’istante capì tutto il male che aveva fatto e ora… ora avrebbe fatto la stessa fine di molti animali da lui catturati feriti. Forse era giusto così, ma possibile che non vi fosse un modo per rimediare?
Ormai rassegnato ad attendere la sua fine, stremato si addormentò. In un sonno tormentato, pieno di sogni incredibili, gli apparve lei, Paradisia: “Emanuele, giovane Re, ora comprendi perché mi hai offeso? Vedo, sento che il tuo pentimento è sincero e so che d’ora in poi proteggerai i miei animali ma senza togliere loro la libertà, anzi garantendo loro una libertà più sicura! Ora alzati, vai, liberali tutti e scappa! Fuggi con loro!”.
Emanuele si alzò, le sue zampe erano miracolosamente guarite! Balzò in mezzo ai suoi compagni e, spronandoli, riuscì a guidarli verso la salvezza, verso le valli selvagge dalle quali erano stati strappati.
“Maestà! Maestà! Presto, alzatevi! Gli animali sono scappati! E’ incredibile… ma com’è stato possibile?! Maestà… non ce n’è più nemmeno uno! Neanche lo stambecco zoppo!”, urlò un servitore angosciato quella mattina di buon’ora.
Emanuele con estrema calma, si alzò. Si affacciò verso il parco e con soddisfazione vide che gli animali erano tornati liberi. “E’ giusto così!”. Il servitore, già pronto all’ira del re, non credeva alle sue orecchie!
“E’ davvero giusto così! Fai chiamare dei maestri scultori, capaci di lavorare il gesso. Dì loro che studino una straordinaria decorazione per le sale più importanti del castello! Il tema saranno i camosci e gli stambecchi! Voglio dei loro simulacri e riproduzioni praticamente ovunque! Il più possibile simili al vero. E fai recuperare anche quelle confezionate in passato da animali veri: che sia dato loro opportuno risalto! Chiunque, anche in futuro, dovrà restare a bocca aperta! E questo castello sarà unico nel suo genere!” E il re uscì dalla stanza.
Vittorio aveva 8 anni. Finalmente quell’estate i suoi genitori avevano esaudito un suo desiderio: una vacanza in montagna, in Valle d’Aosta!
Da tempo infatti Vittorio era affascinato da quelle alte montagne coperte di neve e ghiaccio, dai boschi (a suo dire pieni zeppi di fate e folletti), dai camosci, gli stambecchi, le aquile… e dai castelli! Sì, dai castelli: misteriosi, magici, luoghi speciali dove ascoltare e vivere storie fantastiche, dove sognare dame e cavalieri!
La montagna in estate… finalmente! Vittorio era entusiasta!
Le cose da fare e da vedere erano tantissime, ma Vittorio aveva insistito per cominciare dai castelli! Complice un tempo incerto, i genitori avevano acconsentito!
Fénis innanzitutto, per quella sua atmosfera così “draculesca”, come diceva Vittorio. A seguire: via per Issogne! Arrivati all’ingresso, purtroppo un cartello avvisava che per un improvviso black out quel pomeriggio il castello sarebbe stato chiuso… “Oh no!”, esclamò Vittorio deluso. “Non preoccuparti”, lo rassicurò la mamma, “è momentaneo. Lo vedrai domani! Visto che è ora di pranzo ci fermiamo qui, ok?”.
Ma dopo un po’ Vittorio si annoiava a star seduto; “Mamma, papà, vado qui fuori davanti al castello a giocare col pallone!”. “Va bene, ma stai attento e non combinare guai!”.
Immaginando Vittorio (da parentingoc.com)
Vittorio, talentuoso mini calciatore, si divertiva a palleggiare e a fingere di dribblare fortissimi avversari. Tira, calcia, rimpalla… e il pallone finisce in una siepe altissima vicina al muro di cinta del castello.
Vittorio si mette a cercarla. Intanto guarda da fuori quell’austero edificio:” Mmmmh, però, che grigio che è! E’ così diverso da Fénis, mah… speriamo che dentro sia meglio! Ma dov’è finito il pallone, mannaggia?!!”.
Ad un certo punto, individuata la palla, si infila nel folto del cespuglio (no!! Anche le ortiche!!) e… nota uno spiraglio di luce. Proprio così, nascosta da quell’enorme siepe c’era un piccola porta di legno! Era socchiusa e.. la curiosità troppo forte!
“Non combinare guai!”, gli aveva detto la mamma, e per un attimo Vittorio fu sul punto di lasciar perdere, ma…
No, quella porta lo chiamava, ma sì, dai, giusto una sbirciatina!
“Oooooohhh, aiutooo!!”. Vittorio era caduto da un muro come un sacco di patate! Ma dov’era finito?! Un pò stordito, con un graffio sul braccio e un ginocchio sbucciato si guardò intorno.
“Che meraviglia!”. uno splendido giardino pieno di fiori e alberi da frutta si apriva davanti ai suoi occhi. Un giardino ben curato con le siepi perfettamente tagliate, quasi disegnate. Nel mezzo due alberi più alti e rigogliosi degli altri attrassero la sua attenzione: uno era un melograno (anche nel giardino dei nonni ce n’era uno), l’altro invece, con curiose foglie seghettate,Vittorio non sapeva cosa fosse.
Intorno le pareti di cinta erano ricoperte di pitture colorate con finte colonne e statue. Poi, nel rialzarsi nota un luccichio: c’è qualcosa che brilla laggiù, tra le ortensie… Vittorio si avvicina: uno specchio, non grande, ma splendidamente lavorato, uno di quelli col manico, brillava abbandonato nei fiori.
“Che bello! Chissà chi lo ha perso… a mamma piacerà moltissimo!”. Aveva appena fatto in tempo a metterselo in tasca che alle sue spalle un vocione rauco gridò:”Ehi tu, ragazzino! Chi sei? Che ci fai qui? Come sei entrato? E in che modo strano sei vestito?”.
Vittorio spaventato si girò: un omone grande e grosso, con l’armatura e un coltellaccio in mano lo fissava minaccioso.
“Ora verrai con me! Ti affido a qualche donna che ti sistemi e ti cambi e poi te ne vai! Non è posto per te!”. Vittorio non riuscì nemmeno a protestare che una mano nerboruta lo stava trascinando via dal giardino senza troppi complimenti.
Quel soldato era davvero strano e le armi erano, diciamo, “insolite”. E poi parlava in un modo, quasi incomprensibile! Vittorio lo capiva abbastanza, ma usava comunque delle parole, come dire, “vecchie”… “ma che lingua è? Sembra francese ma…boh…!”.
“Ragazzi, guardate chi ho trovato nel giardino!”, tuonò l’omone, “che buffo ‘sto ranocchietto secco secco e guardate che vestiti indossa!”. La compagnia esplose in una fragorosa risata. Vittorio era stato portato in una sala piena di guardie che, però, si stavano riposando e giocavano ad un gioco simile agli scacchi. Tutti lo fissavano e ridacchiavano. Le armi erano appese al muro; gli elmi appuntiti erano stati lucidati da poco e quegli uomini indossavano bizzarre divise tutte colorate.
Lunette – Corpo di guardia (L. Acerbi)
“Ma… dove sono?”, chiese ad un certo punto Vittorio con un filo di voce. “Come dove sei?! Sei entrato come un ladro e non sai nemmeno dove sei? Non prenderti gioco di me, sai, rospetto, altrimenti ti spedisco fuori a calci! Ora sù, fuori di qui!”
Il soldato prese Vittorio per un braccio e lo trascinò fino al mercato accanto. “Donna, questo strano ragazzino curiosava in giardino. Mi ha già fatto perdere troppo tempo. Prenditelo, lavalo e mettigli addosso abiti decenti. Poi, che se ne vada! Ah, fallo mangiare: è secco come un chiodo! Tsè, i soliti accattoni!”.
Vittorio era completamente disorientato e guardando quella donna dall’aspetto rassicurante e dolce, chiese nuovamente: “Ma dove sono? Io… sono caduto… credo di essermi perso, signora!”.
La donna rimase colpita dall’educazione del ragazzino, non pensava fosse un mendicante. “Piccolo, sei nel castello di Issogne, nobile dimora di Sua Eccellenza il Priore Giorgio di Challant. Vieni, sù, accompagnami a fare la spesa, che ti prendo qualcosa da mangiare.
Vittorio era ammutolito, non sapeva più cosa pensare. Ma la sua indomabile curiosità e la fervida immaginazione lo spinsero a “stare al gioco” e a seguire quella donna che disse di chiamarsi Clarice e di essere una cuoca del castello.
Una fila di colorate botteghe piene zeppe di cibo e mercanzie varie era presa d’assalto da vari avventori; come prima cosa Clarice lo portò dal salumiere e lo chiamò in un modo strano: “pizzicagnolo”. Che nome buffo, lo faceva ridere… Prosciutti, salami, carni essiccate; e grandi forme di formaggio di montagna dal profumo penetrante. Vittorio adorava i formaggi e volle assaggiarlo. Che bontà! Clarice gli disse che veniva prodotto in montagna quando le mucche salivano ai pascoli alti e che questo che si vendeva al mercato del castello era in assoluto il migliore. Sul bancone anche un enorme pane di burro… così grandi Vittorio non ne aveva mai visti!
Lunette – Pizzicagnolo (L. Acerbi)
Clarice si fermò un attimo a chiacchierare con una sua amica che se ne stava seduta davanti ad una ruota e lavorava del filo di lana… “Cosa fa?”, chiese Vittorio. “Come cosa fa..!! Ma da dove salti fuori, tu?! Sta filando! Mah… che rospetto insulso che sei… Presto, seguimi!”.
Eccoci davanti alla bottega del macellaio, o del fornaio? Boh, sta di fatto che i due stavano insieme nello stesso negozio. Proprio in quel momento uscivano dal forno fragranti pagnotte a forma di cappello… che acquolina! Che impressione però quella bestia squartata appesa sopra il bancone! C’era anche un cagnolino che cercava di rubare qualche salsiccia… che buffo!
Lunette – panettiere e macellaio (L. Acerbi)
“Muoviti che mi serve del cavolo!”, sbottò Clarice. “Cavolo?!! Puah! Io lo odio!” esclamò Vittorio. “Cosa?! Sei davvero strano! Guarda che col cavolo io preparo zuppe fantastiche! Ci metto dentro il pane vecchio, un pò di cipolla, del formaggio e…”, “No, per carità! Cavoli, cipolle, pane vecchio… io non la mangio questa roba!”. Clarice fissò Vittorio interrogativa. “Ah, il signorino. E si può sapere cosa mangi?!”. “Beh, .., patate… pomodori… e vado matto per l’ananas e le banane!”.
Lunette – panettiere e macellaio (L. Acerbi)
“Ma che razza di roba è mai questa?! Da quale oscura e remota contrada provieni? Io davvero non ho mai sentito questi nomi… sei forestiero oppure pazzo? Ah, forse sei il nuovo giullare per far divertire i nipoti di Sua Eccellenza?”.
“Ma, come, signora Clarice, non ha mai visto una patata né un pomodoro?!”. Clarice sbuffò e rispose:”Senti, ascoltami bene, inizio a stancarmi delle tue burle. Cavoli, cipolle e rape. Zitto o stai a digiuno!”.
Per fortuna vendevano anche mele e fichi…
“Ah, signora Clarice, mi scusi, che alberi sono quelli in mezzo al giardino? Uno è un melograno, giusto?”; “Beh, qualcosa allora conosci… sì, l’altro invece è una quercia! Non vedi com’è grande e robusta?!”
Che strano, pensò Vittorio, insieme al fruttivendolo c’era anche il calzolaio! E quanto lavoro che aveva! C’era la coda:”Signora Clarice, ma tutti che si fanno riparare le scarpe… non possono comprarsele nuove? Ai saldi costano meno…”; “Ai cosa? E dove sarebbe questo luogo? E poi, scarpe nuove! Tu sei matto, ragazzino! Quando c’è chi le ripara è già tanto!”. Clarice era sempre più sconvolta…
Andarono poi dallo “speziale” (altro nome mai sentito…); “Ah, ma sì! E’ una specie di erborista-farmacista! Ora ho capito”. Vittorio rimase incantato da tutti quei bei vasi con le erbe, messi in bella mostra sugli scaffali. Gli fece un po’ pena, però, un poveretto malconcio seduto a pestare nel mortaio.
Lunette – Lo speziale (L. Acerbi)
Ad un certo punto un improvviso fermento. Tutti escono dalle botteghe e si radunano nel cortile. Si apre il portone principale e… ” Stai composto! C’è Sua eccellenza il Priore!”.
Eccolo, Giorgio di Challant, seguito da un codazzo di sacerdoti, segretari e servitori. Fermatosi venne raggiunto da un gruppo di uomini che avevano smesso apposta di lavorare: sembravano muratori, imbianchini… qualcosa di simile.
Vittorio capì che Sua Eccellenza era venuto per verificare lo stato di avanzamento dei lavori e per prendere accordi coi capi delle maestranze. Clarice gli spiegò che bisognava realizzare la nuova decorazione pittorica del cortile: quel luogo andava abbellito, arricchito, nobilitato! Quel luogo avrebbe dovuto esprimere tutta la potenza della famiglia Challant!
Vittorio capì che il Priore non era soddisfatto delle proposte fatte e che sarebbe stato lui a dare tutte le indicazioni del caso. Curioso di vederlo da vicino, con un balzo Vittorio raggiunse la prima fila. Clarice tentò invano di acciuffarlo ma le scappò un urlo. Sua Eccellenza si voltò di scatto “Che succede? Cos’è questo trambusto?”.
La povera Clarice, mortificata, si inginocchiò per scusarsi e prese Vittorio per un orecchio strattonandolo. Il Priore, quasi divertito, si avvicinò al ragazzino studiandolo nei minimi particolari.
“Che insolita foggia d’abito. Chi sei?”. “Mi chiamo Vittorio, signor Giorgio… io… ecco…”. “Molto bene, Vittorio, orsù dunque seguimi. Per prima cosa devo recarmi dal sarto a scegliere una stoffa adatta al mio nuovo mantello da viaggio. Il signor Arnaud saprà consigliarmi per il meglio!”. Vittorio lo seguì: quell’uomo lo aveva immediatamente colpito, era impossibile non obbedirgli. Restò stupito dalle decine di stoffe colorate che Arnaud, il sarto, srotolò davanti al Priore; e che forbici enormi aveva!
Lunette – drappiere e sarti (L. Acerbi)
“Bene, piccolo Vittorio, ora fatti dare una lavata. Ti aspetto dopo i Vespri nella stanza dalle colonne di cristallo”, e Sua Eccellenza scomparve tra le arcate scure del portico.
Dopo essersi fatto spiegare da una rassegnata Clarice cosa fossero i “Vespri” ed essersi sistemato, Vittorio raggiunse la sala dove era atteso. Una sala grandissima, ricoperta di affreschi… con colonne di cristallo e di marmi colorati dietro cui si aprivano strani paesaggi da fiaba!
Sala bassa (L. Acerbi)
Sul fondo, seduto su una specie di trono in legno scolpito, Giorgio di Challant lo aspettava.
Bene Vittorio, infine sei arrivato. Ti stavo aspettando, sai? E so che qui al castello hai trovato un oggetto che mi appartiene ma che avevo perduto”. Lì per lì Vittorio non capì e negò. “Sii sincero, Vittorio, quell’oggetto sa riflettere il vero e tu ora lo stai nascondendo.”
Vittorio comprese e tirò fuori dalla tasca lo specchio trovato in giardino. “Vedi che lo avevi tu? Lo immaginavo. Quando la luna sarà alta e la sua luce illuminerà il cortile, scenderai in giardino con me!.
E così avvenne. Sua Eccellenza si fece dare lo specchio e, quando la luce lunare inondò il cortile, egli puntò lo specchio al cielo. Un raggio argenteo fortissimo rimbalzò sullo specchio e si perse nelle profondità del pozzo che sembrava acceso dall’interno.
Giorgio invitò Vittorio a guardarvi dentro. Inizialmente vide la superficie dell’acqua che brillava muovendosi in piccole onde. Poi, improvvisamente, l’acqua si fermò e nel mezzo si aprì un varco. Giorgio mise un braccio intorno alle spalle del ragazzino, salirono sull’orlo del pozzo e saltarono.
Vittorio stranamente non aveva paura, ma chiuse gli occhi. Dove sarebbero finiti?!
“Eccoci! Apri gli occhi, piccolo”, lo rassicurò Sua eccellenza, “sei nel mondo oltre lo specchio, nel regno dei miei sogni…”.
Vittorio sgranò gli occhi: il giardino era lo stesso del castello, ma i due alberi, il melograno e la quercia, erano fusi in un’unica pianta e non erano più veri alberi… erano di metallo scintillante e dai loro rami sgorgava acqua purissima che si riversava in una splendida vasca ottagonale.
Le pareti interne del cortile erano rivestite di specchi enormi che riflettevano e amplificavano la meravigliosa corte fiorita. Ad un certo punto, dai portici, su cui (notò Vittorio) era raffigurato il mercato esattamente come lo aveva visto lui quella mattina), uscì una folla di bambini. Maschietti e femminucce, tutti a coppie, in fila ordinata, si tenevano per mano. Indossavano abiti fatti come stemmi.
“Vedi Vittorio”, disse il Priore, “i bimbi vestiti d’argento e di rosso con la banda nera appartengono alla mia famiglia, gli Challant. Gli altri a famiglie nobili ed importanti con cui ci siamo uniti o ci alleeremo per consolidare e rafforzare il nostro potere.”
La schiera di bimbi si fermò al centro del cortile e, dopo aver bevuto dall’albero doppio, si specchiarono sulle pareti che, come per incanto, si rivestirono dei colori e dei disegni dei loro abiti.
Vittorio era ammutolito anche se avrebbe avuto mille domande… “Ora puoi andare, ragazzo. Grazie a te ho potuto usare lo specchio, vedere nella mia anima e realizzare i miei sogni. Ora so cosa devo fare in questa mia amata dimora!”. E il nobile Giorgio si dissolse lentamente nel bagliore dello specchio.
“Vittorio! Vittorio! Svegliati! Dai, che stamattina finalmente vedrai il castello di Issogne! Forza, alzati!”. La mamma lo stava chiamando. “Ma come”, pensò, “ma allora era tutto un sogno?! Ma com’è possibile… sembrava vero!”.
Arrivati al castello, Vittorio cercava con gli occhi la siepe che nascondeva la porticina, ma non c’era nulla. Ecco, toccava a loro, la visita guidata stava per cominciare.
Senza fiato! Così rimase il piccolo Vittorio una volta entrato nel cortile! C’era tutto… Ah, ecco Clarice la cuoca! E i soldati, lo speziale, il cane del macellaio… quei grandi formaggi… sì, esattamente come nel sogno!
Però, mancava qualcosa: le pareti erano rossicce, purtroppo molto deteriorate dal tempo, i colori degli stemmi erano quasi del tutto scomparsi! La guida disse che in origine vi era dipinto “Le Miroir des enfants” per i discendenti di casa Challant. “Lo sapevo”, pensò Vittorio, “Lo specchio! Sua eccellenza ha fatto raffigurare quello che avevamo visto nello specchio!”.
Si avvicinò al pozzo ottagonale sormontato dal doppio albero che lui conosceva bene. Peccato non zampillasse più acqua. Un velo di malinconia scese sul volto di Vittorio e istintivamente guardò nel pozzo. Ma cosa c’era là, in fondo? Un bagliore, un oggetto rifletteva la luce; aguzzò la vista e provò a scattare una foto migliorando la luce.
Lo specchio! Ma certo! Era proprio lo specchio del nobile Giorgio!
“Ehi ragazzino, ti stai annoiando? Sù, vieni con noi, ti stiamo aspettando! Cercherò di raccontarti qualche storia più curiosa…”. Vittorio riconobbe la voce della guida; si voltò, seppur contro voglia, e… guardò attentamente quell’uomo. Sul cartellino che aveva appeso al collo c’era il suo nome: Giorgio!
“Ti stavamo aspettando, piccolo Vittorio… immagino tu abbia voglia di visitare il nostro castello, vero?”, gli disse la guida. “Certo!”, rispose il ragazzo, “è un castello bellissimo, pensi che proprio stanotte l’ho sognato! E’ davvero il castello dei sogni!”.
Amici, ho voluto chiamare il bimbi Vittorio, in omaggio a Vittorio Avondo, che nel 1872 acquistò il castello di Issogne, lo restaurò e lo donò allo Stato. Proprio nell’estate 2018 sono stati aperti al pubblico, in un’ala del castello, i suoi appartamenti.
Ringrazio quindi mio marito, Leonardo Acerbi, per le splendide foto che corredano questo racconto.
In un tempo lontano, la gente che abitava nel piccolo borgo raccolto intorno all’antico ponte di San Martino era solita mettere in guardia i viaggiatori o i mercanti intenzionati ad inerpicarsi nella rocciosa ed angusta vallata solcata dall’impetuoso torrente Lys.
Dicevano, infatti, che gli spiriti della Natura abitavano quel territorio e che non ammettevano estranei! Nessuno poteva entrare, altrimenti non avrebbe fatto ritorno, oppure ne sarebbe tornato completamente pazzo, ossessionato da incubi e visioni.
Narravano che in quella vallata persino il sole faticava a penetrare, che le rupi erano erte e scoscese, i burroni e le gole terribili, i boschi scuri e fittissimi, il torrente inoltre era governato da una strega volubile e capricciosa, la ninfa Lysia, che spesso causava inondazioni e piogge tremende.
Chiunque avesse tentato di avventurarsi in quella vallata stretta e scura, sarebbe stato vittima di frane, slavine, vortici improvvisi di un vento capace di sradicare gli alberi. Raccontavano che la valle fosse popolata da gnomi malefici e Troll spaventosi che impedivano a chiunque di accedervi: erano infatti chiamati ad assolvere un compito molto molto importante. Ma quale?
Lassù, in alto, oltre l’invalicabile barriera delle rupi e dei gorghi, si diceva che si aprisse, come un miraggio, un luogo splendido, di ammaliante bellezza.
Un luogo dalla Natura rigogliosa ed incontaminata che andava protetto ad ogni costo e soprattutto andava difeso dagli uomini. Era il regno della misteriosa ed inafferrabile Edelweiss, la regina solitaria.
Nessuno l’aveva mai vista, né lei del resto lo avrebbe permesso, ma già le antiche leggende parlavano di questa regina di straordinaria bellezza, una regina senza tempo e senza età, che viveva da sola in un meraviglioso castello di cristallo costruito apposta per lei dalle fate della grande montagna rosa e dagli elfi dei boschi.
Questa dimora candida, opalescente e brillante si ergeva maestosa nel mezzo di un bosco di pini e abeti che la proteggeva col suo intrico di rami e felci e che, talvolta, poteva persino innalzarsi all’improvviso per renderla invisibile. Quando i raggi del sole riuscivano ad intercettare le alte torri e le guglie appuntite del palazzo, queste risplendevano e brillavano come se fossero fatte di ghiaccio trasparente.
La regina Edelweiss era figlia di quel luogo, ne era l’anima, e sua missione era difenderlo da tutto e da tutti. Aveva sempre vissuto da sola; le bastava parlare con gli alberi e gli animali della sua valle. Si narra che lei stessa potesse persino prenderne la forma, se voleva, per muoversi con maggior libertà e, addirittura, avvicinarsi agli uomini per studiarli da vicino senza destare sospetti. Unico elemento immutabile era il suo colore: che fosse donna, fiore, volatile o quadrupede era sempre di colore bianco-argento simile alla pallida luce della Luna.
Dicono non avesse neppure bisogno di un compagno, che non si fosse nemmeno mai innamorata, anzi: guai se fosse stata vista! Per il malcapitato sarebbe stata la morte, oppure sarebbe stato immediatamente trasformato in un animale o in una pianta del suo incredibile e variopinto giardino.
E così era sempre stato nei secoli, finché…
Finché un’arcana ed inaspettata congiuntura astrale cui neppure Edelweiss poteva sottrarsi non fece cambiare il clima della vallata. Gli inverni iniziarono a diventare sempre più miti e brevi mentre le estati calde portavano il sole ad attardarsi più a lungo sulla conca e a rendere più fertili i terreni zuppi d’acqua. Si dice fosse assai abbondante un’erba in particolare, assai nutriente, il crescione, molto amata dagli animali ma apprezzata anche dagli uomini.
Edelweiss non si preoccupò. Quello era e restava comunque il suo regno; bastava adattarsi alla nuova situazione dettata dalla Grande Dea, Madre Natura. Non sapeva, però, che non sarebbe più stata sola.
Il costante rialzo delle temperature, infatti, aveva aperto dei colli e dei passaggi sulla grande montagna rosa; transiti mai utilizzati ma che erano stati individuati da uomini provenienti da nord. Uomini coraggiosi, caparbi, abituati alla fatica, al freddo, alle difficoltà. Uomini che avevano dovuto lasciare la loro terra natia per cercare nuove terre e nuove possibilità di commercio. Uomini capaci di muoversi con agilità sulle montagne e in grado di adattarsi anche alla natura più severa. Erano i Walser!
Edelweiss venne presto avvisata dalle fate che gruppi di Walser stavano passando il confine e stavano penetrando nel suo territorio. Questa notizia la fece letteralmente infuriare.
Iniziò a scatenare le forze della natura poste sotto il suo controllo rovesciando fulmini e tempeste, grandinate e gelate, provocando frane di massi enormi, deviando torrenti che così andavano ad allagare pascoli e sentieri. Ma niente! Nulla riusciva a fermare questi uomini! Anzi, più lei devastava i loro carichi e i loro rifugi, più ne arrivavano a dare supporto…
Edelweiss decise allora di lasciarli un po’ in pace, di permettere loro di insediarsi in modo da colpirli quando si sarebbero sentiti più tranquilli abbassando le difese; questo avrebbe causato loro ancora più danni.
Intanto aveva avvolto il suo castello in un incantesimo che lo rendeva invisibile ed inavvicinabile. Il bosco intorno era cresciuto a dismisura e gli alberi erano duri come pietra in modo da non poter essere tagliati.
Ma i Walser riuscirono comunque a costruire un bel villaggio in mezzo ai campi e Edelweiss dovette riconoscere che ertano davvero degli ottimi falegnami, abili carpentieri e sagaci agricoltori.
Di notte, sotto forma di gatto, o di civetta, si avvicinava alle case per spiarli e individuare i loro eventuali punti deboli.
Aveva capito che questa gente aveva un capo: era giovane, un ragazzone alto e robusto, con la barba e folti capelli castani. Un bel paio di occhi verdi illuminavano un viso squadrato, dalla mandibola volitiva e dalla pelle abbronzata. Aveva capito che questo giovane e carismatico capo era il loro principe e si chiamava Louis.
Immagine tratta da gognablog.com-paysage à manger
Il popolo obbediva disciplinato agli ordini di questo principe che aveva già incaricato alcuni coetanei coraggiosi di perlustrare la vallata e di cercare di individuare una strada che conducesse verso sud, nel fondovalle. Nulla lo spaventava e spesso lui per primo guidava gli esploratori.
Edelweiss capì ben presto che Louis sarebbe riuscito ad aprire il varco. Era forte, agile, veloce e saggio nel prendere le decisioni, conosceva la natura e sapeva evitare i pericoli. Quando poi riuscì a trovare la strada diretta a sud, Edelweiss decise che doveva fermarlo! Ad ogni costo!
Se quella strada fosse diventata sicura e nota, la “sua” valle sarebbe stata invasa dagli uomini e lei non poteva permetterlo.
A Louis erano giunte le voci e le leggende sulla regina solitaria e molti dei suoi non nascondevano un certo timore. Nessuno poi voleva avvicinarsi al grande bosco; lo ritenevano stregato e alcuni sostenevano fosse infestato da spiriti e oscure presenze. Ma Louis era troppo curioso. “Questa ora è la mia terra!”, sosteneva, “e devo conoscerne ogni angolo. Se davvero esiste questa regina misteriosa, che abbia il coraggio di mostrarsi e venirmi a parlare! Io sono qui e ci resterò!”.
“Quell’arrogante sbruffone! Ma non sa con chi ha a che fare. Ora ha davvero superato il segno! La mia vendetta non tarderà! Io, regina Edelweiss, tornerò presto ad essere l’unica Signora di questo luogo!”. L’ira della regina era incontenibile; Louis andava tolto di mezzo!
Edelweiss iniziò a rendergli la vita sempre più difficile, causandogli innumerevoli sventure: la perdita del raccolto, un devastante incendio, i campi allagati, una terribile epidemia sul suo bestiame… ma niente! Louis era sempre supportato dall’affetto dei suoi compaesani; non c’è che dire, erano un popolo decisamente forte ed unito!
“Ah sì, eh… Louis?! Ma io non mollo, sai? Anzi, ti colpirò dritta dritta nei tuoi desideri…” e la regina escogitò il suo piano.
Sapeva, infatti, che la più grande passione di Louis era la caccia. Spesso lo aveva spiato e seguito, sotto forma di animale, per vederlo in azione, capirne le strategie, coglierne anche gli errori. E aveva capito che il suo più grande sogno era quello di catturare (non di uccidere!, tutti i cacciatori sanno che porterebbe male!) uno stambecco bianco.
Animale raro, prezioso, superbo e solitario che, si diceva, viveva sui picchi rocciosi più isolati ed irraggiungibili.
Edelweiss decise così di trasformarsi in un magnifico stambecco bianco e iniziò a solleticare la curiosità di Louis: si faceva vedere, talvolta scendendo persino vicino alla sua baita, lo faceva avvicinare per poi improvvisamente fuggire e scomparire. Lo seguiva persino nei sogni e tanto fece finché non divenne un’ossessione.
Lo stambecco bianco si era impadronito dell’animo di Louis che ormai si dedicava solo a quello trascurando la sua gente e i suoi lavori abituali. Divenne irascibile, scontroso… dalle prime luci dell’alba fino a notte suo chiodo fisso era quell’animale! Tanto che ormai alcuni pensavano fosse diventato pazzo; altri iniziarono a nutrire sospetti verso di lui e a mettere in giro la voce che non fosse più adatto ad essere il capo.
“Molto bene”, pensava Edelweiss, “sto per raggiungere il mio obiettivo”.
Una sera, quasi all’ora del tramonto, Louis ancora si aggirava tra le rocce alla ricerca dello stambecco: ” Sono sicuro! L’ho visto! E’ passato lassù!”. Edelweiss giocava con lui e continuava ad apparirgli, un pò qui e un pò lì. E lo stambecco saliva, saliva, sempre più in alto, saltando agilmente tra gli strapiombi e le pareti scoscese fino a raggiungere il limite delle nevi.
Ma Louis, sebbene stanco e disorientato, non voleva fermarsi. E lo seguiva, lassù, dove la sola luce lunare non può bastare, dove la neve ed il ghiaccio si fanno nemici ingannevoli e fatali.
“Eccolo! Ora sarai mio!”. Sì, lo stambecco era lì, immobile, a pochi passi da lui! Louis con un balzo si lanciò sull’animale per afferrarlo, ma… sotto di lui si aprì un baratro! Louis precipitò nel vuoto ghiacciato fino a fermarsi su un ripiano.
Ferito, sanguinante, una gamba e qualche costola rotte, ma ancora vivo. Guardò verso l’alto gridando e chiedendo aiuto. Lo stambecco si affacciò sul crepaccio, fissandolo.
Ad un certo punto l’animale si dissolse in un vortice di neve brillante e al suo posto apparve lei, Edelweiss. La regina non gli staccava gli occhi di dosso. Louis credette di essere ormai spacciato, vittima di incubi e visioni.
Ma quando improvvisamente la ebbe accanto, ne restò affascinato. Lei, dal canto suo, decise di risparmiare la vita a quel giovane uomo che, nonostante tutto, l’aveva colpita col suo carattere forte, la sua sana testardaggine e la temerarietà.
“Sono Edelweiss, regina di questa valle. Credo tu sappia di avermi offesa”.
“Ora capisco tutto”, le rispose Louis con l’ultimo filo di voce che gli restava, “ti chiedo perdono, ma se vorrai uccidermi, lo capirò”. “No, non ti voglio uccidere. Ma se accetterai di essere trasformato in uno stambecco bianco, ti lascerò vivere accanto a me, per sempre! Ti renderò immortale.”
Louis riflettè. “No, non posso. Perdonami regina Edelweiss, ma a questo punto finiscimi! Io sono il principe Louis. E il mio popolo ha bisogno di me. Spero, anzi, che mi accetti ancora dopo che l’ho così a lungo trascurato…sempre che tu mi consenta di fare ritorno…”
La regina rimase colpita: quell’uomo avrebbe preferito la morte pur di non rinunciare alle sue responsabilità.
Louis, da parte sua, doveva riconoscere che Edelweiss era davvero bella come si diceva. Che non era solo fantasia. E che gli stava proponendo di stare con lei, diventando immortale!”
I loro occhi si incrociarono a lungo in un silenzioso dialogo che parve durare ore. Louis non avrebbe mai dimenticato quel viso bianco come la neve, quei grandi occhi neri senza fine e quella lunga chioma corvina che si confondeva con le ombre…
Al mattino si risvegliò nel suo letto. Era a casa sua e sembrava non fosse successo nulla. Nessuno si ricordava nienteGli dicevano che era stato colto da una febbre altissima, che neanche il dottore era riuscito ad abbassarla e che per ben due settimane era stato a letto in preda ai deliri. Nominava sempre lo stambecco bianco e chiamava la regina Edelweiss.
Rimessosi in forze, Louis decise che avrebbe trovato Edelweiss: quella donna, o fata o strega che fosse, gli era entrata dentro e non poteva più stare senza di lei! Avrebbe voluto rivederla almeno una volta…
Affrontò con passo deciso la salita che portava al bosco che tutti dicevano “stregato”, il bosco dove avrebbe dovuto ergersi il palazzo della regina. Stranamente (o forse no) non fu per niente difficile addentrarsi in quella fitta foresta; Louis aveva quasi l’impressione che gli alberi si aprissero al suo passaggio. Giunse infine ad una radura illuminata dal sole. Lì, al centro del prato, un giovane stambecco bianco lo guardava, immobile.
“Regina Edelweiss, Edelweiss, sei tu, vero?! Sono venuto da te! Voglio che stiamo insieme. Edelweiss, non mi riconosci? Sono Louis!”. Ma lo stambecco, dopo averlo guardato a lungo, improvvisamente con un balzo fuggì. Non era Edelweiss… quello era davvero lo stambecco bianco! Ma Louis, ormai, non era più interessato e non tentò neppure di rincorrerlo o di seguirlo. Non fece nulla. Si accasciò in mezzo alla radura, si prese la testa tra le mani e pianse.
Poi, notò che il prato intorno a lui iniziò a riempirsi di minuscole stelle alpine, argentate e vellutate. Louis si alzò mormorando ” Edelweiss, amore mio…”.
Dai bordi del prato si sollevarono delle mura bianchissime, quasi madreperla. Louis si ritrovò magicamente all’interno di uno splendido castello le cui torri si innalzavano al cielo in un gioco di guglie arditissime. Lui era lì, in piedi, stranito, nel centro di un immenso salone. Ad un certo punto, da un incredibile doppio scalone elicoidale scese lei: Edelweiss.
“Eccoti Louis, sei qui… sei venuto a cercarmi… e per me hai rinunciato al vero stambecco bianco, tuo grande desiderio!”.
“Sei tu, Edelweiss, il mio più grande sogno. Vorrei tanto diventasse realtà!”.
“Lo diventerà. E questa sarà nei secoli la dimora del nostro amore! Qui tutto dovrà parlare di noi, Louis. Per te rinuncio alla mia immortalità. Non sarò più una fata. Sarò una donna, pur sempre regina, ma del tuo cuore”.
E da quel momento il castello fu visibile e accessibile a tutti. La valle intera, dalla grande montagna rosa fino all’antico ponte di San Martino, festeggiò le nozze tra Edelweiss, un tempo regina solitaria, e Louis, il coraggioso principe Walser.
Questo racconto è dedicato a Castel Savoia, alla splendida valle del Lys e all’amore taciuto e sventurato, tra la regina Margherita di Savoia e il barone Luigi Beck Peccoz. Un profondo affetto ed una comunanza di sentimenti univa Margherita al barone alpinista; nella realtà ciò non è stato, ma sicuramente sappiamo che qui, tra queste montagne e in questo castello, così fiabesco e femminile, Margherita si sentiva davvero se stessa.
HIC MANEBIMUS OPTIME
Anche stavolta un GRAZIE speciale all’amico Enrico Romanzi (www.enricoromanzi.it) per la suggestiva foto di copertina.
In un tempo lontano, quella valle dolce e verdeggiante era abitata da uomini felici ed operosi; era popolata di animali di ogni tipo e ricca di una natura florida e rigogliosa che dava fiori, legno, erbe e frutti in abbondanza.
In quel tempo lontano, però, quella valle ridente non era abitata solo da uomini e animali; le sue viscere nascoste erano attraversate da una miriade di cunicoli, labirinti e pertugi. Quell’intrico impenetrabile di gallerie sotterranee era il regno del piccolo popolo, era il regno dei Nani. Costoro, abili ed infaticabili minatori, conoscevano a memoria ogni gola, ogni anfratto, ogni vena di minerale del sottosuolo. I Nani erano i detentori di un’antica sapienza: coltivavano i minerali e li estraevano con notevole maestria. Ma non solo, vivendo nel ventre della Madre Terra, ne curavano con amore e dedizione la linfa vitale regolando, da lì sotto, i frutti delle diverse stagioni. Il popolo nano sin dalla più remota notte dei tempi, custodiva nelle profondità del suolo i semi dei frutti primordiali e, unitamente alla lavorazione dei metalli, si occupava delle trasformazioni e delle mutazioni della Natura. Il buon funzionamento del “mondo di sotto” si sarebbe infatti rispecchiato nell’armonia del “mondo di sopra”. E sì, perché là sotto, nel mondo buio delle miniere, i Nani erano soliti dire “Noi vediamo gli alberi non dalle chiome ma dalle radici, ed è da lì che traggono la vita!”.
I Nani insomma erano dei saggi maestri nell’individuare le materie prime, nel cavarle, nel selezionarle, nel trasformarle e.. nel metterle anche al servizio degli uomini, quando ciò veniva richiesto coi modi opportuni e col dovuto rispetto.
L’intesa tra Nani e uomini era così andata avanti in pace per secoli, fino a che…
Non giunse al potere un nuovo re, il malvagio Gotofredo. Giunto dalle vette del Tramonto, appoggiato da signorotti riottosi in cerca di facile guadagno e visibilità, Gotofredo era riuscito a ricevere in feudo la valle delle miniere di cui, ahimè, e non per caso, conosceva le infinite ricchezze.
Arrivato nel fondovalle fece immediatamente costruire un accampamento alla foce del torrente Fiordacqua e, adocchiata un’altura ben protetta, ordinò che vi si innalzasse una torre fortificata.
I Nani non misero molto tempo a capire che qualcosa era cambiato. La valle era percorsa giorno e notte da orde di soldatacci che approfittavano dei “sopralluoghi” per fare razzia nei villaggi, depredare, saccheggiare, distruggere e rapire fanciulle indifese. Quello era il triste biglietto da visita di re Gotofredo.
I Nani, popolo solitamente pacifico ma terribile se provocato, iniziarono ad attuare stratagemmi grazie alla loro perfetta conoscenza del territorio scatenando frane, deviando il corso dei torrenti, aprendo improvvise voragini che inghiottivano la soldataglia.
Gotofredo ne fu presto molto irritato e cercò di scovare i rifugi dei Nani inviando esploratori e mercenari nei boschi di notte. Ma tutto si rivelava inutile… Inoltre i Nani riuscivano regolarmente a bloccare o sabotare la costruzione della nuova torre fortificata perché quello, per loro, era da sempre un luogo strategico e sacro. Lassù, se lo volevano, potevano affacciarsi sul fondovalle. Lassù vi era la grande porta del regno sotterraneo, quella che consentiva l’accesso all’immensa sala del trono e ai depositi segreti, ma solo in pochi, anche tra gli stessi Nani, sapevano come e quando farla apparire per entrarvi.
Le cose purtroppo andavano sempre peggio. Re Gotofredo, accecato dall’odio verso i Nani, si vendicava sugli abitanti inermi della valle e, mosso dalla volontà di trovare e sterminarli, cercò alleati oltre le montagne, nella terra degli Agauni, di cui, si diceva, non sempre c’era da fidarsi!
Di fatto l’alleanza, supportata essenzialmente da reciproci interessi, non poggiava su solide basi e iniziò a vacillare sin da subito. Nella valle nessuno si fidava più di nessuno e la stessa Natura languiva, irrigata più dal sangue versato che dall’acqua. Nessuno coltivava né allevava gli animali. E i Nani si erano infine rinchiusi nei loro cunicoli negandosi agli uomini. Purtroppo il negarsi dei Nani, portava con sé il negarsi di Madre Natura e la valle presto mutò il suo aspetto diventando sempre più arida e brulla.
Re Gotofredo decise di scatenare una guerra totale anche contro gli Agauni e la valle si trasformò in un unico, triste e desolato campo di battaglia. Gotofredo aveva 5 figli maschi e i 4 più grandi, assai simili al terribile padre, erano impegnati in battaglia o in ambasciate finalizzate a tessere oscure trame politiche. Solo il più piccolo, Giovanni, era diverso.
Lui odiava le guerre. Certo sapeva usare la spada, ma solo se a fin di bene, non così per gratuita sete di potere e ricchezze. Era in conflitto continuo col padre che più volte aveva tentato di farlo rinchiudere in un monastero per toglierselo dai piedi. Ma la madre fortunatamente era sempre intervenuta facendosi forte della sua ricchissima dote con cui poteva tranquillamente ricattare l’avido marito.
Un pomeriggio, verso il tramonto, dopo l’ennesimo litigio col padre, esausto Giovanni si allontanò da casa in cerca di pace. Era molto preoccupato per l’inqualificabile condotta paterna, ma ancor più per le precarie condizioni di salute dell’amata madre. Se fosse morta, lui si sarebbe ritrovato solo, “in pasto agli squali”. Camminando camminando, ad un certo punto si rese conto che si era fatto buio e aveva perso l’orientamento. Dov’era? Vedeva le luci del villaggio in basso, nel fondovalle, ma ormai non era più in grado di scendere: aveva completamente smarrito il sentiero.
“Poco male”, pensò, “tanto laggiù a nessuno importa un bel niente di me! Speriamo solo che mamma non peggiori e che quel finto medico da strapazzo non le dia qualche strana medicina!. Vorrà dire che per questa notte mie compagne saranno la luna e le stelle- Il buio, almeno, copre l’orrore di questa valle”.
Giovanni si sdraiò sull’erba, chiuse gli occhi e si lasciò cullare da un dolce alito di vento. Ad un certo punto si accorse di un penetrante profumo di erbe aromatiche e fiori accompagnato da un fruscio sempre più vicino ed insistente.
“Chi va là? Chi c’è che si nasconde vigliaccamente nell’ombra?! Mostrati e combatti da uomo!”. Silenzio. Poi si vide come circondato da tante fiammelle color verde smeraldo che baluginavano, quasi giocavano intorno a lui.
“Oddio”, si disse, ” fuochi fatui! Questo luogo è infestato di spettri!!”. Tentò di fuggire ma il buio fitto gli impediva di muoversi nella giusta direzione e temeva che un solo passo falso lo avrebbe fatto precipitare nel vuoto.
All’improvviso le fiammelle si fermarono e si unirono a formare un’unica figura dal profilo umano. Dalla luce verde si staccò una ragazza: non molto alta, anzi, bassina. Era più piccola di lui, che già non era tra gli uomini più alti… ma…bellissima! Un vero incanto! Il viso soprattutto era splendido e vi brillavano due occhi azzurro-verdi dal taglio allungato, ipnotici!
“Buonasera, giovane uomo”, gli disse con voce soave, “non avere paura. Sono Palasina, la figlia di Gorgoscuro, il re dei Mani di questa vallata e di Evanzia, la ninfa del torrente Fiordacqua che nella nostra lingua chiamiamo appunto Evanzio. Sono venuta perché ho sentito la tua sofferenza. Conosco il tormento del tuo animo e sento che potrei aiutarti. Tu sei molto diverso dalla maggior parte degli uomini che da alcuni mesi ormai percorrono questa terra, prima così florida e felice!”.
Giovanni era impietrito.Non gli usciva neppure mezza parola di bocca. Poi iniziò a raccogliere i pensieri e disse: ” Ti saluto Palasina. Ma, spiegami, come puoi… come hai fatto a… come mi hai trovato…Ci siamo per caso già incontrati?”
Palasina sorrise. “Oh Giovanni, voi uomini sapete così poco del piccolo mondo. Ma noi, Nani, ninfe, fate… noi siamo ovunque! Possiamo rimpicciolirci quanto vogliamo, anche mutare forma e aspetto se necessario. Inoltre noi sentiamo, percepiamo ogni vibrazione della Natura, ogni suo muto lamento e necessità. So che tu sei diverso. Solo tu puoi salvare questa valle!”.
Giovanni faticava a credere a quanto la ragazza gli stava dicendo. Temette si trattasse di stregoneria, di un ennesimo stratagemma di suo padre, di un inganno… Ma Palasina gli disse:” Giovanni, so cosa stai pensando e so come dimostrarti il contrario. Interverrò domattina. Ora ti accompagno fino al limitare del villaggio. Solo una cosa devi fare: stai sempre accanto a tua madre!”.
Dopo una notte insonne nella quale, tuttavia, credeva di aver sognato come mai gli era successo prima, Giovanni con le prime luci dell’alba si recò da sua madre e, tenendole forte le mani, si sedette accanto a lei. La madre, sfiancata dalla malattia, non riusciva nemmeno più a parlare, ma il suo sguardo gli diceva più di tanti lunghi discorsi.
Allo scoccare delle 12, la porta della stanza si aprì e comparve la cameriera di fiducia che disse: ” Messer Giovanni, è arrivata un’erborista del villaggio mandata dal parroco. Vuole vedere sua madre. La faccio entrare?”
Giovanni, stupito, acconsentì. Per fortuna suo padre non c’era! Entrò una donnina piccola ed esile, già in età avanzata, avvolta in un pesante mantello verdescuro tenuto allacciato da una fibbia in oro e ambra a forma di spirale. La donna alzò il viso e si abbassò il cappuccio. Nonostante l’età fosse molto diversa, Giovanni riconobbe subito quegli occhi verde-azzurri dal taglio affilato. E riconobbe la voce! Era lei: Palasina!
L’erborista si avvicinò a sua madre, le toccò la testa, il petto, i polsi, la pancia e le anche. Dopo lievi massaggi circolari che, a detta della madre, sprigionavano un insolito calore, spalmò sul bacino della donna un impiastro di erbe recitando alcune preghiere in una lingua sconosciuta. “Molto bene Messer Giovanni, ho finito. Stasera faccia bere a sua madre un infuso di malva e tiglio. Nel giro di due giorni starà meglio”. E l’anziana donna se ne andò.
Nessuno si ricordava di averla vista entrare né uscire; nemmeno la cameriera! Nessuno nel villaggio la conosceva, meno di tutti il parroco!Eppure…dopo due giorni la madre era guarita!
Re Gotofredo manifestò un’incredula, finta, felicità. Quella sera stessa Giovanni tornò sull’altura dove aveva conosciuto Palasina. Quando il buio fu fitto e la notte profonda, lei apparve. Non disse una sola parola, ma sorrise. Giovanni provò l’impulso di abbracciarla. Dopo un lungo indescrivibile bacio, Palasina lo prese per mano invitandolo a seguirla. “Ma devi chiudere gli occhi!”.
“Bene Giovanni, puoi riaprirli ora!”. Giovanni si ritrovò sulle sponde di un piccolo lago illuminato dalla luna che sembrava volentieri specchiarsi in quelle fredde e limpide acque appena increspate dal vento dei monti circostanti. Tutt’intorno pascoli e distese di fiori avvolti dalla luce argentea del plenilunio.
“Benvenuto nella mia dimora: questi piccoli laghi di montagna dove per fortuna non è ancora arrivata la follia di tuo padre. Benvenuto nel regno liquido di Palasina, principessa dei Nani, figlia di re Gorgoscuro.. che tra poco conoscerai! I laghi, per noi del piccolo mondo, sono vere e proprie porte, sono dei luoghi di passaggio e di comunicazione tra il mondo di sopra e il mondo di sotto. Ovviamente questi passaggi magici si aprono solo se noi lo vogliamo!”
Improvvisamente nel centro del lago si formò un vortice da cui uscì un uomo. O meglio, un Nano! Basso, certo, ma molto muscoloso e dall’aspetto autoritario. Il viso squadrato avvolto da lunghi e folti capelli e barba biondo-rame. Re Gorgoscuro era arrivato! Sul mantello la stessa fibbia in oro e ambra a forma di spirale.
I tre parlarono tutta la notte, una notte che sembrò non finire mai! Re Gorgoscuro dimostrò di conoscere assai bene il cuore di Giovanni e manifestò grande preoccupazione per la sorte della vallata. Occorreva privare re Gotofredo del potere. Giovanni, però, non voleva che morisse: bisognava che si pentisse. Ma come?
Fu così che re Gorgoscuro trovò una soluzione. ” Tuo padre potrà riprendere i lavori della torre sulla rocca ma sarà chiamato a rispettare alcune regole che un vecchio architetto saggio gli elencherà. Staremo a vedere…”
L’indomani Giovanni si svegliò nel suo letto, come se nulla fosse successo. Accanto a lui, sul cuscino, la fibbia a spirale… Giovanni ebbe la certezza di non aver sognato! Allo scoccare delle dodici, l’araldo annunciò a re Gotofredo l’arrivo di un capomastro che voleva parlargli. Il re convocò anche i suoi figli, Giovanni compreso.
Ma certo! Quei capelli, quella barba, quella voce… Era re Gorgoscuro sotto mentite spoglie! ” Re Gotofredo, grazie per avermi ricevuto. Mi è giunta voce che desiderate da tempo erigere una torre fortificata sulla vetta rocciosa che domina il fondovalle, ma che diversi incidenti ve l’hanno finora impedito. Bene, se ascolterete i miei suggerimenti, riuscirete a realizzare il vostro progetto!”.
“Ah, dite vecchio? E quanto mi costeranno i vostri consigli?”. Già con questa prima reazione, accompagnata dalle risate sguaiate dei quattro figli maggiori, re Gotofredo aveva cominciato male, molto male!
” Per prima cosa voi e i vostri quattro valorosi figli maggiori dovrete recarvi sulla rocca portando con voi tutti gli attrezzi, i materiali e il necessario per creare le fondamenta. Sappiate però che per prima cosa dovrete prosciugare uno stagno drenandone le acque verso i campi senza sprecarle ed evitando che le rane che vi vivono muoiano.
“Coooosa?! Voi siete pazzo! Io non mi sporco le mani in questi lavori da servo! Dirò ad altri di farlo!”. Intervenne Giovanni:” Padre, visto che finora coi metodi tradizionali, non vi siete riuscito, perché non tentare?”.
Re Gotofredo non parve convinto e i figli grandi non avevano nessuna voglia di faticare… Tuttavia il giorno successivo si misero in marcia come indicato, ma vollero che anche Giovanni andasse con loro! Una volta sul posto il re e i quattro figli maggiori iniziarono ad impartire ordini a Giovanni che, in silenzio, cercava di fare tutto ricordandosi però delle indicazioni del vecchio capomastro.
“Scava! Scava!”, gli urlava il padre, ” sono sicuro che quassù c’è l’ingresso alle miniere dei Nani! Quel vecchio di ieri sera non mi ha persuaso! Secondo me qui sotto da qualche parte c’è l’oro di queimaledetti!”. I fratelli iniziarono a scavare alla rinfusa, mossi solo dal desiderio di trovare l’imbocco delle miniere. Giovanni tentò più volte di fermarli e farli ragionare, ma fu inutile. La sommità della rocca era stata violata e scavata in ,aniera selvaggia! -Ignorarono anche lo stagno che venne sfondato e riempito di terra; le rane fuggirono, molte vennero persino uccise per gioco! Giovanni iniziò ad urlare, a piangere, ma i fratelli lo aggredirono.
Improvvisamente al centro della rocca si aprì un buco che presto si riempi d’acqua. L’acqua continuava ad aumentare e inghiottì re Gotofredo e i quattro figli sciagurati. Tutto tremava. Madre Natura si stava ribellando! Giovanni, spaventato, aspettava la sua fine.
Ma quella specie di terremoto finì. Giovanni aprì gli occhi e vide che tutto era tornato come prima. Anche lo stagno era di nuovo al suo posto e cinque grossi rospi gracidavano rumorosamente! “Ecco Giovanni, ti presento tuo padre e i tuoi fratelli!”. Giovanni so voltò e incrociò il sorriso della dolce Palasina.
La guardò interrogativo. “Sì, Giovanni, amore mio, quei cinque rospi sono proprio loro. Hanno ignorato le indicazioni di mio padre, anzi, peggio: volevano sventrare la montagna! Non meritano nulla! Non moriranno, ma vivranno in eterno da rospi! Forse da animali capiranno meglio il valore e l’importanza della natura!”.
Giovanni riconobbe che Palasina aveva ragione. La abbracciò e le dichiarò il suo eterno amore, ma… Palasina piangeva; comparve re Gorgoscuro che disse: “Giovanni, cuore d’oro, tu avrai per sempre l’aiuto del mio popolo e di quello della mia sposa Evanzia. Ma con rammarico non posso permettere che mia figlia sposi un umano: ciò non è consentito dalla nostra legge! Lei potrà starti vicino, in varie forme e modi, ma non potrete più vedervi così né diventare marito e moglie! Ora sarai tu a guidare gli uomini della vallata e potrai risollevarli dalla miseria riportando pace e armonia. Io stesso ti aiuterò! Solo fino alla prossima luna nuova potrai stare con Palasina, poi lei cesserà di apparirti.”
La decisione di re Gorgoscuro era inappellabile e Palasina lo sapeva. Nei giorni che rimasero, i due giovani erano sempre insieme. Spesso si rifugiavano sui laghi lassù, in alto, incastonati tra i monti. Giovanni si dimostrò un sovrano giusto e magnanimo, la valle presto tornò a fiorire. E la torre sulla rocca?
Giovanni non volle mettervi mano; andava quasi ogni giorno a vedere i rospi per accertarsi che stessero bene, ma lasciò il compito al suo primogenito: Ibleto.
Fu lui a costruire per primo la grande torre fortificata sulla cime dell’altura rocciosa a strapiombo sul fondovalle. Al centro del cortile interno fece creare un magnifico pozzo sul cui fondo, pare, sarebbe rimasto lo stagno coi rospi. Visto dall’aslto del magnifico scalone ad archi rampanti, dà quasi l’impressione di un vortice, simile al rincorrersi delle gallerie sotterranee. Quella fortezza, sobria ma raffinata, rispecchiava la sua personalità e le ultime volontà di suo padre Giovanni.
Ibleto ebbe sempre l’aiuto dei Nani e del popolo del fiume Evanzio. Ancora oggi nella valle i cantastorie narrano di quel giovane innamorato della principessa Palasina che, pare, gli diede comunque un figlio, il suo primogenito: Ibleto, che sin dalla nascita ha indossato una certa fibbia d’oro e d’ambra…
Si narra anche che, in certe notti di luna piena, affacciandosi sulla bocca del grande pozzo si oda gracidare e che, nelle stanze, si possa scorgere il profilo di una soave e splendida fanciulla, Palasina, la principessa dei Nani.
Protagonista di questo racconto è il castello di Verrès, ma non solo: protagonista è l’intera Valle di Ayas, con le sue leggende, le sue vette, i suoi laghi e, naturalmente, le sue miniere! Venite a scoprirla, in Valle d’Aosta!
Ringrazio anche stavolta l’amico Enrico Romanzi per la splendida immagine di copertina.
In quella fertile vallata solcata dal fiume e trapuntata di borghi, tutti vivevano felici e in prosperità.
Una felicità che, però, ad un certo punto infastidì il perfido Signore dei Ghiacci. L’eccessiva serenità degli uomini lo disturbava e alla fine si destò dal suo remoto eremo ghiacciato, in un luogo avvolto da miti e paure, lassù disperso tra le più alte vette dei monti, lassù dove mai nessuno aveva osato salire.
Il terribile Signore dei Ghiacci iniziò a scendere a valle, sempre di più, distruggendo gli alpeggi, i pascoli, le erbe ed i fiori; cristallizzando i boschi in un silenzio gelato ed impenetrabile. La sua lunga ed inesorabile discesa giunse fino nel fondovalle rivestendo i campi, i frutteti e le case di un freddo velo di ghiaccio.
Gli uomini, increduli e disorientati da quell’inverno improvviso ed inatteso, si videro costretti ben presto a vivere rinchiusi nelle loro dimore, accanto al fuoco. Dovettero interrompere il lavoro nei campi e gli armenti presto non ebbero più cibo e molti si ammalarono. Non appena qualcuno tentava di uscire e coltivare almeno un orto d’inverno con cavoli e porri, il freddo si faceva più pungente ed insopportabile.
Ma il Signore dei Ghiacci non era ancora soddisfatto e, prese le forme di un enorme drago bianco, si appollaiò su un promontorio di roccia allungato nel fiume, un passaggio cruciale del fondovalle, da dove avrebbe potuto controllare meglio i movimenti degli uomini.
Su quell’altura rocciosa egli si creò un antro, simile alla bocca di un vulcano, nel quale si ritirava durante il giorno per poi uscirne col favore delle tenebre.
Da quando la Bestia si era trasferita vicino ai borghi, ogni notte era sempre più scura; persino la luna e le stelle ne avevano paura.
L’enorme drago bianco, con un raccapricciante e sordo boato, scuoteva le viscere della terra e, dispiegando le sue immense ali d’argento si alzava in volo dalla sua rocca e volava sulla vallata sputando lame di ghiaccio e vortici di neve.
Molti prodi cavalieri e manipoli di uomini avevano tentato di ucciderlo, salendo fino alla sua tana per coglierlo in fallo. Ma, ahimé, nessuno di loro aveva mai più fatto ritorno.
Ad un certo momento, però, il drago annoiato si stufò di perseguitare gli uomini e decise di scendere negli abissi della montagna per dormire un po’, lasciando su di loro l’incantesimo della neve e del freddo eterno.
In quel periodo qualche viaggiatore aveva ricominciato a muoversi, seppur con estrema cautela. Ma nessuno, nessuno osava più salire su quella rocca rivestita di ghiaccio tanta era la paura che la bestia se ne accorgesse e si risvegliasse.
Finché una sera non capitò alla locanda del villaggio un personaggio strano, molto particolare. Arrivava d’Oltralpe ed era riuscito a transitare con una compagnia di mercanti di formaggi dal Col del Nivolet. Mentre si riscaldava mangiando una ciotola di zuppa fumante, non poté fare a meno di ascoltare i suoi vicini di tavolo. Parlavano concitatamente di un drago spaventoso, di decine di cavalieri e prodi guerrieri morti sbranati, di giovani fanciulle ingoiate e di centinaia di vacche e pecore inghiottite da questo mostro orribile ed invincibile.
Lo straniero prima di ritirarsi nella sua camera chiese maggiori informazioni all’oste che, impallidito di colpo, aveva persino paura di parlarne e si rifiutò di soddisfare le sue richieste.
Mentre saliva la scala, però, venne fermato da una ragazza, la figlia dell’oste. Bellissima, dai lunghi capelli neri e dal viso diafano in cui splendevano due grandi gemme scure e profonde, impreziosite da ciglia di velluto. La ragazza prese da parte il giovane e curioso ospite straniero e gli raccontò tutta la storia del drago di ghiaccio, impossibile da stanare e sconfiggere, e lo invitò ad andarsene appena possibile e lasciare quelle terre sventurate.
Lo straniero, che rispondeva al nome di Jacques, ascoltò con grande attenzione le parole della fanciulla, di cui peraltro credeva di essersi innamorato al primo istante e, una volta in camera, si affacciò alla finestra per studiare la zona. Da lì infatti poteva vedere quell’altura maledetta e il fiume sottostante. Il giorno dopo, con la luce, si aggirò nei dintorni e cercò di capire da che parte si poteva salire in cima col minor rischio di caduta e restando sottovento affinché la bestia non percepisse odori umani troppo vicini.
Nell’arco di 3 giorni elaborò un piano e andò per i villaggi a cercare alleati e complici. Certo non fu semplice, ma con la promessa di un cospicuo pagamento, riuscì a reperirne una decina.
Ma chi era questo Jacques? Era forse un misterioso cavaliere? Un principe? Un valoroso condottiero? O forse un mago?
Niente di tutto ciò! Jacques era… un capomastro! Sì, avete capito bene: era un abile muratore, anzi, molto di più, potremmo dire un architetto. Colto, intelligente ed astuto, Jacques illustrò alla sua squadra un progetto che lasciò tutti increduli e senza parole.
Durante il giorno riuscirono a salire sull’altura e ad erigere, tutt’intorno alla voragine ghiacciata, il basamento di una torre circolare. E già questo era un sorprendente elemento di novità perché nella vallata erano abituati a torri quadrate, di foggia diversa.
Jacques era rapido e preciso, e con notevole perizia riuscì a guidare i suoi uomini che, nell’arco di appena una settimana costruirono quella torre insolita avvalendosi di artifici e marchingegni che mai prima di allora avevano visto.
Nei villaggi intanto la notizia si era diffusa, rimbalzando di bocca in bocca sempre più ricca di dettagli impressionanti. Tutti credevano che Jacques, quello strano giovane dai capelli rossi, fosse completamente pazzo!
Solo lei, la figlia dell’oste, sapeva che quel piano avrebbe funzionato. Un piano frutto dell’ingegno e non della violenza non poteva fallire. Jacques sapeva che non gli sarebbe mai mancato il suo supporto.
Ed ecco giunse il momento di passare all’azione. Gli uomini, in piena notte, si recarono sul posto, accesero decine di grandi falò intorno alla bocca dell’abisso e vi gettarono dentro braci e torce.
La pioggia di fuoco e il calore improvviso, uniti all’assordante strepito degli uomini, risvegliarono il grande drago bianco. Un rumore sordo, profondo e minaccioso, salì dalle viscere della roccia e scosse la vallata.
Ad un certo punto un abbagliante chiarore argenteo si levò dalla voragine; una luce bianca e tagliente, accompagnata da vortici di neve e raffiche d’aria ghiacciata che risalivano nel volume cilindrico della torre. Gli uomini volevano fuggire, e qualcuno di fatto lo fece, ma Jacques disse loro di non muoversi e di osservare con attenzione.
Il drago infine si mosse. Il suo fiato gelido e le sue strida iniziarono a riempire l’aria. Ma non poteva sapere che il suo antro aveva l’accesso occupato da una torre. La belva era molto grossa e credette che, spingendo, l’avrebbe distrutta. Ma quella torre racchiudeva un segreto: mastro Jacques l’aveva concepita come una doppia elica e più il drago spingeva per salire, più l’artificio della torre a vite lo spingeva verso il basso.
La battaglia fu lunga; ci volle una notte intera prima che la bestia venne sconfitta e bloccata nelle più profonde cavità della montagna. Si narra che il suo possente dorso crestato continuò a spingere fino a che non si trasformò in roccia a contatto col calore del sole, tornato a splendere finalmente sulla valle, con forma simile a quella di mura merlate che dalla sommità si spingevano fin quasi a tuffarsi nel fiume.
Il drago di ghiaccio era stato sconfitto per sempre.
La festa nella vallata fu grande e si protrasse per giorni e notti. La natura era tornata a risplendere e dare frutti. Gli uomini erano di nuovo felici e avevano ripreso i loro lavori consueti.
Fu così che, una sera, Jacques e Maria, la figlia dell’oste, si dichiararono il loro reciproco amore e convolarono a nozze nell’antica chiesa del paese, “stranamente” mai toccata dal furore del drago.
L’impresa del giovane capomastro savoiardo ebbe immediata fama tanto al di qua che al di là delle Alpi. Jacques ricevette infine una chiamata molto importante: fu convocato addirittura dal re d’Inghilterra che gli commissionò numerose torri e castelli nella sua terra.
Jacques e la giovane sposa si trasferirono quindi in Gran Bretagna dove lui, noto come master James, inanellò un successo dietro l’altro,sia come valido architetto che come… dragon hunter!!
Questo che vi scrivo col cuore a mille è un post diverso dal solito. Non è un archeoracconto. E non è neppure un suggerimento di viaggio ispirato da qualcosa che ho fatto davvero. E’ uno sfogo, un urlo rappreso tra le sabbie di quel deserto oggi così martoriato. E’ un sogno, un desiderio: quello di visitare la Siria, magica ed antica terra dove l’uomo ha iniziato a lasciare le sue tracce sin dal periodo Paleolitico con la cultura detta “di Giabrud”.
Tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila ho viaggiato moltissimo nel Mediterraneo. Mi sono riempita gli occhi con le sontuose e possenti rovine di Leptis Magna, di Dougga e di Sabratha. Ho potuto salire gli scalini del teatro cretese di Gortyna. Mi sono emozionata tra i colonnati di Gerasa e persa tra le enigmatiche tombe rupestri di Petra. E ancora la Turchia, con le sue scenografiche città terrazzate e i paesaggi struggenti di millenaria bellezza. Ma per varie ragioni non son mai riuscita a fare un viaggio in Siria, cosa che invece avrei sempre voluto.
Una terra strategica, porta d’accesso per il deserto d’Arabia ma anche per le importanti vie carovaniere che si spingevano verso Oriente con carovane cariche di spezie, tessuti preziosi, gioielli e profumi. Città carovaniere ammantate di fascino come Palmira, la splendida sposa del deserto, che diede i natali a cotanta regina: Zenobia la straordinariamente bella, colta e coraggiosa sovrana, moglie di Odenato, che osò sfidare la potenza di Roma.
Palmira, un nome che trasuda poesia, una sorta di lontana armonia d’Oriente riecheggiata dai venti e dalle fluide dune del deserto. Quella platea, cioé quella lunghissima via colonnata al cui centro si apre, come un respiro, la famosa piazza ovale con arco tetrapilo (distrutto!) e con quell’originale, inusuale, esotico arco di snodo a pianta triangolare! E quel gioiello che era (purtroppo dobbiamo usare l’imperfetto) il teatro, anch’esso distrutto!
Te la immagini, evanescente sogno di colonne e fregi arricciati, persa tra le atmosfere opalescenti dell’alba o accesa dalle luci infuocate del tramonto. Da sempre, sin dai tempi del liceo, un mio grande sogno.
Dicono sia un viaggio non semplice quello per Palmira; occorre dragare, nel senso letterale del termine, uno scomodo e sgradevole tratto di deserto ghiaioso e polveroso per raggiungere un bivio (che definirei drammatico): a sinistra Palmira, a destra Bagdad.
Un brivido, un timore che scorre sotto pelle anche standosene a casa… e si procede verso questa città fatata persa nella storia e minacciata dal più oscuro presente che a fatica si possa (sebbene non si voglia) immaginare. Palmira, simbolo di un Paese, di un popolo.
Dicono che all’alba il sole sembri levarsi più lentamente del solito su questi resti carichi di magia, quasi a volerli vedere più da vicino, a volerli accarezzare con la sua luce rosea e dorata, quasi a voler lui per primo, ogni giorno, assistere a questo spettacolo color ocra ritagliato contro un cielo che da lilla si fa blu e poi ancora più blu, come i lapislazuli che adornavano le dame palmirene.
Credo che aver visto Gerasa (oggi in Giordania) in parte mi aiuti. Mi aiuti a ritrovare quei colori, quei profumi, quelle sfumature… ma anche quelle persone: i venditori di acqua, di thè aromatizzato al cardamomo, di tappeti e di kefiah. Quei volti di donne dai profondi occhi scuri ammantate in colori sgargianti che fugacemente mostrano denti bianchissimi aprendosi in un sorriso di saluto e di benvenuto. Quei visetti sempre un pò arruffati di dolcissimi bimbi dagli immensi occhi neri, felici di farsi scattare una foto e ricevere una caramella o un chewing-gum o magari, perché no, qualche moneta… Vivo il ricordo di una bimba che all’epoca avrà avuto suppergiù 3 anni, dal profilo dolce, le lunghe ciglia nere, protetta da un cappellino rosa con la visiera che la faceva sembrare una bambola di porcellana brunita… Lei era felice e serena; giocava coi ninnoli che la madre proponeva ai turisti e ci fissava curiosa. Vorrei che anche oggi tutti i bimbi di Siria fossero come era lei quel pomeriggio: felici, sereni e curiosi, non travolti da un orrore indescrivibile troppo più grande di loro…
Dichiarata patrimonio dell’Umanità nel 1980, oggi vituperata e violentata come la sua stessa gente. Una terra dove oggi, ahimé, le stelle stesse si nascondono, la luna stessa si nasconde, per fuggire all’incubo. Ma è una terra fiera, resa nei secoli potente dalla sua geografia e dalla sua storia, culla dell’umanità neolitica europea, culla delle prime civiltà di villaggio e dell’idea stessa di città se pensiamo a siti come Ugarit e Tell Ramad, o come Hama sull’Oronte. Per non parlare di Ebla, città egemone dal punto di vista economico e culturale sin dall’Età del Bronzo. Città in perenne bilico tra difficili e fragili equilibri fra le diverse potenze mesopotamiche, ambita da potenze straniere, ma sempre rialzatasi e nuovamente arricchitasi.
La poderosa fortezza di Dura Europos, fondata da Seleuco I Nicatore sui resti di un preesistente insediamento semitico, “padre” della dinastia dei raffinati sovrani Seleucidi in posizione dominante sulla riva destra dell’Eufrate. E se pensate che proprio qui è stata identificata una delle primissime chiese cristiane (!!), datata alla metà del III secolo d.C. Una città piazzaforte, baluardo strategico contro i temibili e temuti Parti, ma che vide nel 165 d.C. la vittoria trionfante dell’imperatore Lucio Vero. Siamo su una linea di frontiera, di presidio delicatissimo; un presidio sempre presente ma mimetizzato tra le sabbie e tra le sinuosità di una raffinata sequenza di fortezze e punti di avvistamento basata sulla mobilità delle truppe, delle merci e dei mercanti. Strade quasi a volte impercettibili, ma stabili e conosciute. Percorsi camaleontici ma battuti. Non certo una “muraglia cinese”, ma un limes fluido ed elastico, ancor più di quello africano, fatto di veri e propri fasci di strade ritagliate tra le oasi e le ingannevoli dune.
I Seleucidi. Una potenza ellenistica che, dopo periodi di straordinaria ricchezza e dopo aver fondato decine di floride colonie tra cui citerei Antiochia sull’Oronte, Apamea e Laodicea, si sono dedicati a rendere prestigiosa, elegante e raffinata questa terra. Un’attività edilizia irrefrenabile, costosa e monumentale; commerci fiorenti. Templi grandiosi. Puro spettacolo. Finché giunsero all’inevitabile scontro con Roma che si risolse con la sconfitta subita da Antioco III da parte di Lucio e Publio Cornelio Scipione prima alle Termopili e poi a Magnesia sul Sipilo nel 189 a.C.La Siria divenne provincia imperiale romana.
E quella che i Seleucidi chiamarono Beroea e che noi oggi conosciamo come Aleppo, antica e fulgida “capitale del nord”, non lontana dal confine con la Turchia. Una delle città più antiche del mondo, abitata ininterrottamente dall’XI secolo a.C. e dichiarata Patrimonio dell’UNESCO dal 1986. Un territorio da sempre strategico, a metà strada tra il mare e l’Eufrate; un centro da sempre cosmopolita in quanto città carovaniera dove si incrociavano mercanti e milizie provenienti da ogni angolo del Mediterraneo così come dalle più remote terre d’Oriente. Una città gioiello, in filigrana di pietra grigia, oggi quasi del tutto rasa al suolo da una furia cieca e senza scrupoli.
Vorrei citare un passo delle memorie di viaggio redatte dallo storico dell’arte Cesare Brandi (1906-1988) e apparso per la prima volta nel volume “Città del deserto” del 1958:
“Su quella vegetazione contenuta ma violenta, il cielo si tendeva come gonfiato dal vento. La città assurda e straordinaria, che godé di una potenza quasi inconcepibile – arrivò sino all’Egitto – era riapparsa, porto asciutto di sabbia per le dondolanti navicelle dei cammelli, emporio di merci lontane. Tutto il panorama, nel suo perimetro antico, s’abbracciava con un’occhiata, il Tempio di Bel, e la Via colonnata, l’Agorà, il Teatro: tutto era chiaro come in un plastico, e invece stava sotto gli occhi nella sua realtà e per un’estensione che non si riusciva a definire, perché non c’era una misura reciproca fra i monti e le colonne.”
E quindi? Cos’è questo post? Un viaggio impossibile? No! Un viaggio che si auspica sia di nuovo fattibile e che questa terra magnifica torni a risplendere nel ricordo del suo glorioso passato e in omaggio a Khaled Asaad, eroico direttore del sito archeologico di Palmira che per non rivelare i luoghi in cui aveva nascosto i reperti più preziosi è stato barbaramente ammazzato. Per lui è stato chiesto il Nobel.
Un viaggio che tutti potremo fare quando finalmente le stelle torneranno a sorridere da dietro la cortina di polvere che le ha oscurate. Quando quei bimbi innocenti torneranno a guardare il mondo sereni e curiosi e, coi visetti puliti e sorridenti, potranno diventare adulti con la voglia di cambiare il mondo!
Ricordo benissimo quella notte. Era pieno inverno, il vento soffiava a raffiche e portava con sé una strana sabbia di ghiaccio che rapidamente si depositava su ogni cosa accentuando l’ovattato silenzio delle ore del riposo.
Il terziere di Sant’Orso dormiva nel buio; tutti rintanati nelle case per ripararsi dal gelo di quest’ultima lunghissima notte di gennaio. Un’atmosfera sospesa, una quiete quasi surreale dopo due giorni di mercato e di festa.
Il monastero era pronto per festeggiare all’indomani, 1 febbraio, il suo santo protettore: Orso.
A quell’epoca ero giovane, un adolescente; mio padre, potente nobile della Valle, mi aveva indirizzato sin da bambino alla carriera ecclesiastica. Ma ammetto di essere sempre stato una testa calda: spesso insorgevo, rifuggivo le ore del lavoro e talvolta arrivavo tardi sia a messa che allo scriptorium…per non parlare delle innumerevoli volte in cui avevo tentato la fuga! Dopo l’ennesimo rimprovero, il priore aveva deciso di punirmi obbligandomi a trascorrere queste gelide notti nella guardiola insieme ad un confratello più anziano. Erano gli anziani, infatti, solitamente ad occuparsi dell’eventuale accoglienza di mendicanti e pellegrini così come delle prime cure per i neonati abbandonati sul sagrato della chiesa. Questo perché noi novizi eravamo ritenuti più fragili e vulnerabili davanti alle insidie provenienti dal contatto precoce col mondo esterno.
D’accordo, però se quella notte non ci fossi stato io… fratello Deodatus si era addormentato durante il nostro Rosario e c’erano voluti un paio di scossoni per destarlo dal suo cantilenante russare. La campanella aveva già suonato 3 volte: evidentemente là fuori, oltre le mura del convento, qualcuno aveva bisogno di aiuto!
Fratello Deodatus corre alla porta. Lo spiffero di aria gelata arriva a lambire i miei polpacci. Sento un breve dialogo tra i due. Rientra in compagnia di un uomo molto alto, completamente coperto da un pesante mantello da viaggio. Il viandante era assai affaticato e lamentava un dolore insopportabile alla gamba destra; si appoggiava ad un bastone leggermente ricurvo che, in un certo senso, poteva quasi ricordare il lituo del vescovo. Poche parole ma mi sono bastate per notare un accento insolito; parlava latino correttamente, questo sì, ma il suo accento… mi era del tutto nuovo!
Lo accompagniamo vicino al focolare. Lo straniero si scopre la testa, si passa stancamente una mano sul viso indurito dal freddo. Poi mi guarda. Quegli occhi… quegli occhi non li dimenticherò mai. Due occhi lunghi e affilati di un colore indefinibile: o meglio, un azzurro ghiaccio che, a seconda di come la luce li colpiva, brillavano di strani riflessi color lavanda. Un paio di spesse sopracciglia rosse ne accentuavano l’espressione burbera ma buona allo stesso tempo. La fronte alta, ma non stempiato. Capelli fulvi leggermente lunghi gli ricadevano ai lati delle orecchie fino a sfiorargli il collo.
“Grazie miei cari fratelli! Non so come avrei fatto se non avessi trovato questo monastero. Sto compiendo un lungo viaggio di ritorno da Roma. Sono diretto a casa, al nord, molto… molto lontano da qui! La mia strada è ancora lunga e purtroppo la mia gamba duole moltissimo. Avrei necessità di riposare un po’ presso di voi… e che Dio nostro Signore vi benedica!”.
Io avrei voluto fargli decine di domande, ma fratello Deodatus mi fece cenno di zittirmi. Non era il momento. Il pellegrino aveva bisogno di dormire e rifocillarsi. Con calma l’indomani ci sarebbe stato tempo per le presentazioni dettagliate.
Il giorno seguente il priore convocò tutti nella sala capitolare subito dopo le preghiere del mattino. “Cari confratelli, con grande piacere vi presento il nostro ospite giunto ieri da Roma. Padre Ardagh, del prestigioso ed antico monastero di Clonard, nella verde terra di Hibernia, anche detta Scotia. Raffinatissimo miniaturista, padre Ardagh si fermerà da noi alcuni giorni in modo da rimettersi dalle fatiche sin qui accumulate. Quindi riprenderà il viaggio verso la sua casa madre. Oggi festeggerà con noi il nostro santo patrono Orso”.
Padre Ardagh mi stette subito simpatico. Avevo voglia di conoscerlo meglio e chiedergli tante cose…sulle sue origini, sulla sua terra, su Roma… Cercavo di stargli attaccato come un cagnolino. Veniva anche lui allo scriptorium; aveva voluto vedere la nostra biblioteca, sfogliare i volumi, analizzare i codici…
Io ero un discepolo; stavo imparando l’arte dell’amanuense, ma devo dire che mi è sempre piaciuto di più il disegno rispetto alla scrittura. E’ tuttavia pur vero che l’arte della miniatura aiuta la bella grafia, bisogna imparare a rendere i capolettera come dei piccoli capolavori artistici, come fossero dei camei figurati incastonati all’inizio del testo.
Ero appena un neofita, oltre che un novizio… ma volevo impegnarmi. Padre Ardagh si accorse di questa mia inclinazione e mi prese sotto la sua ala. Io temevo il giorno in cui la sua gamba sarebbe guarita consentendogli di rimettersi in cammino. Avevo addirittura pensato di chiedergli di portarmi con sé…anche se immaginavo con orrore l’ira di mio padre!
Padre Ardagh aveva un carisma fuori dal comune. In breve tempo era riuscito ad accattivarsi la simpatia, l’affetto, la stima di tutti i confratelli. Collaborava in tutte le attività del monastero, anche quelle nel giardino (dove un paio di volte l’ho trovato intento a dialogare persino con gli uccellini!). Mai si tirava indietro e per noi era diventato un esempio.
Sotto la sua guida ero nettamente migliorato; anche sotto l’aspetto della condotta! Il Priore era felicissimo di tutto questo e mio padre assolutamente orgoglioso! Mi ero appassionato allo studio, alla lettura e stavo piano piano impratichendomi con la miniatura.
Padre Ardagh mi aveva mostrato i suoi lavori: erano splendidi! Veri capolavori di arte insulare della sua terra “presa direttamente dal patrimonio figurativo dell’antica gente celtica”, mi ripeteva lui. Racemi intrecciati, fiori, foglie, gemme… un trionfo di motivi vegetali che creavano dei giochi ottici tanto da ricordare persino forme animali! Ma non solo… padre Ardagh aveva una mano fantastica anche nelle raffigurazioni di scene delle Scritture. Quei capolettera erano “letteralmente” cesellati! I volumi parevano istoriati, quasi delle piccole sculture!
I giorni trascorsero velocemente, anche troppo… Padre Ardagh doveva riprendere il suo viaggio. Ero triste, affranto, un senso di abbandono si stava impossessando di me! Per me lui era stato più padre di mio padre…
Prima di partire volle farmi un dono: ” tieni mio giovane Arnolfo, nobile come un’aquila e forte come un lupo, così come recita il tuo stesso nome di radice germanica. Ti lascio questo codice. Io vi ho scritto i testi e ho imbastito le miniature. Ma tu dovrai completarlo e rifinirlo in base agli insegnamenti che ti ho impartito. Quando sarà finito, in quello stesso giorno io tornerò da te qui ad Augusta”.
Misericordia! Quel codice era impressionante tanto era spesso e pesante! Mi ci sarebbe voluta tutta la vita per terminarlo… non avrei mai più rivisto Padre Ardagh, se non nella grazia di Dio.
Passarono giorni, settimane, mesi, anni, lustri. E le diverse missive inviate al convento di Clonard non avevano mai ricevuto risposta.
Il giovane Arnolfo divenne un uomo colto e raffinato, di solida dottrina e gran temperamento. Un uomo dotato di elevata intelligenza non priva di sensibilità, acuto ma giusto in politica, abile nella gestione degli affari del monastero, fine consigliere per i confratelli, illuminato teologo. Grande la sua passione per Sant’Agostino di cui leggeva e rileggeva, spiegava e rispiegava i passi salienti de “La Città di Dio”.
Nemmeno per un solo giorno aveva tralasciato il lavoro sul codice di padre Ardagh. Quello era un pò il suo momento privato. Pagina dopo pagina era riuscito a decifrare le scritture dell’amico e aveva quasi completato le illustrazioni. Si trattava di una sorta di “convento ideale”, di comunità di uomini legati dalla stessa fede e dagli stessi obiettivi.
La parte più difficile ed oscura era quella che stava affrontando ora: un intreccio enigmatico, quasi un rebus in cui disposizioni architettoniche, artistiche e letterarie si mescolavano nell’intento di delineare un luogo particolare. Sacre Scritture e antiche favole greche miste ad animali fantastici e leggende. Indicazioni topografiche, orientamenti, punti cardinali, percorsi, sensi di lettura.
“Riuscirò mai a dare un senso a tutto ciò?”, si chiese perplesso Arnolfo. Non sapeva che la soluzione non avrebbe tardato…
Alla fine capì. Sebbene non tutto il lavoro fosse ancora giunto a termine.
Nei capitoli che avevano richiesto maggiore impegno, padre Ardagh descriveva il suo chiostro ideale, un chiostro dove vivere, meditare, pregare, invocare la vittoria del Dio della Luce sulle tenebre. Il Sole della fede che combatte le ombre del male, lo stesso tema che Arnolfo chiese venisse rappresentato all’interno della chiesa in un grande ed emblematico mosaico al cui centro avrebbe dovuto troneggiare Sansone, il cui nome racchiude la parola ebraica “sole” e i cui lunghi capelli avrebbero simboleggiato i raggi, intento a lottare contro una fiera obbligandola a guardare verso l’alto, verso Dio.
Riga dopo riga, parola dopo parola, Arnolfo comprese: Ardagh aveva illustrato un vero e proprio programma didattico ed iconografico e lui decise che lo avrebbe concretizzato! Non sapeva quando, ma presto ne avrebbe avuto l’occasione…
Nel giro di pochi mesi Arnolfo venne nominato priore. Tra le sue prime iniziative vi fu il voler abbracciare e proporre ai suoi confratelli l’abbandono della vita secolare a favore dellaregola di Sant’Agostino. E anche questo obiettivo venne raggiunto, nel giubilo generale, nell’anno del Signore 1133 dall’Annunciazione alla Vergine (anno 1132 dalla Natività).
La comunità si ingrandì e perciò anche il convento necessitava di nuovi spazi tra cui, non a caso, un chiostro, il vero cuore dell’intero complesso ursino, uno spazio fondamentale per le necessità della vita claustrale. Si scelse il lato sud della chiesa, quello meglio esposto al sole; qui prima non c’era mai stato nulla, ma l’area era esigua e perciò fu necessario eliminare tre contrafforti della chiesa voluta precedentemente dal vescovo Anselmo. La forma sarebbe stata rettangolare, ma non perfettamente regolare in quanto si rivelava necessario assecondare alcune preesistenze che andavano legate al nuovo chiostro, tra cui anche la biblioteca e lo scriptorium. Al centro ci sarebbe stato un pozzo, l’acqua, simbolo di purezza, di vita, di rigenerazione. Ogni elemento, ogni particolarità, ogni dettaglio descritto nell’oscuro testo di padre Ardagh doveva essere riprodotto.
Arnolfo chiamò i migliori maestri lapicidi di Provenza e Lombardia, addirittura un noto magister iberico, tale Petrus, che si misero immediatamente all’opera. Il nuovo priore volle seguire personalmente la scelta dei marmi che richiese fossero di varie tessiture e sfumature, così come di diverse forme dovevano essere i capitelli. Tutto doveva rispecchiare l’armonia e l’equilibrio. Le scene raffigurate avrebbero dovuto richiamarsi, specularmente, simili nel messaggio seppur diverse nei personaggi, sui lati nord e sud, entrambi da fruire procedendo da est verso ovest, ab solis ortu usque ad occasum, seguendo il naturale ritmo del sole con direzione antioraria, quindi in armonia col moto sempiterno delle sfere celesti, allo stesso modo in cui gli antichi Romani fondavano le città.
La galleria nord
Arnolfo stabilì che si cominciasse dal lato nord, quello attaccato alla chiesa e meglio illuminato dal sole. Quello in cui dovevano prevalere le figure sulle epigrafi. Il lato settentrionale avrebbe raccontato per immagini l’origine dell’uomo e il peccato originale, la rinuncia al paganesimo e l’avvento del Salvatore con scene dell’Annunciazione, dell’Incarnazione e della Santa Natività fino all’annuncio ai pastori e ai Magi d’Oriente per poi approdare al tragico episodio della strage voluta da Erode. Il racconto sarebbe continuato con la fuga in Egitto, posta in corrispondenza del varco verso l’area centrale. Si sarebbe quindi proseguito col martirio di Stefano, primo testimone della vera fede ucciso a colpi di pietre, di cui il convento custodiva anche due sacre reliquie.
La raffigurazione avrebbe inoltre previsto una scena di quotidianità monastica dominata da una grande ruota di pozzo: il mandatum, ossia la lavanda dei piedi che veniva praticata il sabato pomeriggio a voler ricordare lo spirito di umiltà e di servizio. Era infatti questo un rito cui Arnolfo teneva moltissimo e che veniva regolarmente eseguito.
Non sarebbe inoltre dovuto mancare un capitello dedicato alla nota favola della volpe con la cicogna, emblematica per insegnare che “chi la fa, l’aspetti”. Un primo velato riferimento ad un annoso dissidio con i confratelli del Capitolo della Cattedrale. Chissà come aveva fatto padre Ardagh ad individuare la favola più adatta… mah… quell’uomo era ammantato da un alone di mistero difficile da definire. Quegli occhi sapevano vedere sempre oltre, in dimensioni che le umane facoltà spesso trascuravano o addirittura ignoravano. Un grande uomo.
E neppure dovevano mancare capitelli occupati da specie vegetali, frutti o animali di fantasia, solo in apparenza meramente figurativi ed esornativi, ma in realtà densi di significati tutti da scoprire. Occorrerà saper guardare oltre le apparenze perché i fiori e i frutti scelti non sono casuali. Arnolfo, ad esempio, aveva in mente il fico: se produce solo foglie senza frutti, per quanto siano queste belle e grandi, allora è un fico cattivo e bisogna guardarsene!
Giunti all’estremità ovest Arnolfo avrebbe voluto un capitello dedicato ad esseri per metà uomini (sia imberbi che barbati) e per metà aquile: un invito ai suoi monaci a comportarsi come le aquile, ossia a saper guardare verso il cielo, verso Dio, grazie allo studio e alla preghiera.
Ma c’era un “problema”, o meglio una sorta di inspiegabile assenza. Nel codice non era stata considerata la decorazione destinata al grande pilastro dell’angolo nord-est. Arnolfo aveva capito che l’ingresso al chiostro avrebbe dovuto effettuarsi da quel punto, sempre in armonia col moto celeste e solare, ma si chiedeva come mai padre Ardagh non avesse dato indicazioni sul tema da raffigurare in un punto così significativo ed importante. Eppure non vi erano lacune nel testo. Lo aveva letto e riletto con estrema attenzione. Forse una dimenticanza? Davvero strano! Forse un addendum alla fine del codice? E perché mai? Ad ogni modo i lavori dovevano iniziare. Arnolfo condivise le tematiche coi maestri lapicidi e con le maestranze tralasciando temporaneamente la questione del pilastro angolare. Che lo tenessero grezzo per il momento, ci sarebbero tornati in seguito.
Il cantiere prese vita. Un brulichio di operai, manovali, mastri carpentieri per le capriate di copertura, scultori, scalpellini, marmisti… era tutto un “via vai”. Arnolfo era decisamente soddisfatto. Di notte, anziché riposare, continuava nel suo lavoro di decodifica e decorazione miniata del codice di Ardagh.
Alcune notti dopo, durante questo appassionante ma sfiancante lavoro, Arnolfo si accorse di aver terminato un colore importante, il blu, quello ottenuto dalla preziosa polvere dei lapislazzuli e che veniva usato in gran quantità per il manto della Vergine e per la sopravveste del Cristo, simbolo di nobiltà spirituale e trascendenza. Arnolfo decise di trasferirsi nello scriptorium dove erano conservate le scorte di pigmenti utili ai miniaturisti. Lavorò con estrema concentrazione per tutta la notte. Non andò nemmeno a riposare, ma dallo scriptorium si portò direttamente in chiesa per le prime preghiere dell’alba.
Assediato dai diversi magistri e preso dalle incombenze che il suo ruolo gli imponeva, Arnolfo non si accorse nemmeno del tempo che passava fino a che…
“Accorrete! Accorrete! Aiuto! Al fuoco, al fuoco!!! Lo scriptorium!!! Presto, sta bruciando tutto!!”…
“Acqua! Presto, portate acqua!!”. L’intero convento era in subbuglio. Anzi, l’intero borgo di Porta Sant’Orso. Tutti accorrevano per aiutare a domare le fiamme; un fumo nero avvolgeva ogni cosa e intossicava gli uomini. Arnolfo non ci pensò due volte. Corse immediatamente allo scriptorium; alcuni confratelli tentarono di fermarlo, di impedirgli di gettarsi in quel vero e proprio inferno, ma non vi fu nulla da fare. Facendo appello a tutte le sue forze e al suo coraggio, Arnolfo si rovesciò un mastello d’acqua addosso e si infilò in quelle mura fiammeggianti. “Il codice! Mio Signore, ti prego, fa che si sia salvato! Non posso perdere quel codice!!”. Le fiamme, il calore, il fumo. Poi, più nulla.
“Priore! Priore! Nobile Arnolfo, dove siete?!!”. L’incendio era stato finalmente arginato, ma di Arnolfo pareva non esservi più traccia… I confratelli e gli operai cercavano spasmodicamente in mezzo alle macerie, alle travi crollate, al fumo persistente.
Ad un certo punto qualcuno nota un lembo di tonaca, un piede… Arnolfo! “Eccolo! Presto, aiutatemi a tirarlo fuori!!”. Subito tutti si adoperarono per sollevare quel pesante armadio che si era abbattuto su Arnolfo-. Il priore era privo di sensi, ferito e contuso; lo portarono in infermeria dove venne immediatamente sottoposto alle cure del cerusico e dell’erborista.
Sospeso in uno stato di morte apparente, sprofondato in un sonno imperturbabile, l’unico segnale di vita era quel lento alzarsi ed abbassarsi del petto che lasciava capire che il priore era ancora in vita. Per quanto debole, quel respiro lasciava ben sperare.
“Non temere Arnolfo, sono qui accanto a te! Non ti abbandonerò. Insieme dobbiamo portare a termine la nostra missione. Presto starai meglio. Non perdere tempo. Guarda a sud, Arnolfo. E non dimenticarti della direzione del sole. Una serie di antichi sapienti saprà parlarti. I loro insegnamenti andranno scolpiti nel marmo. E i gemelli, Arnolfo. Nati dallo stesso grembo, eppur così diversi. Là dove il sole scompare, l’albero di Israele si sdoppierà; due gemelli, una moltitudine di fratelli. Prima l’odio, poi la pace. Guarda nella notte. Con gli occhi penetra le tenebre, Arnolfo. La luce di Dio ti accompagnerà”.
“Padre Ardagh! Padre Ardagh!!”. Arnolfo dopo tre giorni si risvegliò di soprassalto facendo sobbalzare il confratello che lo assisteva. “Presto, dobbiamo proseguire i lavori! Presto… e, e il mio codice… dov’è il mio codice?!!”.
Arnolfo guardò interrogativo il giovane confratello accanto a lui. Strano, non lo aveva mai visto… forse non lo aveva notato; forse era il giovane novizio giunto dalla Tarantasia… Il monaco lo fissò. Quegli occhi… una strana sensazione pervase Arnolfo facendolo rabbrividire. Quegli occhi, quell’azzurro… no, non è possibile. Il novizio gli porse un fagotto: “Cercate questo mio nobile priore? Lo tenevate stretto sotto la vostra veste.”
Arnolfo, tra l’incredulo e l’euforico, afferrò quel fagotto avvolto nella stoffa e lo aprì. “Il codice!”. Fortunatamente si era danneggiato solo in parte… Quelli che aveva sofferto maggiormente erano i capitoli finali. Molte pagine erano annerite e parzialmente bruciate. Illeggibili. Perdute. Alzò lo sguardo verso il novizio per ringraziarlo, ma il ragazzo non c’era più. Non lo aveva neppure sentito uscire… mah, che strano! Lo avrebbe cercato più tardi.
Tuttavia non si perse d’animo. Riprese il lavoro con ancor più passione di prima. Le rovine dell’incendio erano state rimosse in breve tempo. In fin dei conti la biblioteca si era salvata e lo scriptorium aveva subito danni risolvibili. Nuovi banchi, nuovi leggii, nuovi scaffali: i carpentieri erano già stati allertati. Così come aveva già provveduto ad ordinare una nuova fornitura di pigmenti e foglia d’oro.
Il Signore aveva voluto salvarlo. E le sue vesti zuppe d’acqua avevano in buona parte protetto il codice: il tavolo sul quale lo aveva lasciato era stato appena lambito dalle fiamme, l’unico… Quasi un miracolo!
Dopo alcuni giorni di studio e ricerca, messe insieme le notizie del codice ancora leggibili e le sue conoscenze, il priore convocò il capo cantiere. I lavori di decorazione del colonnato sud dovevano tassativamente partire.
La galleria sud
Anche qui avrebbero dovuto cominciare da est con la menzione della data di inizio della vita regolare: “ANNO AB INCARNATIONE DOMINI MCXXXIII IN HOC CLAUSTRO REGULARIS VITA INCEPTA EST“. “Ricordati… la direzione del sole…”.
Subito dopo doveva esserci la raffigurazione dei protagonisti dell’avvio della nuova vita claustrale: Sant’Agostino, i SS Pietro e Orso, il primo priore Arnolfo (reso con dimensioni inferiori) e infine il vescovo Erberto.
A seguire due capitelli avrebbero ricordato la missione dei monaci attraverso figure significative di apostoli (spicca la figura di S. Andrea, assai venerato a Sant’Orso) e pie donne (Marta e Maria).
Poi Arnolfo volle un capitello interamente dedicato al patrono Orso ispirato alle tradizioni locali (del resto le uniche conosciute ai più) e raffigurante i momenti più salienti della sua vita: la carità verso i poveri, il miracolo della fonte, l’episodio del servitore del perfido vescovo Ploceano e infine la morte di quest’ultimo. Volle inoltre far rappresentare la malvagità di Ploceano attraverso una strana mitra a due corni, quasi fosse una sorta di diavolo, unita ad un volto dai tratti ferini. Arnolfo inoltre stabilì che questo capitello fosse davvero speciale grazie ad un particolare artificio idraulico. I lapicidi, infatti, dovevano lasciarlo cavo e creare un foro in corrispondenza della “fons Sancti Ursi“, ovvero la miracolosa sorgente di Busseyaz, così da poter riempire d’acqua il capitello e rendere ancor più realistico il miracolo del Santo.
Da questo punto in poi, procedendo verso ovest, dovevaprendere avvio una ricca sequenza di profeti: i quattro maggiori, i dodici minori e in più i quattro detti “anteriori”: Mosè, Balaam, Natan ed Elia, ognuno recante un rotolo con il motto del proprio libro. “Una serie di antichi sapienti saprà parlarti…”.
Una scelta assai colta quella di Arnolfo che inoltre volle, ispirato dal codice di padre Ardagh, che ai profeti della galleria sud corrispondessero specifici messaggi delle scene situate a nord. La scelta dei versetti, privi di legame logico nell’economia della sequenza, lasciò perplessi molti dei confratelli, ma Arnolfo non volle sentire ragioni. Sarebbe stata un’originale peculiarità del chiostro di Sant’Orso.
Natan cita il peccato e per questo richiama il peccato originale. Balam mette in guardia dalle malizie dei falsi sapienti (quindi instaurando un legame col serpente). Eliacita “tria tabernacula” e sul lato opposto troviamo i 3 fanciulli nella fornace. Mosè invita ad innalzare canti a Dio per trovare la salvezza.
Isaia con un unico verbo ricorda l’apparizione del bastone dal tronco di Yesse: l’inizio della stirpe di David. Chiosa accanto Geremia: “questo è il nostro Dio”. Ezechiele ricorda che “i padri mangiarono uva acerba”. In passato i tempi non erano maturi, ma oggi esiste una nuova comunità riformata. “Guardavo nel volto della notte” recita il cartiglio dell’imberbe Daniele. Una visione messianica; un ficcare gli occhi nel buio più profondo per poter vedere ciò che ancora non è, ma che sarà: la venuta in gloria del Messia.
Il primo dei profeti minori è Oseache paragona la gloria di Dio ad un olivo, simbolo di pace per le genti. Amon precisa che “il Signore sorgerà da Sion”, quasi una conferma per i tre Magi situati sul lato opposto. Abdia vaticina che “il Signore allontanerà i saggi da Idumea (Palestina)”, cioè avvertirà i Magi di tenersi alla larga dalle genti idumee, con chiaro riferimento ad Erode. La sua strage degli innocenti è ricordata da Gioele che ricorda il pianto delle madri dei bimbi massacrati.
Giona, meditando sui suoi errori durante i tre giorni trascorsi nel ventre della balena, impara ad affidarsi al Signore e quando ne esce, sano e salvo, è come se rinascesse dall’inferno a nuova vita. Michea sentenzia che “l’uomo giusto abbandonò la terra” ventilando morti innocenti. Ma subito dopo Naum manda un messaggio positivo: “il sole è sorto”. I nemici svaniscono, le ombre si dissolvono, quando interviene Dio. Infine Abacuc sottolinea l’importanza di dare da bere ai propri amici, naturalmente con intento moraleggiante.
L’ultimo dei capitelli dei profeti si apre con il messaggio di speranza di Aggeo: “Io muoverò il cielo”, da completare “affinché vi sia un cielo nuovo e una terra nuova. Zaccaria ricorda l’ira di Dio verso il suo popolo, che tuttavia deve essere vista come potente stimolo alla conversione. Malachia maledice colui che tesse inganni. E, non a caso, dall’altra parte si trova la favola della volpe e della cicogna. L’ultimo profeta è Sofonia che invita la Chiesa “figlia di Sion” ad innalzare lodi al Signore.
Ed eccoci agli ultimi tre capitelli della galleria sud. Subito dopo i profeti Arnolfo decretò la raffigurazione di quattro uomini seduti su seggi intenti a sostenere delle piante le cui radici sono chiuse in un sacco. Alternativamente un uomo barbato ed uno imberbe: quando uno reggerà il doppio ramo fiorito, l’altro avrà in mano un solo ramo secco e viceversa. Arnolfo pensava che questa simbologia avrebbe fatto ben capire i rapporti tra i canonici di Sant’Orso e il Capitolo della Cattedrale, soprattutto per quanto concerneva il potere di elezione del vescovo.
Segue un capitello connotato da un motivo vegetale e da quattro teste caprine. Nella parte alta dovrà figurare questa scritta: “MARMORIBUS VARIIS HEC EST DISTINCTA DECENTER FABRICA NEC MINUS EST DISPOSITA CONVENIENTER“. Ma sì, si disse Arnolfo, un piccolo autoelogio ci sta! Questo splendido chiostro istoriato richiamerà l’attenzione per la varietà delle sue sculture marmoree e della raffinatezza con cui sono state disposte.
E ultimo il capitello con le aquile. Non dimentichiamo che siamo nei pressi del refettorio! Già, perché i monaci sono equiparati ad aquile che, se da un lato sono gli unici volatili capaci di guardare il sole volando più in alto di tutti, quando ha bisogno di cibo scende a terra in cerca di carne. Magari qualcuno saprà interpretare questa “carne” pensando al miracolo dell’Eucaristia?
Arnolfo era decisamente soddisfatto del lavoro: il suo studio e le sue indicazioni avevano imbastito una decorazione che avrebbe stupito tutti! E doveva riconoscere che i lapicidi erano davvero talentuosi e assai operosi.
La galleria occidentale
Ripreso il codice, Arnolfo si rese conto che per la galleria occidentale era rimasto davvero poco di scritto. La parola che più spesso ricorreva era “gemini“, gemelli. “Gemelli… gemelli, simili eppur diversi…” continuava a ripetere tra sé e sé. Arnolfo si dedicò al completamento della miniatura, che si era salvata. Eccoli! Ma certo… Aveva trovato il soggetto da far rappresentare sulla galleria occidentale… “là dove il sole scompare”, non a caso in direzione della Cattedrale…
Un’altra squadra di scalpellini e scultori era pronta a partire. Certo il tema stabilito dal priore non era affatto semplice da raffigurare.. oltretutto in così poco spazio. Fu allora che ad Arnolfo venne un’altra idea…
Il magister a capo della squadra destinata alla galleria occidentale era alquanto perplesso. “La vicenda di Giacobbe ed Esaù, mio venerabile Priore?! Ma, abbiamo solo sette capitelli a disposizione.. come potremo riuscire a raffigurare l’intera vicenda? E con tutti questi personaggi per giunta…!”. Gli scalpellini si scambiavano sguardi preoccupati.
“State tranquillo, mio valido magister“, disse sicuro Arnolfo, “i capitelli si moltiplicheranno: non dovranno essere solo sette, infatti, ma chiedo che vengano inserite coppie di colonne binate, “gemelle” appunto, in modo da ottenere almeno undici capitelli decorabili!”.
Il magister rimase senza parole. Non era un espediente così diffuso, per quanto, soprattutto nelle terre d’Oltralpe, l’usanza stesse iniziando a dilagare. “Per accentuare il simbolismo della coppia gemellare, ritengo che le colonnine doppie siano un mezzo eccezionale, non credete magister? Se poi vi agevoleranno nella consona distribuzione dei diversi personaggi, meglio ancora, nevvero?”. A queste considerazioni di Arnolfo, il magister rimase privo di ogni possibilità di replica. “Presto! Al lavoro, uomini! Avete capito la volontà del nobile priore?!!”.
“Ottimo”, pensava tra sé Arnolfo, “così avremo un’ulteriore particolarità nel nostro santo chiostro!“.
Protagonisti di questo lato, dunque, sarebbero stati Giacobbe e i suoi figli. Il senso di lettura doveva fluire da nord verso sud in ordine logico concentrico. Gli scalpellini, molti dei quali non conoscevano proprio in tutti i dettagli questa complessa vicenda, erano dubbiosi e anche nel predisporre i cartoni dei disegni che sarebbero serviti all’impostazione delle diverse figure, mostravano una notevole incertezza. Arnolfo decise così di intervenire riassumendo loro l’intera storia.
“Si comincia con Rebecca partoriente aiutata dall’ostetrica e lanascita di Giacobbe e del gemello Esaù. Rebecca, dal cui ventre nasceranno due popoli, qui è simbolo della Chiesa da cui sono derivate la Cattedrale e Sant’Orso. Di nuovo vi saranno accenni, più o meno velati, ai conflitti tra le nostre due Case, chiaramente auspicando la riconciliazione finale. Importante l’ambiguità tra Giacobbe ed Esaù; Isacco cade nell’ingannoe benedice Giacobbe credendolo Esaù che, in quel momento, si trova fuori a caccia. Esaù non perdona al fratello questo inganno e cerca di vendicarsi. Vuole uccidere il fratello.
Nella scena successiva Rebecca consiglia a Giacobbe di fuggire nella città di Harran e rifugiarsi presso il di lei fratello Labano. Così, prima con il ricatto e poi con l’inganno, Giacobbe diventa il nuovo capo del clan ederedita la promessa fatta da Dio ad Abramo. Dio, accettando l’azione non troppo limpida di Giacobbe, vuole dimostrare che il suo progetto di salvezza è affidato a chi lo apprezza e non a chi si basa solo sui propri diritti umani. La salvezza è un dono e come tutti i doni viene offerta a chi sa accoglierla.
In viaggio Giacobbe fa uno strano sogno. Una scala è appoggiata sulla terra, mentre la sua cima raggiunge il cielo. Ed ecco degli angeli che salgono e scendono sopra di essa. Sempre nel sogno Giacobbe sente una voce: “Io sono il Dio di Abramo e il Dio di Isacco, tuo padre. La terra sulla quale ti sei coricato la darò a te e alla tua discendenza. La tua discendenza sarà numerosa come i granelli di polvere della terra“.
Quando Giacobbe il mattino seguente si sveglia, ricordandosi del sogno fatto, capisce che Dio ha confermato la benedizione del vecchio padre Isacco.
Confortato dal sogno, si rimette in cammino dirigendosi verso la città di Harran. Prima di entrare in città, stanco e assetato, si ferma a bere accanto al pozzo dove già sua madre Rebecca veniva ad attingere acqua. In quel momento arriva al pozzo una bella ragazza di nome Rachele, figlia di Labano, fratello di Rebecca. Rachele è la cugina di Giacobbe. Tuttavia Labano ha una figlia maggiore, Lia. Non bella, ma da accasare. Giacobbe vuole sposare Rachele e per questo accetta di lavorare per Labano sette interminabilianni. Alla fine, però, Labano lo obbliga a sposare Lia. Labano tuttavia per concedere a Giacobbe anche Rachele pretende che il giovane lo serva per altri sette anni. Così Giacobbe, dopo quattordici anni di lavoro quasi forzato, si ritrova ormai uomo maturo e con due mogli.
Vengono quindi raffigurati tutti i figli di Giacobbe: dodici maschi e un’unica femmina, Dina. Ma solo Giuseppe e Beniamino, gli ultimi due figli avuti da Rachele, sono quelli che Giacobbe amerà più degli altri. Dovrete anche raffigurare la scena del furto degli idoli di Labano da parte della figlia Rachele. Giacobbe e Beniamino ne verranno accusati, ma Labano non li ritroverà perché Rachele ha saputo nasconderli al meglio: sotto la bardatura di un cammello! Anche qui, perciò, chiedo venga scolpito sulla pietra questo messaggio: occorre fuggire dalle apparenze, dai falsi idoli. Dio saprà fare giustizia là dove gli uomini non vi riescono”.
“So che è assai complicato, ma confido nelle vostre capacità. Vi chiedo che la scena della riconciliazione tra i fratelli si trovi al centro, sulla grande colonna singola. Alle estremità, invece, due situazioni di conflitto. E’ questo un messaggio chiaramente rivolto ai nostri fratelli del Capitolo della Cattedrale”.
“Sarà un duro lavoro, mio nobile Arnolfo”, chiosò il magister, “nella mia già lunga carrieraho visto diverse rappresentazioni del ciclo di Giacobbe, ma mai una così lunga, ricca e complessa!”.
Arnolfo si rendeva perfettamente conto della difficoltà, ma sapeva anche che questo tema, pur così dettagliato, si rivelava necessario. Sant’Orso e la Cattedrale dovevano riappacificarsi e trovare un nuovo, proficuo e duraturo equilibrio.
Giunta la sera, chiuso nella sua cella, Arnolfo si dedicò con grande attenzione al codice, o meglio, a quel che ne restava. Voleva capire cosa effettivamente fosse andato perso nell’incendio. Valutò con perizia il documento e alla fine: “L’intera galleria orientale… ogni indicazione di padre Ardagh è andata perduta… Come fare?“.
Sperò in qualche sogno; sperò nelle preghiere… ma nulla. Stabilì dunque che venissero reimpiegati i capitelli di un porticato già esistente, grandi e poderosi, decorati però unicamente con motivi vegetali stilizzati. Non poteva sapere, il buon priore Arnolfo, che nei secoli, solo uno di quegli antichi capitelli si sarebbe salvato; gli altri sarebbero stati sostituiti.
Dall’alto della sua finestra Arnolfo osservava il procedere dei lavori con gioia e soddisfazione crescenti. Restava un grande rammarico… il pilastro di nord-est. Quel pilastro era fondamentale: era la porta d’ingresso del chiostro, la prima cosa che si sarebbe vista entrando… non poteva permettere che restasse privo di decorazione. Lesse e rilesse decine di volte il codice, nella speranza che qualche accenno potesse essergli sfuggito. Cercò indizi nelle miniature, ma niente! Quanto avrebbe voluto che padre Ardagh fosse lì con lui, a sostenerlo e consigliarlo, come quando era ragazzo…
La galleria incompiuta
Quel cruccio turbava persino i suoi sonni. Tanto che quella notte, completamente incapace di trovare quiete, Arnolfo prese una lanterna e scese nel chiostro silenzioso. Osservò quella magnifica fabbrica che, giorno dopo giorno, aveva assunto un aspetto ragguardevole. La lucentezza dei marmi enfatizzava le volumetrie, gli aggetti e l’espressività delle scene scolpite. Un gioiello! Quel pilastro di nord-est restava un punto buio, anonimo. E non poteva permetterlo!
Ad un certo punto, mentre Arnolfo sedeva assorto nelle sue meditazioni, un’improvvisa folata di vento gelido spense la luce della sua lanterna. Solo il chiarore lunare illuminava d’argento una parte delle gallerie.
Udì dei passi. Un fruscìo. “Chi va là? Chi è?”. Arnolfo si alzò e si avvicinò all’ingresso ma vide che era chiuso. “Chi è? Fratello Arnodus siete voi?”. Credette fosse Arnodus, il guardiano, ma non ottenne risposta. Finché i suoi occhi, ormai abituati all’oscurità, riconobbero un profilo, una sagoma, un’ombra tra le ombre…
“Chi sei…? Parlami!”. Arnolfo era spaventato, ma non riusciva (né voleva) fuggire. Come paralizzato aspettava nel buio che quell’ombra si rivelasse. Che fosse invece un sogno? Una visione? Ad un certo punto il raggio bianco della luna, quella notte più piena e intensa che mai, diede un volto a quel fantasma silenzioso. Tremante, Arnolfo riuscì a malapena a pronunciare due sole parole: “Siete voi…”.
Quegli occhi… quello sguardo azzurro ghiaccio incastonato in quel volto dal fascino antico… “Padre Ardagh!!”.
“Eccomi Arnolfo. Sono tornato. Il tuo lavoro sta per giungere al termine. Sei stato un ottimo discepolo. Hai incontrato mille difficoltà. Non era affatto semplice seguire le mie oscure, spesso labirintiche, indicazioni. La tua dedizione e il tuo impegno, uniti alla tua fede solida ed incrollabile, sono stati e sono tuttora davvero encomiabili”.
“Padre… padre Ardagh… ma, son trascorsi anni. Voi… voi siete identico a come vi ricordavo. Com’è possibile?! E ad ogni modo il lavoro è lungi dall’essere finito, padre. Il codice è andato in parte distrutto… e io non so come fare…!”.
“Non temere Arnolfo. Sai che io non ti ho mai abbandonato. E ti aiuterò anche ora. So che il tuo cruccio è il grande pilastro di nord-est. Questo pilastro è importante, è la chiave di tutto; è il simbolo della mia presenza. In questo pilastro, caro Arnolfo, tu potrai ritrovarmi sempre, se saprai leggermi, se saprai chiamarmi. Sempre, nei secoli che seguiranno”.
Arnolfo era pervaso da un’emozione indescrivibile. Non riuscendo ormai quasi nemmeno a parlare, corse verso padre Ardagh e lo abbracciò. In fondo non gli importava sapere altro; in fondo non gli interessavano i dettagli, sapeva solo di provare verso quell’uomo un affetto profondo, unico, una gratitudine ed una riconoscenza pressoché sconfinate.
Nel momento in cui si strinse a colui che amava più del suo vero padre, una luce fortissima scaturì dal volto di padre Ardagh che lo fissò con un’intensità ipnotica.
“E’ tempo che tu sappia, Arnolfo. Sei pronto. Sei maturo. E’ tempo che io mi riveli. Tu mi conosci come padre Ardagh. Il mio nome, Ardagh, in antico gaelico, significa… Orso! Tu credi che io giunga dalla lontana Irlanda, ma in realtà giungo da ancor più lontano. Io provengo da una fede antica, le cui origini si perdono nella notte dei tempi. Io provengo da mondi che i più ritengono ormai perduti, ma che tuttavia si sono soltanto trasformati, cambiando nome, cambiando preghiere.
Figura di ursus spaeleus raffigurato su una parete della Grotta Chauvet (www.atavolacongioia.it)
Attorno alla mia figura i tuoi padri han saputo tessere leggende, tradizioni, racconti. Tutti verosimili e assai vicini al loro sentire e alla loro quotidianità. Lo hanno fatto per non perdermi, per avermi sempre vicino nelle loro azioni di tutti i giorni e per poter continuare ad invocarmi nelle loro suppliche. Ma io non ho mai avuto una vita tale che la storia degli uomini possa registrare o raccontare con date ed episodi documentati.
Mi hanno raffigurato simile ad un vescovo, ovvero ad un uomo capace di osservare il cielo e comunicarlo agli uomini.
Mi hanno raffigurato con un uccello sulla spalla sinistra, in maniera simile a San Colombano, monaco irlandese che si fece pellegrino di Cristo e grande evangelizzatore. Lui. sì, realmente esistito!
Sono stato animale. Sono stato un dio. Ho accompagnato dei. Rimango un simbolo. Forte, pervasivo. Ad alcuni faccio ancora paura. Altri non hanno mai smesso di venerarmi. Nei secoli ho assunto varie forme e aspetti differenti. Io sono il sacro, Arnolfo.
L’amore che in antico i tuoi predecessori nutrirono per me è immenso e i tuoi padri lo sapevano. Io non potevo essere cancellato, Arnolfo. Io continuerò a vivere. In questo luogo, soprattutto, la mia presenza sacra non verrà mai meno.
La luna è mia compagna; nel suo mutare io mi rinnovo. La morte è mia sorella: in lei mi rigenero per tornare a nuova vita. So nascondermi, quando serve, nel profondo di caverne introvabili, torno nell’oscuro e caldo ventre della madre terra, per poi riemergerne più forte di prima”.
Arnolfo lo fissava e non riusciva a staccarsi da quel forte e sicuro abbraccio. Lui, uomo colto e devoto, aveva capito. Ecco perché non si sapeva con certezza quando lui fosse nato né dove, né dove esattamente fosse morto. Nè con che genere di martirio. Ecco perché spesso veniva raffigurato con un lituo, con un bastone ricurvo, senza mai essere stato vescovo. Perché in lui si assommavano antiche divinità e antichi sacerdoti. Lui era un tramite tra cielo e terra, tra vita e morte. Lui, Orso, rappresentava il passaggio dalla fede pagana più ancestrale, legata ai ritmi degli astri e delle stagioni, fino a quella cattolica. In bilico tra notte e giorno, tra luce e buio, tra il conoscibile e l’imperscrutabile.
Padre Ardagh, o meglio… Orso, si avvicinò quindi al pilastro ancora grezzo. Il pilastro d’accesso del magnifico chiostro istoriato. La sua mano lo sfiorò. La luce lunare invase quell’angolo di galleria; la pietra si illuminò come dall’interno. Orso appoggiò entrambe le mani al capitello mormorando oscure parole. La pietra iniziò a muoversi, a palpitare, quasi a respirare! Gli spigoli assunsero un profilo. Alla fine Arnolfo, stupefatto, vide il capitello compiuto. Quattro animali, tuttavia non mostruosi né spaventosi, decoravano la pietra. Le zampe, certo ferine, ma tra loro vicine, quasi in un gesto di preghiera.
Animali fantastici del capitello del pilastro angolare nord-orientale (Foto di Donato Arcaro)
Orso lo fissò nuovamente e appoggiandogli una mano sulla spalla, disse: “Vedi Arnolfo? Io sarò sempre qui con te. E sempre accompagnerò gli uomini nel cammino verso la luce. Di questo è simbolo il chiostro. Di un cammino verso la salvezza, fatto di scelte, di giuste direzioni, di attenzione verso i falsi idoli e verso le apparenze ingannevoli. Dove volevi che fossi, se non all’ingresso?”.
Il leone e l’orso (quest’ultimo in blu). Miniatura dal “Bestiario di Ashmole”, Gran Bretagna, XIII sec. – Oxford, Bodileian Library.
Arnolfo osservò con maggiore attenzione il capitello… ma certo! Erano quattro orsi! Orso stesso era il codice del chiostro! Si voltò per ringraziarlo, voleva fargli altre mille domande, voleva abbracciarlo ancora una volta, ma… no c’era più! Un soffio di vento gelido fu l’ultimo saluto di quella divina, non descrivibile altrimenti, presenza.
“Priore! Nobile Arnolfo! Ma… eravate qui?! Eravamo così preoccupati!”. La voce concitata dei confratelli e le prime luci dell’alba destarono Arnolfo da un sonno insolitamente pesante. Si era addormentato nel chiostro. “Ma avete dormito qui? All’aperto? In una notte così fredda per giunta…!”. Arnolfo si riprese, si guardò attorno. “Sì, confratelli, ero venuto a meditare.. sì, era freddo, ma io sto bene, anzi..!”.
Immediatamente il suo sguardo corse verso il pilastro di nord-est. Vuoto. Grezzo…
Orso
“Ma come, allora si è trattato di un sogno? Di una visione?.. Eppure è stato tutto così stranamente… reale!”. Arnolfo, deluso, non riusciva a capacitarsi che si fosse trattato di una sua fantasia. Certo, ad ogni modo ora sapeva cosa far raffigurare sul pilastro!
“Priore! Venerabile priore, è appena giunto il nuovo magister. Colui che si occuperà di decorare il pilastro d’ingresso!”. Un nuovo capo scultore? Eppure Arnolfo non ricordava di aspettare nuove maestranze…”Fatelo entrare! Lo accoglierò assai volentieri”.
Un passo deciso e un piglio sicuro accompagnavano il nuovo magister. Già da lontano quell’uomo infondeva un senso di sicurezza. Alto, capelli mediamente lunghi tendenti al rossiccio. Fu quando si avvicinò che Arnolfo rimase per un attimo senza respirare…
“Buongiorno nobile priore. Mi avete fatto chiamare e sono giunto. Ho con me anche il cartone con la bozza per la decorazione del pilastro. Eccolo qui!”.
Arnolfo non riusciva a distogliere lo sguardo da quell’uomo. Quegli occhi… un taglio lungo e affilato, di un azzurro ghiaccio con particolari riflessi color lavanda… e quella voce…
Arnolfo prese il cartone con i disegni preparatori utili alla decorazione del pilastro d’ingresso. Non vi fu bisogno di altre parole. Tra i due fu sufficiente uno sguardo ed un sorriso.
Orso era tornato. E non se ne sarebbe andato mai più!
Metti un gita domenicale in famiglia. Metti che hai voglia di un posto tranquillo, non troppo frequentato ma non distante. Ma sì, andiamo a Ozein!
E così ci si mette in viaggio alla volta di Aymavilles e da lì si sale in direzione Cogne. Superata la deviazione del mio amato Pont d’Ael, ecco la svolta a gomito sulla sinistra per raggiungere questo grazioso e defilato villaggio.
Ma lungo la strada che sale regalando scorci di splendide balconate sul fondovalle sottostante punteggiato di meleti e vigneti su cui dominano i due magnifici castelli di Saint-Pierre, qualcosa ti induce a fermarti. Ad un certo punto una piazzola sulla destra, uno slargo che si insinua timidamente verso un lembo di prato. Ma c’è dell’altro.
Davanti agli occhi una parete rocciosa incombente, tormentata di cavità più o meno grandi, lavorate da antichi movimenti glaciali, sagomate dal vento che vi si annida e vi si rotola, accarezzate dalle piogge e levigate dalle gelate invernali. Ma c’è dell’altro.
Qui domina il silenzio, ma è un silenzio strano, che ti assale, ti avvolge, ti fa quasi il solletico, ti fa venire i brividi. Qui certo fa freddo, più freddo che altrove, c’è ombra e proprio vicino a noi scroscia cantando una cascatella. Ecco, l’acqua. Presenza discreta ma invadente, totalizzante. Un’acqua che sembra nascere dalla roccia, lassù in alto, per poi lasciarsi cadere verso questo prato scosceso e nascondersi di nuovo nelle viscere della terra. Ma c’è dell’altro.
Questa parete rocciosa è letteralmente invasa da piccole Madonnine. Sono dappertutto: appoggiate come su scaffali o davanzali naturali, infilate nei pertugi più impensabili, aggrappate a sporgenze o persino appese. Dal basso, livello suolo, fin sù in posti dove chi ha voluto lasciarle si è dovuto arrampicare non poco. Madonnine, Rosari, immaginette sacre, ex-voto… Ma c’è dell’altro.
In basso, incorniciato da quello che potrebbe ricordare l’ingresso di una grotta che oggi non esiste più, un leggio; un leggio con uno spartito e su questo spartito le note di una musica che chiunque, capace di suonare uno strumento e giunto qui, potrebbe suonare. E’ questa una delle installazioni dell’artista Giuliana Cunéaz. Qui c’è la Fata, la fata delle rocce e delle acque scroscianti… la fata di Ozein!
E quella musica è la sua voce, il suo sospiro, o meglio, questa musica messa insieme alle altre 24 sparse in luoghi particolari della Valle d’Aosta, va a comporre “Il Silenzio delle fate”.
Creature impalpabili, bellissime e terribili, amabili e vendicative, volubili e benevole… queste sono le fate, nate dalla leggenda, create dalla mente e dalla fantasia degli uomini. Ma non create così, a tempo perso, per raccontare storie ai bambini o ai creduloni… no! Tutt’altro! Le Fate delle leggende sono l’unico modo che gli uomini nei secoli passati hanno avuto per cercare di dare forma a qualcosa che loro sentivano (non tutti, chiaramente, solo quelli dotati di spiccata sensibilità) in certi posti, oppure di delineare un ricordo lontano legate a presenze, ad ancestrali sacralità, ad energie positive. E spesso le Fate si nascondono in luoghi dove anche l’archeologia segnala antichi insediamenti o comunque arcaiche presenze umane.
Qui a Ozein non saprei dirvi con esattezza quale ne sia la ragione, ma vi posso assicurare che questa particolare parete rocciosa con queste decine di cavità, alcune delle quali decisamente grandi, fa pensare senza troppa fatica alle grotte preistoriche dove gli uomini nostri progenitori trovavano riparo. In alcune di queste grotte, però, ci si spingeva fino in fondo strisciando in cunicoli labirintici ed oscuri, per invocare le forze benigne di madre Terra. grotte come ventri, cunicoli come uteri; una preghiera che era come un risalire l grembo primigenio, al sacro femmineo, al principio della Vita. E non è un caso che la maggior parte dei santuari mariani sia nato in luoghi caratterizzati proprio da antiche grotte, o rocce, e dalla presenza indispensabile dell’acqua. Maria ha dato un volto cristiano cattolico a forme di devozione più antiche, difficili altrimenti da spiegare ma impossibili da cancellare. Un sincretismo obbligato. Non si sarebbe altrimenti potuto privare gli uomini di consuetudini dell’anima tanto radicate. Vi sarebbero comunque tornati. E’ la Natura stessa il primo tempio e le sue forze imperscrutabili ne furono i primi dei.
Oggi qui non ci sono grotte vere e proprie, ma chissà… può darsi che queste cavità ne siano il fantasma; può darsi che millenni or sono queste cavità fossero davvero delle grotte, poi andate distrutte dallo scorrere dei secoli e dall’infuriare delle intemperie… anche, se non soprattutto, dall’infuriare dell’uomo con le sue strade e le sue infrastrutture. Ma c’è dell’altro.
C’è il silenzio, rotto solo dalla voce dell’acqua e del vento. Profumato dai vapori umidi che salgono dall’erba e sprigionano dalle rocce. Acqua e roccia. Tracce di una sacralità che va oltre ogni logica e ogni tentativo di spiegazione. Tracce di una Fata. La Fata di Ozein.