L’enigma di Orso e il codice del chiostro. Cap. 5-La rivelazione

“Chi sei…? Parlami!”. Arnolfo era spaventato, ma non riusciva (né voleva) fuggire. Come paralizzato aspettava nel buio che quell’ombra si rivelasse. Che fosse invece un sogno? Una visione? Ad un certo punto il raggio bianco della luna, quella notte più piena e intensa che mai, diede un volto a quel fantasma silenzioso. Tremante,  Arnolfo riuscì a malapena a pronunciare due sole parole: “Siete voi…”.

Quegli occhi… quello sguardo azzurro ghiaccio incastonato in quel volto dal fascino antico… “Padre Ardagh!!”.

“Eccomi Arnolfo. Sono tornato. Il tuo lavoro sta per giungere al termine. Sei stato un ottimo discepolo. Hai incontrato mille difficoltà. Non era affatto semplice seguire le mie oscure, spesso labirintiche, indicazioni. La tua dedizione e il tuo impegno, uniti alla tua fede solida ed incrollabile, sono stati e sono tuttora davvero encomiabili”.

“Padre… padre Ardagh… ma, son trascorsi anni. Voi… voi siete identico a come vi ricordavo. Com’è possibile?! E ad ogni modo il lavoro è lungi dall’essere finito, padre. Il codice è andato in parte distrutto… e io non so come fare…!”.

“Non temere Arnolfo. Sai che io non ti ho mai abbandonato. E ti aiuterò anche ora. So che il tuo cruccio è il grande pilastro di nord-est. Questo pilastro è importante, è la chiave di tutto; è il simbolo della mia presenza. In questo pilastro, caro Arnolfo, tu potrai ritrovarmi sempre, se saprai leggermi, se saprai chiamarmi. Sempre, nei secoli che seguiranno”.

Arnolfo era pervaso da un’emozione indescrivibile. Non riuscendo ormai quasi nemmeno a parlare, corse verso padre Ardagh e lo abbracciò. In fondo non gli importava sapere altro; in fondo non gli interessavano i dettagli, sapeva solo di provare verso quell’uomo un affetto profondo, unico, una gratitudine ed una riconoscenza pressoché sconfinate.

Nel momento in cui si strinse a colui che amava più del suo vero padre, una luce fortissima scaturì dal volto di padre Ardagh che lo fissò con un’intensità ipnotica.

“E’ tempo che tu sappia, Arnolfo. Sei pronto. Sei maturo. E’ tempo che io mi riveli. Tu mi conosci come padre Ardagh. Il mio nome, Ardagh, in antico gaelico, significa… Orso! Tu credi che io giunga dalla lontana Irlanda, ma in realtà giungo da ancor più lontano. Io provengo da una fede antica, le cui origini si perdono nella notte dei tempi. Io provengo da mondi che i più ritengono ormai perduti, ma che tuttavia si sono soltanto trasformati, cambiando nome, cambiando preghiere.

Attorno alla mia figura i tuoi padri han saputo tessere leggende, tradizioni, racconti. Tutti verosimili e assai vicini al loro sentire e alla loro quotidianità. Lo hanno fatto per non perdermi, per avermi sempre vicino nelle loro azioni di tutti i giorni e per poter continuare ad invocarmi nelle loro suppliche. Ma io non ho ami avuto una vita tale che la storia degli uomini possa registrare o raccontare con date ed episodi documentati.

Mi hanno raffigurato simile ad un vescovo, ovvero ad un uomo capace di osservare il cielo e comunicarlo agli uomini.

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Mi hanno raffigurato con un uccello sulla spalla sinistra, in maniera simile a San Colombano, monaco irlandese che si fece pellegrino di Cristo e grande evangelizzatore. Lui. sì, realmente esistito!

Sono stato animale. Sono stato un dio. Ho accompagnato dei. Rimango un simbolo. Forte, pervasivo. Ad alcuni faccio ancora paura. Altri non hanno mai smesso di venerarmi. Nei secoli ho assunto varie forme e aspetti differenti. Io sono il sacro, Arnolfo.

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L’amore che in antico i tuoi predecessori nutrirono per me è immenso e i tuoi padri lo sapevano. Io non potevo essere cancellato, Arnolfo. Io continuerò a vivere. In questo luogo, soprattutto, la mia presenza sacra non verrà mai meno.

La luna è mia compagna; nel suo mutare io mi rinnovo. La morte è mia sorella: in lei mi rigenero per tornare a nuova vita. So nascondermi, quando serve, nel profondo di caverne introvabili, torno nell’oscuro e caldo ventre della madre terra, per poi riemergerne più forte di prima”.

Arnolfo lo fissava e non riusciva a staccarsi da quel forte e sicuro abbraccio. Lui, uomo colto e devoto, aveva capito. Ecco perché non si sapeva con certezza quando lui fosse nato né dove, né dove esattamente fosse morto. Nè con che genere di martirio. Ecco perché spesso veniva raffigurato con un lituo, con un bastone ricurvo, senza mai essere stato vescovo. Perché in lui si assommavano antiche divinità e antichi sacerdoti. Lui era un tramite tra cielo e terra, tra vita e morte. Lui, Orso, rappresentava il passaggio dalla fede pagana più ancestrale, legata ai ritmi degli astri e delle stagioni, fino a quella cattolica. In bilico tra notte e giorno, tra luce e buio, tra il conoscibile e l’imperscrutabile.

Padre Ardagh, o meglio… Orso, si avvicinò quindi al pilastro ancora grezzo. Il pilastro d’accesso del magnifico chiostro istoriato. La sua mano lo sfiorò. La luce lunare invase quell’angolo di galleria; la pietra si illuminò come dall’interno. Orso appoggiò entrambe le mani al capitello mormorando oscure parole. La pietra iniziò a muoversi, a palpitare, quasi a respirare! Gli spigoli assunsero un profilo. Alla fine Arnolfo, stupefatto, vide il capitello compiuto. Quattro animali, tuttavia non mostruosi né spaventosi, decoravano la pietra. Le zampe, certo ferine, ma tra loro vicine, quasi in un gesto di preghiera.

Orso lo fissò nuovamente e appoggiandogli una mano sulla spalla, disse: “Vedi Arnolfo? Io sarò sempre qui con te. E sempre accompagnerò gli uomini nel cammino verso la luce. Di questo è simbolo il chiostro. Di un cammino verso la salvezza, fatto di scelte, di giuste direzioni, di attenzione verso i falsi idoli e verso le apparenze ingannevoli. Dove volevi che fossi, se non all’ingresso?”.

Il leone e l'orso (quest'ultimo in blu). Miniatura dal “Bestiario di Ashmole”, Gran Bretagna, XIII sec. – Oxford, Bodileian Library.
Il leone e l’orso (quest’ultimo in blu). Miniatura dal “Bestiario di Ashmole”, Gran Bretagna, XIII sec. – Oxford, Bodileian Library.

Arnolfo osservò con maggiore attenzione il capitello… ma certo! Erano quattro orsi! Orso stesso era il codice del chiostro! Si voltò per ringraziarlo, voleva fargli altre mille domande, voleva abbracciarlo ancora una volta, ma… no c’era più! Un soffio di vento gelido fu l’ultimo saluto di quella divina, non descrivibile altrimenti, presenza.

“Priore! Nobile Arnolfo! Ma… eravate qui?! Eravamo così preoccupati!”. La voce concitata dei confratelli e le prime luci dell’alba destarono Arnolfo da un sonno insolitamente pesante. Si era addormentato nel chiostro. “Ma avete dormito qui? All’aperto? In una notte così fredda per giunta…!”. Arnolfo si riprese, si guardò attorno. “Sì, confratelli, ero venuto a meditare.. sì, era freddo, ma io sto bene, anzi..!”.

Immediatamente il suo sguardo corse verso il pilastro di nord-est. Vuoto. Grezzo…

“Ma come, allora si è trattato di un sogno? Di una visione?.. Eppure è stato tutto così stranamente… reale!”. Arnolfo, deluso, non riusciva a capacitarsi che si fosse trattato di una sua fantasia. Certo, ad ogni modo ora sapeva cosa far raffigurare sul pilastro!

“Priore! Venerabile priore, è appena giunto il nuovo magister. Colui che si occuperà di decorare il pilastro d’ingresso!”.  Un nuovo capo scultore? Eppure Arnolfo non ricordava di aspettare nuove maestranze…”Fatelo entrare! Lo accoglierò assai volentieri”.

Un passo deciso e un piglio sicuro accompagnavano il nuovo magister. Già da lontano quell’uomo infondeva un senso di sicurezza. Alto, capelli mediamente lunghi tendenti al rossiccio. Fu quando si avvicinò che Arnolfo rimase per un attimo senza respirare…

“Buongiorno nobile priore. Mi avete fatto chiamare e sono giunto. Ho con me anche il cartone con la bozza per la decorazione del pilastro. Eccolo qui!”.

Arnolfo non riusciva a distogliere lo sguardo da quell’uomo. Quegli occhi… un taglio lungo e affilato, di un azzurro ghiaccio con particolari riflessi color lavanda… e quella voce…

Arnolfo prese il cartone con i disegni preparatori utili alla decorazione del pilastro d’ingresso. Non vi fu bisogno di altre parole. Tra i due fu sufficiente uno sguardo ed un sorriso.

Orso era tornato. E non se ne sarebbe andato mai più!

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Stella

 

L’enigma di Orso e il codice del chiostro. Cap. 4

Il magister a capo della squadra destinata alla galleria occidentale era alquanto perplesso. “La vicenda di Giacobbe ed Esaù, mio venerabile Priore?! Ma, abbiamo solo sette capitelli a disposizione.. come potremo riuscire a raffigurare l’intera vicenda? E con tutti questi personaggi per giunta…!”. Gli scalpellini si scambiavano sguardi  preoccupati.

“State tranquillo, mio valido magister“, disse sicuro Arnolfo, “i capitelli si moltiplicheranno: non dovranno essere solo sette, infatti, ma chiedo che vengano inserite coppie di colonne binate, “gemelle” appunto, in modo da ottenere almeno undici capitelli decorabili!”.

Il magister rimase senza parole. Non era un espediente così diffuso, per quanto, soprattutto nelle terre d’Oltralpe, l’usanza stesse iniziando a dilagare. “Per accentuare il simbolismo della coppia gemellare, ritengo che le colonnine doppie siano un mezzo eccezionale, non credete magister? Se poi vi agevoleranno nella consona distribuzione dei diversi personaggi, meglio ancora, nevvero?”. A queste considerazioni di Arnolfo, il magister rimase privo di ogni possibilità di replica. “Presto! Al lavoro, uomini! Avete capito la volontà del nobile priore?!!”.

“Ottimo”, pensava tra sé Arnolfo, “così avremo un’ulteriore particolarità nel nostro santo chiostro!“.

Protagonisti di questo lato, dunque, sarebbero stati Giacobbe e i suoi figli. Il senso di lettura doveva fluire da nord verso sud in ordine logico concentrico. Gli scalpellini, molti dei quali non conoscevano proprio in tutti i dettagli questa complessa vicenda, erano dubbiosi e anche nel predisporre i cartoni dei disegni che sarebbero serviti all’impostazione delle diverse figure, mostravano una notevole incertezza. Arnolfo decise così di intervenire riassumendo loro l’intera storia.

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“Si comincia con Rebecca partoriente aiutata dall’ostetrica e la nascita di Giacobbe e del gemello Esaù. Rebecca, dal cui ventre nasceranno due popoli, qui è simbolo della Chiesa da cui sono derivate la Cattedrale e Sant’Orso. Di nuovo vi saranno accenni, più o meno velati, ai conflitti tra le nostre due Case, chiaramente auspicando la riconciliazione finale. Importante l’ambiguità tra Giacobbe ed EsaùIsacco cade nell’inganno e benedice Giacobbe credendolo Esaù che, in quel momento, si trova fuori a caccia. Esaù non perdona al fratello questo inganno e cerca di vendicarsi. Vuole uccidere il fratello.

Nella scena successiva Rebecca consiglia a Giacobbe di fuggire nella città di Harran e rifugiarsi presso il di lei fratello Labano. Così, prima con il ricatto e poi con l’inganno, Giacobbe diventa il nuovo capo del clan ed eredita la promessa fatta da Dio ad Abramo. Dio, accettando l’azione non troppo limpida di Giacobbe, vuole dimostrare che il suo progetto di salvezza è affidato a chi lo apprezza e non a chi si basa solo sui propri diritti umani. La salvezza è un dono e come tutti i doni viene offerta a chi sa accoglierla.

In viaggio Giacobbe fa uno strano sogno. Una scala è appoggiata sulla terra, mentre la sua cima raggiunge il cielo. Ed ecco degli angeli che salgono e scendono sopra di essa. Sempre nel sogno Giacobbe sente una voce: “Io sono il Dio di Abramo e il Dio di Isacco, tuo padre. La terra sulla quale ti sei coricato la darò a te e alla tua discendenza. La tua discendenza sarà numerosa come i granelli di polvere della terra“.
Quando Giacobbe il mattino seguente si sveglia, ricordandosi del sogno fatto, capisce che Dio ha confermato la benedizione del vecchio padre Isacco.

Confortato dal sogno, si rimette in cammino dirigendosi verso la città di Harran. Prima di entrare in città, stanco e assetato, si ferma a bere accanto al pozzo dove già sua madre Rebecca veniva ad attingere acqua. In quel momento arriva al pozzo una bella ragazza di nome Rachele, figlia di Labano, fratello di Rebecca. Rachele è la cugina di Giacobbe. Tuttavia Labano ha una figlia maggiore, Lia. Non bella, ma da accasare. Giacobbe vuole sposare Rachele e per questo accetta di lavorare per Labano sette interminabili anni. Alla fine, però, Labano lo obbliga a sposare Lia. Labano tuttavia per concedere a Giacobbe anche Rachele pretende che il giovane lo serva per altri sette anni. Così Giacobbe, dopo quattordici anni di lavoro quasi forzato, si ritrova ormai uomo maturo e con due mogli.

Vengono quindi raffigurati tutti i figli di Giacobbe: dodici maschi e un’unica femmina, Dina. Ma solo Giuseppe e Beniamino, gli ultimi due figli avuti da Rachele, sono quelli che Giacobbe amerà più degli altri. Dovrete anche raffigurare la scena del furto degli idoli di Labano da parte della figlia Rachele. Giacobbe e Beniamino ne verranno accusati, ma Labano non li ritroverà perché Rachele ha saputo nasconderli al meglio: sotto la bardatura di un cammello! Anche qui, perciò, chiedo venga scolpito sulla pietra questo messaggio: occorre fuggire dalle apparenze, dai falsi idoli. Dio saprà fare giustizia là dove gli uomini non vi riescono”.

“So che è assai complicato, ma confido nelle vostre capacità. Vi chiedo che la scena della riconciliazione tra i fratelli si trovi al centro, sulla grande colonna singola. Alle estremità, invece, due situazioni di conflitto. E’ questo un messaggio chiaramente rivolto ai nostri fratelli del Capitolo della Cattedrale”.

“Sarà un duro lavoro, mio nobile Arnolfo”, chiosò il magister, “nella mia già lunga carriera ho visto diverse rappresentazioni del ciclo di Giacobbe, ma mai una così lunga, ricca e complessa!”.

Arnolfo si rendeva perfettamente conto della difficoltà, ma sapeva anche che questo tema, pur così dettagliato, si rivelava necessario. Sant’Orso e la Cattedrale dovevano riappacificarsi e trovare un nuovo, proficuo e duraturo equilibrio.

Giunta la sera, chiuso nella sua cella, Arnolfo si dedicò con grande attenzione al codice, o meglio, a quel che ne restava. Voleva capire cosa effettivamente fosse andato perso nell’incendio. Valutò con perizia il documento e alla fine: “L’intera galleria orientale… ogni indicazione di padre Ardagh è andata perduta… Come fare?“. Sperò in qualche sogno; sperò nelle preghiere… ma nulla. Stabilì dunque che venissero reimpiegati i capitelli di un porticato già esistente, grandi e poderosi, decorati però unicamente con motivi vegetali stilizzati. Non poteva sapere, il buon priore Arnolfo, che nei secoli, solo uno di quegli antichi capitelli si sarebbe salvato; gli altri sarebbero stati sostituiti.

Dall’alto della sua finestra Arnolfo osservava il procedere dei lavori con gioia e soddisfazione crescenti. Restava un grande rammarico… il pilastro di nord-est. Quel pilastro era fondamentale: era la porta d’ingresso del chiostro, la prima cosa che si sarebbe vista entrando… non poteva permettere che restasse privo di decorazione. Lesse e rilesse decine di volte il codice, nella speranza che qualche accenno potesse essergli sfuggito. Cercò indizi nelle miniature, ma niente! Quanto avrebbe voluto che padre Ardagh fosse lì con lui, a sostenerlo e consigliarlo, come quando era ragazzo…

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Quel cruccio turbava persino i suoi sonni. Tanto che quella notte, completamente incapace di trovare quiete, Arnolfo prese una lanterna e scese nel chiostro silenzioso.  Osservò quella magnifica fabbrica che, giorno dopo giorno, aveva assunto un aspetto ragguardevole. La lucentezza dei marmi enfatizzava le volumetrie, gli aggetti e l’espressività delle scene scolpite. Un gioiello! Quel pilastro di nord-est restava un punto buio, anonimo. E non poteva permetterlo!

Ad un certo punto, mentre Arnolfo sedeva assorto nelle sue meditazioni, un’improvvisa folata di vento gelido spense la luce della sua lanterna. Solo il chiarore lunare illuminava d’argento una parte delle gallerie.

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Udì dei passi. Un fruscio. “Chi va là? Chi è?”. Arnolfo si alzò e si avvicinò all’ingresso ma vide che era chiuso. “Chi è? Fratello Arnodus siete voi?”. Credette fosse Arnodus, il guardiano, ma non ottenne risposta. Finché i suoi occhi, ormai abituati all’oscurità, riconobbero un profilo, una sagoma, un’ombra tra le ombre…

Stella

L’enigma di Orso e il codice del chiostro. Cap. 3

“Acqua! Presto, portate acqua!!”. L’intero convento era in subbuglio. Anzi, l’intero borgo di Porta Sant’Orso. Tutti accorrevano per aiutare a domare le fiamme; un fumo nero avvolgeva ogni cosa e intossicava gli uomini. Arnolfo non ci pensò due volte. Corse immediatamente allo scriptorium; alcuni confratelli tentarono di fermarlo, di impedirgli di gettarsi in quel vero e proprio inferno, ma non vi fu nulla da fare. Facendo appello a tutte le sue forze e al suo coraggio, Arnolfo si rovesciò un mastello d’acqua addosso e si infilò in quelle mura fiammeggianti. “Il codice! Mio Signore, ti prego, fa che si sia salvato! Non posso perdere quel codice!!”. Le fiamme, il calore, il fumo. Poi, più nulla.

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“Priore! Priore! Nobile Arnolfo, dove siete?!!”. L’incendio era stato finalmente arginato, ma di Arnolfo pareva non esservi più traccia… I confratelli e gli operai cercavano spasmodicamente in mezzo alle macerie, alle travi crollate, al fumo persistente.

Ad un certo punto qualcuno nota un lembo di tonaca, un piede… Arnolfo! “Eccolo! Presto, aiutatemi a tirarlo fuori!!”. Subito tutti si adoperarono per sollevare quel pesante armadio che si era abbattuto su Arnolfo-. Il priore era privo di sensi, ferito e contuso; lo portarono in infermeria dove venne immediatamente sottoposto alle cure del cerusico e dell’erborista.

Sospeso in uno stato di morte apparente, sprofondato in un sonno imperturbabile, l’unico segnale di vita era quel lento alzarsi ed abbassarsi del petto che lasciava capire che il priore era ancora in vita. Per quanto debole, quel respiro lasciava ben sperare.

“Non temere Arnolfo, sono qui accanto a te! Non ti abbandonerò. Insieme dobbiamo portare a termine la nostra missione. Presto starai meglio. Non perdere tempo. Guarda a sud, Arnolfo. E non dimenticarti della direzione del sole. Una serie di antichi sapienti saprà parlarti. I loro insegnamenti andranno scolpiti nel marmo. E i gemelli, Arnolfo. Nati dallo stesso grembo, eppur così diversi. Là dove il sole scompare, l’albero di Israele si sdoppierà; due gemelli, una moltitudine di fratelli. Prima l’odio, poi la pace. Guarda nella notte. Con gli occhi penetra le tenebre, Arnolfo. La luce di Dio ti accompagnerà”.

“Padre Ardagh! Padre Ardagh!!”. Arnolfo dopo tre giorni si risvegliò di soprassalto facendo sobbalzare il confratello che lo assisteva. “Presto, dobbiamo proseguire i lavori! Presto… e, e il mio codice… dov’è il mio codice?!!”.

Arnolfo guardò interrogativo il giovane confratello accanto a lui. Strano, non lo aveva mai visto… forse non lo aveva notato; forse era il giovane novizio giunto dalla Tarantasia… Il monaco lo fissò. Quegli occhi… una strana sensazione pervase Arnolfo facendolo rabbrividire. Quegli occhi, quell’azzurro… no, non è possibile. Il novizio gli porse un fagotto: “Cercate questo mio nobile priore? Lo tenevate stretto sotto la vostra veste.”

Arnolfo, tra l’incredulo e l’euforico, afferrò quel fagotto avvolto nella stoffa e lo aprì. “Il codice!”. Fortunatamente si era danneggiato solo in parte… Quelli che aveva sofferto maggiormente erano i capitoli finali. Molte pagine erano annerite e parzialmente bruciate. Illeggibili. Perdute. Alzò lo sguardo verso il novizio per ringraziarlo, ma il ragazzo non c’era più. Non lo aveva neppure sentito uscire… mah, che strano! Lo avrebbe cercato più tardi.

Tuttavia non si perse d’animo. Riprese il lavoro con ancor più passione di prima. Le rovine dell’incendio erano state rimosse in breve tempo. In fin dei conti la biblioteca si era salvata e lo scriptorium aveva subito danni risolvibili. Nuovi banchi, nuovi leggii, nuovi scaffali: i carpentieri erano già stati allertati. Così come aveva già provveduto ad ordinare una nuova fornitura di pigmenti e foglia d’oro.

Il Signore aveva voluto salvarlo. E le sue vesti zuppe d’acqua avevano in buona parte protetto il codice: il tavolo sul quale lo aveva lasciato era stato appena lambito dalle fiamme, l’unico… Quasi un miracolo!

Dopo alcuni giorni di studio e ricerca, messe insieme le notizie del codice ancora leggibili e le sue conoscenze, il priore convocò il capo cantiere. I lavori di decorazione del colonnato sud dovevano tassativamente partire.

La galleria sud

Anche qui avrebbero dovuto cominciare da est con la menzione della data di inizio della vita regolare: “ANNO AB INCARNATIONE DOMINI MCXXXIII IN HOC CLAUSTRO REGULARIS VITA INCEPTA EST“. “Ricordati… la direzione del sole…”.

Subito dopo doveva esserci la raffigurazione dei protagonisti dell’avvio della nuova vita claustrale: Sant’Agostino, i SS Pietro e Orso, il primo priore Arnolfo (reso con dimensioni inferiori) e infine il vescovo Erberto.

A seguire due capitelli avrebbero ricordato la missione dei monaci attraverso figure significative di apostoli (spicca la figura di S. Andrea, assai venerato a Sant’Orso) e pie donne (Marta e Maria).

Poi Arnolfo volle un capitello interamente dedicato al patrono Orso ispirato alle tradizioni locali (del resto le uniche conosciute ai più) e raffigurante i momenti più salienti della sua vita: la carità verso i poveri, il miracolo della fonte, l’episodio del servitore del perfido vescovo Ploceano e infine la morte di quest’ultimo. Volle inoltre far rappresentare la malvagità di Ploceano attraverso una strana mitra a due corni, quasi fosse una sorta di diavolo, unita ad un volto dai tratti ferini. Arnolfo inoltre stabilì che questo capitello fosse davvero speciale grazie ad un particolare artificio idraulico. I lapicidi, infatti, dovevano lasciarlo cavo e creare un foro in corrispondenza della “fons Sancti Ursi“, ovvero la miracolosa sorgente di Busseyaz, così da poter riempire d’acqua il capitello e rendere ancor più realistico il miracolo del Santo.

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Da questo punto in poi, procedendo verso ovest, doveva prendere avvio una ricca sequenza di profeti: i quattro maggiori, i dodici minori e in più i quattro detti “anteriori”: Mosè, Balaam, Natan ed Elia, ognuno recante un rotolo con il motto del proprio libro. “Una serie di antichi sapienti saprà parlarti…”.

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Una scelta assai colta quella di Arnolfo che inoltre volle, ispirato dal codice di padre Ardagh, che ai profeti della galleria sud corrispondessero specifici messaggi delle scene situate a nord. La scelta dei versetti, privi di legame logico nell’economia della sequenza, lasciò perplessi molti dei confratelli, ma Arnolfo non volle sentire ragioni. Sarebbe stata un’originale peculiarità del chiostro di Sant’Orso.

Natan cita il peccato e per questo richiama il peccato originale. Balam mette in guardia dalle malizie dei falsi sapienti (quindi instaurando un legame col serpente). Elia cita “tria tabernacula” e sul lato opposto troviamo i 3 fanciulli nella fornace. Mosè invita ad innalzare canti a Dio per trovare la salvezza.

Isaia con un unico verbo ricorda l’apparizione del bastone dal tronco di Yesse: l’inizio della stirpe di David. Chiosa accanto Geremia: “questo è il nostro Dio”. Ezechiele ricorda che “i padri mangiarono uva acerba”. In passato i tempi non erano maturi, ma oggi esiste una nuova comunità riformata. “Guardavo nel volto della notte” recita il cartiglio dell’imberbe Daniele. Una visione messianica; un ficcare gli occhi nel buio più profondo per poter vedere ciò che ancora non è, ma che sarà: la venuta in gloria del Messia.

Il primo dei profeti minori è Osea che paragona la gloria di Dio ad un olivo, simbolo di pace per le genti. Amon precisa che “il Signore sorgerà da Sion”, quasi una conferma per i tre Magi situati sul lato opposto. Abdia vaticina che “il Signore allontanerà i saggi da Idumea (Palestina)”, cioè avvertirà i Magi di tenersi alla larga dalle genti idumee, con chiaro riferimento ad Erode. La sua strage degli innocenti è ricordata da Gioele che ricorda il pianto delle madri dei bimbi massacrati.

Giona, meditando sui suoi errori durante i tre giorni trascorsi nel ventre della balena, impara ad affidarsi al Signore e quando ne esce, sano e salvo, è come se rinascesse dall’inferno a nuova vita. Michea sentenzia che “l’uomo giusto abbandonò la terra” ventilando morti innocenti. Ma subito dopo Naum manda un messaggio positivo: “il sole è sorto”. I nemici svaniscono, le ombre si dissolvono, quando interviene Dio. Infine Abacuc sottolinea l’importanza di dare da bere ai propri amici, naturalmente con intento moraleggiante.

L’ultimo dei capitelli dei profeti si apre con il messaggio di speranza di Aggeo: “Io muoverò il cielo”, da completare “affinché vi sia un cielo nuovo e una terra nuova. Zaccaria ricorda l’ira di Dio verso il suo popolo, che tuttavia deve essere vista come potente stimolo alla conversione. Malachia maledice colui che tesse inganni. E, non a caso, dall’altra parte si trova la favola della volpe e della cicogna. L’ultimo profeta è Sofonia che invita la Chiesa “figlia di Sion” ad innalzare lodi al Signore.

Ed eccoci agli ultimi tre capitelli della galleria sud. Subito dopo i profeti Arnolfo decretò la raffigurazione di quattro uomini seduti su seggi intenti a sostenere delle piante le cui radici sono chiuse in un sacco. Alternativamente un uomo barbato ed uno imberbe: quando uno reggerà il doppio ramo fiorito, l’altro avrà in mano un solo ramo secco e viceversa. Arnolfo pensava che questa simbologia avrebbe fatto ben capire i rapporti tra i canonici di Sant’Orso e il Capitolo della Cattedrale, soprattutto per quanto concerneva il potere di elezione del vescovo.

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Segue un capitello connotato da un motivo vegetale e da quattro teste caprine. Nella parte alta dovrà figurare questa scritta: “MARMORIBUS VARIIS HEC EST DISTINCTA DECENTER FABRICA NEC MINUS EST DISPOSITA CONVENIENTER“.  Ma sì, si disse Arnolfo, un piccolo autoelogio ci sta! Questo splendido chiostro istoriato richiamerà l’attenzione per la varietà delle sue sculture marmoree e della raffinatezza con cui sono state disposte.

E ultimo il capitello con le aquile. Non dimentichiamo che siamo nei pressi del refettorio! Già, perché i monaci sono equiparati ad aquile che, se da un lato sono gli unici volatili capaci di guardare il sole volando più in alto di tutti, quando ha bisogno di cibo scende a terra in cerca di carne. Magari qualcuno saprà interpretare questa “carne” pensando al miracolo dell’Eucaristia?

Arnolfo era decisamente soddisfatto del lavoro: il suo studio e le sue indicazioni avevano imbastito una decorazione che avrebbe stupito tutti! E doveva riconoscere che i lapicidi erano davvero talentuosi e assai operosi.

Ripreso il codice, Arnolfo si rese conto che per la galleria occidentale era rimasto davvero poco di scritto. La parola che più spesso ricorreva era “gemini“, gemelli. “Gemelli… gemelli, simili eppur diversi…” continuava a ripetere tra sé e sé. Arnolfo si dedicò al completamento della miniatura, che si era salvata. Eccoli! Ma certo… Aveva trovato il soggetto da far rappresentare sulla galleria occidentale… “là dove il sole scompare”, non a caso in direzione della Cattedrale…

Un’altra squadra di scalpellini e scultori era pronta a partire. Certo il tema stabilito dal priore non era affatto semplice da raffigurare.. oltretutto in così poco spazio. Fu allora che ad Arnolfo venne un’altra idea…

 

Stella

L’enigma di Orso e il codice del chiostro. Cap. 2

Alla fine capì. Sebbene non tutto il lavoro fosse ancora giunto a termine.

Nei capitoli che avevano richiesto maggiore impegno, padre Ardagh descriveva il suo chiostro ideale, un chiostro dove vivere, meditare, pregare, invocare la vittoria del Dio della Luce sulle tenebre. Il Sole della fede che combatte le ombre del male, lo stesso tema che Arnolfo chiese venisse rappresentato all’interno della chiesa in un grande ed emblematico mosaico al cui centro avrebbe dovuto troneggiare Sansone, il cui nome racchiude la parola ebraica “sole” e i cui lunghi capelli avrebbero simboleggiato i raggi, intento a lottare contro una fiera obbligandola a guardare verso l’alto, verso Dio.

Riga dopo riga, parola dopo parola, Arnolfo comprese: Ardagh aveva illustrato un vero e proprio programma didattico ed iconografico e lui decise che lo avrebbe concretizzato! Non sapeva quando, ma presto ne avrebbe avuto l’occasione…

Nel giro di pochi mesi Arnolfo venne nominato priore. Tra le sue prime iniziative vi fu il voler abbracciare e proporre ai suoi confratelli l’abbandono della vita secolare a favore della regola di Sant’Agostino. E anche questo obiettivo venne raggiunto, nel giubilo generale, nell’anno del Signore 1133 dall’Annunciazione alla Vergine (anno 1132 dalla Natività).

La comunità si ingrandì e perciò anche il convento necessitava di nuovi spazi tra cui, non a caso, un chiostro, il vero cuore dell’intero complesso ursino, uno spazio fondamentale per le necessità della vita claustrale. Si scelse il lato sud della chiesa, quello meglio esposto al sole; qui prima non c’era mai stato nulla, ma l’area era esigua e perciò fu necessario eliminare tre contrafforti della chiesa voluta precedentemente dal vescovo Anselmo. La forma sarebbe stata rettangolare, ma non perfettamente regolare in quanto si rivelava necessario assecondare alcune preesistenze che andavano legate al nuovo chiostro, tra cui anche la biblioteca e lo scriptorium. Al centro ci sarebbe stato un pozzo, l’acqua, simbolo di purezza, di vita, di rigenerazione. Ogni elemento, ogni particolarità, ogni dettaglio descritto nell’oscuro testo di padre Ardagh doveva essere riprodotto.

Arnolfo chiamò i migliori maestri lapicidi di Provenza e Lombardia, addirittura un noto magister iberico, tale Petrus, che si misero immediatamente all’opera. Il nuovo priore volle seguire personalmente la scelta dei marmi che richiese fossero di varie tessiture e sfumature, così come di diverse forme dovevano essere i capitelli. Tutto doveva rispecchiare l’armonia e l’equilibrio. Le scene raffigurate avrebbero dovuto richiamarsi, specularmente, simili nel messaggio seppur diverse nei personaggi, sui lati nord e sud, entrambi da fruire procedendo da est verso ovest, ab solis ortu usque ad occasum, seguendo il naturale ritmo del sole con direzione antioraria, quindi in armonia col moto sempiterno delle sfere celesti, allo stesso modo in cui gli antichi Romani fondavano le città.

La galleria nord

Arnolfo stabilì che si cominciasse dal lato nord, quello attaccato alla chiesa e meglio illuminato dal sole. Quello in cui dovevano prevalere le figure sulle epigrafi. Il lato settentrionale avrebbe raccontato per immagini l’origine dell’uomo e il peccato originale, la rinuncia al paganesimo e l’avvento del Salvatore con scene dell’Annunciazione, dell’Incarnazione e della Santa Natività fino all’annuncio ai pastori e ai Magi d’Oriente per poi approdare al tragico episodio della strage voluta da Erode. Il racconto sarebbe continuato con la fuga in Egitto, posta in corrispondenza del varco verso l’area centrale. Si sarebbe quindi proseguito col martirio di Stefano, primo testimone della vera fede ucciso a colpi di pietre, di cui il convento custodiva anche due sacre reliquie.

La raffigurazione avrebbe inoltre previsto una scena di quotidianità monastica dominata da una grande ruota di pozzo: il mandatum, ossia la lavanda dei piedi che veniva praticata il sabato pomeriggio a voler ricordare lo spirito di umiltà e di servizio. Era infatti questo un rito cui Arnolfo teneva moltissimo e che veniva regolarmente eseguito.

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La volpe e la cicogna (dal sito http://www.viaggioneltempo.eu)

Non sarebbe inoltre dovuto mancare un capitello dedicato alla nota favola della volpe con la cicogna, emblematica per insegnare che “chi la fa, l’aspetti”. Un primo velato riferimento ad un annoso dissidio con i confratelli del Capitolo della Cattedrale. Chissà come aveva fatto padre Ardagh ad individuare la favola più adatta… mah… quell’uomo era ammantato da un alone di mistero difficile da definire. Quegli occhi sapevano vedere sempre oltre, in dimensioni che le umane facoltà spesso trascuravano o addirittura ignoravano. Un grande uomo.

E neppure dovevano mancare capitelli occupati da specie vegetali, frutti o animali di fantasia, solo in apparenza meramente figurativi ed esornativi, ma in realtà densi di significati tutti da scoprire. Occorrerà saper guardare oltre le apparenze perché i fiori e i frutti scelti non sono casuali. Arnolfo, ad esempio, aveva in mente il fico: se produce solo foglie senza frutti, per quanto siano queste belle e grandi, allora è un fico cattivo e bisogna guardarsene!

Giunti all’estremità ovest Arnolfo avrebbe voluto un capitello dedicato ad esseri per metà uomini (sia imberbi che barbati) e per metà aquile: un invito ai suoi monaci a comportarsi come le aquile, ossia a saper guardare verso il cielo, verso Dio, grazie allo studio e alla preghiera.

Ma c’era un “problema”, o meglio una sorta di inspiegabile assenza. Nel codice non era stata considerata la decorazione destinata al grande pilastro dell’angolo nord-est. Arnolfo aveva capito che l’ingresso al chiostro avrebbe dovuto effettuarsi da quel punto, sempre in armonia col moto celeste e solare, ma si chiedeva come mai padre Ardagh non avesse dato indicazioni sul tema da raffigurare in un punto così significativo ed importante. Eppure non vi erano lacune nel testo. Lo aveva letto e riletto con estrema attenzione. Forse una dimenticanza? Davvero strano! Forse un addendum alla fine del codice? E perché mai? Ad ogni modo i lavori dovevano iniziare. Arnolfo condivise le tematiche coi maestri lapicidi e con le maestranze tralasciando temporaneamente la questione del pilastro angolare. Che lo tenessero grezzo per il momento, ci sarebbero tornati in seguito.

Il cantiere di Saint Denis (dal sito RestaurArs)
Il cantiere di Saint Denis (dal sito RestaurArs)

Il cantiere prese vita. Un formicolio di operai, manovali, mastri carpentieri per le capriate di copertura, scultori, scalpellini, marmisti… era tutto un “via vai”. Arnolfo era decisamente soddisfatto. Di notte, anziché riposare, continuava nel suo lavoro di decodifica e decorazione miniata del codice di Ardagh.

Alcune notti dopo, durante questo appassionante ma sfiancante lavoro, Arnolfo si accorse di aver terminato un colore importante, il blu, quello ottenuto dalla preziosa polvere dei lapislazzuli e che veniva usato in gran quantità per il manto della Vergine e per la sopravveste del Cristo, simbolo di nobiltà spirituale e trascendenza. Arnolfo decise di trasferirsi nello scriptorium dove erano conservate le scorte di pigmenti utili ai miniaturisti. Lavorò con estrema concentrazione per tutta la notte. Non andò nemmeno a riposare, ma dallo scriptorium si portò direttamente in chiesa per le prime preghiere dell’alba.

Assediato dai diversi magistri e preso dalle incombenze che il suo ruolo gli imponeva, Arnolfo non si accorse nemmeno del tempo che passava fino a che…

“Accorrete! Accorrete! Aiuto! Al fuoco, al fuoco!!! Lo scriptorium!!! Presto, sta bruciando tutto!!”…

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Dal sito http://www.scrivolo.it

Stella

L’enigma di Orso e il codice del chiostro. Cap. 1

Ricordo benissimo quella notte. Era pieno inverno, il vento soffiava a raffiche e portava con sè una strana sabbia di ghiaccio che rapidamente si depositava su ogni cosa accentuando l’ovattato silenzio delle ore del riposo. Il terziere di Sant’Orso dormiva nel buio; tutti rintanati nelle case per ripararsi dal gelo di quest’ultima lunghissima notte di gennaio. Un’atmosfera sospesa, una quiete quasi surreale dopo due giorni di mercato e di festa.

Il monastero era pronto per festeggiare all’indomani, 1 febbraio, il suo santo protettore: Orso.

A quell’epoca ero giovane, un adolescente; mio padre, potente nobile della Valle, mi aveva indirizzato sin da bambino alla carriera ecclesiastica. Ma ammetto di essere sempre stato una testa calda: spesso insorgevo, rifuggivo le ore del lavoro e talvolta arrivavo tardi sia a messa che allo scriptorium…per non parlare delle innumerevoli volte in cui avevo tentato la fuga! Dopo l’ennesimo rimprovero, il priore aveva deciso di punirmi obbligandomi a trascorrere queste gelide notti nella guardiola insieme ad un confratello più anziano. Erano gli anziani, infatti, solitamente ad occuparsi dell’eventuale accoglienza di mendicanti e pellegrini così come delle prime cure per i neonati abbandonati sul sagrato della chiesa. Questo perché noi novizi eravamo ritenuti più fragili e vulnerabili davanti alle insidie provenienti dal contatto precoce col mondo esterno.

D’accordo, però se quella notte non ci fossi stato io… fratello Deodatus si era addormentato durante il nostro Rosario e c’erano voluti un paio di scossoni per destarlo dal suo cantilenante russare. La campanella aveva già suonato 3 volte: evidentemente là fuori, oltre le mura del convento, qualcuno aveva bisogno di aiuto!

Fratello Deodatus corre alla porta. Lo spiffero di aria gelata arriva a lambire i miei polpacci. Sento un breve dialogo tra i due. Rientra in compagnia di un uomo molto alto, completamente coperto da un pesante mantello da viaggio. Il viandante era assai affaticato e lamentava un dolore insopportabile alla gamba destra; si appoggiava ad un bastone leggermente ricurvo che, in un certo senso, poteva quasi ricordare il lituo del vescovo. Poche parole ma mi sono bastate per notare un accento insolito; parlava latino correttamente, questo sì, ma il suo accento… mi era del tutto nuovo!

Lo accompagniamo vicino al focolare. Lo straniero si scopre la testa, si passa stancamente una mano sul viso indurito dal freddo. Poi mi guarda. Quegli occhi… quegli occhi non li dimenticherò mai. Due occhi lunghi e affilati di un colore indefinibile: o meglio, un azzurro ghiaccio che, a seconda di come la luce li colpiva, brillavano di strani riflessi color lavanda. Un paio di spesse sopracciglia rosse ne accentuavano l’espressione burbera ma buona allo stesso tempo. La fronte alta, ma non stempiato. Capelli fulvi leggermente lunghi gli ricadevano ai lati delle orecchie fino a sfiorargli il collo.

“Grazie miei cari fratelli! Non so come avrei fatto se non avessi trovato questo monastero. Sto compiendo un lungo viaggio di ritorno da Roma. Sono diretto a casa, al nord, molto… molto lontano da qui! La mia strada è ancora lunga e purtroppo la mia gamba duole moltissimo. Avrei necessità di riposare un po’ presso di voi… e che Dio nostro Signore vi benedica!”.

Io avrei voluto fargli decine di domande, ma fratello Deodatus mi fece cenno di zittirmi. Non era il momento. Il pellegrino aveva bisogno di dormire e rifocillarsi. Con calma l’indomani ci sarebbe stato tempo per le presentazioni dettagliate.

Il giorno seguente il priore convocò tutti nella sala capitolare subito dopo le preghiere del mattino. “Cari confratelli, con grande piacere vi presento il nostro ospite giunto ieri da Roma. Padre Ardagh, del prestigioso ed antico monastero di Clonard, nella verde terra di Hibernia, anche detta Scotia. Raffinatissimo miniaturista, padre Ardagh si fermerà da noi alcuni giorni in modo da rimettersi dalle fatiche sin qui accumulate. Quindi riprenderà il viaggio verso la sua casa madre. Oggi festeggerà con noi il nostro santo patrono Orso”.

Padre Ardagh mi stette subito simpatico. Avevo voglia di conoscerlo meglio e chiedergli tante cose…sulle sue origini, sulla sua terra, su Roma… Cercavo di stargli attaccato come un cagnolino. Veniva anche lui allo scriptorium; aveva voluto vedere la nostra biblioteca, sfogliare i volumi, analizzare i codici…

Io ero un discepolo; stavo imparando l’arte dell’amanuense, ma devo dire che mi è sempre piaciuto di più il disegno rispetto alla scrittura. E’ tuttavia pur vero che l’arte della miniatura aiuta la bella grafia, bisogna imparare a rendere i capolettera come dei piccoli capolavori artistici, come fossero dei camei figurati incastonati all’inizio del testo.

Ero appena un neofita, oltre che un novizio… ma volevo impegnarmi. Padre Ardagh si accorse di questa mia inclinazione e mi prese sotto la sua ala. Io temevo il giorno in cui la sua gamba sarebbe guarita consentendogli di rimettersi in cammino. Avevo addirittura pensato di chiedergli di portarmi con sé…anche se immaginavo con orrore l’ira di mio padre!

Padre Ardagh aveva un carisma fuori dal comune. In breve tempo era riuscito ad accattivarsi la simpatia, l’affetto, la stima di tutti i confratelli. Collaborava in tutte le attività del monastero, anche quelle nel giardino (dove un paio di volte l’ho trovato intento a dialogare persino con gli uccellini!). Mai si tirava indietro e per noi era diventato un esempio.

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Sotto la sua guida ero nettamente migliorato; anche sotto l’aspetto della condotta! Il Priore era felicissimo di tutto questo e mio padre assolutamente orgoglioso! Mi ero appassionato allo studio, alla lettura e stavo piano piano impratichendomi con la miniatura.

Padre Ardagh mi aveva mostrato i suoi lavori: erano splendidi! Veri capolavori di arte insulare della sua terra “presa direttamente dal patrimonio figurativo dell’antica gente celtica“, mi ripeteva lui. Racemi intrecciati, fiori, foglie, gemme… un trionfo di motivi vegetali che creavano dei giochi ottici tanto da ricordare persino forme animali! Ma non solo… padre Ardagh aveva una mano fantastica anche nelle raffigurazioni di scene delle Scritture. Quei capolettera erano “letteralmente” cesellati! I volumi parevano istoriati, quasi delle piccole sculture!

I giorni trascorsero velocemente, anche troppo… Padre Ardagh doveva riprendere il suo viaggio. Ero triste, affranto, un senso di abbandono si stava impossessando di me! Per me lui era stato più padre di mio padre…

Prima di partire volle farmi un dono: ” tieni mio giovane Arnolfo, nobile come un’aquila e forte come un lupo, così come recita il tuo stesso nome di radice germanica. Ti lascio questo codice. Io vi ho scritto i testi e ho imbastito le miniature. Ma tu dovrai completarlo e rifinirlo in base agli insegnamenti che ti ho impartito. Quando sarà finito, in quello stesso giorno io tornerò da te qui ad Augusta“.

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Misericordia! Quel codice era impressionante tanto era spesso e pesante! Mi ci sarebbe voluta tutta la vita per terminarlo… non avrei mai più rivisto Padre Ardagh, se non nella grazia di Dio.

Passarono giorni, settimane, mesi, anni, lustri. E le diverse missive inviate al convento di Clonard non avevano mai ricevuto risposta.

Il giovane Arnolfo divenne un uomo colto e raffinato, di solida dottrina e gran temperamento. Un uomo dotato di elevata intelligenza non priva di sensibilità, acuto ma giusto in politica, abile nella gestione degli affari del monastero, fine consigliere per i confratelli, illuminato teologo. Grande la sua passione per Sant’Agostino di cui leggeva e rileggeva, spiegava e rispiegava i passi salienti de “La Città di Dio”.

Nemmeno per un solo giorno aveva tralasciato il lavoro sul codice di padre Ardagh. Quello era un pò il suo momento privato. Pagina dopo pagina era riuscito a decifrare le scritture dell’amico e aveva quasi completato le illustrazioni. Si trattava di una sorta di “convento ideale”, di comunità di uomini legati dalla stessa fede e dagli stessi obiettivi.

La parte più difficile ed oscura era quella che stava affrontando ora: un intreccio enigmatico, quasi un rebus in cui disposizioni architettoniche, artistiche e letterarie si mescolavano nell’intento di delineare un luogo particolare. Sacre Scritture e antiche favole greche miste ad animali fantastici e leggende. Indicazioni topografiche, orientamenti, punti cardinali, percorsi, sensi di lettura.

“Riuscirò mai a dare un senso a tutto ciò?”, si chiese perplesso Arnolfo. Non sapeva che la soluzione non avrebbe tardato…

 

Stella

 

Una AUGUSTA “per BENE”. L’Augusta dei Bagienni in provincia di Cuneo

Ed eccoci nuovamente pronti a partire col trolley o con lo zaino in spalla… oppure, semplicemente, con la fantasia e l’immaginazione. Quello che vi propongo oggi è un viaggio breve, un’idea per una domenica oppure, vista la zona, per un fine settimana in cui coniugare archeologia e gusto! Eh sì, siamo nel triangolo “Fossano-Alba-Bra”, terra di delizie, di ottimi vini, di carni succulente, di funghi e tartufi! Quindi, fate come ho fatto io: una bella gita autunnale di un paio di giorni a… Bene Vagienna! O meglio, ad AUGUSTA BAGIENNORUM!

Da Aosta a Bene Vagienna (Via Michelin)
Da Aosta a Bene Vagienna (Via Michelin)

In poco più di 2 ore d’auto sarete in questa sorprendente cittadina tutta rossa di cotto, scrigno di raffinate dimore medievali e barocche, poetica e appartata nelle sue infilate di portici ad arco ribassato. Una cittadina sorta nel Medioevo col nome di Bene, cui nel 1862 venne aggiunto Vagienna, a ricordo e omaggio al suo bimillenario passato. Già, perché l’insediamento medievale si trova in un luogo diverso da quello che vide l’imperatore Ottaviano Augusto fondare la “sua “Augusta…

Bene Vagienna - porticati
Scorcio dei porticati del centro di Bene Vagienna

Se volete trovare le vestigia del municipium augusteo, allora dovete recarvi in località Roncaglia, ad appena 4 km fuori dal centro cittadino verso nord-est. Zona di campi aperti, di stradelle chiare, di cascine in mattoni e piccoli campanili sparsi. Eppure, sotto questa parvenza di contadina sobrietà, si celano i resti di una gloriosa colonia di veterani, fondata, come la “nostra” Aosta, nel 25 a.C. e, stando a recenti studi condotti dal prof. Piero Barale, come Augusta Praetoria, orientata al sorgere del sole al solstizio d’inverno. L’ideologia augustea che ritorna, anche qui, a manifestarsi nel templum celeste, in un momento dell’anno astronomico ben specifico, simbolo di rinnovamento e novità e in una costellazione emblematica dell’imperatore fondatore: quella del Capricorno. Per la scoperta dell’orientamento astronomico di Augusta Praetoria (fatta da chi scrive e dal Prof. Giulio Magli) vi segnalo questo link.

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Quando si arriva all’area archeologica, in prossimità della graziosa chiesetta campestre di San Pietro, una passerella in legno (percorribile o a piedi o in bici) accompagna il visitatore nel suo progressivo addentrarsi nello spazio (antico) e nel tempo, risalendo a oltre 2000 anni fa. Da una parte i resti delle antiche mura, ben restaurati e accessoriati di utile pannellistica bilingue in italiano ed inglese; dall’altra erbe e spesso canneti alti quanto te. Ti senti in aperta campagna, ma sai che a poche spanne sotto i tuoi piedi dorme la Storia.

Qui, tra il Tanaro e la pianura Padana, lungo antiche vie dirette ai valichi di confine con le Gallie, così come verso il non distante mar Ligure; qui, non lontano dall’antica Pedona (oggi Borgo San Dalmazzo) dove veniva esatta la Quadragesima Galliarum prima di inerpicarsi verso i colli alpini occidentali, sorse Julia Augusta Bagiennorum. Sorse nel luogo dove già doveva svilupparsi l’antico oppidum dei Liguri Bagienni, presumibilmente denominato “Bennae” o “Baginna“, probabiklmente risalente alla seconda Età del Ferro. Coi Bagienni non sembra vi siano stati scontri o guerriglie, ma prevalse l’interesse economico di entrambe le parti nell’avere la possibilità, grazie a questa nuova fondazione, di veder incrementare i traffici commerciali.

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Citata dall’incontenibile enciclopedista Plinio il Vecchio, è però frutto dell’attività di ricerca e dell’entusiasmo di due studiosi locali, Giuseppe Assandria e Giovanni Vacchetta, tra la fine dell’Ottocento ed il 1925, l’individuazione della sua esatta ubicazione: la fertile piana della Roncaglia, appunto. Inoltre, dal 1993, a seguito della Legge Regionale di costituzione dei Parchi Naturali, l’area archeologica di Augusta Bagiennorum  è diventata Riserva Naturale Speciale e fa parte del Parco Naturale del Marguareis. Perciò vedete come l’interesse storico-archeologico si abbini a quello paesaggistico e naturalistico, un pò come succede al ponte-acquedotto romano di Pont d’Ael (all’imbocco della Valle di Cogne), dove questo straordinario capolavoro di ingegneria idraulica antica si inserisce in un’Area naturalistica protetta dove vivono ben 96 specie diverse di farfalle! #DaVedere!

Ma non divaghiamo e concentriamoci su Augusta Bagiennorum.

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Planimetria generale dell’area archeologica (da “Augusta Bagiennorum” a cura di C. Preacco)

Gli archeologi hanno individuato il Cardine Massimo e un tratto affidabile del Decumano Massimo; al loro incrocio sorgono i resti dell’antico foro,  riportato alla luce con gli scavi effettuati nel 1941 (poi ricoperti), che hanno rivelato un fondo selciato e un portico che incorniciava i due lati lunghi e su cui si affacciavano alcuni locali intonacati, probabilmente identificabili con botteghe e uffici a conferma della funzione anche commerciale del complesso stesso; il complesso presenta una forma molto allungata, dominato sul lato breve di nord-ovest, da un tempio su alto podio incorniciato da una scenografica porticus triplex, identificabile probabilmente come Capitolium. Sul lato opposto sarebbe attestata la presenza della basilica, fabbricato a tre navate dove si amministrava la giustizia, considerato uno dei rari esempi dell’Italia settentrionale seppure di non facile ricostruzione planimetrica.

Il foro risultava quindi diviso in due aree dal tracciato del Decumano Massimo: una civile, con funzioni politiche, amministrative ed economiche nel settore meridionale ed una religiosa in quello settentrionale, ad ulteriore evidenza di scelte urbanistiche non casuali ma derivate da una precisa pianificazione. Come vedete un’altra stringente analogia col foro di Aosta, sebbene l’esempio aostano vedesse la presenza di una coppia di templi gemelli e, al di sotto del porticato superiore, di un maestoso criptoportico. Come già detto, ad Aosta occorre ancora individuare con certezza la basilica che, però, parrebbe svilupparsi sul lato lungo occidentale, quindi tra le attuali Via Lostan e Via Croce di Città.

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Ricostruzione del foro (disegno di F. Corni)

A nord del foro, cui era collegato in un unico complesso monumentale tramite un largo viale, si colloca il teatro, unico edificio di Augusta Bagiennorum, unitamente all’annesso “tempio minore”, oggi pienamente visibile. Costruito in epoca augustea (I sec. d.C.) interamente fuori terra, poteva ospitare circa 3000 spettatori andando ad occupare due insulae vicine: una per la cavea ed una per l’edificio scenico (composto dal palco, dalla scaenae frons alle sue spalle e dagli ambienti di servizio retrostanti). Completano il quadro numerosissimi frammenti di decorazioni scultoree in marmo colorato, cosa che fa immaginare quanto dovesse essere ricco e ricercato l’interno dell’edificio scenico (un pò come accade anche ad Aosta).

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L’area del teatro e del cosiddetto “tempietto minore” divenuto chiesa romanica (da Il Giornale dell’Arte)

Dietro alla scena, larga circa 40 m, si apriva una piazza porticata quadrata di quasi 70 m di lato, che collegava la struttura con il centro cittadino. Tale struttura è identificabile con la porticus post scaenam, con funzione di “foyer” e di riparo per gli spettatori ed al cui interno si elevava un secondo tempio, forse un semplice sacello, più piccolo di quello forense, e per questo definito “tempio minore”, di incerta attribuzione, anche se la connessione con il teatro ha indotto ad ipotizzare che fosse dedicato a Dioniso.

Proprio questo tempietto venne adibito, tra IV e V sec. d.C., a luogo di culto cristiano che, successivamente nel X sec. d.C., divenne una vera e propria chiesa a tre navate absidate, in passato identificata come Pieve di Santa Maria di Bene (ma tale intitolazione risulta  ancora sub iudice).

Al di fuori della cinta urbana sorge l’anfiteatro, realizzato a metà del I d.C. (e confrontabile con l’esemplare di Libarna (AL), di cui oggi sono apprezzabili i resti della porzione occidentale. Nei pressi sorge oggi un orto “alla romana”: un progetto storico-botanico ispirato alla tradizione romana dei giardini con scopo utilitaristico del I-II secolo a.C., dedicati alla coltivazione di ortaggi, frutta ed erbe aromatiche, utili per la vita domestica della casa. Il centro dell’antica arena, invece, è ancora occupato da campi coltivati e dalla Cascina Ellena (sì, con 2 “L”).

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La passerella intorno ai resti dell’anfiteatro

Significativi anche i resti del poderoso acquedotto (contro i quali si appoggia la chiesetta di San Pietro già citata), di cui si è ritrovato un tratto di circa 2 km, per metà interrato, proveniente da sud-est e quindi, probabilmente, alimentato dal fiume Stura. Si può apprezzare un tratto del muro di sostegno della lunghezza di oltre 1 km e della larghezza media di 1,5 m, che corre su contrafforti con direzione nord-sud. Al termine della condotta è stato rinvenuto anche l’antico castellum aquae, una sorta di cisterna generale, da cui si dipartivano i diversi collettori secondari con tubature in piombo dirette ad alimentare le diverse zone della città.

A ciò si deve aggiungere l’individuazione della rete fognaria, sviluppata per almeno 250 metri, dalla quale si è potuti risalire anche al sistema viario urbano, articolato in strade principali e secondarie.

BLANCO Y NEGRO - Simone Mottura - Italy
Una delle sale del MAB di Bene Vagienna

Non si può lasciare Bene Vagienna senza aver completato la visita dell’antica Augusta Bagiennorum con quella al ricco Museo Archeologico locale, istituito agli inizi del Novecento dalla coppia di studiosi Assandria e Vacchetta, nelle preziose sale settecentesche del Palazzo Lucerna di Rorà. Il Museo raccoglie unicamente ciò che proviene dal sito e ne fornisce una panoramica completa e dettagliata. La ricchezza dei reperti aiuta ad immaginare come effettivamente dovevano essere edifici come il teatro o complessi monumentali come il foro, il cui tempio presentava al colmo del tetto una ricercata decorazione a palmette in cotto, o i cui portici dovevano rifulgere di statue onorarie in bronzo dorato e di marmi. A maggio 2016 è stato inoltre inaugurato il nuovo allestimento e le sale dedicate agli ateliers didattici. Ugualmente densa la sezione dedicata alle necropoli e alla ricostruzione della vita quotidiana.

Infine, per chi fosse interessato ad approfondire con una pubblicazione agile ma scientificamente seria ed affidabile, propongo di scaricare questo pdf.

Alla prossima!

Stella

Da Aosta a Autun, l’antica Augustodunum. La “fortezza di Augusto” nella verde Borgogna

Eccoci qui con il nostro secondo appuntamento dedicato alle “Aoste” dell’impero romano. Oggi faremo un viaggio di poco più di 4 ore alla volta della bella città francese di Autun, nel dipartimento Saône-et-Loire, regione della Borgogna.

Opzioni di viaggio da Aosta ad Autun (da www.viamichelin.it)
Opzioni di viaggio da Aosta ad Autun (da http://www.viamichelin.it)

Augustodunum, dicevamo. Toponimo in cui si fondono il nome di Ottaviano Augusto e la parola gallica dunum, ossia “fortezza”. Ci troviamo nel territorio dei Galli Haedui che, a differenza di molti popoli loro vicini, sin da subito, si mostrarono amici e alleati di Roma.

La posizione strategica e commerciale degli Edui era eccellente: controllavano, infatti, le vie che uniscono il bacino della Loira con quello della Saône da una parte, con quello della Senna dall’altra; le comunicazioni più comode fra nord e sud, fra Mediterraneo e Oceano, passano attraverso la Borgogna, che era proprio il loro paese. Erano quindi invidiati dai popoli vicini. Quando i Romani ebbero fondato in Gallia la provincia della Gallia Narbonese e vinto il re arverno Bituito, trovarono facilmente negli Edui degli alleati (121 a. C.), cui conferirono il titolo eccezionale di “fratelli e consanguinei del popolo romano”. L’alleanza servì sommamente gli interessi politici e commerciali di Roma, e diede d’altra parte agli Edui il primo posto fra i popoli della Gallia.

Tuttavia, nel 52 a.C. quando l’intera Gallia insorse contro Cesare, anche loro decisero di schierarsi contro Roma. Il loro centro di riferimento, il loro oppidum, era poco distante da dove poi verrà fondata la nuova colonia romana. Si tratta di Bibracte, luogo avvolto nel mito dove ancora oggi riecheggia il clangore delle armi e lo strepito delle battaglie tra Galli e Romani. Oggi il sito, in località Saint-Léger-du-Mont-Beuvray (e si noti come l’antico toponimo di Bibracte si sia francesizzato in Beuvray, “cristianizzandosi” sotto la tutela del burgundo San Leodegario!), è una vasta area archeologica super attrezzata dotata di un museo davvero ricco, interessante, ben strutturato, di moderna concezione e parecchio coinvolgente!.

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L’intera zona visitabile è talmente ampia che si può decidere di visitarla a piedi con belle passeggiate lungo i sentieri boscosi punteggiati di tappe emblematiche, oppure con comode navette ecologiche.

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Ci troviamo nel cuore della Gallia celtica, nel territorio che diverrà la provincia della Lugdunense, “la più gallica delle Gallie”, orbitante intorno all’importante centro nevralgico di Lugdunum (Lione), capitale politica, economica e religiosa, sede del sacro altare delle Tres Galliae (La Lugdunense, appunto, la Comata e la Belgica).

Era all’incirca il 15 a.C. quando Ottaviano Augusto decise di sfruttare questa posizione strategica fondando la colonia di Augustodunum.

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Ricostruzione acquarellata da Golvin

Una cinta muraria poderosa e monumentale, lunga quasi 6 km e conservatasi per oltre i 2/3 del suo perimetro originale ci accoglie con le sue aggettanti torri circolari e l’altezza dei suoi bastioni.

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Delle 4 porte urbiche originarie se ne conservano solo 2: la Porte d’Arroux, all’estremità nord del Kardo, e la Porte Saint André, sita all’ingresso est della città. Assai simili tra di loro, presentano entrambe quattro fornici: 2 più grandi, centrali, per i veicoli, e altrettante, ma più piccole, laterali, per i pedoni.

La Porte d'Arroux (lato sud) - S. Bertarione
La Porte d’Arroux (lato sud) – S. Bertarione
La Porte Saint-André (lato ovest) - S. Bertarione
La Porte Saint-André (lato ovest) – S. Bertarione

Il centro cittadino è ammaliante, ma soprattutto in virtù delle splendide testimonianze di un Medioevo dorato. Imperdibile gioiello cluniacense è la cattedrale di Saint-Lazare, costruita tra 1120 e 1130, annunciata e dominata dall’altissima cuspide quattrocentesca del campanile.

La cattedrale di Autun (S. Bertarione)
La cattedrale di Autun (S. Bertarione)

Ma torniamo, per non uscire di tema, alla città augustea. Un’area urbana totale decisamente estesa, pari a circa 200 ettari (!!), e disposta su ripiani terrazzati. Una forma a losanga, quindi irregolare, dovuta alla presenza di numerosi corsi d’acqua, molti dei quali oggi non più visibili.

Coi suoi 148 metri di diametro il teatro romano di Augustodunum, costruito intorno agli anni 70 del I secolo d.C., si presenta come il più grande di tutta la Gallia romana. Si pensa potesse ospitare circa 20.000 spettatori nelle sue ampie gradinate; alle spalle del palco si ergeva una scaenae frons alta oltre 30 metri. L’intera struttura venne utilizzata nei secoli come cava di materiale lapideo e, di conseguenza, oggi ci si può accomodare su quanto resta della cavea godendo, tuttavia, di un panorama spettacolare sulla campagna circostante. Accanto al teatro doveva sorgere l’anfiteatro (quindi un vero e proprio quartiere degli spettacoli, come ad Aosta), del quale però non resta davvero nulla…

Il grande teatro romano di Autun (S. Bertarione)
Il grande teatro romano di Autun (S. Bertarione)

Si affaccia sul teatro un’abitazione davvero strana: è la Maison des Caves Joyaux (ma guarda un pò!) le cui facciate sono letteralmente ricoperte di stele funerarie, epigrafi e busti di epoca romana provenienti sia dal vicino edificio teatrale che dalle necropoli circostanti! Costruita nel XIX secolo, era la casa del custode incaricato di sorvegliare la zona durante gli scavi; divenne poi il primo museo lapidario della città. Oggi è una dimora privata ma ricoperta di pezzi decisamente notevoli!

Uscendo poi dalla città seguendo le antiche arterie di traffico romane, in direzione sud, si raggiunge il piccolo villaggio di Couhard, sorto su una delle più importanti aree funerarie di epoca imperiale. La strada è in leggera ma costante salita; giunti nel punto più elevato dell’antica area necropolare, ci si trova davanti ad una piramide, nota come “pierre (o pyramide) de Couhard”.

Io ai piedi della piramide di Couhard
Io ai piedi della piramide di Couhard

Dunque, di cosa si tratta? Naturalmente, e lo si vede assai bene, non è un monumento nato e pensato come piramide, ma la forma piramidale è dovuta al suo progressivo decadimento, smantellamento, erosione. Alta in origine circa 30 metri e con base quadrata di 10,50 metri di lato, doveva essere rivestita di grossi blocchi di calcare bianco. Ciò che oggi si vede non è che il “torsolo”, il nucleo di una struttura scomparsa, forse assimilabile ad una tomba-mausoleo di proporzioni monumentali. Vedete quel foro sulla destra? Bene, quello è l’esito di un “sondaggio” effettuato alla metà del XVII secolo per verificare la presenza di una camera funeraria che… non c’è! Non è quindi una tomba vera e propria, bensì quel che si definisce un cenotafio. Una sepoltura simbolica, evocativa, celebrativa, a ricordo solenne di qualcuno di molto importante ma il cui corpo non giace lì. Una sorta di memoriale, per intenderci.

Tuttavia, il ritrovamento di un medaglione riportante la scritta “Gloria Aedorum druidumque” (“a gloria dei druidi Edui”) ha portato a supporre che fosse destinato a celebrare un personaggio in particolare, il druido Diviciaco, l’unico storicamente attestato dalle fonti. E’ noto infatti che lo stesso Giulio Cesare intrattenesse rapporti frequenti con lui, famoso per le raffinate doti diplomatiche. Si sa inoltre che Diviziaco ha sempre appoggiato l’alleanza con Roma da cui chiese aiuto anche contro i Germani. Ne parla persino Cicerone che lo ebbe ospite nella sua villa e che lo definisce come appartenete contemporaneamente alla classe sacerdotale e guerriera. Un druido, appunto.

Nel 1960 durante dei lavori di consolidamento alla base della piramide venne portata alla alla luce una tavoletta in piombo, datata al II secolo d.C., riportante delle invocazioni malefiche redatte in latino e in greco. Una “tavoletta magica” purtroppo non meglio identificata. All’esterno di nota una “X” (per alcuni una croce), mentre sulla faccia interna compaiono tre liste di nomi; si presume siano nomi di divinità uniti a formule o preghiere. La tavoletta è visibile al Musée Rolin, in città.

Sottolineo solo che da qui, dall’altura della piramide, guardando verso nord, losguardo corre all’orizzonte, supera Autun e in cosa si imbatte? Nel Mont Beuvray, Bibracte. Esiste quindi un rapporto, una sorta di dialogo visivo e simbolico con la città “perduta” degli Edui.

E per continuare col sacro, rechiamoci dalla parte opposta del suburbio autunnois, nel quartiere cosiddetto della Genetoye, dove emerge, in tutta la sua imponenza, il “Tempio di Giano”.

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La prima cosa che colpisce è questo torrione, questo enorme parallelepipedo di mattoni che tutto potrebbe sembrare fuorché un tempio. Innanzitutto va precisato che trattasi di “fanum, ossia di una tipologia di tempio non proprio romano, ma di concezione gallica. Bisogna immaginarsi questa torre circondata da un porticato; un santuario dunque a pianta centrale. Una cella ombelicale dal soffitto molto alto e illuminata da grandi finestre. Sicuramente il dialogo col cielo rappresentava una parte assai importante.

Piante di fase dagli atti della Journée de l'Archéologie di Autun, 2015
Piante di fase dagli atti della Journée de l’Archéologie di Autun, 2015

L’intitolazione a Giano si deve unicamente ad una interpretazione (forse maldestra o ingenua) del toponimo Génétoye, tuttavia non è ancora certo quale fosse la divinità qui venerata. Scavi recenti hanno pertanto individuato tracce attribuibili ad un luogo di culto databile alla seconda Età del Ferro (III-I sec. a.C.) con una continuità di utilizzo perdurata fino al IV secolo d.C.

Vorrei infine concludere consigliandovi una visita al Musée Rolin, situato nella nobile dimora quattrocentesca di Nicolas Rolin, ricco e munifico cancelliere dei Duchi di Borgogna. Le collezioni sono ricche e variegate: dall’epoca gallo-romana fino agli splendori romanici (da non perdere il video sul grande portale della cattedrale!), per concludersi con un’abbagliante collezione di dipinti e sculture rinascimentali.

Augustodunum, la “fortezza di Augusto”, antica città alleata e amica di Roma. La “Aosta” di Borgogna vi aspetta per incantarvi con le sue atmosfere e coi suoi tesori.

Bene, che dire di più? Si parte per Autun?

Stella

La mia viscerale passione per i Celti (nonostante Roma). Tra ricordi, studi e appunti

Ciao a tutti carissimi amici! E’ vero, sono stata un pò latitante..ma sapete, serve la giusta ispirazione! Serve l’intervento della Musa, quell’alito indescrivibile in cui si mescolano fantasia, contenuti e penna fluida!

Quando i ricordi riaffiorano

Ho accumulato parecchi spunti… ma oggi mi sento di rispolverare la mia passione per i Celti. Non so se ve l’ho mai detto, ma all’università ho seguito ben 2 corsi (e dico 2!!) di “Filologia e cultura celtica”! Una meraviglia.. quasi per caso mi sono ritrovata in mano alcuni appunti, datati (udite, udite) 1997 (fatalità proprio l’anno in cui vide la luce la prima edizione di “Celtica” qui in Valle d’Aosta!!).

I Celti, per me da sempre una passione quasi “segreta”, da sempre miscelata con l’altra, quella per il mondo romano. E infatti non è un caso se ho deciso di laurearmi in “Archeologia delle Province romane”; sì, perché il fascino più grande e pervasivo lo esercita, su di me, l’incontro, l’incrocio, il mescolarsi di culture, gli scambi… in tutte le loro forme: linguistiche, artistiche, architettoniche, religiose, letterarie.

E come quando si vede, nei più classici film in stile “Indiana Jones” che lui, l’archeologo con la frusta, passa una mano sulla secolare polvere di un reperto riportando in luce una scritta, un simbolo, una formula… ecco, così io nel ritrovare, per caso, quel quadernone con la copertina rosa, scritto fitto fitto. Ricordo quelle lezioni in Via Santa Maria, a Pisa, quasi in una mansarda: un’aula piccola… saremo stati, penso, meno di dieci! Stupende!

Falera in argento da Manerbio (BS) - III sec. a.C.
Falera in argento da Manerbio (BS) – III sec. a.C.

Vi fu un tempo…

I Celti sono l’etnia che nell’antichità ha occupato il territorio europeo (e non solo) più vasto perché popoli celtici sono stanziati dalle sponde dell’Atlantico alle pianure danubiane, passando per Spagna, Francia, Belgio, buona parte della Germania, l’Italia settentrionale e di qui, attraverso la penisola balcanica e la Tracia, fino all’Asia Minore. Vista la loro distribuzione massiccia e diffusa sul continente, possono essere considerati a pieno titolo il primo popolo “europeo”.

Inoltre le grandi letterature europee hanno tratto da quelle celtiche, più o meno profondamente rielaborandoli, alcuni dei più corposi e importanti cicli, temi, figure leggendarie e favolistiche che le caratterizzano e per rendersi conto di questo debito letterario e culturale nostro nei confronti dei  Celti basterà pensare a cosa sarebbe la cultura europea senza il ciclo bretone e la tavola Rotonda, Artù, Mago Merlino, Morgana, Lancillotto,Tristano, Isotta.

E poi ci sarebbero da ricordare quella particolare architettura di epoca imperiale e medievale diffusa in Francia e che viene detta gallo-romana proprio per sottolinearne la inconfondibile componente celtica; l’oreficeria celtica continentale e insulare; le tecniche e i motivi decorativi dei Celti antichi e medievali in cui molti studiosi di storia dell’arte rintracciano a ragione le fonti d’ispirazione per il Liberty. Infine, altro motivo di vanto “postumo” per i nostri Celti potrebbe a buon diritto essere rappresentato dalle periodiche e sempre più fitte riscoperte e revivals del celtismo, dai falsi ossianici di Macpherson fino a Tolkien (altra mia profonda passione!) e ,perché no, ad Asterix, senza dimenticare le “reintroduzioni”, quasi sempre inconsapevoli, di qualche tradizione come, ad esempio, quella di Halloween che altro non è che la cristianizzazione di Shamain, la festa d’inizio dell’anno celtico in cui avveniva l’incontro fra i due mondi, terreno e divino.

I Celti esistono ancora!

Tuttavia, nella storia dei Celti si registrano anche singolari rovesci di fortuna e non mi riferisco solo alle battaglie e alle guerre perdute (via via contro Romani, Anglo-Sassoni, e poi Inglesi e Francesi),  ma a qualcosa di ancor più insidioso per la sopravvivenza di un popolo: l’ignoranza diffusa sulla sua identità. Tanti, troppi, anche fra persone di buona cultura non sanno chi furono (e sono tuttora) davvero i Celti o hanno le idee molto confuse in proposito. C’è chi crede, ad esempio, che i Celti rappresentino un ramo – importante quanto si vuole ma pur sempre un ramo-, dei Germani o che celtiche siano solo le popolazioni antiche, quelle sconfitte o assimilate dai Romani: e sbagliano entrambi perché, da un lato, “celtico” è un concetto etno-linguistico autonomo e i contatti che ci sono stati con il mondo germanico sono avvenuti fra due etnie distinte, mentre, dall’altro, se è vero che non esistono più né Galli, né Celtiberi, né Galati, né Leponzi, sono celtiche anche tutte quelle comunità che in epoca medievale, moderna e contemporanea parlavano o addirittura parlano tuttora una lingua celtica come oggi nel Gaeltacht irlandese, nel Galles, in Scozia, in Bretagna e fino al secolo scorso e al XVIII rispettivamente nell’Isola di Man e in Cornovaglia.

 Si fa presto a dire “celtico”

Ed eccoli, i miei appunti di linguistica celtica… che emozione sfogliare quelle pagine! Innanzitutto il gallico, senz’altro quella più importante per diffusione (Gallia Transalpina e Cisalpina, parte della Germania e della Svizzera) e ampiezza di documentazione diretta (iscrizioni) che va dal III sec.a.C. al II-III (forse addirittura IV) d.C. e indiretta (toponimi, voci di sostrato nei dialetti gallo-romanzi). E poi il leponzio, parlato in Val d’Ossola, aree intorno alle due sponde del lago Maggiore e Canton Ticino come ci testimoniano poco meno di 200 iscrizioni (dal VII sec. al II a.C.) fin, la gran parte delle quali, purtroppo, assai brevi e in frammenti e costituite per lo più da nomi propri. E ancora  il galatico, la lingua di quei Galli che passarono nel III sec. a.C. in Asia Minore fondandovi il regno della Galazia (corrispondente in parte all’attuale Turchia) e che dovette sopravvivere a lungo prima di soccombere al greco visto che ancora S. Girolamo ci dice che ai suoi tempi era ancora parlato ma di cui conosciamo solo glosse in autori classici e nomi di persona.

E infine, il celtiberico di alcune centinaia di iscrizioni comprese in un arco cronologico dal
III al I sec. a.C. provenienti dal centro della Spagna. Tutte queste lingue, dette appunto lingue celtiche antiche o continentali furono, in momenti e con tempi diversi, comunque soppiantate in epoca imperiale dal latino (e, nel caso del galatico, anche dal greco).
Ma ci sono anche le lingue del cosiddetto celtico insulare, alcune delle quali ancora parlate nelle isole britanniche.L’irlandese, lo scozzese, il mannese, il gallese, il bretone…
"Ossian évoque les fantômes au son de la harpe sur les bords du Lora", dipinto di F. Gérard (fine XVIII-inizi XIX sec.)
“Ossian évoque les fantômes au son de la harpe sur les bords du Lora”, dipinto di F. Gérard (fine XVIII-inizi XIX sec.)
Ma qui mi fermo, perché altrimenti risulterei noiosa e “accademica”. Da qui riparto applicando la mia passione e le mie conoscenze alla mia terra. Alla terra “della Grande Orsa”, la Valle d’Aosta.

E comincio così, citando il leggendario bardo Ossian, anche noto come l'”Omero del Nord”:

“Oh sorgete, soffiate impetuosi,

venti d’autunno, su la negra vetta;

nembi, o nembi, affollatevi, crollate

l’annose querce; tu torrente, muggi

per la montagna, e tu passeggia, o Luna,

per torbid’ aere, e fuor tra nube  e nube

 mostra pallido raggio…”

La natura grandiosa dell’alta Val Veny di Courmayeur viene quasi ritratta dal canto ossianico: la “negra vetta” sembra infatti richiamare l’aguzzo profilo della scura Aiguille Noire e, al di là del riferimento all’autunno, spesso le serate estive ai piedi del Monte Bianco riservano temporali, vento e rincorrersi di nubi. Ma anche questo non fa che accrescere il fascino del luogo. Un luogo dove è quasi possibile percepire il divino. Il divino della Natura, da sempre venerata sin dalla più remota notte dei tempi e assiduamente celebrata dagli antichi Celti. Non è un caso, se ci pensiamo, che il nome stesso della vallata, Veny, deriva dal celtico Penn, il dio della montagna, venerato sulle alture e non solo in Valle d’Aosta, dove ha dato nome anche alla Valpelline e all’Alpis Poenina, ossia il Gran San Bernardo. Lo ritroviamo anche sugli Appennini e, per citare un altro esempio, in Val Venosta.

Montagne divine, potenza della natura.

L'Aiguille Noire du Peuterey in Val Veny. (da: www.jeromebiols.com)
L’Aiguille Noire du Peuterey in Val Veny. (da: http://www.jeromebiols.com)

VALLE D’AOSTA CELTICA

La piccola Valle d’Aosta si colloca quasi al centro di quell’ immenso territorio attraversato per secoli da tribù celtiche, guerrieri e mercanti. E i Celti possono essere rintracciati anche qui, nella terra della GrandeOrsa, così chiamata per il suo particolare profilo che parrebbe delineare proprio unorso, animale sacro e regale il cui culto affonda le sue radici sin nella più lontana Preistoria dell’uomo. E’ noto, infatti, che prima dell’arrivo dei Romani, la Valle era abitata dai Salassi, popolo nato dalla fusione tra antiche tribù liguri e nuove genti celtiche arrivate d’Oltralpe e dall’Europa centro-orientale. Un popolo citato dagli storici greci e latini, e presente anche sull’epigrafe del Trofeo delle Alpi di La Turbie (tra Mentone e Nizza): un monumento onorario voluto dall’imperatore Augusto per ricordare tutti i popoli alpini sconfitti. Un popolo che ha lasciato diverse testimonianze sul difficile territorio valdostano: si pensi ai villaggi in quota, come quello alle pendici del Mont Tantané in Valtournenche, o al castelliere di Lignan, posto su un’altura boscosa nei pressi dell’Osservatorio astronomico regionale. Ma si pensi, oggi più che mai, al tumulo funerario contenete le spoglie di quel “principe celtico” recentemente rinvenuto in occasione degli scavi per l’ampliamento dell’Ospedale “U. Parini” ad Aosta.

Si pensi agli splendidi torques (collane girocollo), alle raffinate armille (bracciali) in bronzo o in vetro, alle spille per abiti e ai recipienti ceramici ritrovati nei tanti corredi funerari salassi portati in luce anche tra queste montagne.

 

Stella

Quando il “ludus” diventa arte. L’antico quartiere degli spettacoli di Aosta (romana)

Continua la nostra scoperta dell’#Aosta romana. Una #AugustaPraetoriaSalassorum che ci affascina e ci emoziona ad ogni passo, ad ogni scorcio. Un avvicinamento graduale ma inesorabile, dall’antico ponte romano all’Arco di Augusto e lungo via Sant’Anselmo fino ad avvistare in lontananza un’arcata, anzi due, anzi tre! Marmi d’argento, ricami color avorio: è la straordinaria Porta Praetoria, lì dove ideologia e architettura, tecnica militare e fine urbanistica si armonizzano in un esito tanto avvolgente quanto inaspettato.

Ed è con gli occhi ancora pieni di questa monumentalità che svoltiamo in direzione del quartiere degli spettacoli fiancheggiando le mura, vecchie di oltre 2000 anni (e non è cosa così frequente; basti pensare che Aosta conserva ancora il 90% del circuito murario romano!), passando al loro interno, a ridosso dei potenti contrafforti e delle tracce del muro di controscarpa che, in origine, doveva contenere il terrapieno di rinforzo.

AMMALIANTE ORIGINALITA’

Quando finalmente la vista incontra quel muro di facciata alto 22 metri, magari quando la luce orientale del mattino gioca tra le finestre e i contrafforti sporgenti insinuandosi nelle rugosità dei blocchi di arenaria ed esaltandone le particolari tonalità dorate, allora lo spettacolo è garantito. Siamo al cospetto del prospetto sud dell’edificio teatrale. E’ vero, di norma quando si parla di teatro romano ci si aspetterebbe di imbattersi in un muro semicircolare, di vedere subito la cavea, ossia lo spazio gradonato destinato agli spettatori. Qui ad Aosta non è così. Ciò che si vede, e che nei secoli passati, prima degli interventi di epoca fascista, era quasi completamente mimetizzato tra le case che gli si erano ancorate addosso, è il “contenitore” della cavea. Sì, per usare una metafora, ad Aosta il teatro romano era “inscatolato”! La cavea si nasconde all’interno di un perimetro di mura monumentali di cui oggi resta solo la porzione meridionale a testimoniarne l’antica possente incombenza. Espediente analogo si può ritrovare nei teatri coevi di Augusta Taurinorum (Torino, fine I secolo a.C.-inizi I secolo d.C.)) e Lunae (Luni, I secolo a.C.) e nell’odeion di Pompei (realizzato nell’80 a.C.).

Ci avviciniamo quasi intimoriti da queste vestigia incredibili, direi quasi folgorati da un panorama del tutto inaspettato in questa cornice di vette alpine. All’orizzonte, verso nord, si erge la mole del Grand Combin, un “4000” già in terra elvetica ma che occhieggia curioso sulla nostra Valle. L’infilata delle mura romane con le antiche torri rimaneggiate dalle potenti famiglie medievali, sulla nostra destra; questo poderoso ed insolito edificio sulla sinistra. Un edificio che, visto da vicino, sembra fatto di sabbia, di infiniti granelli fossili, nonostante la sua innegabile solidità.

Ma dove siamo? La curiosità aumenta, così come la voglia di scoprire e capire sempre di più e meglio questa cittadina alpina dalla storia plurimillenaria.

IN SCENA!

Siamo dunque “a teatro”. Commedie (tante e molto apprezzate, basti pensare allo straordinario successo di Plauto!), tragedie (poche, meno amate, si pensi a Terenzio…), mimi, balletti, farse, ma anche esibizioni musicali e letture poetiche… sembra quasi di sentirne l’eco, di vedere gli artisti muoversi con talento sul palcoscenico o cambiarsi e truccarsi dietro le quinte. Sembra anche di vedere la cavea completa, alta fino alla base dei gruppi di tre finestrelle, in pietra nella parte bassa e mediana, in legno (probabilmente) per la cosiddetta “summa cavea“, dove i seggi erano molto stretti e i gradini assai ripidi, insomma, i posti meno ambiti ma non per questo meno frequentati… anzi! La voglia di andare a teatro nel mondo romano era tanta, era un vero e proprio appuntamento sociale, di riunione della comunità che così condivideva valori e ideologie.

Sì, il teatro era anche palcoscenico per l’intera società e soprattutto per la classe dominante. Oggi non ve ne è traccia, ma dobbiamo immaginarci una quinta in muratura (chiamata scenae frons), a ridosso del palcoscenico, alta tanto quanto la facciata ancora in piedi. 22 metri suddivisi su due livelli sapientemente movimentati da colonne più o meno aggettanti, da statue (scelte ad hoc), magari anche da raffinati altorilievi e vivacizzati dall’impiego di marmi colorati e preziosi. Non è affatto improbabile immaginarci, al centro di questo fondale scenografico, proprio la statua dell’imperatore Ottaviano Augusto, fondatore eponimo della colonia, deus et patronus.

Lungo i lati le arcate davano accesso a dei corridoi di ingresso attraverso cui si poteva entrare e prendere posto sui gradoni. Oggi il percorso di visita consente di passare su una passerella situata tra il palcoscenico e l’orchestra, in una posizione che ricalca quella dell’antico “aditus maximus“.

Il palcoscenico (proscaenium)si affacciava sull’orchestra e verso il pubblico con il pulpitum: una sequenza alternata di nicchie quadrangolari e semicircolari, anticamente impreziosite da colonnine e bassorilievi (oggi-ahimè-perduti) e nascondeva, al suo interno, i meccanismi utili all’alzata dal basso del sipario (aulaeum). Oggi possiamo soffermarci sull’uso dei laterizi e sulla difficoltà di conservarli in un clima quale il nostro attuale dove gli sbalzi di temperatura, le precipitazioni e il gelo/disgelo li frantumano anno dopo anno. In epoca romana, invece, il clima era più mite.. quel che si dice “optimum climaticum“!

Gli attori entravano in scena attraverso tre porte: quella centrale, più grande, detta “porta regia” e due laterali, secondarie, le porte “hospitales“. Purtroppo è difficile rendersene conto, certo se fossimo sollevati per un attimo in aria la vista dall’alto ci chiarirebbe molti dettagli.

PREZIOSE CURIOSITA’

L’orchestra, malgrado l’odierno aspetto grigio e uniforme, si presentava in origine pavimentata da lastre di ben tre marmi diversi: il giallo di Numidia, il porfido d’Egitto e il cipollino di Grecia. Oggi, ripeto, non ci è dato di vedere nulla dell’antico splendido tripudio cromatico, ma ne siamo a conoscenza grazie ai diari lasciati da Giorgio Rosi, l’archeologo che seguì gli scavi tra il 1933 ed il 1937. Scrive infatti il Rosi:” L’orchestra era pavimentata di marmi rari e di vari colori, connessi secondo un regolare scomparto geometrico […]”. E aggiunge: “[…] anche la bassa parete del pulpitum doveva essere interamente rivestita di marmi di vario colore: le superfici di cipollino bianco venato di verdastro, le modanature di africano rosso venato di bianco […]”.

Allora, immaginate: un esterno dai toni della sabbia, cangianti, a seconda della luce solare, tra il grigio perla e l’oro più caldo; un interno risplendente di colori, frutto di una committenza possidente e munifica, capace di far arrivare ai piedi delle Alpi tutta la ricercata preziosità di marmi lontani, colorati ed esotici.

Ma, a ben pensarci, Aosta è forse ancora oggi un pò così: un’apparenza severa, sobria, magari addirittura grigia, che però nasconde un’anima calda e colorata, ben visibile lungo le vie del centro storico, nelle vivaci facciate in tinte pastello e nelle vezzose decorazioni in stile liberty di certi palazzi storici di via Croce di Città, via De Tillier o via Sant’Anselmo. Per non parlare della meravigliosa ariosità e dell’eleganza neoclassica di piazza Chanoux.

Ma torniamo all’arredo scultoreo e all’apparato decorativo del teatro. Si diceva della composizione geometrica delle crustae (lastre) marmoree dell’orchestra. Un’ordinata tessitura a scacchiera composta da lastre quadrate alternate ad altre suddivise in quattro triangoli il cui disegno era assolutamente esaltato dall’uso di marmi differenti. Inoltre la decorazione architettonica doveva trovare completamento in gruppi statuari bronzei, come ci indica la bella porzione di volto maschile in bronzo dorato e di dimensioni maggiori del vero oggi visibile al #MAR di Aosta.

E IL TETTO?

Ma questo teatro così particolare, era coperto sì o no? Per lungo tempo si è ritenuto che lo fosse, proprio in virtù del perimetro di muratura che lo circonda. Tuttavia va sottolineato che la copertura avrebbe dovuto prevedere travature di quasi 40 metri di lunghezza e non è certo cosa da poco! Purtroppo non si possiedono notizie relative alle tecniche di messa in opera di simili solai, e di conseguenza molti dubbi rimangono. Basti pensare che il famoso odeion di Agrippa (di età augustea) realizzato nell’agorà di Atene, aveva un solaio ligneo ampio “solo” 25 metri che dopo un certo periodo crollò richiedendo la costruzione di un muro mediano per sostenere il tetto. Alcuni ipotizzano persino il ricorso a particolari (e pesantissime) coperture sospese ancorate a puntoni a  sbalzo, come dovrebbe essere stato il caso dell’odeion di Lugdunum (Lione) del II secolo d.C.

Sicuramente, invece, possiamo ipotizzare la presenza di una tettoia sporgente proprio al di sopra del palcoscenico (si pensi a quella esistente ad Orange) la cui funzione, oltre a quella di copertura tout court, era anche di tipo acustico andando ad amplificare le voci degli attori.

Un quartiere degli spettacoli, dicevamo, Infatti! Proprio a nord del teatro, oltre un muro in pietra che oggi lo divide dal giardino-frutteto del convento di Santa Caterina, si trovano i resti dell’altro grande edificio ludico di epoca romana: l’anfiteatro. Entrambi, quindi, costruiti vicini all’interno delle mura, a ridosso dell’angolo nord-orientale della città e facilmente raggiungibili dalla Porta Praetoria.

UN OCCHIO ALL’ANFITEATRO

Palatium rotundum“, “magnum palatium“: così viene indicato l’Anfiteatro nei documenti medievali locali, in epoche che ormai avevano dimenticato quale fosse la reale identità di quell’imponente edificio dal perimetro ellittico e che, probabilmente, solo in parte si lasciava intuire tra gli orti, i frutteti e le casupole che gli si erano gradualmente addossate sfruttandone le possenti murature. Tuttavia vi era una componente degli antichi edifici romani che, invece, era ben conosciuta e ben sfruttata: la zona nord-orientale della città, infatti, era nota con la denominazione di super crottas o crotes, cioè “al di sopra delle grotte”, o direttamente “grotte”.Gli abitanti del quartiere, chiaramente, erano consapevoli dello sviluppo sotterraneo di tutta una serie di ambienti e concamerazioni di cui ignoravano l’origine, ma che risultavano decisamente utili alle loro esigenze quotidiane come pratiche cantine. Diversa la situazione nel XVIII secolo, quando un nobile erudito come il De Tillier lo nomina  “colizée” (o anche “cirque ou soit amphiteatre“) dimostrando una solida consapevolezza storica ed un notevole bagaglio culturale umanistico. La denominazione specifica del grande Anfiteatro Flavio di Roma rappresentava ormai la definizione più adatta ad indicare anche l’esemplare aostano, ubicato nell’angolo nord-est della città murata e inserito così all’interno di una determinata tipologia architettonica di edifici per pubblici spettacoli.

QUANDO…

La data di costruzione, da sempre fissata all’epoca della fondazione della colonia (25 a.C.), tuttavia non parrebbe basarsi tanto su considerazioni legate alle particolari caratteristiche costruttive, architettoniche, dimensionali o decorative, quanto piuttosto sulla localizzazione intramuranea di questo importante edificio. Una datazione che va rivista e spostata in avanti, alla piena età giulio-claudia (come per il teatro), anche in seguito alla scoperta dei resti dell’ insula 8 precedenti l’anfiteatro ritrovati durante gli scavi nel cortile del complesso dei Balivi.

E DOVE…

La collocazione dentro le mura è sempre stata attribuita al fatto che la città sia stata in qualche modo progettata sin da subito come perfettamente dotata di una sua unitarietà ed omogeneità d’impianto in cui tutti i quadranti urbani possedevano già a priori una loro specifica destinazione d’uso completata dagli appositi edifici. La singolarità deriva dal fatto che la maggior parte degli anfiteatri ad oggi noti risultano costruiti fuori città, lungo le più frequentate arterie viarie, in modo da evitare che la folla richiamata dai grandi spettacoli gladiatorii si costipasse all’interno delle mura col rischio di provocare pericolosi disordini e turbamenti dell’ordine pubblico. Ora invece possiamo affermare che la posizione è frutto di una precisa volontà indipendente dal progetto di fondazione della colonia.

Il caso aostano, tuttavia, non rappresenta certamente un unicum, dal momento che altri sono gli anfiteatri situati all’interno della cortina muraria; a titolo esemplificativo potremmo solo citare alcuni casi italici tra cui Aquinum (Aquino, nel Lazio meridionale), Interamna Nahars (Terni, in Umbria) e Ferentium (Ferento, in provincia di Viterbo), soffermandoci maggiormente sui più noti anfiteatri di Pompei, Pæstum e Carsulæ (attuale Carsoli, in Umbria). In quest’ultimo caso notiamo come  l’anfiteatro vada ad inserirsi all’interno del centro monumentale dove, congiuntamente al vicino Teatro, contribuisce a creare un vero e proprio settore specializzato a poca distanza dal Foro e dai suoi abituali annessi religiosi.

Ad Aosta la porzione di terreno prescelta per la realizzazione dell’anfiteatro si presentava relativamente pianeggiante ma con una leggera pendenza da nord verso sud che nella torre angolare di nord-est (Torre dei Balivi) trovava il suo punto più elevato. Si dovette, pertanto, procedere allo scavo dell’arena centrale in modo da collocarla ad una maggior profondità, e alla conseguente realizzazione di idonee sostruzioni cave per i muri anulari e quelli radiali; la testata di questi ultimi formava una semplice corona in cui si inserivano i muri perimetrali del prospetto esterno che così risultava privo della galleria periferica d’accesso.

E’ questa una particolarità degli anfiteatri costruiti prima dell’età flavia, quindi prima degli anni 70/80 del I secolo d.C.; proprio tale assenza faceva sì che le facciate degli anfiteatri presentassero un paramento murario di spiccata monumentalità come, ad esempio, l’opus quadratum a grosse bugne. Un’osservazione valida senz’altro per il caso di Aosta dove anche il vicino Teatro presenta un analogo apparecchio murario che ancor di più sottolinea quella certa “aria di famiglia” tra i due edifici per pubblici spettacoli che, sebbene non appartenenti ad un medesimo cantiere (gli assi maggiori dei due edifici non sono perfettamente allineati e i materiali utilizzati non sono gli stessi), risultano comunque interpretabili come due tappe distinte, forse neanche troppo distanti nel tempo una dall’altra, di un progetto urbanistico comunque unitario seppure riferibile a due committenze diverse.

LUDI IN SALSA IBERICA

Ma non voglio dilungarmi oltre, altrimenti mi mandate a quel paese! Solo un’ultima info: se volete visitare un luogo dove poter ammirare un quartiere di spettacoli assai simile al nostro, completo anche dell’anfiteatro e dove il teatro è splendidamente conservato (oltretutto aiutandovi a meglio capire ed immaginare quello di Aosta), allora vi proporrei un bel viaggetto in Spagna, a #Merida, l’antica colonia augustea di Augusta Emerita, “gemellina” di Aosta in quanto anche lei fondata nel 25 a.C. e con la quale condivide anche l’orientamento astronomico (non a caso, visto che il fondatore è lo stesso!!) al #solstiziod’inverno! 

LUCI D’INVERNO

Un ottimo periodo, oltretutto, per venire anche ad #Aosta: sia per piazzarsi verso le 10,50 di mattina in Croce di città con gli occhi rivolti verso le montagne a sud aspettando di vedere il disco solare uscire nel cielo e invadere di luce l’antico Kardo Maximus per “toccare con mano” l’orientamento dell’antica città, sia per approfittare del periodo pre-natalizio e andare a visitare i nostri originalissimi mercatini di Natale! Perché “originalissimi”? Ma perché li trovate proprio nell’area del teatro romano! Un piccolo e grazioso villaggio alpino, grappoli di chalets sfavillanti di luci proprio a ridosso di uno dei monumenti romani più rappresentativi di Aosta, anche lui illuminato a festa! Beh, detto questo, non resta che darsi appuntamento a dicembre! Non mancate!

Stella

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Porta Praetoria. Imago Urbis

“Per terre ignote vanno le nostre legioni
a fondare colonie a immagine di Roma […]

[…] Iam resultent musica
unda, tellus, sidera
personantes organis iubilate, iubilate.”

Con queste emblematiche parole tratte da “Delenda Carthago” di Franco Battiato, voglio iniziare questo mio post dedicato alla Porta Praetoria di Aosta. Ingresso principale all’antica colonia augustea, si apre nel tratto orientale della magnifica cinta muraria incastonata tra due possenti torri quadrate e, cosa non così frequente, dotata di cavaedium, cioè di un cortile d’armi centrali.

Ma procediamo con ordine.

L’ITALIA DELLE CITTA’ MURATE

Con l’avvento al potere di Ottaviano Augusto, e col contestuale dilagare dell’idea di PAX, oggettivamente non ci si sarebbe aspettati un fiorire così diffuso di muraglie a difesa delle città. Eppure, non solo in Italia, ma anche nelle province galliche (soprattutto nella Gallia Narbonense, l’attuale Provenza..allargata!) e ispaniche, in epoca augustea si assiste ad un pullulare di nuove fondazioni, tutte regolarmente dotate di cortine murarie. Si pensa ad un probabile legame ideologico tra la presenza delle mura e lo statuto giuridico della città. Si è ritenuto per lungo tempo che il potersi fregiare dello ius romanum implicasse il diritto di costruire le mura attorno alla colonia, sacralmente preceduto dalla cerimonia solenne del sulcus primigenius. Forse non è così automatico, ma ad ogni modo occorre considerare la volontà di autorappresentazione delle singole comunità urbane e delle rispettive élites attraverso una limitatio decisamente monumentale.

La fondazione di una nuova città, specie in aree da poco romanizzate,è un momento importante, in cui si ripetono gli stessi gesti che Romolo, secondo la tradizione, aveva compiuto nel fondare Roma: in questo modo il legame simbolico fra l’Urbs e la nuova città diveniva ancora più forte.
MURA CHE DIFENDONO LA PACE E CONNOTANO L’IDEA DI CITTA’

Coi primi anni del Principato è come se il paesaggio si “rimilitarizzasse” in chiave simbolica; come se ci dovesse “armare” per difendere la Pace… quasi un controsenso, ma all’epoca era assolutamente normale e comunemente accettato. Un universo pacificato dove, però, si moltiplicavano le cinte murarie e le torri difensive. Come non pensare a Virgilio che, nelle Georgiche, canta l’Italia delle urbes i cui costumi e la cui cultura sono garantiti dai loro stessi bastioni e dalla solennità degli accessi?

Per chi si metteva in viaggio da Roma lungo le grandi vie di comunicazione verso il Nord (ma anche il Sud) della penisola, il viaggio era costellato di città murate. Il nord-ovest d’Italia corrispondeva alla Regio XI Transpadana all’interno della suddivisione del territorio operata da Augusto: terra di grandi e fertili pianure, di fiumi, di colline ondulate e montagne innevate. Perno strategico fu la colonia di Eporedia (Ivrea) già creata nel 100 a.C.; fondamentale la rete viaria, in particolare quella Via delle Gallie che, da Mediolanum (Milano) avrebbe condotto sia fino a Lugdunum (Lione) sia fino a Mogontiacum (Magonza).

Nel caso di Torino (Augusta Taurinorum, fondata nel 27 a.C.) e di Aosta (Augusta Praetoria Salassorum), fondata appena 2 anni dopo, le mura potevano forse avere ancora una certa minima utilità, dato che le popolazioni locali (Taurini e Salassi) non erano state proprio del tutto pacificate e probabilmente si temevano subbugli o rivolte. Ma in altre realtà italiche, e penso a Saepinumnell’attuale Molise, o a Hispellum (Spello) in Umbria oppure ancora alle colonie del nord-est, in primis Verona, la presenza di una possente cinta suggellava visivamente il cambiamento sociale in atto o appena concluso, la nuova concezione dell’idea di urbs e di civis romanus. I prodromi del concetto di Impero romano.

ARRIVO AD AUGUSTA PRAETORIA

Le strade incernieravano il territorio alle città e i punti di contatto erano sottolineati dalle porte urbiche. Ad Aosta la Via delle Gallie faceva il suo ingresso in città arrivando da est: questo il lato più importante, la vera “vetrina” della città. Ecco perché la Porta Praetoria si erge proprio qui. Immaginate: al posto dove oggi si allunga Corso Ivrea, la strada passava in mezzo ad una densa area funeraria: probabilmente la più ricca ed elegante delle quattro aree di necropoli. Perché? Sempre per lo stesso motivo: perché questo è il lato nobile della colonia e l’avvicinamento alle mura doveva già far capire il rango, l’importanza e la munificenza delle classi più abbienti e più in vista della città.  Ecco, avete appena superato il torrente Buthier (l’antico Bauthegius) passando sul massiccio ponte a schiena d’asino in grossi blocchi di arenaria da dove, in lontananza, il vostro sguardo è stato ammaliato dalla mole dell’Arco onorario dedicato al princeps Augusto. Una studiata infilata prospettica che porta fino alla porta d’accesso principale della colonia; sin da lontano trionfa all’orizzonte coi suoi tre passaggi ad arco e l’alta facciata a galleria inquadrata dalle due torri laterali.

Lo sguardo all’epoca poteva spaziare libero e abbracciare d’un sol colpo tutta la piana, l’intero lato orientale della splendida cortina muraria brillante di travertino e disegnata dai chiaroscuri di ben venti torri: due ai lati di ogni porta, quattro angolari e altre due per lato. Probabilmente una funzione anche decorativa e non solo meramente difensiva.

IL PRINCIPALE INGRESSO DELLA COLONIA

Ma ora avviciniamoci alla Porta Praetoria. Concentriamoci su questo grandioso esempio di architettura romana. La strada è ampia, quasi 13 metri in tutto; la Porta vi si aggancia definendo le modalità di transito: pedoni sui lati, carri al centro in doppio senso di marcia.

Come le mura, che le si appoggiano, si data all’età della fondazione, quella di Augusto. Dopo aver tracciato il sulcus primigenius e quindi individuato il perimetro sacro della città, come prima cosa venivano erette le porte (così chiamate per il fatto che dove sarebbero sorte, l’aratro del sulcus veniva “portato” e non trascinato sul terreno). Una Porta decisamente imponente, in grossi blocchi di puddinga di fiume: un’opera quadrata che accentua ancora di più la sua volumetria, il suo ingombro, facendola apparire, se possibile, ancora più massiccia.

UNA RUVIDA IMPONENZA

Arrivati al suo cospetto oggi notiamo immediatamente (da via Aubert) le eleganti lastre di marmo bardiglio grigio-azzurro e di candido marmo lunense (fatto dunque arrivare appositamente dalle cave di Luni, tra Toscana e Liguria) che la impreziosiscono. Ma attenzione! Questo rivestimento non appartiene all’età augustea, bensì all’epoca dell’imperatore Claudio (41-54 d.C.) con il quale la città acquisì ancora maggior importanza in funzione del potenziamento della rete viaria diretta Oltralpe (in particolare il ramo stradale del Summus Poeninus, il Gran San Bernardo, che consentì non a caso la fondazione di Forum Claudii Vallensium, l’attuale Martigny). Un arricchimento che andava a sottolineare ulteriormente l’importanza ed il prestigio di questa tanto strategica e vivace colonia alpina.

Ma prima, allora? Com’era? Beh, diciamo che la struttura chiaramente era la stessa; solo la cornice al di sopra del triplice accesso cambiava. Niente marmi, ma come all’Arco, una lavorazione dell’arenaria stessa. In occasione di un restauro con pulitura della Porta avvenuto sul finire degli anni Novanta, fu visto un breve ma significativo segmento della cornice decorativa precedente l’attuale: di gusto dorico, nel solco del più ortodosso classicismo, una rigorosa sequenza di metope e triglifi appena al di sotto della fila di finestrelle. Oggi, però, questo elemento non è a vista.

ANCOR PIU’ PREZIOSA

Claudio, abbiamo detto, decide di dare maggior risalto a questa colonia. Siamo nella prima metà del I secolo d.C.; possiamo immaginare che Augusta Praetoria sia già una realtà urbana consolidata dalla doppia identità: militare, quale importante presidio all’imbocco delle vie dirette ai valichi (il cui controllo era in effetti uno dei principali obiettivi di Augusto anche per completare quanto già avviato dallo zio Cesare in Gallia); economica, in virtù del suo essere una sorta di emporio alpino al centro di continui passaggi, scambi commerciali, per non parlare delle esigenze legate all’ospitalità dei viandanti e al rifornimento delle truppe.

Cosa succede alla Porta Praetoria? Purtroppo oggi noi possiamo apprezzare unicamente quanto preservatosi sulla facciata orientale; quella ad ovest, infatti, ha evidentemente subito una spoliazione ben più radicale (sebbene si vedano ancora, sui blocchi di arenaria, le tracce lasciate dai perni che agganciavano le lastre del rivestimento).

Le arcate sono state sottolineate da blocchi di bel marmo venato locale (probabilmente il bardiglio che veniva cavato tra Aymavilles e Villeneuve): grigio-azzurro, dall’effetto madreperlato. Lo stesso materiale, ma lavorato in lastre, è stato utilizzato per rivestire l’intera facciata coprendo la rustica arenaria. Non ancora soddisfatti, si è proceduto ad agganciare sull’arco centrale delle raffinate modanature in lastre di marmo lunense (zona di Carrara per capirci).

Ma non bastava ancora. Al di sotto delle finestre della galleria di ronda (oggi scomparsa, in parte rievocata dai restauri del Ventennio) venne realizzata un’elegante e luminosa cornice marmorea capace, oltre che di ingentilire il tutto, anche di riecheggiare una certa aria di Grecia, sospesa tra Classicismo ed Ellenismo. Quella stessa aria che si può ritrovare nei capitelli corinzi e nelle delicate decorazioni a palmetta dell’Arco.

MARMI PREGIATI E DECORI ELLENIZZANTI

Dopo un livello di lastre lisce, la cornice comincia ad aggettare con quello che si chiama (in gergo tecnico) kyma lesbio (da Lesbo, isola dell’Egeo nord-orientale) trilobato, ovvero una modanatura lavorata ad elementi floreali: notate una serie di “archetti” trattati come fossero delle campanule con due petali lanceolati ed il pistillo centrale più tondeggiante.

Al di sopra delle “campanule” si appoggia un altro tipo di modanatura detta kyma ionico (coste microasiatiche). Una sequenza di cosiddetti “dentelli“(piccoli elementi parallelepipedi a sezione quadrata) e, sopra questi ultimi, una serie di “ovuli” tondeggianti separati da altre decorazioni dette “sgusci” con elemento centrale a lancetta. So che tutto questo può apparire un pò noioso.. ma va visto come un ricamo dal sapore mediterraneo utile a rendere questa ruvida porta urbica più gentile e simile ai nobili edifici delle più importanti città dell’Impero.

Continuiamo con una serie di mensole decorate da foglie di acanto (tipiche dell’ordine corinzio) tra le quali occhieggiano dei lacunarii (cioè dei cassettoni) riempiti al centro da un fiore a quattro petali cuoriformi con grosso bottone centrale. Ancora più in alto quel che resta di un cornicione decorato a bassorilievo da una fila continua di grandi foglie di acanto.

DETTAGLI TECNICI

Ma adesso è tempo di entrare in città. Se sollevate lo sguardo noterete che la volta degli archi presenta un solco centrale: lì scorrevano le cataractae, ossia le inferriate con cui le porte venivano chiuse e protette. Se vi affacciate dalla passerella centrale sulla destra, in corrispondenza del livello stradale romano in grosse lastre di bardiglio (le poche, ahimé, conservatesi), aguzzate la vista: ne individuerete una sulla quale vi è una grossa “V” incisa. Stando alle prime ipotesi si potrebbe trattare di un marchio di cava; questi marchi potevano indicare o la cava di provenienza o la partita di merce che andava contrassegnata a seconda della destinazione o del numero d’ordine.

Gli scavi più recenti, finalizzati a rimettere in luce il piano stradale originario e, quindi, l’intera volumetria della torre a partire da quello che si indica come “piano di spiccato” antico, purtroppo non hanno trovato una situazione semplice. La strada non si è conservata se non in minime porzioni e a “macchia di leopardo” in quanto nei secoli sempre modificata, rifatta, spoliata, rifatta un’altra volta, cambiata, rabberciata e rattoppata. In più all’interno del cortile centrale, sempre lungo i secoli, si sono avvicendate numerose costruzioni tra il residenziale e l’artigianale che hanno radicalmente compromesso l’identità romana originaria dell’insieme e che ora è assai arduo valorizzare e far comprendere.

UNA SORTA DI DOGANA INTERNA

Il cortile centrale, dicevamo. Il cavaedium. Questo nome, intanto, è stato derivato da Varrone (De lingua latina, I, 161) e dal noto architetto Vitruvio (De architectura, VI, 3) che lo spiegano come un equivalente dell’atrium per le case romane. La tipologia del cavaedium in ambito pubblico comincia con la Porta del Ceramico di Atene (famosa la Porta detta “del Dypilon”). Inizialmente il cortile era aperto frontalmente, quindi dobbiamo immaginarci delle porte precedute da spazi aperti, accessibili. Poi lo schema evolve e diventa chiuso su tutti i lati (Herdonia, in Puglia, Pompei e Paestum). Con gli ultimi decenni della Repubblica si vedono comparire le torri laterali, e non solo verso l’esterno, ma anche sul lato città. Torri perlopiù poligonali. E’ come se questo spazio, questo cortile, sia una specie di “limbo” passando nel quale si dovesse fare mente locale su tutti i doveri e gli obblighi dell’entrare in città. Un cortile altresì assai utile per l’esazione dei pedaggi, il controllo dei carichi o per la raccolta delle truppe di guardia.

Qualche esempio di porte urbiche con cortile centrale del periodo a cavallo tra fine della Repubblica e inizi del Principato augusteo? La Porta dei Leoni di Verona, la Porta Palatina di Torino, la Porta Venere di Spello, la Porta Praetoria di Como e la Porta Veronensis di Trento (ma solo per citarne alcune).

RAPPRESENTANZA

Concludiamo immaginando la presenza, nell’area, di diversi monumenti onorari dedicati tanto al o agli imperatori, a membri della famiglia imperiale, quanto ad evergeti o a persone in vista della comunità. Non sarebbe fuori luogo immaginare anche la collocazione in zona di eventuali trofei, nel senso di monumenti dedicati ad importanti vittorie belliche condotte contro le popolazioni del posto. Questo per ricomporre, almeno nella nostra mente, come doveva presentarsi la Porta in età romana.

TRACCE DI MEDIOEVO

Un ultimo accenno alla nicchia oggi presente sul lato est al cui interno venne ricavato un altare come fosse una sorta di piccola cappella. Questa nicchia fu realizzata in seguito ai lavori condotti sulla Porta negli anni Venti del XX secolo quando furono, purtroppo, rimosse tutte le strutture non romane addossatesi nel tempo. In particolare va ricordata una singolare cappella dedicata alla Trinità il cui abside sporgeva al di sopra della galleria di ronda ripristinata nel Medioevo proprio sul lato est. La cappella, infatti, era correttamente orientata e, pertanto, accessibile da ovest. Una sorta di cappella privata all’interno del complesso fortificato dei Signori De Porta Sancti Ursi  (così si chiamava la Porta nel Medioevo in quanto ingresso al borgo di Sant’Orso e ancora porta questo nome la Torre nord) che proprio sui resti della Porta avevano realizzato la loro dimora urbana nel XII secolo. Uno status symbol: poter abitare sui, se non addirittura dentro, a resti di edifici così antichi non poteva che accentuare il prestigio della famiglia che li occupava. I Signori di Porta Sant’Orso vi risiedettero fino al 1185 quando poi si trasferirono fuori città, nel castello di Quart, da cui presero la loro nuova denominazione.

INDIZI STRADALI

Ma prima di lasciare questa magnifica Porta, diamo un’ultima occhiata a come si presenta oggi la viabilità. La Porta si trova a cavallo tra le vie Aubert (proveniente da est, con l’Arco sullo sfondo) e Porta Praetoria (che prosegue verso ovest fino a piazza Chanoux). Queste due vie sono una parte dell’antico Decumanus Maximus che continua fino alla Porta Decumana (i cui resti sono nel piano interrato della Biblioteca Regionale). Bene, se all’epoca romana l’intera ampiezza della Porta coincideva con quella del Decumano, adesso potete vedere come l’asse pedonale sia in linea solo col passaggio che sta sul lato dell’Ufficio del Turismo, cioè quello che corrisponde al fornice (arco) nord. Gli altri due archi,. infatti, quello grande centrale e l’altro piccolo verso il ristorante, è come se fossero stati “chiusi” dalla progressiva occupazione del sedime stradale da parte degli edifici medievali e moderni. Questo indizio è importante: ci fa capire innanzitutto che, a partire da un certo periodo, si passava esclusivamente su quel lato e come questa Porta, nei secoli, sia sempre stata oggetto di manomissioni, modifiche, chiusure, riaperture a seconda dei suoi proprietari, delle esigenze sociali, del particolare momento storico.

Insomma, in questa Porta è condensata la storia di Aosta, una città dalla storia bimillenaria che ha continuato a vivere sempre nel medesimo posto, nutrendosi di se stessa. E che continua a regalarci finestre sul suo glorioso, lungo e travagliato passato.

Stella

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