Perdersi in Labirinti di Memorie prima di uscir a riveder le stelle…

Da sempre, dalla più arcaica notte dei tempi, l’uomo cerca le sue origini, il suo passato. Da sempre, da che mondo è mondo, l’essere umano è mosso dalla viscerale curiosità di scoprire da dove arriva, da chi fu generato e preceduto in questa come in altre terre.

Visitare la mostra permanente sapientemente allestita nel sottosuolo del MAR – Museo Archeologico Regionale di Aosta, porta a sperimentare il significato di una simile ricerca, a riflettere sul senso della ricerca dell’antico, sul senso più profondo del fare archeologia e, per quanto mi riguarda, dell’essere archeologa o perlomeno di continuare a sentirmi e a ritenermi tale nonostante il mio esprimere questa professione da alcuni anni non si esplichi più nei cantieri ma sulla tastiera di un pc.

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“Labirinti di Memorie”. Questo il titolo della mostra. E navigare in questo profondo #MAR è stato per me, oltre che labirintico, decisamente suggestivo ed affascinante.

Conoscevo già il sito archeologico nascosto nel sottosuolo del museo. Un sito assai complesso e di ardua lettura, fatto dal sovrapporsi di mura su mura, di epoche su epoche che si accavallano, si intrecciano, si obliterano e si sostituiscono. Il nuovo allestimento ha fatto chiarezza su questi avviluppi murari illuminando le murature delle diverse epoche con altrettanti diversi colori. Tutto ciò che appartiene all’epoca romana, ad esempio, è in colore giallo arancio. Le murature successive, invece, avvolte da luce bianca.

Si scende. E già sulle scale l’atmosfera cambia; ci si sente piano piano trasportati in un’altra dimensione. La luce del giorno muta e si affievolisce; ci si ritrova faccia a faccia con la torre orientale della monumentale seppur sepolta Porta Principalis Sinistra.

Giunti su quell’uscio che costituisce quasi il confine tra il “mondo di sopra” e il “mondo di sotto”, sulla sinistra una lucerna, antico ed iconico simbolo di una luce che guida tra le ombre. Si parte alla ricerca del passato. Si parte alla ricerca dell’uomo. Solo alla fine di questo tortuoso, labirintico (appunto) percorso, capirò di essere partita alla ricerca di me stessa.

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Si viene accolti quindi da un video che, muto, racconta per immagini alcuni momenti di ricerca archeologica valdostana. Volti di archeologi e di operai. Pietre, cantieri, scavi, rilievi. Riflessioni, discussioni, ipotesi che si sono rincorse per anni spesso sfidandosi a duello sulle pagine di bollettini e notiziari. In una di quelle foto, felice, mi sono rivista anch’io…

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Si prosegue con l’esposizione di alcune epigrafi funerarie prima custodite nei magazzini. Una di queste trovata reimpiegata come soglia di una porta moderna. Addirittura un’ara in bronzo proveniente dal territorio di Eporedia (Ivrea) rinvenuta rifunzionalizzata come fontana.. pezzi davvero notevoli!

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La progressiva scoperta di queste sezioni espositive viene corredata da brani scelti di opere letterarie e filosofiche; alcune parlano dell’essere archeologo, del fare archeologia. Altre della strenua ricerca dell’Uomo. Altre, semplicemente ma radicalmente, dell’ESSERE UOMINI, di cosa si pensa di se stessi, di cosa si vorrebbe pensassero gli altri e di come si desidererebbe che un domani gli altri ricordassero (o trovassero) di noi. Una mostra che, oltre che in compagnia di un archeologo e di un antropologo, secondo me andrebbe visitata insieme ad un filosofo! Un Virgilio capace di farci da guida sapiente in una ricerca che passa attraverso le ombre, unica strada possibile, prima di giungere alla luce della Verità.

1975. 1978. 1984… “Caspita! In quegli anni io c’ero già. Bambina, certo, ma c’ero!”. In quegli stessi anni, che ricordo benissimo e che ho vissuto, archeologi lavoravano scavando la mia città e rinvenendone frammenti di vita passata. Già, dà una strana sensazione riflettere sul fatto che si fa archeologia … sempre! E’ un “discorso sul passato” che può iniziare in qualsiasi momento e porsi riferimenti temporali sempre diversi. Anche se dico “ieri”, o “l’estate scorsa”, o “10 anni fa” è passato. Non remoto, prossimo, ma senza dubbio passato. Eppure io l’ho vissuto, me lo ricordo. Qui lo ritrovo e lo interpreto alla luce di oggetti molto più antichi, di volti di archeologi oggi non più giovani studenti, oppure oggi non più tra noi ma che tanto della loro fatica e dei loro studi ci hanno lasciato.

Ecco, questa mostra mi ha spiegato concretamente il senso dell’ “imperfetto” del greco antico: “un’azione passata i cui effetti perdurano nel presente”.

Reperti interessanti mai visti prima; reperti che da oltre 40 anni giacevano nei magazzini, in attesa di essere ripresi in mano, amati, studiati… Che emozione davanti a quell’antefissa in terracotta decorata con un’elegante palmetta centrale ed una coppia di graziosi delfini… proviene dall’area del Foro, da uno dei due templi gemelli.

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Per non parlare di un frammento di parete affrescata recante un gentile profilo di donna su fondo azzurro…

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E poi ti volti e vedi una miriade di ritagli di giornale. Il crollo del muro di Berlino. la morte di Lady D. L’uccisione di Falcone e Borsellino e molto altro ancora. Fatti più o meno recenti che ben ricordo. Ebbene, quei reperti sono emersi dalle viscere di Aosta in quegli anni. Ci raccontano sia di un passato arcaico ormai “perduto” (forse) e di un passato ben più fresco e a tutti noto. Ci parlano della nostra Storia più lontana e di quella a noi più vicina. E, nel frattempo, sanno farci volare con la fantasia, in bilico tra immaginazione e realtà, tra poesia e filosofia, tra sacralità e quotidianità.

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Una quotidianità fatta di mille cose; le cose più disparate che ai nostri occhi quasi perdono di senso. Le usiamo ma non le osserviamo più con attenzione. E, allora, cosa succederebbe se in un futuro lontano, tra 500, 1000 o più anni un’archeologa si imbattesse nei nostri oggetti? Nella nostra “banale” quotidianità? Occhiali, ferri da stiro, cavatappi, scarpe, borse, bicchieri, lattine, penne, TV… fino a rinvenire addirittura un water rotto o un bidet! Cosa penserebbe? Come potrebbe interpretarli se tra noi e questo suo tempo futuro una sorta di apocalisse avesse distrutto tutto? Se non esistessero fonti, né fotografie, né video… niente!

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E qui io mi sono sentita come dentro una specie di acquario dal cui interno, totalmente insonorizzato (come spesso accade nei sogni) vedevo questa archeologa, di nome Doratha, catalogare e studiare reperti per lei sconosciuti e invece per me così quotidiani.

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Avrei avuto voglia di spiegarglieli, di raccontarle come li usiamo, cosa ne facciamo… ma niente, Doratha non mi sentiva. La vedevo, china sullo scavo, nella polvere di una perduta Piazza Roncas, cercare di leggere le nostre tracce e scrivere, nella sua lingua strana, una sorta di Esperanto, i suoi pensieri e le sue considerazioni.

Arrivi alla fine di questa mostra e ti senti sfinito… sfinito da un ricordare che si sovrappone all’imparare e al meditare. Sfinito dal tuo essere uomo. E, per quanto mi riguarda, commossa ed emozionata dal mio essere anche archeologa.

E’ stato come vistare una grotta, una caverna. Quell’adrenalina che si mescola al fiato corto, all’emozione della scoperta, ma anche ad una sottile ed imprecisabile forma di paura.. come se per qualche oscuro motivo non si riuscisse più ad uscire. Eppure, sebbene in un labirinto a tratti claustrofobico, avvolti da queste luci e da queste memorie, dall’animo e dagli spiriti, dalle voce, di questi nostri antichi concittadini, allo stesso tempo ti senti euforico e ti assale la voglia di saperne di più, sempre di più…

Labirinti di mura, di reperti, di luci, di veli di Maya e di ombre della caverna. E tra Diogene e Platone. Tra Ovidio ed Omero. Per approdare al “Trono di Spade”, capire quanto sia importante il nostro posto nel mondo, nel tempo e nello spazio, pur nella sua normalissima e banale quotidianità. Perché ognuno di noi, per l’archeologo, non solo fa la storia, ma è storia.

E chiudo dicendo che, chi mi conosce davvero bene può capire come io mi sia sentita e mi senta nello scrivere queste parole. Chi mi conosce davvero nel profondo sa quanto io ami l’archeologia pur non facendola più in cantiere ma raccontandola agli altri, a modo mio naturalmente!

Solo un appunto. Una frase di Agatha Christie riportata nel percorso di visita recita che gli archeologi sono incapaci di guardare il cielo e le stelle. Beh, non direi proprio… e Aosta romana ne è un esempio!

Stella

L’enigma di Orso e il codice del chiostro. Cap. 5-La rivelazione

“Chi sei…? Parlami!”. Arnolfo era spaventato, ma non riusciva (né voleva) fuggire. Come paralizzato aspettava nel buio che quell’ombra si rivelasse. Che fosse invece un sogno? Una visione? Ad un certo punto il raggio bianco della luna, quella notte più piena e intensa che mai, diede un volto a quel fantasma silenzioso. Tremante,  Arnolfo riuscì a malapena a pronunciare due sole parole: “Siete voi…”.

Quegli occhi… quello sguardo azzurro ghiaccio incastonato in quel volto dal fascino antico… “Padre Ardagh!!”.

“Eccomi Arnolfo. Sono tornato. Il tuo lavoro sta per giungere al termine. Sei stato un ottimo discepolo. Hai incontrato mille difficoltà. Non era affatto semplice seguire le mie oscure, spesso labirintiche, indicazioni. La tua dedizione e il tuo impegno, uniti alla tua fede solida ed incrollabile, sono stati e sono tuttora davvero encomiabili”.

“Padre… padre Ardagh… ma, son trascorsi anni. Voi… voi siete identico a come vi ricordavo. Com’è possibile?! E ad ogni modo il lavoro è lungi dall’essere finito, padre. Il codice è andato in parte distrutto… e io non so come fare…!”.

“Non temere Arnolfo. Sai che io non ti ho mai abbandonato. E ti aiuterò anche ora. So che il tuo cruccio è il grande pilastro di nord-est. Questo pilastro è importante, è la chiave di tutto; è il simbolo della mia presenza. In questo pilastro, caro Arnolfo, tu potrai ritrovarmi sempre, se saprai leggermi, se saprai chiamarmi. Sempre, nei secoli che seguiranno”.

Arnolfo era pervaso da un’emozione indescrivibile. Non riuscendo ormai quasi nemmeno a parlare, corse verso padre Ardagh e lo abbracciò. In fondo non gli importava sapere altro; in fondo non gli interessavano i dettagli, sapeva solo di provare verso quell’uomo un affetto profondo, unico, una gratitudine ed una riconoscenza pressoché sconfinate.

Nel momento in cui si strinse a colui che amava più del suo vero padre, una luce fortissima scaturì dal volto di padre Ardagh che lo fissò con un’intensità ipnotica.

“E’ tempo che tu sappia, Arnolfo. Sei pronto. Sei maturo. E’ tempo che io mi riveli. Tu mi conosci come padre Ardagh. Il mio nome, Ardagh, in antico gaelico, significa… Orso! Tu credi che io giunga dalla lontana Irlanda, ma in realtà giungo da ancor più lontano. Io provengo da una fede antica, le cui origini si perdono nella notte dei tempi. Io provengo da mondi che i più ritengono ormai perduti, ma che tuttavia si sono soltanto trasformati, cambiando nome, cambiando preghiere.

Attorno alla mia figura i tuoi padri han saputo tessere leggende, tradizioni, racconti. Tutti verosimili e assai vicini al loro sentire e alla loro quotidianità. Lo hanno fatto per non perdermi, per avermi sempre vicino nelle loro azioni di tutti i giorni e per poter continuare ad invocarmi nelle loro suppliche. Ma io non ho ami avuto una vita tale che la storia degli uomini possa registrare o raccontare con date ed episodi documentati.

Mi hanno raffigurato simile ad un vescovo, ovvero ad un uomo capace di osservare il cielo e comunicarlo agli uomini.

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Mi hanno raffigurato con un uccello sulla spalla sinistra, in maniera simile a San Colombano, monaco irlandese che si fece pellegrino di Cristo e grande evangelizzatore. Lui. sì, realmente esistito!

Sono stato animale. Sono stato un dio. Ho accompagnato dei. Rimango un simbolo. Forte, pervasivo. Ad alcuni faccio ancora paura. Altri non hanno mai smesso di venerarmi. Nei secoli ho assunto varie forme e aspetti differenti. Io sono il sacro, Arnolfo.

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L’amore che in antico i tuoi predecessori nutrirono per me è immenso e i tuoi padri lo sapevano. Io non potevo essere cancellato, Arnolfo. Io continuerò a vivere. In questo luogo, soprattutto, la mia presenza sacra non verrà mai meno.

La luna è mia compagna; nel suo mutare io mi rinnovo. La morte è mia sorella: in lei mi rigenero per tornare a nuova vita. So nascondermi, quando serve, nel profondo di caverne introvabili, torno nell’oscuro e caldo ventre della madre terra, per poi riemergerne più forte di prima”.

Arnolfo lo fissava e non riusciva a staccarsi da quel forte e sicuro abbraccio. Lui, uomo colto e devoto, aveva capito. Ecco perché non si sapeva con certezza quando lui fosse nato né dove, né dove esattamente fosse morto. Nè con che genere di martirio. Ecco perché spesso veniva raffigurato con un lituo, con un bastone ricurvo, senza mai essere stato vescovo. Perché in lui si assommavano antiche divinità e antichi sacerdoti. Lui era un tramite tra cielo e terra, tra vita e morte. Lui, Orso, rappresentava il passaggio dalla fede pagana più ancestrale, legata ai ritmi degli astri e delle stagioni, fino a quella cattolica. In bilico tra notte e giorno, tra luce e buio, tra il conoscibile e l’imperscrutabile.

Padre Ardagh, o meglio… Orso, si avvicinò quindi al pilastro ancora grezzo. Il pilastro d’accesso del magnifico chiostro istoriato. La sua mano lo sfiorò. La luce lunare invase quell’angolo di galleria; la pietra si illuminò come dall’interno. Orso appoggiò entrambe le mani al capitello mormorando oscure parole. La pietra iniziò a muoversi, a palpitare, quasi a respirare! Gli spigoli assunsero un profilo. Alla fine Arnolfo, stupefatto, vide il capitello compiuto. Quattro animali, tuttavia non mostruosi né spaventosi, decoravano la pietra. Le zampe, certo ferine, ma tra loro vicine, quasi in un gesto di preghiera.

Orso lo fissò nuovamente e appoggiandogli una mano sulla spalla, disse: “Vedi Arnolfo? Io sarò sempre qui con te. E sempre accompagnerò gli uomini nel cammino verso la luce. Di questo è simbolo il chiostro. Di un cammino verso la salvezza, fatto di scelte, di giuste direzioni, di attenzione verso i falsi idoli e verso le apparenze ingannevoli. Dove volevi che fossi, se non all’ingresso?”.

Il leone e l'orso (quest'ultimo in blu). Miniatura dal “Bestiario di Ashmole”, Gran Bretagna, XIII sec. – Oxford, Bodileian Library.
Il leone e l’orso (quest’ultimo in blu). Miniatura dal “Bestiario di Ashmole”, Gran Bretagna, XIII sec. – Oxford, Bodileian Library.

Arnolfo osservò con maggiore attenzione il capitello… ma certo! Erano quattro orsi! Orso stesso era il codice del chiostro! Si voltò per ringraziarlo, voleva fargli altre mille domande, voleva abbracciarlo ancora una volta, ma… no c’era più! Un soffio di vento gelido fu l’ultimo saluto di quella divina, non descrivibile altrimenti, presenza.

“Priore! Nobile Arnolfo! Ma… eravate qui?! Eravamo così preoccupati!”. La voce concitata dei confratelli e le prime luci dell’alba destarono Arnolfo da un sonno insolitamente pesante. Si era addormentato nel chiostro. “Ma avete dormito qui? All’aperto? In una notte così fredda per giunta…!”. Arnolfo si riprese, si guardò attorno. “Sì, confratelli, ero venuto a meditare.. sì, era freddo, ma io sto bene, anzi..!”.

Immediatamente il suo sguardo corse verso il pilastro di nord-est. Vuoto. Grezzo…

“Ma come, allora si è trattato di un sogno? Di una visione?.. Eppure è stato tutto così stranamente… reale!”. Arnolfo, deluso, non riusciva a capacitarsi che si fosse trattato di una sua fantasia. Certo, ad ogni modo ora sapeva cosa far raffigurare sul pilastro!

“Priore! Venerabile priore, è appena giunto il nuovo magister. Colui che si occuperà di decorare il pilastro d’ingresso!”.  Un nuovo capo scultore? Eppure Arnolfo non ricordava di aspettare nuove maestranze…”Fatelo entrare! Lo accoglierò assai volentieri”.

Un passo deciso e un piglio sicuro accompagnavano il nuovo magister. Già da lontano quell’uomo infondeva un senso di sicurezza. Alto, capelli mediamente lunghi tendenti al rossiccio. Fu quando si avvicinò che Arnolfo rimase per un attimo senza respirare…

“Buongiorno nobile priore. Mi avete fatto chiamare e sono giunto. Ho con me anche il cartone con la bozza per la decorazione del pilastro. Eccolo qui!”.

Arnolfo non riusciva a distogliere lo sguardo da quell’uomo. Quegli occhi… un taglio lungo e affilato, di un azzurro ghiaccio con particolari riflessi color lavanda… e quella voce…

Arnolfo prese il cartone con i disegni preparatori utili alla decorazione del pilastro d’ingresso. Non vi fu bisogno di altre parole. Tra i due fu sufficiente uno sguardo ed un sorriso.

Orso era tornato. E non se ne sarebbe andato mai più!

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Stella

 

L’enigma di Orso e il codice del chiostro. Cap. 4

Il magister a capo della squadra destinata alla galleria occidentale era alquanto perplesso. “La vicenda di Giacobbe ed Esaù, mio venerabile Priore?! Ma, abbiamo solo sette capitelli a disposizione.. come potremo riuscire a raffigurare l’intera vicenda? E con tutti questi personaggi per giunta…!”. Gli scalpellini si scambiavano sguardi  preoccupati.

“State tranquillo, mio valido magister“, disse sicuro Arnolfo, “i capitelli si moltiplicheranno: non dovranno essere solo sette, infatti, ma chiedo che vengano inserite coppie di colonne binate, “gemelle” appunto, in modo da ottenere almeno undici capitelli decorabili!”.

Il magister rimase senza parole. Non era un espediente così diffuso, per quanto, soprattutto nelle terre d’Oltralpe, l’usanza stesse iniziando a dilagare. “Per accentuare il simbolismo della coppia gemellare, ritengo che le colonnine doppie siano un mezzo eccezionale, non credete magister? Se poi vi agevoleranno nella consona distribuzione dei diversi personaggi, meglio ancora, nevvero?”. A queste considerazioni di Arnolfo, il magister rimase privo di ogni possibilità di replica. “Presto! Al lavoro, uomini! Avete capito la volontà del nobile priore?!!”.

“Ottimo”, pensava tra sé Arnolfo, “così avremo un’ulteriore particolarità nel nostro santo chiostro!“.

Protagonisti di questo lato, dunque, sarebbero stati Giacobbe e i suoi figli. Il senso di lettura doveva fluire da nord verso sud in ordine logico concentrico. Gli scalpellini, molti dei quali non conoscevano proprio in tutti i dettagli questa complessa vicenda, erano dubbiosi e anche nel predisporre i cartoni dei disegni che sarebbero serviti all’impostazione delle diverse figure, mostravano una notevole incertezza. Arnolfo decise così di intervenire riassumendo loro l’intera storia.

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“Si comincia con Rebecca partoriente aiutata dall’ostetrica e la nascita di Giacobbe e del gemello Esaù. Rebecca, dal cui ventre nasceranno due popoli, qui è simbolo della Chiesa da cui sono derivate la Cattedrale e Sant’Orso. Di nuovo vi saranno accenni, più o meno velati, ai conflitti tra le nostre due Case, chiaramente auspicando la riconciliazione finale. Importante l’ambiguità tra Giacobbe ed EsaùIsacco cade nell’inganno e benedice Giacobbe credendolo Esaù che, in quel momento, si trova fuori a caccia. Esaù non perdona al fratello questo inganno e cerca di vendicarsi. Vuole uccidere il fratello.

Nella scena successiva Rebecca consiglia a Giacobbe di fuggire nella città di Harran e rifugiarsi presso il di lei fratello Labano. Così, prima con il ricatto e poi con l’inganno, Giacobbe diventa il nuovo capo del clan ed eredita la promessa fatta da Dio ad Abramo. Dio, accettando l’azione non troppo limpida di Giacobbe, vuole dimostrare che il suo progetto di salvezza è affidato a chi lo apprezza e non a chi si basa solo sui propri diritti umani. La salvezza è un dono e come tutti i doni viene offerta a chi sa accoglierla.

In viaggio Giacobbe fa uno strano sogno. Una scala è appoggiata sulla terra, mentre la sua cima raggiunge il cielo. Ed ecco degli angeli che salgono e scendono sopra di essa. Sempre nel sogno Giacobbe sente una voce: “Io sono il Dio di Abramo e il Dio di Isacco, tuo padre. La terra sulla quale ti sei coricato la darò a te e alla tua discendenza. La tua discendenza sarà numerosa come i granelli di polvere della terra“.
Quando Giacobbe il mattino seguente si sveglia, ricordandosi del sogno fatto, capisce che Dio ha confermato la benedizione del vecchio padre Isacco.

Confortato dal sogno, si rimette in cammino dirigendosi verso la città di Harran. Prima di entrare in città, stanco e assetato, si ferma a bere accanto al pozzo dove già sua madre Rebecca veniva ad attingere acqua. In quel momento arriva al pozzo una bella ragazza di nome Rachele, figlia di Labano, fratello di Rebecca. Rachele è la cugina di Giacobbe. Tuttavia Labano ha una figlia maggiore, Lia. Non bella, ma da accasare. Giacobbe vuole sposare Rachele e per questo accetta di lavorare per Labano sette interminabili anni. Alla fine, però, Labano lo obbliga a sposare Lia. Labano tuttavia per concedere a Giacobbe anche Rachele pretende che il giovane lo serva per altri sette anni. Così Giacobbe, dopo quattordici anni di lavoro quasi forzato, si ritrova ormai uomo maturo e con due mogli.

Vengono quindi raffigurati tutti i figli di Giacobbe: dodici maschi e un’unica femmina, Dina. Ma solo Giuseppe e Beniamino, gli ultimi due figli avuti da Rachele, sono quelli che Giacobbe amerà più degli altri. Dovrete anche raffigurare la scena del furto degli idoli di Labano da parte della figlia Rachele. Giacobbe e Beniamino ne verranno accusati, ma Labano non li ritroverà perché Rachele ha saputo nasconderli al meglio: sotto la bardatura di un cammello! Anche qui, perciò, chiedo venga scolpito sulla pietra questo messaggio: occorre fuggire dalle apparenze, dai falsi idoli. Dio saprà fare giustizia là dove gli uomini non vi riescono”.

“So che è assai complicato, ma confido nelle vostre capacità. Vi chiedo che la scena della riconciliazione tra i fratelli si trovi al centro, sulla grande colonna singola. Alle estremità, invece, due situazioni di conflitto. E’ questo un messaggio chiaramente rivolto ai nostri fratelli del Capitolo della Cattedrale”.

“Sarà un duro lavoro, mio nobile Arnolfo”, chiosò il magister, “nella mia già lunga carriera ho visto diverse rappresentazioni del ciclo di Giacobbe, ma mai una così lunga, ricca e complessa!”.

Arnolfo si rendeva perfettamente conto della difficoltà, ma sapeva anche che questo tema, pur così dettagliato, si rivelava necessario. Sant’Orso e la Cattedrale dovevano riappacificarsi e trovare un nuovo, proficuo e duraturo equilibrio.

Giunta la sera, chiuso nella sua cella, Arnolfo si dedicò con grande attenzione al codice, o meglio, a quel che ne restava. Voleva capire cosa effettivamente fosse andato perso nell’incendio. Valutò con perizia il documento e alla fine: “L’intera galleria orientale… ogni indicazione di padre Ardagh è andata perduta… Come fare?“. Sperò in qualche sogno; sperò nelle preghiere… ma nulla. Stabilì dunque che venissero reimpiegati i capitelli di un porticato già esistente, grandi e poderosi, decorati però unicamente con motivi vegetali stilizzati. Non poteva sapere, il buon priore Arnolfo, che nei secoli, solo uno di quegli antichi capitelli si sarebbe salvato; gli altri sarebbero stati sostituiti.

Dall’alto della sua finestra Arnolfo osservava il procedere dei lavori con gioia e soddisfazione crescenti. Restava un grande rammarico… il pilastro di nord-est. Quel pilastro era fondamentale: era la porta d’ingresso del chiostro, la prima cosa che si sarebbe vista entrando… non poteva permettere che restasse privo di decorazione. Lesse e rilesse decine di volte il codice, nella speranza che qualche accenno potesse essergli sfuggito. Cercò indizi nelle miniature, ma niente! Quanto avrebbe voluto che padre Ardagh fosse lì con lui, a sostenerlo e consigliarlo, come quando era ragazzo…

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Quel cruccio turbava persino i suoi sonni. Tanto che quella notte, completamente incapace di trovare quiete, Arnolfo prese una lanterna e scese nel chiostro silenzioso.  Osservò quella magnifica fabbrica che, giorno dopo giorno, aveva assunto un aspetto ragguardevole. La lucentezza dei marmi enfatizzava le volumetrie, gli aggetti e l’espressività delle scene scolpite. Un gioiello! Quel pilastro di nord-est restava un punto buio, anonimo. E non poteva permetterlo!

Ad un certo punto, mentre Arnolfo sedeva assorto nelle sue meditazioni, un’improvvisa folata di vento gelido spense la luce della sua lanterna. Solo il chiarore lunare illuminava d’argento una parte delle gallerie.

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Udì dei passi. Un fruscio. “Chi va là? Chi è?”. Arnolfo si alzò e si avvicinò all’ingresso ma vide che era chiuso. “Chi è? Fratello Arnodus siete voi?”. Credette fosse Arnodus, il guardiano, ma non ottenne risposta. Finché i suoi occhi, ormai abituati all’oscurità, riconobbero un profilo, una sagoma, un’ombra tra le ombre…

Stella

L’enigma di Orso e il codice del chiostro. Cap. 3

“Acqua! Presto, portate acqua!!”. L’intero convento era in subbuglio. Anzi, l’intero borgo di Porta Sant’Orso. Tutti accorrevano per aiutare a domare le fiamme; un fumo nero avvolgeva ogni cosa e intossicava gli uomini. Arnolfo non ci pensò due volte. Corse immediatamente allo scriptorium; alcuni confratelli tentarono di fermarlo, di impedirgli di gettarsi in quel vero e proprio inferno, ma non vi fu nulla da fare. Facendo appello a tutte le sue forze e al suo coraggio, Arnolfo si rovesciò un mastello d’acqua addosso e si infilò in quelle mura fiammeggianti. “Il codice! Mio Signore, ti prego, fa che si sia salvato! Non posso perdere quel codice!!”. Le fiamme, il calore, il fumo. Poi, più nulla.

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“Priore! Priore! Nobile Arnolfo, dove siete?!!”. L’incendio era stato finalmente arginato, ma di Arnolfo pareva non esservi più traccia… I confratelli e gli operai cercavano spasmodicamente in mezzo alle macerie, alle travi crollate, al fumo persistente.

Ad un certo punto qualcuno nota un lembo di tonaca, un piede… Arnolfo! “Eccolo! Presto, aiutatemi a tirarlo fuori!!”. Subito tutti si adoperarono per sollevare quel pesante armadio che si era abbattuto su Arnolfo-. Il priore era privo di sensi, ferito e contuso; lo portarono in infermeria dove venne immediatamente sottoposto alle cure del cerusico e dell’erborista.

Sospeso in uno stato di morte apparente, sprofondato in un sonno imperturbabile, l’unico segnale di vita era quel lento alzarsi ed abbassarsi del petto che lasciava capire che il priore era ancora in vita. Per quanto debole, quel respiro lasciava ben sperare.

“Non temere Arnolfo, sono qui accanto a te! Non ti abbandonerò. Insieme dobbiamo portare a termine la nostra missione. Presto starai meglio. Non perdere tempo. Guarda a sud, Arnolfo. E non dimenticarti della direzione del sole. Una serie di antichi sapienti saprà parlarti. I loro insegnamenti andranno scolpiti nel marmo. E i gemelli, Arnolfo. Nati dallo stesso grembo, eppur così diversi. Là dove il sole scompare, l’albero di Israele si sdoppierà; due gemelli, una moltitudine di fratelli. Prima l’odio, poi la pace. Guarda nella notte. Con gli occhi penetra le tenebre, Arnolfo. La luce di Dio ti accompagnerà”.

“Padre Ardagh! Padre Ardagh!!”. Arnolfo dopo tre giorni si risvegliò di soprassalto facendo sobbalzare il confratello che lo assisteva. “Presto, dobbiamo proseguire i lavori! Presto… e, e il mio codice… dov’è il mio codice?!!”.

Arnolfo guardò interrogativo il giovane confratello accanto a lui. Strano, non lo aveva mai visto… forse non lo aveva notato; forse era il giovane novizio giunto dalla Tarantasia… Il monaco lo fissò. Quegli occhi… una strana sensazione pervase Arnolfo facendolo rabbrividire. Quegli occhi, quell’azzurro… no, non è possibile. Il novizio gli porse un fagotto: “Cercate questo mio nobile priore? Lo tenevate stretto sotto la vostra veste.”

Arnolfo, tra l’incredulo e l’euforico, afferrò quel fagotto avvolto nella stoffa e lo aprì. “Il codice!”. Fortunatamente si era danneggiato solo in parte… Quelli che aveva sofferto maggiormente erano i capitoli finali. Molte pagine erano annerite e parzialmente bruciate. Illeggibili. Perdute. Alzò lo sguardo verso il novizio per ringraziarlo, ma il ragazzo non c’era più. Non lo aveva neppure sentito uscire… mah, che strano! Lo avrebbe cercato più tardi.

Tuttavia non si perse d’animo. Riprese il lavoro con ancor più passione di prima. Le rovine dell’incendio erano state rimosse in breve tempo. In fin dei conti la biblioteca si era salvata e lo scriptorium aveva subito danni risolvibili. Nuovi banchi, nuovi leggii, nuovi scaffali: i carpentieri erano già stati allertati. Così come aveva già provveduto ad ordinare una nuova fornitura di pigmenti e foglia d’oro.

Il Signore aveva voluto salvarlo. E le sue vesti zuppe d’acqua avevano in buona parte protetto il codice: il tavolo sul quale lo aveva lasciato era stato appena lambito dalle fiamme, l’unico… Quasi un miracolo!

Dopo alcuni giorni di studio e ricerca, messe insieme le notizie del codice ancora leggibili e le sue conoscenze, il priore convocò il capo cantiere. I lavori di decorazione del colonnato sud dovevano tassativamente partire.

La galleria sud

Anche qui avrebbero dovuto cominciare da est con la menzione della data di inizio della vita regolare: “ANNO AB INCARNATIONE DOMINI MCXXXIII IN HOC CLAUSTRO REGULARIS VITA INCEPTA EST“. “Ricordati… la direzione del sole…”.

Subito dopo doveva esserci la raffigurazione dei protagonisti dell’avvio della nuova vita claustrale: Sant’Agostino, i SS Pietro e Orso, il primo priore Arnolfo (reso con dimensioni inferiori) e infine il vescovo Erberto.

A seguire due capitelli avrebbero ricordato la missione dei monaci attraverso figure significative di apostoli (spicca la figura di S. Andrea, assai venerato a Sant’Orso) e pie donne (Marta e Maria).

Poi Arnolfo volle un capitello interamente dedicato al patrono Orso ispirato alle tradizioni locali (del resto le uniche conosciute ai più) e raffigurante i momenti più salienti della sua vita: la carità verso i poveri, il miracolo della fonte, l’episodio del servitore del perfido vescovo Ploceano e infine la morte di quest’ultimo. Volle inoltre far rappresentare la malvagità di Ploceano attraverso una strana mitra a due corni, quasi fosse una sorta di diavolo, unita ad un volto dai tratti ferini. Arnolfo inoltre stabilì che questo capitello fosse davvero speciale grazie ad un particolare artificio idraulico. I lapicidi, infatti, dovevano lasciarlo cavo e creare un foro in corrispondenza della “fons Sancti Ursi“, ovvero la miracolosa sorgente di Busseyaz, così da poter riempire d’acqua il capitello e rendere ancor più realistico il miracolo del Santo.

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Da questo punto in poi, procedendo verso ovest, doveva prendere avvio una ricca sequenza di profeti: i quattro maggiori, i dodici minori e in più i quattro detti “anteriori”: Mosè, Balaam, Natan ed Elia, ognuno recante un rotolo con il motto del proprio libro. “Una serie di antichi sapienti saprà parlarti…”.

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Una scelta assai colta quella di Arnolfo che inoltre volle, ispirato dal codice di padre Ardagh, che ai profeti della galleria sud corrispondessero specifici messaggi delle scene situate a nord. La scelta dei versetti, privi di legame logico nell’economia della sequenza, lasciò perplessi molti dei confratelli, ma Arnolfo non volle sentire ragioni. Sarebbe stata un’originale peculiarità del chiostro di Sant’Orso.

Natan cita il peccato e per questo richiama il peccato originale. Balam mette in guardia dalle malizie dei falsi sapienti (quindi instaurando un legame col serpente). Elia cita “tria tabernacula” e sul lato opposto troviamo i 3 fanciulli nella fornace. Mosè invita ad innalzare canti a Dio per trovare la salvezza.

Isaia con un unico verbo ricorda l’apparizione del bastone dal tronco di Yesse: l’inizio della stirpe di David. Chiosa accanto Geremia: “questo è il nostro Dio”. Ezechiele ricorda che “i padri mangiarono uva acerba”. In passato i tempi non erano maturi, ma oggi esiste una nuova comunità riformata. “Guardavo nel volto della notte” recita il cartiglio dell’imberbe Daniele. Una visione messianica; un ficcare gli occhi nel buio più profondo per poter vedere ciò che ancora non è, ma che sarà: la venuta in gloria del Messia.

Il primo dei profeti minori è Osea che paragona la gloria di Dio ad un olivo, simbolo di pace per le genti. Amon precisa che “il Signore sorgerà da Sion”, quasi una conferma per i tre Magi situati sul lato opposto. Abdia vaticina che “il Signore allontanerà i saggi da Idumea (Palestina)”, cioè avvertirà i Magi di tenersi alla larga dalle genti idumee, con chiaro riferimento ad Erode. La sua strage degli innocenti è ricordata da Gioele che ricorda il pianto delle madri dei bimbi massacrati.

Giona, meditando sui suoi errori durante i tre giorni trascorsi nel ventre della balena, impara ad affidarsi al Signore e quando ne esce, sano e salvo, è come se rinascesse dall’inferno a nuova vita. Michea sentenzia che “l’uomo giusto abbandonò la terra” ventilando morti innocenti. Ma subito dopo Naum manda un messaggio positivo: “il sole è sorto”. I nemici svaniscono, le ombre si dissolvono, quando interviene Dio. Infine Abacuc sottolinea l’importanza di dare da bere ai propri amici, naturalmente con intento moraleggiante.

L’ultimo dei capitelli dei profeti si apre con il messaggio di speranza di Aggeo: “Io muoverò il cielo”, da completare “affinché vi sia un cielo nuovo e una terra nuova. Zaccaria ricorda l’ira di Dio verso il suo popolo, che tuttavia deve essere vista come potente stimolo alla conversione. Malachia maledice colui che tesse inganni. E, non a caso, dall’altra parte si trova la favola della volpe e della cicogna. L’ultimo profeta è Sofonia che invita la Chiesa “figlia di Sion” ad innalzare lodi al Signore.

Ed eccoci agli ultimi tre capitelli della galleria sud. Subito dopo i profeti Arnolfo decretò la raffigurazione di quattro uomini seduti su seggi intenti a sostenere delle piante le cui radici sono chiuse in un sacco. Alternativamente un uomo barbato ed uno imberbe: quando uno reggerà il doppio ramo fiorito, l’altro avrà in mano un solo ramo secco e viceversa. Arnolfo pensava che questa simbologia avrebbe fatto ben capire i rapporti tra i canonici di Sant’Orso e il Capitolo della Cattedrale, soprattutto per quanto concerneva il potere di elezione del vescovo.

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Segue un capitello connotato da un motivo vegetale e da quattro teste caprine. Nella parte alta dovrà figurare questa scritta: “MARMORIBUS VARIIS HEC EST DISTINCTA DECENTER FABRICA NEC MINUS EST DISPOSITA CONVENIENTER“.  Ma sì, si disse Arnolfo, un piccolo autoelogio ci sta! Questo splendido chiostro istoriato richiamerà l’attenzione per la varietà delle sue sculture marmoree e della raffinatezza con cui sono state disposte.

E ultimo il capitello con le aquile. Non dimentichiamo che siamo nei pressi del refettorio! Già, perché i monaci sono equiparati ad aquile che, se da un lato sono gli unici volatili capaci di guardare il sole volando più in alto di tutti, quando ha bisogno di cibo scende a terra in cerca di carne. Magari qualcuno saprà interpretare questa “carne” pensando al miracolo dell’Eucaristia?

Arnolfo era decisamente soddisfatto del lavoro: il suo studio e le sue indicazioni avevano imbastito una decorazione che avrebbe stupito tutti! E doveva riconoscere che i lapicidi erano davvero talentuosi e assai operosi.

Ripreso il codice, Arnolfo si rese conto che per la galleria occidentale era rimasto davvero poco di scritto. La parola che più spesso ricorreva era “gemini“, gemelli. “Gemelli… gemelli, simili eppur diversi…” continuava a ripetere tra sé e sé. Arnolfo si dedicò al completamento della miniatura, che si era salvata. Eccoli! Ma certo… Aveva trovato il soggetto da far rappresentare sulla galleria occidentale… “là dove il sole scompare”, non a caso in direzione della Cattedrale…

Un’altra squadra di scalpellini e scultori era pronta a partire. Certo il tema stabilito dal priore non era affatto semplice da raffigurare.. oltretutto in così poco spazio. Fu allora che ad Arnolfo venne un’altra idea…

 

Stella

L’enigma di Orso e il codice del chiostro. Cap. 2

Alla fine capì. Sebbene non tutto il lavoro fosse ancora giunto a termine.

Nei capitoli che avevano richiesto maggiore impegno, padre Ardagh descriveva il suo chiostro ideale, un chiostro dove vivere, meditare, pregare, invocare la vittoria del Dio della Luce sulle tenebre. Il Sole della fede che combatte le ombre del male, lo stesso tema che Arnolfo chiese venisse rappresentato all’interno della chiesa in un grande ed emblematico mosaico al cui centro avrebbe dovuto troneggiare Sansone, il cui nome racchiude la parola ebraica “sole” e i cui lunghi capelli avrebbero simboleggiato i raggi, intento a lottare contro una fiera obbligandola a guardare verso l’alto, verso Dio.

Riga dopo riga, parola dopo parola, Arnolfo comprese: Ardagh aveva illustrato un vero e proprio programma didattico ed iconografico e lui decise che lo avrebbe concretizzato! Non sapeva quando, ma presto ne avrebbe avuto l’occasione…

Nel giro di pochi mesi Arnolfo venne nominato priore. Tra le sue prime iniziative vi fu il voler abbracciare e proporre ai suoi confratelli l’abbandono della vita secolare a favore della regola di Sant’Agostino. E anche questo obiettivo venne raggiunto, nel giubilo generale, nell’anno del Signore 1133 dall’Annunciazione alla Vergine (anno 1132 dalla Natività).

La comunità si ingrandì e perciò anche il convento necessitava di nuovi spazi tra cui, non a caso, un chiostro, il vero cuore dell’intero complesso ursino, uno spazio fondamentale per le necessità della vita claustrale. Si scelse il lato sud della chiesa, quello meglio esposto al sole; qui prima non c’era mai stato nulla, ma l’area era esigua e perciò fu necessario eliminare tre contrafforti della chiesa voluta precedentemente dal vescovo Anselmo. La forma sarebbe stata rettangolare, ma non perfettamente regolare in quanto si rivelava necessario assecondare alcune preesistenze che andavano legate al nuovo chiostro, tra cui anche la biblioteca e lo scriptorium. Al centro ci sarebbe stato un pozzo, l’acqua, simbolo di purezza, di vita, di rigenerazione. Ogni elemento, ogni particolarità, ogni dettaglio descritto nell’oscuro testo di padre Ardagh doveva essere riprodotto.

Arnolfo chiamò i migliori maestri lapicidi di Provenza e Lombardia, addirittura un noto magister iberico, tale Petrus, che si misero immediatamente all’opera. Il nuovo priore volle seguire personalmente la scelta dei marmi che richiese fossero di varie tessiture e sfumature, così come di diverse forme dovevano essere i capitelli. Tutto doveva rispecchiare l’armonia e l’equilibrio. Le scene raffigurate avrebbero dovuto richiamarsi, specularmente, simili nel messaggio seppur diverse nei personaggi, sui lati nord e sud, entrambi da fruire procedendo da est verso ovest, ab solis ortu usque ad occasum, seguendo il naturale ritmo del sole con direzione antioraria, quindi in armonia col moto sempiterno delle sfere celesti, allo stesso modo in cui gli antichi Romani fondavano le città.

La galleria nord

Arnolfo stabilì che si cominciasse dal lato nord, quello attaccato alla chiesa e meglio illuminato dal sole. Quello in cui dovevano prevalere le figure sulle epigrafi. Il lato settentrionale avrebbe raccontato per immagini l’origine dell’uomo e il peccato originale, la rinuncia al paganesimo e l’avvento del Salvatore con scene dell’Annunciazione, dell’Incarnazione e della Santa Natività fino all’annuncio ai pastori e ai Magi d’Oriente per poi approdare al tragico episodio della strage voluta da Erode. Il racconto sarebbe continuato con la fuga in Egitto, posta in corrispondenza del varco verso l’area centrale. Si sarebbe quindi proseguito col martirio di Stefano, primo testimone della vera fede ucciso a colpi di pietre, di cui il convento custodiva anche due sacre reliquie.

La raffigurazione avrebbe inoltre previsto una scena di quotidianità monastica dominata da una grande ruota di pozzo: il mandatum, ossia la lavanda dei piedi che veniva praticata il sabato pomeriggio a voler ricordare lo spirito di umiltà e di servizio. Era infatti questo un rito cui Arnolfo teneva moltissimo e che veniva regolarmente eseguito.

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La volpe e la cicogna (dal sito http://www.viaggioneltempo.eu)

Non sarebbe inoltre dovuto mancare un capitello dedicato alla nota favola della volpe con la cicogna, emblematica per insegnare che “chi la fa, l’aspetti”. Un primo velato riferimento ad un annoso dissidio con i confratelli del Capitolo della Cattedrale. Chissà come aveva fatto padre Ardagh ad individuare la favola più adatta… mah… quell’uomo era ammantato da un alone di mistero difficile da definire. Quegli occhi sapevano vedere sempre oltre, in dimensioni che le umane facoltà spesso trascuravano o addirittura ignoravano. Un grande uomo.

E neppure dovevano mancare capitelli occupati da specie vegetali, frutti o animali di fantasia, solo in apparenza meramente figurativi ed esornativi, ma in realtà densi di significati tutti da scoprire. Occorrerà saper guardare oltre le apparenze perché i fiori e i frutti scelti non sono casuali. Arnolfo, ad esempio, aveva in mente il fico: se produce solo foglie senza frutti, per quanto siano queste belle e grandi, allora è un fico cattivo e bisogna guardarsene!

Giunti all’estremità ovest Arnolfo avrebbe voluto un capitello dedicato ad esseri per metà uomini (sia imberbi che barbati) e per metà aquile: un invito ai suoi monaci a comportarsi come le aquile, ossia a saper guardare verso il cielo, verso Dio, grazie allo studio e alla preghiera.

Ma c’era un “problema”, o meglio una sorta di inspiegabile assenza. Nel codice non era stata considerata la decorazione destinata al grande pilastro dell’angolo nord-est. Arnolfo aveva capito che l’ingresso al chiostro avrebbe dovuto effettuarsi da quel punto, sempre in armonia col moto celeste e solare, ma si chiedeva come mai padre Ardagh non avesse dato indicazioni sul tema da raffigurare in un punto così significativo ed importante. Eppure non vi erano lacune nel testo. Lo aveva letto e riletto con estrema attenzione. Forse una dimenticanza? Davvero strano! Forse un addendum alla fine del codice? E perché mai? Ad ogni modo i lavori dovevano iniziare. Arnolfo condivise le tematiche coi maestri lapicidi e con le maestranze tralasciando temporaneamente la questione del pilastro angolare. Che lo tenessero grezzo per il momento, ci sarebbero tornati in seguito.

Il cantiere di Saint Denis (dal sito RestaurArs)
Il cantiere di Saint Denis (dal sito RestaurArs)

Il cantiere prese vita. Un formicolio di operai, manovali, mastri carpentieri per le capriate di copertura, scultori, scalpellini, marmisti… era tutto un “via vai”. Arnolfo era decisamente soddisfatto. Di notte, anziché riposare, continuava nel suo lavoro di decodifica e decorazione miniata del codice di Ardagh.

Alcune notti dopo, durante questo appassionante ma sfiancante lavoro, Arnolfo si accorse di aver terminato un colore importante, il blu, quello ottenuto dalla preziosa polvere dei lapislazzuli e che veniva usato in gran quantità per il manto della Vergine e per la sopravveste del Cristo, simbolo di nobiltà spirituale e trascendenza. Arnolfo decise di trasferirsi nello scriptorium dove erano conservate le scorte di pigmenti utili ai miniaturisti. Lavorò con estrema concentrazione per tutta la notte. Non andò nemmeno a riposare, ma dallo scriptorium si portò direttamente in chiesa per le prime preghiere dell’alba.

Assediato dai diversi magistri e preso dalle incombenze che il suo ruolo gli imponeva, Arnolfo non si accorse nemmeno del tempo che passava fino a che…

“Accorrete! Accorrete! Aiuto! Al fuoco, al fuoco!!! Lo scriptorium!!! Presto, sta bruciando tutto!!”…

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Dal sito http://www.scrivolo.it

Stella

Liebster Award. Alla ricerca di nuovi bloggers emergenti. Nominata… e neppure me ne ero accorta!

Mi ritengo un’apprendista archeo-blogger. Insomma, è nato tutto per passione e anche un pò per lavoro. Sì, perché da archeologa “nuda e cruda” quale ero fino al 2012, negli ultimi anni, lavorando nel settore turistico, mi sono aperta (e mi sto ancora impratichendo) alla comunicazione/divulgazione on-line. Social, blog, siti web… insomma, passare dall’essere un topo di biblioteca un pò old style ai blog per me è stato un salto notevole. E pensare che molti ancora non accettano che una disciplina così seria ed impostata come l’archeologia possa essere comunicata in questo modo e con questi mezzi… mah.. prima o poi si svecchieranno! Basta che non si perdano treni importanti però!

La passione del “comunicare” l’ho sempre avuta ed un primo banco di prova fondamentale è stato per me l’aver insegnato a scuola per 4 anni; sia in un liceo che alle medie. Una missione, non un ripiego! Una professione che mi ha dato tanto in termini umani visti i riscontri positivi ricevuti dagli alunni! Ma anche in termini professionali, aiutandomi nel declinare i vari registri per far capire le cose, per riuscire a mediare contenuti in sè ostici per alunni di diverse età e capacità. Il voler a tutti i costi far capire; il voler allargare le conoscenze dei ragazzi, aiutarli nei collegamenti interdisciplinari, il voler riuscire a rendere meno noiose materie come  ad esempio il latino usando l’appeal dell’archeologia… ecco.. tutto questo credo abbia affinato non poco la mia innata voglia di comunicare. Passione per la comunicazione e per la divulgazione!

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Da quando opero nel settore del Turismo in Valle d’Aosta, sto cercando di dedicarmi il più possibile (anche se non è semplice) a fare da tramite tra Turismo, appunto, e Cultura (che purtroppo in questa regione sono enti diversi). Mi occupo nello specifico di Turismo culturale seguendo progetti e comunicando on line sui canali ufficiali tutto ciò che nel settore dei BBCC può costituire occasione di visita e di vacanza. Ne approfitto quindi per segnalarvi il nostro sito web: http://www.lovevda.it e il nostro blog dove io personalmente seguo in particolare il canale “Cultura”: http://www.vdamonamour.it

Ma potete seguirci anche su Facebook e su Twitter

Ma veniamo al mio personalissimo archeo-blog: ARCHEOLOGANDO!

Ho cominciato quasi 2 anni fa a maturare l’idea. Non sapevo neppure da che parte iniziare e così ho cominciato a guardare gli archeoblog su Internet. Ammetto che Professione Archeologo mi ha dato una bella ispirazione! Così come ArcheoPop! Poi, dopo aver avuto la fortuna di conoscere queste fantastiche archeologhe dal vivo a Firenze… beh, la voglia è aumentata a dismisura!

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Ma io non volevo parlare solo di archeologia… volevo creare un blog di turismo archeologico con l’intenzione di raccontare agli amici i miei viaggi e soprattutto la mia regione, la Valle d’Aosta, sotto una luce totalmente diversa dal solito quadretto “mucche, neve, montagne”. Sì, volevo in qualche modo contribuire a far nascere la voglia di venire quassù per scoprire, oltre alla natura, anche un patrimonio culturale decisamente notevole ed inaspettato! Quante volte, accompagnando per lavoro dei press-tour in visita alla città di Aosta, ho potuto notare lo stupore di trovarsi davanti a monumenti di epoca romana così grandiosi che mai avrebbero immaginato! Aosta è questo: una piccola “Roma delle Alpi” che ti regala scorci di pura classicità romana incorniciata da vette innevate.. e non è come dirlo! E non solo romanità! Una Preistoria ed una Protostoria particolarissime ed ammalianti… un Medioevo sorprendente…
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Quindi, rispondiamo alle domande che le altre archeo-bloggers mi hanno rivolto:

  1. Qual è il target di riferimento del tuo blog?      

Mah, direi un target decisamente vasto e multiforme! Naturalmente occorre avere un minimo di curiosità verso l’archeologia e verso i viaggi culturali, ma cerco di usare un linguaggio semplice, immediato e sufficientemente narrativo adatto a nutrire aspettative ed interesse. Dai ragazzi delle scuole fino ai gruppi “silver” over 65 passando dal turista di passaggio, occasionale, spesso inconsapevole che quasi per caso si trova a passare in questa Valle. Ma non parlo solo di Valle d’Aosta.Spesso, da turista, racconto i miei viaggi, le mie scoperte, le mie “avventure” sperando di dare spunti di viaggio ad altri.

2. Quali sono o qual è il post che ha avuto più successo? E perché, secondo te?

Sicuramente quello dedicato alla mia più importante scoperta: l’orientamento astronomico di Augusta Praetoria Salassorum (Aosta) al solstizio d’inverno: https://archeologando.wordpress.com/2015/12/20/aosta-citta-del-solstizio-dinverno/    che ha totalizzato ben 1322 visualizzazioni! Un vero record per me!

Intanto si tratta di archeoastronomia fatta in prima persona sul campo… ( e io ci scherzo dicendo che non poteva capitarmi una cosa diversa dato che faccio l’archeologa e mi chiamo Stella!!).

Tutto nato da un lavoro di routine: una sorveglianza archeologica per la realizzazione di una cabina elettrica interrata! Era il febbraio 2012. Quando emersero quegli altorilievi non potevo credere ai miei occhi! Da lì è stato tutto un appassionante e totalizzante crescendo di studio e ricerca condotti, a partire da un certo momento in poi, insieme al Prof. Giulio Magli, ordinario di Archeoastronomia al Politecnico di Milano. Una torre angolare di origine romana. Livelli da secoli interrati e mai rimessi in luce. Un blocco angolare con le due facce a vista istoriate. Simboli emblematici. Augusto. Il Capricorno. Un aratro… vi è venuta un pò di curiosità? Una ricerca che ha dato immensa soddisfazione riuscendo ad essere accettata e pubblicata anche sul Cambridge Journal of Archaeology!

E anche questo, ossia la possibilità di apprezzare ancora oggi l’allineamento del sole sul Kardo Maximus nelle giornate tra il 21 ed il 24 dicembre, è un’ottima motivazione di turismo archeoastronomico, quindi… venite ad Aosta!

3. Polemiche, troll, flame sono parte integrante del mondo social (purtroppo). Hai avuto esperienze dirette e come te la sei cavata?

Fortunatamente fino ad ora non ne ho avuta esperienza.. almeno sul mio blog! Altrove sì, e rispondo sempre con garbo ed educazione. Mai lasciare critiche sospese… Quanto al mio blog, invece, diciamo che si tenta di offuscarlo con l’indifferenza… ma io persevero! Ma sì, diciamo che il mio archeo blog è, appunto, “mio” e per alcuni questo non consentirebbe di diffondere contenuti prodotti da enti pubblici… ma siamo alla follia!

4. Cosa ti ha spinto a creare il tuo blog? Raccontaci la tua backstory!

L’ho già detto prima. La voglia e la passione di comunicare contenuti apparentemente non alla portata di tutti “traducendoli” in un linguaggio più immediato e quotidiano facendo venir voglia di viaggiare per venire a vedere il nostro patrimonio dal vivo. E anche perché qui da noi spesso (troppo spesso, ahimé) l’archeologia è vista come “spesa inutile”, come “fumo negli occhi” da un’opinione pubblica stanca di lavori lunghissimi, di blocchi della circolazione, di “buchi per strada” ecc… quindi vorrei, assai ambiziosamente, riaccendere interesse positivo insomma.

Ma non mi occupo solo di Valle d’Aosta, sia chiaro! Io mi muovo preferibilmente in contesto alpino nord-occidentale… Roma sulle Alpi, direi! Con alcune spigolature in Francia (mia terra d’elezione) e Svizzera. Ha riscosso un buon successo di pubblico la serie di quest’estate dedicata alle “Auguste” intorno a noi, ad esempio! Questo, molto probabilmente, si deve al fatto di essermi laureata in “Archeologia delle Province romane”..

Protagonista principale però è la Valle d’Aosta dove questo genere di comunicazione archeologica è ancora sostanzialmente “nuova”, comunque poco utilizzata e poco percepita, per quanto sia utile ed efficace così come facile da veicolare! Servirebbe solo un pizzico di visibilità in più…

5. Consigli per aspiranti archeoblogger: DOs and DONTs dell’archeoblogging secondo te.

Il mondo dell’archeologia è vastissimo. Una multidisciplinarietà immensa che può consentire di scrivere pagine e pagine cercando di far conoscere sempre meglio questa materia così ricca e affascinante. Quindi, fatevi sotto!

Siate entusiasti; appassionati e appassionanti! Siate curiosi ed incuriosenti. Siate motivati e motivanti! Metteteci del vostro, abbiate un vostro stile, un vostro colore. Non limitatevi a descrivere un sito, una mostra, un museo credendo che più si è accademici e meglio è! parlate come se foste al bar, al supermercato. Parlate come se doveste convincere un vostro amico ad andare a visitare un luogo o a fare un viaggio… I notiziari di scavo, i bollettini, gli atti di convegno.. sono altra cosa e hanno altre sedi, altri destinatari, altre occasioni. liebster-award-main

Ringrazio nuovamente per la graditissima nomination e… Buon lavoro a tutti!

 

Stella

 

 

 

Natività. La grotta della Luce

Inizio subito con una data: 12 ottobre 2016. Era un mercoledì. Erano le 14,04. Veniva alla luce la mia adorata bambina: Costanza. Una creaturina di puro amore e dolcezza che, come non faticherete a capire, assorbe tutto il mio tempo e la mia dedizione. Ecco perché ormai da tempo non arricchisco questo mio blog…

Adesso che la piccola ha compiuto i 2 mesi e che la mamma sta riguadagnando un minimo di ispirazione, rieccomi!

Non vi nego che in questo post che vi accingete a leggere, una grossa parte di merito è proprio della mia bimba. Già, perché si parla di Natività.

Un paio di giorni fa stavamo allestendo il nostro piccolo presepe e Costanza un po’ sonnecchiava e un po’ osservava quanto stessi facendo su quel davanzale coi suoi occhietti vispi e curiosi.

Tenevo tra le mani quelle statuine e nel sistemarle nella grotta mi sono venuti in mente interi millenni di fede, di culti, di ricerca del sacro.

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Da mamma mi ha colpito, per la prima volta, quel bimbo seminudo disteso nella paglia, così, con le braccine sollevate verso il cielo che, se da un lato simbolicamente richiamano il triste futuro di sacrificio in croce che lo attende, dall’altro ripetono la più istintiva e naturale richiesta di affetto dei neonati: “Mamma, mi abbracci? Mi riscaldi contro il tuo cuore?”. Ma la giovane e ancora sconcertata Maria non lo fa… almeno in questa scena. Lo guarda, a mani giunte, e non le viene neppure in mente di togliersi il velo per coprire quel corpicino esposto al gelo della notte. Un’immagine che davvero già richiama quella che sarà la più classica iconografia del Golgota: la Madre, affranta, ripiegata su se stessa, da una parte, e un San Giovanni a capo chino dall’altra al posto dello sbigottito ed incredulo San Giuseppe.

Ho pensato a quanto antica sia questa scena, a quanto indietro nel tempo occorre risalire per riviverla e ritrovarla. E non mi fermo a Greccio, a quel primo presepe inventato da San Francesco. Vado ancora più indietro. Anche oltre la “grotta” di Betlemme. In quella grotta (o stalla secondo altre versioni) ritroviamo la Luce, quella del solstizio d’inverno, quella con la “L” maiuscola che vince le tenebre più oscure e che porta l’Amore e la Pace. Una Luce che da sempre, ogni anno ritorna e si rinnova rinvigorendo le speranze degli uomini, inverno dopo inverno.

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Vorrei infatti ora condividere con voi alcune riflessioni, alcune “spigolature”, chiamiamole così.

Mentre la mia bimba se la dorme avvolta nella sua copertina preferita, penso al grembo materno, quello nel quale io, come miliardi di altre donne da sempre, racchiudiamo la vita per 9 mesi. E il legame con la “grotta” è fortissimo. Pensiamo alle prime forme di culto, o se preferite di sciamanesimo, di magica ritualità, attestate nelle grotte frequentate dall’uomo preistorico. Mi viene in mente un viaggio fatto tempo fa in Ardèche e in Périgord, nel Sud-Est della Francia. Un viaggio alla ricerca delle più remote radici umane, un viaggio alla scoperta delle grotte dipinte da mani sconosciute, popolate dai neri profili di animali diversi: uri (buoi preistorici), tigri, pantere, bufali, orsi… Grotte profonde e scure; antri pericolosi che non erano di norma abitati (al massimo le tracce di frequentazione umana si fermano al loro ingresso), ma venivano perlustrati in occasioni particolari. Grotte che, sala dopo sala, parlano il linguaggio della più arcana e pervasiva sacralità. Molti sono infatti gli studiosi che ne parlano come di veri e propri santuari paleolitici. Va comunque detto che, anche al di là di incontrovertibili prove archeologiche (assai difficili da ottenere in questo ambito), una volta penetrati nella penombra di queste caverne e messi a fuoco quei disegni, il fiato si mozza, il cuore rallenta… quell’atmosfera sospesa prepara al sacro. E’ un fatto emozionale, di pelle e di pancia; non servono prove! Istintivamente abbassi la voce e cammini come in punta di piedi, proprio come si fa in una chiesa o in una moschea. L’udito si affina, così come l’olfatto; è l’enfatizzazione del nostro essere sensibile. Si ha davvero la percezione di essere “circondati” da presenze impalpabili ma immanenti, di essere inglobati nel sacro più arcaico e viscerale, potentemente viscerale. E ci si guarda intorno cercando di bucare l’oscurità, in attesa di qualcosa, di una sorta di “ierofania”.

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Ditemi voi se la grotta non può rappresentare al meglio l’idea di manifestazione del sacro ad un gruppo di uomini spaventati ma partecipi, di uomini in attesa della Luce nel buio. Un grande ed inspiegabile interrogativo, un profondo mistero, che di secolo in secolo, di cultura in cultura, di credo in credo, si è ripetuto, trasformato e protratto fino ai nostri giorni, al nostro Natale.

E una grotta prevede quasi sempre la presenza di acqua, di polle sorgive, di falde affioranti, di stillicidi. Acque purissimi, acque… “vergini”. Questo è la Madonna, la Vergine, all’interno della grotta del nostro presepe: la purezza. Purezza e fecondità unite in un’unica presenza, quella della Madre del Signore.

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Una madre insolita, che per partenogenesi divina ha partorito un Dio. Un episodio assai antico, presente anche in altre religioni, tra cui in primis il Mitraismo. Iniziatosi a diffondere nel mondo romano fin dal I secolo a.C., ma esistente in Oriente, in particolare in Persia, sin dal II millennio a.C. . Mitra, un dio Sole, un dio della luce, che nasce nel cuore dell’inverno, il 25 di dicembre, da una Vergine. O, secondo altre versioni, da una roccia. E qui ritorna un fortissimo legame tra rocce e fecondità, altresì attestata da tanti luoghi emblematici delle nostre montagne, da tanti “berrio” ammantati di ineffabile sacralità. E le grotte sono comunque di roccia… Inoltre può apparire strano che un dio solare come Mitra venga venerato all’interno di grotte e di luoghi appositamente ricavati e allestiti nei seminterrati come i Mitrei. E’ la Luce che deve vincere le tenebre, che deve apparire e manifestarsi.

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Giuseppe è il sacerdote, colui grazie al quale la ierofania si rende possibile, non solo quella del Bambino, ma anche quella della Vergine. E’ l’uomo scelto da Dio e capace di ascoltarlo al fine di facilitarne la manifestazione in terra e di mediarlo agli uomini “in attesa”.

Il bue, da sempre simbolo del sacro, delle antiche religioni. Nell’economia dei personaggi del presepe rappresenta il paganesimo (ricordate gli dei dal corpo taurino, i tori sacri, i Minotauri, le tauroctonie mitraiche, fino al “vitello d’oro” contro cui si scagliò l’irato Mosé?). Ebbene, anche il popolo ancora pagano assiste all’avvento della Luce.

L’asino, il più umile delle bestie al servizio dell’uomo. L’asino qui rappresenta il gradino più basso della società, il popolo degli uomini ancora incapaci di ascoltare e capire, oppure dotati di indole buona e perciò in grado di mettersi al servizio e all’ascolto di Dio (si pensi alle lunghe orecchie). Meditiamo anche sul fatto che quando Gesù farà il suo ingresso trionfale a Gerusalemme (la domenica delle Palme), lo farà proprio a cavallo di un asino!

Tutto questo lungo excursus per poi tornare alla realtà. In fin dei conti cos’è la scena davanti a me? E’ quella di una famiglia nella quale è appena venuto al mondo un bambino. E ogni bambino che nasce è la Luce, e porta il Sole nelle vite dei suoi genitori che lo guardano intimoriti ed estasiati, in attesa di ogni suo sguardo, di ogni suo piccolo gesto, di ogni suo dolce sorriso.

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Ecco, questo è il Natale. L’arrivo e il rinnovarsi della più luminosa forma di Amore, al di là dei secoli e delle culture.

Auguroni a tutti amici miei!

Stella