Monte Bego. Il “meraviglioso” regno di roccia del Dio della Tempesta

Quando odi tra i monti il cupo rimbombo del tuono che riecheggia e si spande tra le valli; quando vedi scuri nuvoloni addensarsi sulle vette e poi piano piano sfrangiarsi e arrotolarsi tra i boschi impigliandosi nei rami dei pini… Ebbene, è quella la voce del Dio della Tempesta!

Giusto 2 anni fa ho avuto finalmente il privilegio di andare di persona alla corte di questo dio misterioso, amato e temuto. Vi voglio raccontare questo viaggio e portarvi con me appena oltre confine: a #Tenda ( per dirla in francese, Tende), nel dipartimento delle Alpi Marittime. Dalla Valle d’Aosta non è lontano: direzione Cuneo, poi Limone Piemonte e via verso il tunnel del colle di Tenda.

Una valle lunga e stretta, dalla natura severa ma dai villaggi incantati. Una specie di piccola Valle d’Aosta “al contrario” dove, nonostante si sia in territorio francese, quasi tutti hanno cognomi italiani, le insegne dei locali e degli alberghi sono spesso in italiano così come i nomi delle strade, delle piazze… tutti capiscono e molto spesso parlano l’italiano. Una terra di confine che nel tempo è sempre stata sballottata dagli eventi e dalla geo-politica un po’ di qua e un po’ di là!

#Tenda è abbarbiccata sul pendio di un monte; sembra quasi uno di quei pittoreschi borghi del Centro Sud d’Italia. Le case strette le une alle altre e la grande chiesa lassù, in alto, nascosta tra i vicoli ma splendente di una facciata color corallo. E ancora più sù, miracolosamente “sospeso” su una cresta rocciosa, il castello dei Conti Lascaris, arricchitisi grazie all’esazione di “salati” pedaggi lungo la… Via del Sale (non a caso).

Prima tappa (imperdibile!) il Museo “delle Meraviglie”, nel centro di Tenda. Ma perché si chiama così? Perché al suo interno custodisce le “meraviglie” di quest’area disegnata, incisa nel senso più letterale del termine, dallo scorrere della storia. Una Storia con la “S” maiuscola, plurimillenaria, che ha iniziato a lasciare tracce sin dal VI millennio a.C., in epoca neolitica. Siamo infatti nella Valle delle Meraviglie, inserita insieme alla vicina Valle di Fontanalba, nel Parco naturale del Mercantour.

Una Valle dal nome fiabesco che le credenze popolari hanno, però, sempre un pò temuto. I pastori sapevano di quegli strani segni incisi sulle lisce pietre levigate da antichi ghiacciai ormai scomparsi. Una valle dall’aspetto lunare…direi assai simile alla nostra zona del Mont Avic, nella sua parte più alta. Strani segni, dicevamo… Figure zoomorfe e geometriche incise sulle rocce. Decine, centinaia, migliaia… a perdita d’occhio! Adagiate ai piedi della vetta rocciosa del Monte Bego (2872 metri), le valli delle Meraviglie e di Fontanalba presentano un interesse archeologico, etnografico e naturalistico unico!

Un paesaggio geologico glaciale dal fascino pervasivo racchiude circa 40.000 incisioni rupestri per la maggior parte datate tra IV e III millennio a.C.! Oltre 4.000 rocce, infatti, presentano segni con caratteristiche ricorrenti. Primeggiano i “cornuti”, i segni interpretati come bovidi, spesso affrontati tra loro… sì, un pò come nelle “batailles des reines”! Anzi, al Museo di Tende sono anche visibili degli oggetti in pietra ed in osso raffiguranti questi bovini (molto stilizzati) con grandi corna! Le corna, simbolo dei grandi bovini, dei tori. Il toro, sin dalla notte dei tempi e in numerose culture, animale totemico legato alla forza, alla virilità, ma anche al dirompere dell’acqua. Si pensi alle classiche divinità dei fiumi nel mondo greco, romano e medio-orientale assimilate a tori. Singoli, aggiogati o affrontati..questi animali ricorrono spessissimo; un leit-motiv quasi ossessivo! Costanti, ripetuti, ricalcati… una sorta di litania di pietra sulla pietra…

Insieme ai bovini altri segni tra i quali si distinguono dei quadrati suddivisi al loro interno di parcelle, come delle scacchiere: i campi coltivati? Dei villaggi cintati visti dall’alto?

Ma appaiono anche oggetti: molti pugnali, ma anche alabarde. Strumenti guerrieri, aristocratici, ma anche cultuali. Pugnali interpretati anche come fulmini, come le saette brandite dal dio delle tempeste. Potevano non provarne paura le popolazioni della zona incapaci di interpretare questi segni? La storia alla base della leggenda. La leggenda che nasconde e dissimula la storia.

Ecco da cosa sono nate le diverse credenze. Valli abitate da demoni e  da streghe; valli dove poteva essere molto pericoloso attardarsi, perdersi..magari per non tornare mai più! Non è lontana da qui la Valmasca (in Piemonte) il cui nome include lei, la “masca”, ossia la “strega”. Splendide escursioni, a piedi o con l’aiuto di mezzi 4×4, si possono fare tra Francia e Italia, in questa zona così vissuta, segnata, contesa. Tra la Via del Sale, la Strada Reale sabauda e una costellazione di fortificazioni e casematte.

Valli abitate da esseri fantastici e temibili. Un’altra vetta laterale della Valle delle Meraviglie ancora oggi si chiama la Cima del Diavolo; si dice che quando il tempo peggiora, le prime nuvole minacciose, nere, cariche di pioggia, arrivino proprio da lì… oltre che dal Monte Bego, vero sovrano di questo luogo. Assomiglia al Mont Avic: isolato, appuntito, ruvido e spigoloso. Lassù, si narra, risiede le Dieu de l’Orage, il Dio della Tempesta. E infatti lassù, in vetta, non ci sono segni. Lassù non servono perché è la casa del dio; il divino è immanente! Quel dio tanto invocato e pregato proprio attraverso le migliaia di segni ed incisioni sparsi in queste valli così scabre, dove stagionalmente appaiono laghi effimeri simili ai laghi incantati delle fate; dove le piogge abbondanti e violente trasformano gli scivoli rocciosi in terribili cascate d’acqua. Una terra di pastori, perlopiù. Una terra dove l’acqua è preziosa, indispensabile. Dove per avere quest’acqua così sospirata bisogna pregare, e tanto, ancora oggi!

Qui si possono fare delle escursioni “meravigliose”… meravigliose per davvero, nel senso letterale del termine! Ve lo racconto perché le ho fatte! Con l’aiuto di una delle bravissime e preparatissime guide locali potrete inoltrarvi in questo magico regno di roccia e scoprire, leggere ed interpretare queste “preghiere” su pietra lontane millenni. Ma non solo: c’è un’iscrizione latina dal gergo un po’… triviale. E brani di preghiere cristiane; addirittura un’immagine taurina trasformata in volto di Cristo! E nomi, date, firme…ricordi.. che si perdono tra vite di pastori e di soldati, quassù, dove il mondo è lontano, apparentemente inafferrabile. Vi giuro che mi sto ancora emozionando adesso che vi scrivo di questi luoghi, di questi orizzonti, di queste vette. Due volte sono stata qui e per due volte, pur con una mattinata di sole, nel pomeriggio abbiamo udito quella voce cupa ed inconfondibile… la voce del tuono, accompagnata dalla pioggia. La nostra escursione-preghiera aveva funzionato? Oppure il Dio della Tempesta manifestava la sua ira?

E infine arrivi là, davanti allo “sciamano”: così è chiamato un segno composto da altri segni combinati tra loro cui si aggiungono, lateralmente, delle “manine” reggenti due pugnali. Lo Sciamano, non a caso, “guarda” direttamente verso la cima del Monte Bego. E’ lui, il sacerdote più importante, il mezzo, l’ambasciatore, il tramite tra l’uomo e la divinità.

E quando poi ritorni a valle ancora te la senti dentro (certo, se si è sufficientemente sensibili) quell’energia, quella sottile ma palpabile magia emanata dalle rocce. Hai avuto il privilegio di recarti al cospetto del Dio della Tempesta, ripetendo dei passi e ricalcando dei sentieri percorsi da migliaia di uomini per migliaia e migliaia di anni.

Stella

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Un saluto alla fata di Ozein, tra cavità rocciose e acque scroscianti

Metti un gita domenicale in famiglia. Metti che hai voglia di un posto tranquillo, non troppo frequentato ma non distante. Ma sì, andiamo a Ozein!

E così ci si mette in viaggio alla volta di Aymavilles e da lì si sale in direzione Cogne. Superata la deviazione del mio amato Pont d’Ael, ecco la svolta a gomito sulla sinistra per raggiungere questo grazioso e defilato villaggio.

Ma lungo la strada che sale regalando scorci di splendide balconate sul fondovalle sottostante punteggiato di meleti e vigneti su cui dominano i due magnifici castelli di Saint-Pierre, qualcosa ti induce a fermarti. Ad un certo punto una piazzola sulla destra, uno slargo che si insinua timidamente verso un lembo di prato. Ma c’è dell’altro.

Davanti agli occhi una parete rocciosa incombente, tormentata di cavità più o meno grandi, lavorate da antichi movimenti glaciali, sagomate dal vento che vi si annida e vi si rotola, accarezzate dalle piogge e levigate dalle gelate invernali. Ma c’è dell’altro.

Qui domina il silenzio, ma è un silenzio strano, che ti assale, ti avvolge, ti fa quasi il solletico, ti fa venire i brividi. Qui certo fa freddo, più freddo che altrove, c’è ombra e proprio vicino a noi scroscia cantando una cascatella. Ecco, l’acqua. Presenza discreta ma invadente, totalizzante. Un’acqua che sembra nascere dalla roccia, lassù in alto, per poi lasciarsi cadere verso questo prato scosceso e nascondersi di nuovo nelle viscere della terra. Ma c’è dell’altro.

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Questa parete rocciosa è letteralmente invasa da piccole Madonnine. Sono dappertutto: appoggiate come su scaffali o davanzali naturali, infilate nei pertugi più impensabili, aggrappate a sporgenze o persino appese. Dal basso, livello suolo, fin sù in posti dove chi ha voluto lasciarle si è dovuto arrampicare non poco. Madonnine, Rosari, immaginette sacre, ex-voto… Ma c’è dell’altro.

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In basso, incorniciato da quello che potrebbe ricordare l’ingresso di una grotta che oggi non esiste più, un leggio; un leggio con uno spartito e su questo spartito le note di una musica che chiunque, capace di suonare uno strumento e giunto qui, potrebbe suonare. E’ questa una delle installazioni dell’artista Giuliana Cunéaz. Qui c’è la Fata, la fata delle rocce e delle acque scroscianti… la fata di Ozein!

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E quella musica è la sua voce, il suo sospiro, o meglio, questa musica messa insieme alle altre 24 sparse in luoghi particolari della Valle d’Aosta, va a comporre “Il Silenzio delle fate”.

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Creature impalpabili, bellissime e terribili, amabili e vendicative, volubili e benevole… queste sono le fate, nate dalla leggenda, create dalla mente e dalla fantasia degli uomini. Ma non create così, a tempo perso, per raccontare storie ai bambini o ai creduloni… no! Tutt’altro! Le Fate delle leggende sono l’unico modo che gli uomini nei secoli passati hanno avuto per cercare di dare forma a qualcosa che loro sentivano (non tutti, chiaramente, solo quelli dotati di spiccata sensibilità) in certi posti, oppure di delineare un ricordo lontano legate a presenze, ad ancestrali sacralità, ad energie positive. E spesso le Fate si nascondono in luoghi dove anche l’archeologia segnala antichi insediamenti o comunque arcaiche presenze umane.

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Qui a Ozein non saprei dirvi con esattezza quale ne sia la ragione, ma vi posso assicurare che questa particolare parete rocciosa con queste decine di cavità, alcune delle quali decisamente grandi, fa pensare senza troppa fatica alle grotte preistoriche dove gli uomini nostri progenitori trovavano riparo. In alcune di queste grotte, però, ci si spingeva fino in fondo strisciando in cunicoli labirintici ed oscuri, per invocare le forze benigne di madre Terra. grotte come ventri, cunicoli come uteri; una preghiera che era come un risalire l grembo primigenio, al sacro femmineo, al principio della Vita. E non è un caso che la maggior parte dei santuari mariani sia nato in luoghi caratterizzati proprio da antiche grotte, o rocce, e dalla presenza indispensabile dell’acqua. Maria ha dato un volto cristiano cattolico a forme di devozione più antiche, difficili altrimenti da spiegare ma impossibili da cancellare. Un sincretismo obbligato. Non si sarebbe altrimenti potuto privare gli uomini di consuetudini dell’anima tanto radicate. Vi sarebbero comunque tornati. E’ la Natura stessa il primo tempio e le sue forze imperscrutabili ne furono i primi dei.

Oggi qui non ci sono grotte vere e proprie, ma chissà… può darsi che queste cavità ne siano il fantasma; può darsi che millenni or sono queste cavità fossero davvero delle grotte, poi andate distrutte dallo scorrere dei secoli e dall’infuriare delle intemperie… anche, se non soprattutto, dall’infuriare dell’uomo con le sue strade e le sue infrastrutture. Ma c’è dell’altro.

C’è il silenzio, rotto solo dalla voce dell’acqua e del vento. Profumato dai vapori umidi che salgono dall’erba e sprigionano dalle rocce. Acqua e roccia. Tracce di una sacralità che va oltre ogni logica e ogni tentativo di spiegazione. Tracce di una Fata. La Fata di Ozein.

 

Stella

Una AUGUSTA “per BENE”. L’Augusta dei Bagienni in provincia di Cuneo

Ed eccoci nuovamente pronti a partire col trolley o con lo zaino in spalla… oppure, semplicemente, con la fantasia e l’immaginazione. Quello che vi propongo oggi è un viaggio breve, un’idea per una domenica oppure, vista la zona, per un fine settimana in cui coniugare archeologia e gusto! Eh sì, siamo nel triangolo “Fossano-Alba-Bra”, terra di delizie, di ottimi vini, di carni succulente, di funghi e tartufi! Quindi, fate come ho fatto io: una bella gita autunnale di un paio di giorni a… Bene Vagienna! O meglio, ad AUGUSTA BAGIENNORUM!

Da Aosta a Bene Vagienna (Via Michelin)
Da Aosta a Bene Vagienna (Via Michelin)

In poco più di 2 ore d’auto sarete in questa sorprendente cittadina tutta rossa di cotto, scrigno di raffinate dimore medievali e barocche, poetica e appartata nelle sue infilate di portici ad arco ribassato. Una cittadina sorta nel Medioevo col nome di Bene, cui nel 1862 venne aggiunto Vagienna, a ricordo e omaggio al suo bimillenario passato. Già, perché l’insediamento medievale si trova in un luogo diverso da quello che vide l’imperatore Ottaviano Augusto fondare la “sua “Augusta…

Bene Vagienna - porticati
Scorcio dei porticati del centro di Bene Vagienna

Se volete trovare le vestigia del municipium augusteo, allora dovete recarvi in località Roncaglia, ad appena 4 km fuori dal centro cittadino verso nord-est. Zona di campi aperti, di stradelle chiare, di cascine in mattoni e piccoli campanili sparsi. Eppure, sotto questa parvenza di contadina sobrietà, si celano i resti di una gloriosa colonia di veterani, fondata, come la “nostra” Aosta, nel 25 a.C. e, stando a recenti studi condotti dal prof. Piero Barale, come Augusta Praetoria, orientata al sorgere del sole al solstizio d’inverno. L’ideologia augustea che ritorna, anche qui, a manifestarsi nel templum celeste, in un momento dell’anno astronomico ben specifico, simbolo di rinnovamento e novità e in una costellazione emblematica dell’imperatore fondatore: quella del Capricorno. Per la scoperta dell’orientamento astronomico di Augusta Praetoria (fatta da chi scrive e dal Prof. Giulio Magli) vi segnalo questo link.

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Quando si arriva all’area archeologica, in prossimità della graziosa chiesetta campestre di San Pietro, una passerella in legno (percorribile o a piedi o in bici) accompagna il visitatore nel suo progressivo addentrarsi nello spazio (antico) e nel tempo, risalendo a oltre 2000 anni fa. Da una parte i resti delle antiche mura, ben restaurati e accessoriati di utile pannellistica bilingue in italiano ed inglese; dall’altra erbe e spesso canneti alti quanto te. Ti senti in aperta campagna, ma sai che a poche spanne sotto i tuoi piedi dorme la Storia.

Qui, tra il Tanaro e la pianura Padana, lungo antiche vie dirette ai valichi di confine con le Gallie, così come verso il non distante mar Ligure; qui, non lontano dall’antica Pedona (oggi Borgo San Dalmazzo) dove veniva esatta la Quadragesima Galliarum prima di inerpicarsi verso i colli alpini occidentali, sorse Julia Augusta Bagiennorum. Sorse nel luogo dove già doveva svilupparsi l’antico oppidum dei Liguri Bagienni, presumibilmente denominato “Bennae” o “Baginna“, probabiklmente risalente alla seconda Età del Ferro. Coi Bagienni non sembra vi siano stati scontri o guerriglie, ma prevalse l’interesse economico di entrambe le parti nell’avere la possibilità, grazie a questa nuova fondazione, di veder incrementare i traffici commerciali.

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Citata dall’incontenibile enciclopedista Plinio il Vecchio, è però frutto dell’attività di ricerca e dell’entusiasmo di due studiosi locali, Giuseppe Assandria e Giovanni Vacchetta, tra la fine dell’Ottocento ed il 1925, l’individuazione della sua esatta ubicazione: la fertile piana della Roncaglia, appunto. Inoltre, dal 1993, a seguito della Legge Regionale di costituzione dei Parchi Naturali, l’area archeologica di Augusta Bagiennorum  è diventata Riserva Naturale Speciale e fa parte del Parco Naturale del Marguareis. Perciò vedete come l’interesse storico-archeologico si abbini a quello paesaggistico e naturalistico, un pò come succede al ponte-acquedotto romano di Pont d’Ael (all’imbocco della Valle di Cogne), dove questo straordinario capolavoro di ingegneria idraulica antica si inserisce in un’Area naturalistica protetta dove vivono ben 96 specie diverse di farfalle! #DaVedere!

Ma non divaghiamo e concentriamoci su Augusta Bagiennorum.

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Planimetria generale dell’area archeologica (da “Augusta Bagiennorum” a cura di C. Preacco)

Gli archeologi hanno individuato il Cardine Massimo e un tratto affidabile del Decumano Massimo; al loro incrocio sorgono i resti dell’antico foro,  riportato alla luce con gli scavi effettuati nel 1941 (poi ricoperti), che hanno rivelato un fondo selciato e un portico che incorniciava i due lati lunghi e su cui si affacciavano alcuni locali intonacati, probabilmente identificabili con botteghe e uffici a conferma della funzione anche commerciale del complesso stesso; il complesso presenta una forma molto allungata, dominato sul lato breve di nord-ovest, da un tempio su alto podio incorniciato da una scenografica porticus triplex, identificabile probabilmente come Capitolium. Sul lato opposto sarebbe attestata la presenza della basilica, fabbricato a tre navate dove si amministrava la giustizia, considerato uno dei rari esempi dell’Italia settentrionale seppure di non facile ricostruzione planimetrica.

Il foro risultava quindi diviso in due aree dal tracciato del Decumano Massimo: una civile, con funzioni politiche, amministrative ed economiche nel settore meridionale ed una religiosa in quello settentrionale, ad ulteriore evidenza di scelte urbanistiche non casuali ma derivate da una precisa pianificazione. Come vedete un’altra stringente analogia col foro di Aosta, sebbene l’esempio aostano vedesse la presenza di una coppia di templi gemelli e, al di sotto del porticato superiore, di un maestoso criptoportico. Come già detto, ad Aosta occorre ancora individuare con certezza la basilica che, però, parrebbe svilupparsi sul lato lungo occidentale, quindi tra le attuali Via Lostan e Via Croce di Città.

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Ricostruzione del foro (disegno di F. Corni)

A nord del foro, cui era collegato in un unico complesso monumentale tramite un largo viale, si colloca il teatro, unico edificio di Augusta Bagiennorum, unitamente all’annesso “tempio minore”, oggi pienamente visibile. Costruito in epoca augustea (I sec. d.C.) interamente fuori terra, poteva ospitare circa 3000 spettatori andando ad occupare due insulae vicine: una per la cavea ed una per l’edificio scenico (composto dal palco, dalla scaenae frons alle sue spalle e dagli ambienti di servizio retrostanti). Completano il quadro numerosissimi frammenti di decorazioni scultoree in marmo colorato, cosa che fa immaginare quanto dovesse essere ricco e ricercato l’interno dell’edificio scenico (un pò come accade anche ad Aosta).

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L’area del teatro e del cosiddetto “tempietto minore” divenuto chiesa romanica (da Il Giornale dell’Arte)

Dietro alla scena, larga circa 40 m, si apriva una piazza porticata quadrata di quasi 70 m di lato, che collegava la struttura con il centro cittadino. Tale struttura è identificabile con la porticus post scaenam, con funzione di “foyer” e di riparo per gli spettatori ed al cui interno si elevava un secondo tempio, forse un semplice sacello, più piccolo di quello forense, e per questo definito “tempio minore”, di incerta attribuzione, anche se la connessione con il teatro ha indotto ad ipotizzare che fosse dedicato a Dioniso.

Proprio questo tempietto venne adibito, tra IV e V sec. d.C., a luogo di culto cristiano che, successivamente nel X sec. d.C., divenne una vera e propria chiesa a tre navate absidate, in passato identificata come Pieve di Santa Maria di Bene (ma tale intitolazione risulta  ancora sub iudice).

Al di fuori della cinta urbana sorge l’anfiteatro, realizzato a metà del I d.C. (e confrontabile con l’esemplare di Libarna (AL), di cui oggi sono apprezzabili i resti della porzione occidentale. Nei pressi sorge oggi un orto “alla romana”: un progetto storico-botanico ispirato alla tradizione romana dei giardini con scopo utilitaristico del I-II secolo a.C., dedicati alla coltivazione di ortaggi, frutta ed erbe aromatiche, utili per la vita domestica della casa. Il centro dell’antica arena, invece, è ancora occupato da campi coltivati e dalla Cascina Ellena (sì, con 2 “L”).

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La passerella intorno ai resti dell’anfiteatro

Significativi anche i resti del poderoso acquedotto (contro i quali si appoggia la chiesetta di San Pietro già citata), di cui si è ritrovato un tratto di circa 2 km, per metà interrato, proveniente da sud-est e quindi, probabilmente, alimentato dal fiume Stura. Si può apprezzare un tratto del muro di sostegno della lunghezza di oltre 1 km e della larghezza media di 1,5 m, che corre su contrafforti con direzione nord-sud. Al termine della condotta è stato rinvenuto anche l’antico castellum aquae, una sorta di cisterna generale, da cui si dipartivano i diversi collettori secondari con tubature in piombo dirette ad alimentare le diverse zone della città.

A ciò si deve aggiungere l’individuazione della rete fognaria, sviluppata per almeno 250 metri, dalla quale si è potuti risalire anche al sistema viario urbano, articolato in strade principali e secondarie.

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Una delle sale del MAB di Bene Vagienna

Non si può lasciare Bene Vagienna senza aver completato la visita dell’antica Augusta Bagiennorum con quella al ricco Museo Archeologico locale, istituito agli inizi del Novecento dalla coppia di studiosi Assandria e Vacchetta, nelle preziose sale settecentesche del Palazzo Lucerna di Rorà. Il Museo raccoglie unicamente ciò che proviene dal sito e ne fornisce una panoramica completa e dettagliata. La ricchezza dei reperti aiuta ad immaginare come effettivamente dovevano essere edifici come il teatro o complessi monumentali come il foro, il cui tempio presentava al colmo del tetto una ricercata decorazione a palmette in cotto, o i cui portici dovevano rifulgere di statue onorarie in bronzo dorato e di marmi. A maggio 2016 è stato inoltre inaugurato il nuovo allestimento e le sale dedicate agli ateliers didattici. Ugualmente densa la sezione dedicata alle necropoli e alla ricostruzione della vita quotidiana.

Infine, per chi fosse interessato ad approfondire con una pubblicazione agile ma scientificamente seria ed affidabile, propongo di scaricare questo pdf.

Alla prossima!

Stella

Quando il “ludus” diventa arte. L’antico quartiere degli spettacoli di Aosta (romana)

Continua la nostra scoperta dell’#Aosta romana. Una #AugustaPraetoriaSalassorum che ci affascina e ci emoziona ad ogni passo, ad ogni scorcio. Un avvicinamento graduale ma inesorabile, dall’antico ponte romano all’Arco di Augusto e lungo via Sant’Anselmo fino ad avvistare in lontananza un’arcata, anzi due, anzi tre! Marmi d’argento, ricami color avorio: è la straordinaria Porta Praetoria, lì dove ideologia e architettura, tecnica militare e fine urbanistica si armonizzano in un esito tanto avvolgente quanto inaspettato.

Ed è con gli occhi ancora pieni di questa monumentalità che svoltiamo in direzione del quartiere degli spettacoli fiancheggiando le mura, vecchie di oltre 2000 anni (e non è cosa così frequente; basti pensare che Aosta conserva ancora il 90% del circuito murario romano!), passando al loro interno, a ridosso dei potenti contrafforti e delle tracce del muro di controscarpa che, in origine, doveva contenere il terrapieno di rinforzo.

AMMALIANTE ORIGINALITA’

Quando finalmente la vista incontra quel muro di facciata alto 22 metri, magari quando la luce orientale del mattino gioca tra le finestre e i contrafforti sporgenti insinuandosi nelle rugosità dei blocchi di arenaria ed esaltandone le particolari tonalità dorate, allora lo spettacolo è garantito. Siamo al cospetto del prospetto sud dell’edificio teatrale. E’ vero, di norma quando si parla di teatro romano ci si aspetterebbe di imbattersi in un muro semicircolare, di vedere subito la cavea, ossia lo spazio gradonato destinato agli spettatori. Qui ad Aosta non è così. Ciò che si vede, e che nei secoli passati, prima degli interventi di epoca fascista, era quasi completamente mimetizzato tra le case che gli si erano ancorate addosso, è il “contenitore” della cavea. Sì, per usare una metafora, ad Aosta il teatro romano era “inscatolato”! La cavea si nasconde all’interno di un perimetro di mura monumentali di cui oggi resta solo la porzione meridionale a testimoniarne l’antica possente incombenza. Espediente analogo si può ritrovare nei teatri coevi di Augusta Taurinorum (Torino, fine I secolo a.C.-inizi I secolo d.C.)) e Lunae (Luni, I secolo a.C.) e nell’odeion di Pompei (realizzato nell’80 a.C.).

Ci avviciniamo quasi intimoriti da queste vestigia incredibili, direi quasi folgorati da un panorama del tutto inaspettato in questa cornice di vette alpine. All’orizzonte, verso nord, si erge la mole del Grand Combin, un “4000” già in terra elvetica ma che occhieggia curioso sulla nostra Valle. L’infilata delle mura romane con le antiche torri rimaneggiate dalle potenti famiglie medievali, sulla nostra destra; questo poderoso ed insolito edificio sulla sinistra. Un edificio che, visto da vicino, sembra fatto di sabbia, di infiniti granelli fossili, nonostante la sua innegabile solidità.

Ma dove siamo? La curiosità aumenta, così come la voglia di scoprire e capire sempre di più e meglio questa cittadina alpina dalla storia plurimillenaria.

IN SCENA!

Siamo dunque “a teatro”. Commedie (tante e molto apprezzate, basti pensare allo straordinario successo di Plauto!), tragedie (poche, meno amate, si pensi a Terenzio…), mimi, balletti, farse, ma anche esibizioni musicali e letture poetiche… sembra quasi di sentirne l’eco, di vedere gli artisti muoversi con talento sul palcoscenico o cambiarsi e truccarsi dietro le quinte. Sembra anche di vedere la cavea completa, alta fino alla base dei gruppi di tre finestrelle, in pietra nella parte bassa e mediana, in legno (probabilmente) per la cosiddetta “summa cavea“, dove i seggi erano molto stretti e i gradini assai ripidi, insomma, i posti meno ambiti ma non per questo meno frequentati… anzi! La voglia di andare a teatro nel mondo romano era tanta, era un vero e proprio appuntamento sociale, di riunione della comunità che così condivideva valori e ideologie.

Sì, il teatro era anche palcoscenico per l’intera società e soprattutto per la classe dominante. Oggi non ve ne è traccia, ma dobbiamo immaginarci una quinta in muratura (chiamata scenae frons), a ridosso del palcoscenico, alta tanto quanto la facciata ancora in piedi. 22 metri suddivisi su due livelli sapientemente movimentati da colonne più o meno aggettanti, da statue (scelte ad hoc), magari anche da raffinati altorilievi e vivacizzati dall’impiego di marmi colorati e preziosi. Non è affatto improbabile immaginarci, al centro di questo fondale scenografico, proprio la statua dell’imperatore Ottaviano Augusto, fondatore eponimo della colonia, deus et patronus.

Lungo i lati le arcate davano accesso a dei corridoi di ingresso attraverso cui si poteva entrare e prendere posto sui gradoni. Oggi il percorso di visita consente di passare su una passerella situata tra il palcoscenico e l’orchestra, in una posizione che ricalca quella dell’antico “aditus maximus“.

Il palcoscenico (proscaenium)si affacciava sull’orchestra e verso il pubblico con il pulpitum: una sequenza alternata di nicchie quadrangolari e semicircolari, anticamente impreziosite da colonnine e bassorilievi (oggi-ahimè-perduti) e nascondeva, al suo interno, i meccanismi utili all’alzata dal basso del sipario (aulaeum). Oggi possiamo soffermarci sull’uso dei laterizi e sulla difficoltà di conservarli in un clima quale il nostro attuale dove gli sbalzi di temperatura, le precipitazioni e il gelo/disgelo li frantumano anno dopo anno. In epoca romana, invece, il clima era più mite.. quel che si dice “optimum climaticum“!

Gli attori entravano in scena attraverso tre porte: quella centrale, più grande, detta “porta regia” e due laterali, secondarie, le porte “hospitales“. Purtroppo è difficile rendersene conto, certo se fossimo sollevati per un attimo in aria la vista dall’alto ci chiarirebbe molti dettagli.

PREZIOSE CURIOSITA’

L’orchestra, malgrado l’odierno aspetto grigio e uniforme, si presentava in origine pavimentata da lastre di ben tre marmi diversi: il giallo di Numidia, il porfido d’Egitto e il cipollino di Grecia. Oggi, ripeto, non ci è dato di vedere nulla dell’antico splendido tripudio cromatico, ma ne siamo a conoscenza grazie ai diari lasciati da Giorgio Rosi, l’archeologo che seguì gli scavi tra il 1933 ed il 1937. Scrive infatti il Rosi:” L’orchestra era pavimentata di marmi rari e di vari colori, connessi secondo un regolare scomparto geometrico […]”. E aggiunge: “[…] anche la bassa parete del pulpitum doveva essere interamente rivestita di marmi di vario colore: le superfici di cipollino bianco venato di verdastro, le modanature di africano rosso venato di bianco […]”.

Allora, immaginate: un esterno dai toni della sabbia, cangianti, a seconda della luce solare, tra il grigio perla e l’oro più caldo; un interno risplendente di colori, frutto di una committenza possidente e munifica, capace di far arrivare ai piedi delle Alpi tutta la ricercata preziosità di marmi lontani, colorati ed esotici.

Ma, a ben pensarci, Aosta è forse ancora oggi un pò così: un’apparenza severa, sobria, magari addirittura grigia, che però nasconde un’anima calda e colorata, ben visibile lungo le vie del centro storico, nelle vivaci facciate in tinte pastello e nelle vezzose decorazioni in stile liberty di certi palazzi storici di via Croce di Città, via De Tillier o via Sant’Anselmo. Per non parlare della meravigliosa ariosità e dell’eleganza neoclassica di piazza Chanoux.

Ma torniamo all’arredo scultoreo e all’apparato decorativo del teatro. Si diceva della composizione geometrica delle crustae (lastre) marmoree dell’orchestra. Un’ordinata tessitura a scacchiera composta da lastre quadrate alternate ad altre suddivise in quattro triangoli il cui disegno era assolutamente esaltato dall’uso di marmi differenti. Inoltre la decorazione architettonica doveva trovare completamento in gruppi statuari bronzei, come ci indica la bella porzione di volto maschile in bronzo dorato e di dimensioni maggiori del vero oggi visibile al #MAR di Aosta.

E IL TETTO?

Ma questo teatro così particolare, era coperto sì o no? Per lungo tempo si è ritenuto che lo fosse, proprio in virtù del perimetro di muratura che lo circonda. Tuttavia va sottolineato che la copertura avrebbe dovuto prevedere travature di quasi 40 metri di lunghezza e non è certo cosa da poco! Purtroppo non si possiedono notizie relative alle tecniche di messa in opera di simili solai, e di conseguenza molti dubbi rimangono. Basti pensare che il famoso odeion di Agrippa (di età augustea) realizzato nell’agorà di Atene, aveva un solaio ligneo ampio “solo” 25 metri che dopo un certo periodo crollò richiedendo la costruzione di un muro mediano per sostenere il tetto. Alcuni ipotizzano persino il ricorso a particolari (e pesantissime) coperture sospese ancorate a puntoni a  sbalzo, come dovrebbe essere stato il caso dell’odeion di Lugdunum (Lione) del II secolo d.C.

Sicuramente, invece, possiamo ipotizzare la presenza di una tettoia sporgente proprio al di sopra del palcoscenico (si pensi a quella esistente ad Orange) la cui funzione, oltre a quella di copertura tout court, era anche di tipo acustico andando ad amplificare le voci degli attori.

Un quartiere degli spettacoli, dicevamo, Infatti! Proprio a nord del teatro, oltre un muro in pietra che oggi lo divide dal giardino-frutteto del convento di Santa Caterina, si trovano i resti dell’altro grande edificio ludico di epoca romana: l’anfiteatro. Entrambi, quindi, costruiti vicini all’interno delle mura, a ridosso dell’angolo nord-orientale della città e facilmente raggiungibili dalla Porta Praetoria.

UN OCCHIO ALL’ANFITEATRO

Palatium rotundum“, “magnum palatium“: così viene indicato l’Anfiteatro nei documenti medievali locali, in epoche che ormai avevano dimenticato quale fosse la reale identità di quell’imponente edificio dal perimetro ellittico e che, probabilmente, solo in parte si lasciava intuire tra gli orti, i frutteti e le casupole che gli si erano gradualmente addossate sfruttandone le possenti murature. Tuttavia vi era una componente degli antichi edifici romani che, invece, era ben conosciuta e ben sfruttata: la zona nord-orientale della città, infatti, era nota con la denominazione di super crottas o crotes, cioè “al di sopra delle grotte”, o direttamente “grotte”.Gli abitanti del quartiere, chiaramente, erano consapevoli dello sviluppo sotterraneo di tutta una serie di ambienti e concamerazioni di cui ignoravano l’origine, ma che risultavano decisamente utili alle loro esigenze quotidiane come pratiche cantine. Diversa la situazione nel XVIII secolo, quando un nobile erudito come il De Tillier lo nomina  “colizée” (o anche “cirque ou soit amphiteatre“) dimostrando una solida consapevolezza storica ed un notevole bagaglio culturale umanistico. La denominazione specifica del grande Anfiteatro Flavio di Roma rappresentava ormai la definizione più adatta ad indicare anche l’esemplare aostano, ubicato nell’angolo nord-est della città murata e inserito così all’interno di una determinata tipologia architettonica di edifici per pubblici spettacoli.

QUANDO…

La data di costruzione, da sempre fissata all’epoca della fondazione della colonia (25 a.C.), tuttavia non parrebbe basarsi tanto su considerazioni legate alle particolari caratteristiche costruttive, architettoniche, dimensionali o decorative, quanto piuttosto sulla localizzazione intramuranea di questo importante edificio. Una datazione che va rivista e spostata in avanti, alla piena età giulio-claudia (come per il teatro), anche in seguito alla scoperta dei resti dell’ insula 8 precedenti l’anfiteatro ritrovati durante gli scavi nel cortile del complesso dei Balivi.

E DOVE…

La collocazione dentro le mura è sempre stata attribuita al fatto che la città sia stata in qualche modo progettata sin da subito come perfettamente dotata di una sua unitarietà ed omogeneità d’impianto in cui tutti i quadranti urbani possedevano già a priori una loro specifica destinazione d’uso completata dagli appositi edifici. La singolarità deriva dal fatto che la maggior parte degli anfiteatri ad oggi noti risultano costruiti fuori città, lungo le più frequentate arterie viarie, in modo da evitare che la folla richiamata dai grandi spettacoli gladiatorii si costipasse all’interno delle mura col rischio di provocare pericolosi disordini e turbamenti dell’ordine pubblico. Ora invece possiamo affermare che la posizione è frutto di una precisa volontà indipendente dal progetto di fondazione della colonia.

Il caso aostano, tuttavia, non rappresenta certamente un unicum, dal momento che altri sono gli anfiteatri situati all’interno della cortina muraria; a titolo esemplificativo potremmo solo citare alcuni casi italici tra cui Aquinum (Aquino, nel Lazio meridionale), Interamna Nahars (Terni, in Umbria) e Ferentium (Ferento, in provincia di Viterbo), soffermandoci maggiormente sui più noti anfiteatri di Pompei, Pæstum e Carsulæ (attuale Carsoli, in Umbria). In quest’ultimo caso notiamo come  l’anfiteatro vada ad inserirsi all’interno del centro monumentale dove, congiuntamente al vicino Teatro, contribuisce a creare un vero e proprio settore specializzato a poca distanza dal Foro e dai suoi abituali annessi religiosi.

Ad Aosta la porzione di terreno prescelta per la realizzazione dell’anfiteatro si presentava relativamente pianeggiante ma con una leggera pendenza da nord verso sud che nella torre angolare di nord-est (Torre dei Balivi) trovava il suo punto più elevato. Si dovette, pertanto, procedere allo scavo dell’arena centrale in modo da collocarla ad una maggior profondità, e alla conseguente realizzazione di idonee sostruzioni cave per i muri anulari e quelli radiali; la testata di questi ultimi formava una semplice corona in cui si inserivano i muri perimetrali del prospetto esterno che così risultava privo della galleria periferica d’accesso.

E’ questa una particolarità degli anfiteatri costruiti prima dell’età flavia, quindi prima degli anni 70/80 del I secolo d.C.; proprio tale assenza faceva sì che le facciate degli anfiteatri presentassero un paramento murario di spiccata monumentalità come, ad esempio, l’opus quadratum a grosse bugne. Un’osservazione valida senz’altro per il caso di Aosta dove anche il vicino Teatro presenta un analogo apparecchio murario che ancor di più sottolinea quella certa “aria di famiglia” tra i due edifici per pubblici spettacoli che, sebbene non appartenenti ad un medesimo cantiere (gli assi maggiori dei due edifici non sono perfettamente allineati e i materiali utilizzati non sono gli stessi), risultano comunque interpretabili come due tappe distinte, forse neanche troppo distanti nel tempo una dall’altra, di un progetto urbanistico comunque unitario seppure riferibile a due committenze diverse.

LUDI IN SALSA IBERICA

Ma non voglio dilungarmi oltre, altrimenti mi mandate a quel paese! Solo un’ultima info: se volete visitare un luogo dove poter ammirare un quartiere di spettacoli assai simile al nostro, completo anche dell’anfiteatro e dove il teatro è splendidamente conservato (oltretutto aiutandovi a meglio capire ed immaginare quello di Aosta), allora vi proporrei un bel viaggetto in Spagna, a #Merida, l’antica colonia augustea di Augusta Emerita, “gemellina” di Aosta in quanto anche lei fondata nel 25 a.C. e con la quale condivide anche l’orientamento astronomico (non a caso, visto che il fondatore è lo stesso!!) al #solstiziod’inverno! 

LUCI D’INVERNO

Un ottimo periodo, oltretutto, per venire anche ad #Aosta: sia per piazzarsi verso le 10,50 di mattina in Croce di città con gli occhi rivolti verso le montagne a sud aspettando di vedere il disco solare uscire nel cielo e invadere di luce l’antico Kardo Maximus per “toccare con mano” l’orientamento dell’antica città, sia per approfittare del periodo pre-natalizio e andare a visitare i nostri originalissimi mercatini di Natale! Perché “originalissimi”? Ma perché li trovate proprio nell’area del teatro romano! Un piccolo e grazioso villaggio alpino, grappoli di chalets sfavillanti di luci proprio a ridosso di uno dei monumenti romani più rappresentativi di Aosta, anche lui illuminato a festa! Beh, detto questo, non resta che darsi appuntamento a dicembre! Non mancate!

Stella

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Porta Praetoria. Imago Urbis

“Per terre ignote vanno le nostre legioni
a fondare colonie a immagine di Roma […]

[…] Iam resultent musica
unda, tellus, sidera
personantes organis iubilate, iubilate.”

Con queste emblematiche parole tratte da “Delenda Carthago” di Franco Battiato, voglio iniziare questo mio post dedicato alla Porta Praetoria di Aosta. Ingresso principale all’antica colonia augustea, si apre nel tratto orientale della magnifica cinta muraria incastonata tra due possenti torri quadrate e, cosa non così frequente, dotata di cavaedium, cioè di un cortile d’armi centrali.

Ma procediamo con ordine.

L’ITALIA DELLE CITTA’ MURATE

Con l’avvento al potere di Ottaviano Augusto, e col contestuale dilagare dell’idea di PAX, oggettivamente non ci si sarebbe aspettati un fiorire così diffuso di muraglie a difesa delle città. Eppure, non solo in Italia, ma anche nelle province galliche (soprattutto nella Gallia Narbonense, l’attuale Provenza..allargata!) e ispaniche, in epoca augustea si assiste ad un pullulare di nuove fondazioni, tutte regolarmente dotate di cortine murarie. Si pensa ad un probabile legame ideologico tra la presenza delle mura e lo statuto giuridico della città. Si è ritenuto per lungo tempo che il potersi fregiare dello ius romanum implicasse il diritto di costruire le mura attorno alla colonia, sacralmente preceduto dalla cerimonia solenne del sulcus primigenius. Forse non è così automatico, ma ad ogni modo occorre considerare la volontà di autorappresentazione delle singole comunità urbane e delle rispettive élites attraverso una limitatio decisamente monumentale.

La fondazione di una nuova città, specie in aree da poco romanizzate,è un momento importante, in cui si ripetono gli stessi gesti che Romolo, secondo la tradizione, aveva compiuto nel fondare Roma: in questo modo il legame simbolico fra l’Urbs e la nuova città diveniva ancora più forte.
MURA CHE DIFENDONO LA PACE E CONNOTANO L’IDEA DI CITTA’

Coi primi anni del Principato è come se il paesaggio si “rimilitarizzasse” in chiave simbolica; come se ci dovesse “armare” per difendere la Pace… quasi un controsenso, ma all’epoca era assolutamente normale e comunemente accettato. Un universo pacificato dove, però, si moltiplicavano le cinte murarie e le torri difensive. Come non pensare a Virgilio che, nelle Georgiche, canta l’Italia delle urbes i cui costumi e la cui cultura sono garantiti dai loro stessi bastioni e dalla solennità degli accessi?

Per chi si metteva in viaggio da Roma lungo le grandi vie di comunicazione verso il Nord (ma anche il Sud) della penisola, il viaggio era costellato di città murate. Il nord-ovest d’Italia corrispondeva alla Regio XI Transpadana all’interno della suddivisione del territorio operata da Augusto: terra di grandi e fertili pianure, di fiumi, di colline ondulate e montagne innevate. Perno strategico fu la colonia di Eporedia (Ivrea) già creata nel 100 a.C.; fondamentale la rete viaria, in particolare quella Via delle Gallie che, da Mediolanum (Milano) avrebbe condotto sia fino a Lugdunum (Lione) sia fino a Mogontiacum (Magonza).

Nel caso di Torino (Augusta Taurinorum, fondata nel 27 a.C.) e di Aosta (Augusta Praetoria Salassorum), fondata appena 2 anni dopo, le mura potevano forse avere ancora una certa minima utilità, dato che le popolazioni locali (Taurini e Salassi) non erano state proprio del tutto pacificate e probabilmente si temevano subbugli o rivolte. Ma in altre realtà italiche, e penso a Saepinumnell’attuale Molise, o a Hispellum (Spello) in Umbria oppure ancora alle colonie del nord-est, in primis Verona, la presenza di una possente cinta suggellava visivamente il cambiamento sociale in atto o appena concluso, la nuova concezione dell’idea di urbs e di civis romanus. I prodromi del concetto di Impero romano.

ARRIVO AD AUGUSTA PRAETORIA

Le strade incernieravano il territorio alle città e i punti di contatto erano sottolineati dalle porte urbiche. Ad Aosta la Via delle Gallie faceva il suo ingresso in città arrivando da est: questo il lato più importante, la vera “vetrina” della città. Ecco perché la Porta Praetoria si erge proprio qui. Immaginate: al posto dove oggi si allunga Corso Ivrea, la strada passava in mezzo ad una densa area funeraria: probabilmente la più ricca ed elegante delle quattro aree di necropoli. Perché? Sempre per lo stesso motivo: perché questo è il lato nobile della colonia e l’avvicinamento alle mura doveva già far capire il rango, l’importanza e la munificenza delle classi più abbienti e più in vista della città.  Ecco, avete appena superato il torrente Buthier (l’antico Bauthegius) passando sul massiccio ponte a schiena d’asino in grossi blocchi di arenaria da dove, in lontananza, il vostro sguardo è stato ammaliato dalla mole dell’Arco onorario dedicato al princeps Augusto. Una studiata infilata prospettica che porta fino alla porta d’accesso principale della colonia; sin da lontano trionfa all’orizzonte coi suoi tre passaggi ad arco e l’alta facciata a galleria inquadrata dalle due torri laterali.

Lo sguardo all’epoca poteva spaziare libero e abbracciare d’un sol colpo tutta la piana, l’intero lato orientale della splendida cortina muraria brillante di travertino e disegnata dai chiaroscuri di ben venti torri: due ai lati di ogni porta, quattro angolari e altre due per lato. Probabilmente una funzione anche decorativa e non solo meramente difensiva.

IL PRINCIPALE INGRESSO DELLA COLONIA

Ma ora avviciniamoci alla Porta Praetoria. Concentriamoci su questo grandioso esempio di architettura romana. La strada è ampia, quasi 13 metri in tutto; la Porta vi si aggancia definendo le modalità di transito: pedoni sui lati, carri al centro in doppio senso di marcia.

Come le mura, che le si appoggiano, si data all’età della fondazione, quella di Augusto. Dopo aver tracciato il sulcus primigenius e quindi individuato il perimetro sacro della città, come prima cosa venivano erette le porte (così chiamate per il fatto che dove sarebbero sorte, l’aratro del sulcus veniva “portato” e non trascinato sul terreno). Una Porta decisamente imponente, in grossi blocchi di puddinga di fiume: un’opera quadrata che accentua ancora di più la sua volumetria, il suo ingombro, facendola apparire, se possibile, ancora più massiccia.

UNA RUVIDA IMPONENZA

Arrivati al suo cospetto oggi notiamo immediatamente (da via Aubert) le eleganti lastre di marmo bardiglio grigio-azzurro e di candido marmo lunense (fatto dunque arrivare appositamente dalle cave di Luni, tra Toscana e Liguria) che la impreziosiscono. Ma attenzione! Questo rivestimento non appartiene all’età augustea, bensì all’epoca dell’imperatore Claudio (41-54 d.C.) con il quale la città acquisì ancora maggior importanza in funzione del potenziamento della rete viaria diretta Oltralpe (in particolare il ramo stradale del Summus Poeninus, il Gran San Bernardo, che consentì non a caso la fondazione di Forum Claudii Vallensium, l’attuale Martigny). Un arricchimento che andava a sottolineare ulteriormente l’importanza ed il prestigio di questa tanto strategica e vivace colonia alpina.

Ma prima, allora? Com’era? Beh, diciamo che la struttura chiaramente era la stessa; solo la cornice al di sopra del triplice accesso cambiava. Niente marmi, ma come all’Arco, una lavorazione dell’arenaria stessa. In occasione di un restauro con pulitura della Porta avvenuto sul finire degli anni Novanta, fu visto un breve ma significativo segmento della cornice decorativa precedente l’attuale: di gusto dorico, nel solco del più ortodosso classicismo, una rigorosa sequenza di metope e triglifi appena al di sotto della fila di finestrelle. Oggi, però, questo elemento non è a vista.

ANCOR PIU’ PREZIOSA

Claudio, abbiamo detto, decide di dare maggior risalto a questa colonia. Siamo nella prima metà del I secolo d.C.; possiamo immaginare che Augusta Praetoria sia già una realtà urbana consolidata dalla doppia identità: militare, quale importante presidio all’imbocco delle vie dirette ai valichi (il cui controllo era in effetti uno dei principali obiettivi di Augusto anche per completare quanto già avviato dallo zio Cesare in Gallia); economica, in virtù del suo essere una sorta di emporio alpino al centro di continui passaggi, scambi commerciali, per non parlare delle esigenze legate all’ospitalità dei viandanti e al rifornimento delle truppe.

Cosa succede alla Porta Praetoria? Purtroppo oggi noi possiamo apprezzare unicamente quanto preservatosi sulla facciata orientale; quella ad ovest, infatti, ha evidentemente subito una spoliazione ben più radicale (sebbene si vedano ancora, sui blocchi di arenaria, le tracce lasciate dai perni che agganciavano le lastre del rivestimento).

Le arcate sono state sottolineate da blocchi di bel marmo venato locale (probabilmente il bardiglio che veniva cavato tra Aymavilles e Villeneuve): grigio-azzurro, dall’effetto madreperlato. Lo stesso materiale, ma lavorato in lastre, è stato utilizzato per rivestire l’intera facciata coprendo la rustica arenaria. Non ancora soddisfatti, si è proceduto ad agganciare sull’arco centrale delle raffinate modanature in lastre di marmo lunense (zona di Carrara per capirci).

Ma non bastava ancora. Al di sotto delle finestre della galleria di ronda (oggi scomparsa, in parte rievocata dai restauri del Ventennio) venne realizzata un’elegante e luminosa cornice marmorea capace, oltre che di ingentilire il tutto, anche di riecheggiare una certa aria di Grecia, sospesa tra Classicismo ed Ellenismo. Quella stessa aria che si può ritrovare nei capitelli corinzi e nelle delicate decorazioni a palmetta dell’Arco.

MARMI PREGIATI E DECORI ELLENIZZANTI

Dopo un livello di lastre lisce, la cornice comincia ad aggettare con quello che si chiama (in gergo tecnico) kyma lesbio (da Lesbo, isola dell’Egeo nord-orientale) trilobato, ovvero una modanatura lavorata ad elementi floreali: notate una serie di “archetti” trattati come fossero delle campanule con due petali lanceolati ed il pistillo centrale più tondeggiante.

Al di sopra delle “campanule” si appoggia un altro tipo di modanatura detta kyma ionico (coste microasiatiche). Una sequenza di cosiddetti “dentelli“(piccoli elementi parallelepipedi a sezione quadrata) e, sopra questi ultimi, una serie di “ovuli” tondeggianti separati da altre decorazioni dette “sgusci” con elemento centrale a lancetta. So che tutto questo può apparire un pò noioso.. ma va visto come un ricamo dal sapore mediterraneo utile a rendere questa ruvida porta urbica più gentile e simile ai nobili edifici delle più importanti città dell’Impero.

Continuiamo con una serie di mensole decorate da foglie di acanto (tipiche dell’ordine corinzio) tra le quali occhieggiano dei lacunarii (cioè dei cassettoni) riempiti al centro da un fiore a quattro petali cuoriformi con grosso bottone centrale. Ancora più in alto quel che resta di un cornicione decorato a bassorilievo da una fila continua di grandi foglie di acanto.

DETTAGLI TECNICI

Ma adesso è tempo di entrare in città. Se sollevate lo sguardo noterete che la volta degli archi presenta un solco centrale: lì scorrevano le cataractae, ossia le inferriate con cui le porte venivano chiuse e protette. Se vi affacciate dalla passerella centrale sulla destra, in corrispondenza del livello stradale romano in grosse lastre di bardiglio (le poche, ahimé, conservatesi), aguzzate la vista: ne individuerete una sulla quale vi è una grossa “V” incisa. Stando alle prime ipotesi si potrebbe trattare di un marchio di cava; questi marchi potevano indicare o la cava di provenienza o la partita di merce che andava contrassegnata a seconda della destinazione o del numero d’ordine.

Gli scavi più recenti, finalizzati a rimettere in luce il piano stradale originario e, quindi, l’intera volumetria della torre a partire da quello che si indica come “piano di spiccato” antico, purtroppo non hanno trovato una situazione semplice. La strada non si è conservata se non in minime porzioni e a “macchia di leopardo” in quanto nei secoli sempre modificata, rifatta, spoliata, rifatta un’altra volta, cambiata, rabberciata e rattoppata. In più all’interno del cortile centrale, sempre lungo i secoli, si sono avvicendate numerose costruzioni tra il residenziale e l’artigianale che hanno radicalmente compromesso l’identità romana originaria dell’insieme e che ora è assai arduo valorizzare e far comprendere.

UNA SORTA DI DOGANA INTERNA

Il cortile centrale, dicevamo. Il cavaedium. Questo nome, intanto, è stato derivato da Varrone (De lingua latina, I, 161) e dal noto architetto Vitruvio (De architectura, VI, 3) che lo spiegano come un equivalente dell’atrium per le case romane. La tipologia del cavaedium in ambito pubblico comincia con la Porta del Ceramico di Atene (famosa la Porta detta “del Dypilon”). Inizialmente il cortile era aperto frontalmente, quindi dobbiamo immaginarci delle porte precedute da spazi aperti, accessibili. Poi lo schema evolve e diventa chiuso su tutti i lati (Herdonia, in Puglia, Pompei e Paestum). Con gli ultimi decenni della Repubblica si vedono comparire le torri laterali, e non solo verso l’esterno, ma anche sul lato città. Torri perlopiù poligonali. E’ come se questo spazio, questo cortile, sia una specie di “limbo” passando nel quale si dovesse fare mente locale su tutti i doveri e gli obblighi dell’entrare in città. Un cortile altresì assai utile per l’esazione dei pedaggi, il controllo dei carichi o per la raccolta delle truppe di guardia.

Qualche esempio di porte urbiche con cortile centrale del periodo a cavallo tra fine della Repubblica e inizi del Principato augusteo? La Porta dei Leoni di Verona, la Porta Palatina di Torino, la Porta Venere di Spello, la Porta Praetoria di Como e la Porta Veronensis di Trento (ma solo per citarne alcune).

RAPPRESENTANZA

Concludiamo immaginando la presenza, nell’area, di diversi monumenti onorari dedicati tanto al o agli imperatori, a membri della famiglia imperiale, quanto ad evergeti o a persone in vista della comunità. Non sarebbe fuori luogo immaginare anche la collocazione in zona di eventuali trofei, nel senso di monumenti dedicati ad importanti vittorie belliche condotte contro le popolazioni del posto. Questo per ricomporre, almeno nella nostra mente, come doveva presentarsi la Porta in età romana.

TRACCE DI MEDIOEVO

Un ultimo accenno alla nicchia oggi presente sul lato est al cui interno venne ricavato un altare come fosse una sorta di piccola cappella. Questa nicchia fu realizzata in seguito ai lavori condotti sulla Porta negli anni Venti del XX secolo quando furono, purtroppo, rimosse tutte le strutture non romane addossatesi nel tempo. In particolare va ricordata una singolare cappella dedicata alla Trinità il cui abside sporgeva al di sopra della galleria di ronda ripristinata nel Medioevo proprio sul lato est. La cappella, infatti, era correttamente orientata e, pertanto, accessibile da ovest. Una sorta di cappella privata all’interno del complesso fortificato dei Signori De Porta Sancti Ursi  (così si chiamava la Porta nel Medioevo in quanto ingresso al borgo di Sant’Orso e ancora porta questo nome la Torre nord) che proprio sui resti della Porta avevano realizzato la loro dimora urbana nel XII secolo. Uno status symbol: poter abitare sui, se non addirittura dentro, a resti di edifici così antichi non poteva che accentuare il prestigio della famiglia che li occupava. I Signori di Porta Sant’Orso vi risiedettero fino al 1185 quando poi si trasferirono fuori città, nel castello di Quart, da cui presero la loro nuova denominazione.

INDIZI STRADALI

Ma prima di lasciare questa magnifica Porta, diamo un’ultima occhiata a come si presenta oggi la viabilità. La Porta si trova a cavallo tra le vie Aubert (proveniente da est, con l’Arco sullo sfondo) e Porta Praetoria (che prosegue verso ovest fino a piazza Chanoux). Queste due vie sono una parte dell’antico Decumanus Maximus che continua fino alla Porta Decumana (i cui resti sono nel piano interrato della Biblioteca Regionale). Bene, se all’epoca romana l’intera ampiezza della Porta coincideva con quella del Decumano, adesso potete vedere come l’asse pedonale sia in linea solo col passaggio che sta sul lato dell’Ufficio del Turismo, cioè quello che corrisponde al fornice (arco) nord. Gli altri due archi,. infatti, quello grande centrale e l’altro piccolo verso il ristorante, è come se fossero stati “chiusi” dalla progressiva occupazione del sedime stradale da parte degli edifici medievali e moderni. Questo indizio è importante: ci fa capire innanzitutto che, a partire da un certo periodo, si passava esclusivamente su quel lato e come questa Porta, nei secoli, sia sempre stata oggetto di manomissioni, modifiche, chiusure, riaperture a seconda dei suoi proprietari, delle esigenze sociali, del particolare momento storico.

Insomma, in questa Porta è condensata la storia di Aosta, una città dalla storia bimillenaria che ha continuato a vivere sempre nel medesimo posto, nutrendosi di se stessa. E che continua a regalarci finestre sul suo glorioso, lungo e travagliato passato.

Stella

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C’era una volta… il “signore delle Tre lune”

“D’argento, al capo di rosso, con il filetto di nero in banda, carico di tre mezzelune d’argento crescenti”.

Challant-Cly. Questa la famiglia che ha dato il nome al turrito maniero situato su un ardito promontorio roccioso a monte del borgo di Chambave. La consueta araldica degli Challant si arricchisce qui di tre mezzelune d’argento, probabilmente dovute a spedizioni crociate in Terrasanta.

Nobile schiatta di uomini d’arme quella dei Cly, ramo collaterale dei potenti Visconti di Aosta, il cui feudo si estendeva a cavallo del Cervino prolungandosi fino nell’alto Vallese e nella zona di Zermatt. Un feudo incredibilmente vasto e decisamente strategico per il controllo di vie di commerciali all’epoca molto frequentate; vie che riuscivano a passare attraverso colli e ghiacciai in punti che oggi non esistono forse nemmeno più. Vie che risalivano i versanti delle quali oggi son rimaste tracce tanto fragili quanto preziose: pensiamo, ad esempio, ai ruderi dell’Ospizio medievale di Chavacour, situati nella parte alta del comune di Torgnon. Secondo voi perché mai costruire un punto tappa proprio lì? Oggi sembra disperso nel nulla, ma si narra che i Signori di Cly si fermassero proprio qui durante i loro viaggi verso la Svizzera…

UNA FIABA MERLATA

Quanto al castello… beh…pare uscito da una fiaba. Sin da lontano si scorge la sagoma severa della torre mastio: quadrangolare, essenziale, sagomata sulla e nella roccia. Scarpa potente e merlatura finanche sopraelevata. Una posizione che definire strategica suona persino riduttivo. Un ripiano con una vista a 360° su tutto il fondovalle verso sud; declivi erbosi (da cui il nome Cly, da “de clivo”) e dolci pendii verso nord. Un sito che ha restituito tracce di insediamento risalenti addirittura all’Età del Bronzo: probabilmente un castelliere salasso. Luogo emblematico, dunque, questo, dove la prima torre e la cappella esistevano già sin dai primi decenni dell’XI secolo, come verificato dalle analisi dendrocronologiche. E il castrum de Clivo compare anche in una bolla papale del 1207; ma fu solo più tardi, in pieno Trecento, che il castello di Cly divenne protagonista delle cronache. Anni turbolenti, segnati dalla prepotenza e dalla collera di Bonifacio di Cly, prima, e dal figlio Pietro, poi: quest’ultimo tanto bello quanto crudele.

CLY, SAVOIA E OLTRE…

Ribelli e arroganti i Cly accesero le ire del Conte Verde, Amedeo VI di Savoia, che alla fine li privò dei loro feudi valdostani che vennero astutamente scambiati con altri in terra elvetica. La fine del Trecento vide quindi spodestati i Signori di Cly e il loro splendido castello passò in mani sabaude. Ma non era ancora finita. Dai Savoia al capitano spagnolo Cristoforo Morales; quindi nuovamente ai Savoia e poi al segretario di Stato Giovanni Fabri. Fino alla nobile famiglia dei Roncas che lo smantellarono riutilizzandone gli elementi di pregio per costruirsi un nuovo palazzo nel borgo di Chambave. Quanto restava venne acquisito dallo storico Tancredi Tibaldi e, da lui, rimasero al comune di Saint-Denis.

Ancora oggi avvolto da un’aura di mistero, il maniero di Cly sa stupire con la sua magnifica cinta merlata, con la sua straordinaria cappella romanica dedicata a San Maurizio e con quella torre enigmatica le cui oscure segrete hanno visto tante anime perse. Tra cui anche lei, Johanneta Cauda. Una strega. Forse. Correva l’anno 1428; Johanneta trascorse nella torre di Cly 71 giorni, tra tormenti e sofferenze, prima di essere bruciata sul rogo l’11 di agosto, giorno di San Lorenzo, patrono di Chambave.

Pervasivo ed emozionante, il fascino del “castello delle tre lune” è frutto di un paesaggio dalla bellezza struggente, di un’architettura ricca di suggestione, di una storia tormentata e complessa, e di leggende spesso inquietanti. “Tre lune” tutte da scoprire…

Per le visite contattare: il comune di Saint Denis (tel.: 0166-546014) o l’Associazione culturale “Il Maniero di Cly” (tel.: :0166-546014 – 320 4369898).

Stella

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22 febbraio 1300. Giubileo di papa Bonifacio VIII. Passaggio in Valle d’Aosta

Siamo dei pellegrini in viaggio verso Roma. Corre l’anno 1300 e papa Bonifacio VIII ha indetto il primo grande Giubileo della cristianità. Siamo partiti dall’antica Urbs Remensis (oggi Reims), per i Romani Durocortorum, nel nord della Francia e lungo il cammino abbiamo incontrato tanti, tantissimi compagni di viaggio; molti si sono però dovuti fermare, alcuni si sono uniti a noi o ad altri, altri ancora, ahimé, non hanno sopportato le fatiche e i pericoli del percorso.

DAL VALLESE AL GRAN S. BERNARDO

Dall’oppidum di Agaunum (oggi Saint-Maurice d’Agaune, nel Vallese) una lunga e faticosa salita ed un lento cammino di 2 giorni ci ha portati fin quassù, nel cuore di queste montagne selvagge. Nel punto dove le rocce si abbassano sorge un luogo di santa ospitalità e qui ci fermiamo: è il Mons Jovis, il colle del Gran San Bernardo.Ci siamo svegliati di buon’ora: una mattina cristallina ma assai fredda, quassù. Dopo una colazione frugale offerta dai canonici, ci apprestiamo a ripartire dall’ospizio voluto dall’arcidiacono di Aosta Bernardo verso la metà dell’XI secolo, vero e proprio baluardo contro i venti, il gelo e le tempeste di neve che spesso affliggono questa località così vicina a Dio. La mattina è fredda pur essendo piena estate, come del resto è normale che sia a 2473 metri di altezza, ma ci sentiamo decisamente rinvigoriti al pensiero che la salita è ormai terminata e ci aspetta solo una rapida e sicura discesa verso la piana di Augusta (Aosta).

Ma oggi possiamo vedere cose che i nostri amici pellegrini del XIV secolo non avrebbero potuto apprezzare. Innanzitutto l’attuale edificio dell’Hospice risale al 1821-25 ed è quindi di ben cinque secoli successivo, mentre la chiesa che oggi sorge al valico presenta forme seicentesche.
Non avrebbero certo potuto visitare il museo archeologico dedicato ai ritrovamenti di eccezionale importanza effettuati al Plan de Jupiter, pertinenti ai resti di una stazione di sosta (mansio) edificata all’inizio del I secolo d. C. su un sito già conosciuto e frequentato sin da epoca preistorica, incluse le numerose tavolette votive offerte dai legionari e dai mercanti di passaggio a Giove Pennino, divinità eponima di questo luogo, per la grazia concessa loro nell’attraversamento di questi monti.
Infine non sarebbero stati accolti dall’abbaiare dei cani San Bernardo oggi simbolo di questo passo, giunti all’ospizio solo nel XVII secolo.
Ma torniamo nel 1300 e seguiamo il loro peregrinare.

IN CAMMINO SULLA STRADA ROMANA

Cercando di non pensare al freddo, affrontiamo con i nostri compagni di viaggio  (viaggiare da soli non è mai prudente) la strada che, con grandi tornanti, ci porta a perdere velocemente quota. Quello che ci colpisce è la qualità di questo tratto di carrareccia, che si presenta a volte tagliata in roccia, altre volte lastricata, caratteristiche che non abbiamo trovato spesso nel corso del nostro pellegrinaggio e che ci fanno immediatamente capire che deve trattarsi di una via di grande importanza. Uno dei nostri compagni ci spiega che questa strada venne costruita dagli antichi Romani, e che era una grande via di comunicazione tre le regioni cisalpine e transalpine; ammirati dall’ingegno di questo popolo capace di piegare la natura ai propri bisogni, proseguiamo il cammino senza poter immaginare che il pellegrino del XX secolo non avrebbe più potuto percorrere, se non per pochi tratti, questa straordinaria via di collegamento,modificata prima dall’avvento dell’esercito napoleonico all’inizio del XIX secolo e poi quasi definitivamente cancellata dall’odierna statale 27.
Pochi chilometri ed una pendenza mozzafiato ci conducono all’ospizio di Fonteinte, fondato dal vescovo Pierre de Bosses grazie alle donazioni del nobile Nicolas de Richard de Vachéry nel 1258. Veniamo accolti dal rettore che ci offre una pagnotta ed un buon bicchiere di vino, mentre ci spiega che la struttura di carità è aperta dalla festa di San Martino (11 novembre) alla Visitazione della Vergine (31 maggio), col compito di aiutare i pellegrini (servizio che dismetterà solo nel XVIII secolo).

SUI PASSI DI SIGERICO

Dopo una benedizione nella piccola cappella, si riparte tra i pascoli, per giungere, proprio dove questi lasciano il posto alle conifere, al borgo citato nel diario di Sigerico come Sancte Remei, Saint-Rhémy, nome probabilmente legato al culto di San Remigio vescovo di Reims ( e ci sentiamo un pò a casa). Anche in questo borgo (l’antica Eudracinum romana), che ci appare subito decisamente florido dal punto di vista economico come testimoniano la qualità di alcune abitazioni e la presenza di mura a cingere il complesso abitato, è presente un luogo di ricoveroper i viandanti con annessa una cappella dedicata a San Maurizio. Chiuso nel 1669, oggi non ne rimane traccia, ma nel 1300 era sicuramente nel pieno della sua attività. Inoltre il paese pullula di pellegrini sulla via del ritorno, e la popolazione locale è organizzata per fornire un vero e proprio servizio come accompagnatori e portatori, i cosiddetti vectuarii (poi marronniers), indispensabile specie nei mesi più freddi dell’anno. Salutiamo alcuni nostri compagni, che hanno deciso di fermarsi qui per la notte, e proseguiamo fino all’abitato sparso diBosses, dove ci colpisce in particolare la presenza di una massiccia costruzione fortificata a pianta quadrata: si tratta della residenza di una nobile famiglia, i signori De Bocza (oggi trasformata in centro espositivo). La chiesa, dedicata a San Leonardo, è invece decisamente piccolina (quella attuale è del 1860-61) ed il tempo, che sembra iniziare a guastarsi, ci spinge ad accelerare il passo in direzione del villaggio successivo, Sancti Eugendi (Saint-Oyen).

UNA LUNGA STORIA DI ACCOGLIENZA E OSPITALITA’

A passo spedito raggiungiamo il villaggio, dove cerchiamo immediatamente un posto per trovare riparo dall’inclemenza del tempo. Veniamo indirizzati verso una sorta di grangia, un complesso che sotto il nome di Castellum Verdunense (Château-Verdun) cela un’antica casa ospitaliera (gestita dai monaci del Gran San Bernardo dal 1337, anno in cui venne loro donata dal conte savoiardo Amedeo III, ed ancora attiva oggi all’inizio del XXI secolo). Mentre usufruiamo della carità offertaci, ascoltiamo racconti che parlano del passaggio per queste contrade persino di Carlo Magno, quasi sei secoli prima di noi, e ci sentiamo davvero immersi in un percorso dove ogni pietra trasuda storia e fede. Decidiamo di passare qui la notte e, dopo aver dedicato il vespro alla cura della nostra anima, concediamo alle membra il meritato riposo.
Il giorno successivo riprendiamo il cammino in direzione del borgo di Estruble o Restopolis(oggi Étroubles), così chiamato in una Cronica del 1130 del monaco belga Rodolfo di Saint-Trond. Poche miglia e veniamo accolti dal profilo tozzo e squadrato di una torre, che i locali chiamano Tour de Vachéry, un vero e proprio monolite a controllo della strada, come spesso ci è capitato di vederne nel nostro cammino. Affrontiamo le formalità e possiamo quindi entrare nel borgo fortificato, dove ci dirigiamo verso la chiesa dedicata all’Assunta, che verrà ricostruita nel corso del XV secolo e poi completamente riedificata nelle forme attuali nel XIX secolo. Nel 1300 non è ancora stato realizzato l’ospizio intitolato ai SS. Nicola e Maddalena, fondato nel 1317, mail paese è già strutturato per fornire assistenza ai pellegrini, specie grazie al servizio di marronnaggio che, in seguito agli Statuti emanati da Casa Savoia nel 1273, è stato riservato ai soli abitanti dei borghi di Étroubles e Saint-Rhémy.
Proseguiamo uscendo dal villaggio, dopo aver ammirato una seconda maestosa torre appena al di fuori dell’abitato, chiamata Tour d’Étroubles (oggi scomparsa), per giungere poco dopo in località Echevennoz e quindi all’antico ospizio di La Clusaz, esistente dal 1140 (oggi trasformato in accogliente albergo-ristorante). Dopo una preghiera nell’adiacente cappella dei SS. Maria e Pantaleone, riprendiamo il cammino fino a Gignod, dove veniamo accolti dall’imponente mole della torre quadrata a controllo dell’accesso viario, che ben chiarisce, insieme alla casaforte della famiglia dei nobili Archiéry, l’importanza commerciale e politica di questa statio, sorta già in epoca romana.
Nel sito dove oggi sorge la chiesa di Sant’Ilario, nel 1300 è presente un castello, ed è quello che i nostri occhi possono ammirare mentre attraversiamo questa località dove confluisce il cammino proveniente dalla conca della Vallis Poenina (Valpelline), attraverso cui hanno accesso alla Vallis Augustana (Valle d’Aosta) i pellegrini provenienti dall’area elvetica orientale.
Si passano villaggi dove la presenza della Via Francigena è ben radicata, come testimoniano numerose cappelle lungo il tracciato, oltre a siti fortificati a controllo della strada, tra cui emerge la cosiddetta Tornalla presso il Castrum Agaciae (Oyace), insediamento già citato dallo storico romano Strabone nel I sec. d.C..
Dopo una breve sosta ci prepariamo a ripartire e, dopo poche miglia, finalmente la valle si apre lasciandoci scorgere in fondo la prossima tappa del nostro viaggio: Augusta (Aosta). È lì che passeremo la notte, in uno dei tanti ostelli e xenodochi presenti in città, prima di rimetterci in cammino alla volta della meta ultima del nostro pellegrinaggio: Roma, caput et fundamentum totius christianitatis.
(Stella)

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Courmayeur. Tra le pieghe (e gli strati) di San Pantaleone

Oggi voglio accompagnarvi alla scoperta della chiesa parrocchiale di Courmayeur intitolata a San Pantaleone, edificio religioso dalla storia lunga (più di quanto si immagini) e complessa che, tra il 1997 ed il 1999, è stata oggetto di indagini archeologiche preliminari ad un’opera di consolidamento e restauro resa necessaria dal suo essere sorta sopra una paleofrana.

APPUNTI DI STORIA E DI SCAVO
Le prime attestazioni storiche risalgono al 1227 in occasione di una controversia tra la parrocchia ed il Capitolo della Cattedrale di Aosta; successivamente, nel 1302, viene annoverata nel Liber Redditum capituli Auguste. L’evoluzione architettonica di questo edificio può riassumersi in cinque grandi fasi cronologiche comprese tra l’età romanica (secoli XI-XII) ed il cantiere settecentesco che condusse alla sua consacrazione il 13 luglio 1742.
Gli scavi archeologici hanno evidenziato come, da un edifico stretto e allungato ascrivibile all’XI secolo, si sia passati ad un secondo ben più ampio, datato da analisi dendrocronologiche ai secoli XII-XIII, per giungere ad una terza chiesa di epoca gotica (secoli XIV-XV) per la quale furono costruite cinque cappelle funerarie addossate al muro perimetrale occidentale. In relazione a questa furono rinvenuti anche numerosi frammenti di intonaco dipinto tra cui lo stemma della nobile famiglia dei De Turre. Le maggiori trasformazioni del monumento, tuttavia, si attribuiscono alla sua fase barocca (secoli XVI-XVII), quando l’originaria abside semicircolare viene sostituita da una quadrangolare e un ampliamento di tutto l’impianto porta ad inglobarvi anche il campanile. Centinaia le sepolture pertinenti a questa fase, tutte distribuite in spazi appositi: le analisi hanno evidenziato molti individui sofferenti di patologie articolari dovute soprattutto a faticosi spostamenti su pendii con aggravio di carichi. In seguito, col XVIII secolo, la chiesa assume le dimensioni e l’aspetto attuale.

UN CAMPANILE IN ROSA
Il campanile, anch’esso oggetto di restauro nel 2007, si inserisce nella tipologia dei “clochers porches” (cioè campanili d’accesso) realizzati tra l’XI ed il XIII secolo; la cuspide, dalla forma particolare, richiama quella del campanile di Valgrisenche e ricorderebbe il soggiorno dei papi ad Avignone, collocandosi cronologicamente tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo. L’aspetto attuale restituito dal restauro si è basato su una preventiva e scrupolosa analisi delle murature che ha consentito di individuare proprio l’originaria presenza di intonaco su tutti e quattro i lati del manufatto ad eccezione della cuspide.

SAN PANTALEONE E SAN VALENTINO. LA SALUTE PRIMA DI TUTTO!

Il 27 luglio Courmayeur festeggia il suo patrono principale, San Pantaleone. Un patrono “estivo” cui, in seguito, si è affiancato un secondo patrono “invernale”: San Valentino.

Il culto di S. Pantaleone, attestato soprattutto nell’alta Valle, dovrebbe provenire dalla vicina Francia, in quanto si ricorda la presenza di una reliquia del santo a Lione. Pantaleone, originario di Nicomedia, dove nacque nel III secolo d.C., divenne uno stimato medico; a causa della sua fede cristiana fu condannato a morte e martirizzato. I suoi simboli, infatti, sono: la palma del martirio, i rotoli su cui studiava e l’astuccio dei medicinali. Un santo taumaturgo invocato contro le malattie e le pestilenze molto popolare non solo in Occidente, ma anche, se non di più, nell’Oriente cristiano.
È nel V secolo d.C. che compare nelle fonti storico-letterarie la figura di S. Valentino, il cui nome contiene chiaramente la radice del verbo latino valeo, ossia “stare bene, stare in buona salute” e che, perciò, ben si accompagna al medico S. Pantaleone. Cittadino e vescovo di Terni nel II secolo d.C., divenne famoso per la sua carità ed umiltà, ma anche per le sue facoltà guaritrici. La festa del santo si riallaccia ad antichi culti della fertilità che le genti italiche celebravano il 15 febbraio, legati alla purificazione dei campi e ai riti di fecondità. La Chiesa decise di cristianizzare queste pratiche anticipandole di un giorno e collegandole alla morte del martire ternano, cui si chiedeva la protezione delle unioni favorendo la nascita di figli. Curioso inoltre sottolineare come, proprio a partire dal 14 febbraio, il sole illumini il paese per un’ora in più passando alto sopra la vetta del Crammont. Questa piazza, cuore del paese, è un vero balcone affacciato sulle prime piste dello Chécrouit e su Dolonne, i cui prati un tempo erano intensamente coltivati a canapa, lino, orzo e segale; l’orizzonte risulta dominato e protetto dalla lontana sagoma scura della Madonna Regina della Pace che si erge sulla vetta del Mont Chétif.

Stella

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Il TOR che attraversa le rocce tra natura, storia e leggenda

Ciao amici! Caspita… non mi sono resa proprio conto di quanto tempo sia passato dal mio ultimo post… e me ne scuso! Ad ogni modo ho utilizzato queste settimane per raccogliere materiale e … idee!!

Quindi, da ora, si ricomincia! Promesso!

Vorrei dedicare il post di oggi al mitico #Tor des Géants! Io non sono certo una trailer..anzi, forse ne rappresento l’antitesi! Insomma, mi piace andare a camminare in montagna e sul lungo periodo reggo pure discretamente, ma fermandomi e con moooolta calma!! Guardo questi eroi con infinita ammirazione, stupore, spesso condite da incredulità! Mi chiedo come facciano e mi dico che, almeno a livello di testa, vorrei avere anch’io questa forza interiore! Insomma, mi piace pensare che pur nel mio piccolo anch’io mi impegno con una certa costanza! E, in ogni caso, ognuno nella sua vita vive a suo modo il suo personalissimo #TOR quotidiano, no?!

A parte queste considerazioni para-filosofiche, vorrei dedicare a questi Giganti e alla nostra splendida piccola/grande regione, questo mio contributo.. Un #TOR diverso, o meglio: è a tutti gli effetti il Tor, ma visto con un occhio più..”culturale”. Quindi, almeno per questa breve (ma spero piacevole lettura) prendiamoci il nostro tempo e, col pensiero, corriamo!

SALITE E DISCESE

Il paesaggio segue la corsa, a volte dà la carica, spinge, sostiene, a volte asseconda i momenti di respiro (anche mentale) con le sue balconate panoramiche. Oppure dà il benvenuto nelle valli con le sue architetture caratteristiche, i suoi borghi, le chiesette, i campanili. Li vedi magari dall’alto, da lontano: ecco la prossima meta, un punto di riferimento nella tua cartina mentale e psicologica.

È la bellezza del salire e dello scendere, del veder cambiare i paesaggi con un ritmo naturale che accompagna quello del cuore a 1000 e del respiro: i borghi, poi i boschi, sempre più fitti e scuri; poi i pascoli, le ampie radure luminose in quota, fino alle tracce segnate sugli altipiani, i colli, le rocce, la neve residua o appena arrivata. Assaggi d’inverno in una montagna senza tempo.

E quanta storia si nasconde, più o meno segreta, lungo il percorso, nelle pieghe di questa terra così ondulata, severa e dolce allo stesso tempo. C’è un tratto, poi, in particolare: quello da Pontboset a Perloz. Terre dove la storia ha lasciato tracce ben visibili su cui anche i “giganti” del Tor sono obbligati a passare.

Pontboset, villaggio dei ponti: ben 6, sospesi sugli orridi e sui torrenti. Agganciati alle rocce levigate dai movimenti degli antichi ghiacciai. Ponti ricchi di poesia, testimoni di un’arte del costruire, che affonda le sue radici nelle secolari tradizioni delle genti di montagna: pietre, malta, tenace maestria. Ponti “romantici”, anche nel senso più ottocentesco e anglosassone del termine, che improvvisamente occhieggiano dal folto dei boschi di castagno. Ponti a schiena d’asino che, in piccolo, richiamano a modo loro il continuo “saliscendi” del Tor.

E arrivi giù, nel fondovalle, a Hône. Non puoi fermarti, ma lo sai, lo hai letto da qualche parte che lì c’è una chiesa incredibile: sotto di lei, sotto il pavimento, si nascondevano altre 4 chiese precedenti. Sì, è la Chiesa di San Giorgio; magari con calma ci ritorni, perché è davvero sorprendente!

Altro ponte storico e via, si passa la Dora, regina delle acque valdostane.

Ed eccoci in uno scrigno medievale: Bard. Uno dei borghi più belli d’Italia. Un’unica strada che ricalca la via romana delle Gallie e la Via Francigena. Un’unica strada che si insinua tra edifici fiabeschi, corti segrete, sottopassaggi, archi e sottarchi. Sempre sorvegliata dall’imponente e austero Forte sabaudo che, dall’alto della rocca, ricorda antichi presidi a guardia delle leggendarie Clausurae Augustanae, barriera inespugnabile di una Valle tra le rocce.

Donnas, Pont Saint Martin, Perloz

E poi di nuovo giù, verso Donnas, correndo sulla Storia, sui secoli che hanno disegnato questi luoghi, fino a che…eccola! Incredibile, quasi un miraggio: devi per forza passare sulla strada delle Gallie, calpestare pietre con oltre 2000 anni di storia, passare sotto un arco “risparmiato” nella roccia che sta lì da quando le legioni di Augusto decisero di domare la terra dei Salassi.

E tu corri, per forza, magari rallenti e riesci persino a voltarti. Che posto! Un “gate” temporale, sottolineato dall’enigmatica chiesetta di Sant’Orso che segna l’accesso al borgo di Donnas.

Continui la tua corsa: è davvero il Tor des Géants! Ma non solo per le vette, per i “4 4.000” cui si sfiorano i “piedi”, ma anche per questa imponenza storica, per questo passato così evidente, così “presente” che è impossibile da ignorare!

L’arrivo a Pont Saint Martin si celebra con un altro di questi “giganti”: lo splendido ponte romano che consente di superare il torrente Lys. Si erge poderoso dalle rocce umide; un inno ad una regione dall’indiscutibile identità itineraria: soldati, mercanti, pellegrini, imperatori, contrabbandieri, viaggiatori d’ogni genere…quanta gente nei secoli è passata di qui!

E di nuovo su: si attacca la sinuosa sequenza di curve che porta a Perloz, villaggio sospeso, circondato da vigneti audacemente aggrappati alla montagna. Antiche nobili dimore si affacciano silenziose lungo la strada: il castello Charles, il castello Vallaise e, fuori dal borgo, la Tour d’Héréraz, di cui si vociferano leggendarie origini romane.

E intorno una miriade di piccole e graziose frazioni in cui si viene solleticati dal profumo lontano del pane nero cotto come una volta, nei forni comunitari.

Altro torrente da superare, altro magnifico ponte a dorso d’asino: il Pont de Moretta. Incastonato dai boschi, questo ponte del 1710 rievoca ancora oggi storie e leggende tra cui, la più nota, ricorda di un terribile drago che qui, un tempo, viveva. Il prode Vignal lo uccise con l’inganno dandogli una pagnotta infilzata in una spada che trafisse la gola del mostro; ma il sangue del drago, avvelenato, uccise lo stesso Vignal. Un’impronta, una strana forma, visibile ancora oggi sotto il ponte: è il segno lasciato dalla zampa del drago.

Ma devi correre, devi andare avanti, e così ora sono le tue quelle impronte che imprimono la polvere e ti lasci alle spalle il fantasma di quel drago per raggiungere altri villaggi, altri prati, altre quote.

E la corsa continua: fino al Rifugio Coda, fino ai laghi della lunare Riserva del Mont Mars, e su su…verso i Giganti.

Stella

La collina “VIP” di Augusta Praetoria

Aosta romana aveva anche una sua “Beverly Hills”. La prima collina doveva essere punteggiata di ville eleganti e raffinate. Solo una, però, è arrivata fino a noi.  Si tratta di una sontuosa villa urbano-rustica, cioé in parte residenziale e in parte agricola, splendidamente esposta a sud sulla prima collina di Augusta Praetoria. Riuscite ad immaginarvi il contesto? Prati, orti, frutteti e vigneti; una villa terrazzata aperta verso sud, un trionfo di cortili, porticati, giardini e giochi d’acqua. Una dimora elegante, raffinata, ariosa, invasa dal sole…

Prendete via Xavier de Maistre che da piazza Chanoux prosegue verso nord. Uscirete attraversando la cinta muraria romana in corrispondenza di una tozza torre oggi occupata da un asilo, il Mons. Jourdain, anticamente nota come Tour Perthuis, cioé Torre del Pertugio, l’angusta apertura che consentiva di fuoriuscire dalle mura in questo punto. Guardate con attenzione il lato occidentale di questa torre (quello che prospetta sulla strada): noterete una parte di intonaco mancante che consente di apprezzare “cosa c’è sotto”. In pratica: sotto l’intonaco attuale, sotto i secoli moderni e medievali, ancora sopravvive il “fantasma” della torre romana“gemella” (se vogliamo) della Tour du Pailleron che le corrisponde sul lato sud, vicino alla stazione dei pullman.

Una distanza pari a circa 400 metri in linea d’aria dalla cinta romana, in falso piano e, nella parte finale, in leggera salita. Sempre dritto lungo C.so Padre Lorenzo, sottopasso di Via Parigi e sù per Strada dei Cappuccini che deve il suo nome alla presenza, sulla vostra destra, del Seminario Minore oggi sede dell’Università della Valle d’Aosta e di un liceo. Alla prima svoltate a destra e percorrete una graziosa stradella incorniciata da villette e giardinetti fino ad arrivare ad uno spiazzo con alberi e aiuole dove spicca, sempre sulla destra, un edificio basso in cemento evidente meta di molti writers cittadini. Potrete chiedervi come mai una copertura tanto invadente; è perché negli anni ’80 da qui avrebbe dovuto passare una strada, una “bretella” tra Via Parigi e Via Gran San Bernardo. Ma gli abitanti della zona si ribellarono e riuscirono a bloccarne la costruzione, sebbene la copertura della villa, adatta a sostenere appunto il peso di una strada, era già stata fatta. Siete arrivati! Siamo in regione “Consolata” così chiamata per la presenza dell’oratorio dedicato a Nostra Signora della Consolazione, tappa lungo il percorso che portava alla collina de “Les Fourches” luogo deputato alle impiccagioni.

ARIOSI AMBIENTI DI RAPPRESENTANZA

Appena entrati affacciatevi alla ringhiera: siete sul lato est, immersi nella penombra, su un corridoio che si sviluppa alto rispetto ai resti della villa che individuerete sotto i vostri piedi. Davanti a voi un ampio cortile quadrangolare con una cavità quadrata al centro: si tratta dell’atrium, o meglio, di uno dei (probabili) due atria che davano luce e aria alle varie stanze della villa. La cavità centrale è quanto resta dell’antico impluvium, cioè la vasca utile alla raccolta delle acque meteoriche; al di sopra, infatti, il tetto non c’era. Questo spazio era invaso di aria e luce.

A sud dell’atrio un ampio pavimento color albicocca con delle irregolarità: si tratta dell’imponente tablinum , cioè un salone di rappresentanza dove accogliere gli ospiti. Il pavimento si mostra oggi completamente svestito delle “piastrelle” di marmo bianco e nero che lo decoravano; ciò che si vede è la preparazione in cocciopesto (malta con tritume di mattoni). Questo salone doveva essere aperto verso sud dove possiamo immaginare la presenza di un peristilio (cortile porticato) con giardini.

TERME PRIVATE E RICERCATEZZE “POMPEIANE”

Esattamente sotto i vostri piedi vedrete i resti degli antichi balnea: ebbene sì, questa villa possedeva delle piccole ma lussuose terme private composte da un piccolo spogliatoio, uncalidarium (collegato alla cucina tramite la bocca del forno attraverso cui passava l’aria calda nelle suspensurae), un tepidarium ed infine, seppure quasi del tutto scomparso, unfrigidarium. Questa era la sequenza canonica. Quindi, per capirsi, bagni di acqua calda, tiepida e infine fredda. L’ambiente era dunque riscaldato sia a pavimento che a parete, con l’aria calda che correva in speciali mattoni forati sistemati in un’intercapedine apposita.Aguzzando la vista riuscirete a notare l’impiego dell’opus reticulatum, cioè i muri sono composti da una “rete” vera e propria di piccoli blocchetti di pietra. Tale tecnica è tipica del centro-sud Italia e non certo di queste latitudini. Anche perché i blocchetti, per essere così tagliati e sagomati, dovevano essere in una pietra tenera come ad esempio il tufo, che qui è presente solo in scarsissime quantità. Questo significherebbe che la villa è stata costruita da maestranze non locali e, molto probabilmente, in un momento antecedente o in parte coincidente con la fondazione della città, notoriamente avvenuta nel 25 a.C. Che fosse un notabile, un comandante, comunque una personalità di spicco di origine centro-italica insediatosi qui durante la costruzione della nuova colonia? Ciò è assolutamente verosimile!

E perché farla proprio qui? In primis perché il posto doveva essere meraviglioso, e inoltre perché appena a monte della villa correva una strada, già pre-romana, che portava si allacciava al percorso diretto al colle del Gran San Bernardo. In questo luogo dovevano esserci già insediamenti salassi confermati dal ritrovamento di sepolture. Quindi una zona strategica e ben servita dalla viabilità già esistente.

GLI AMBIENTI A NORD

Procedete quindi lungo il corridoio: in successione vedrete sotto di voi la cucina (culina) col praefurnium (l’imboccatura del forno) collegata al calidarium e il bancone per la preparazione dei cibi; quindi una serie di ambienti nei quali, durante le epoche tardoantiche, contro il grande muraglione di contenimento verso nord (la vostra destra) vennero sistemate delle sepolture. Infine, sull’angolo, vedrete un ambiente con delle basi quadrate sul pavimento: si tratta di basi per dei sostegni che, forse, reggevano un soppalco in legno: si tratta di un ambiente che ha subito diversi rimaneggiamenti. In epoca romana, quando la villa era in uso, questo grande vano si presentava diviso in due ambienti di cui uno, quello più vicino al triclinium, possedeva un pavimento in cementizio, mentre quello accanto ha restituito solo un piano in terra battuta. L’ambiente più vicino al triclinium avrebbe potuto essere un piccolo soggiorno o una stanza di servizio collegata alla sala da pranzo. Quello più a nord, invece, un vano più rustico, forse già un deposito, poi ampliato e rimaneggiato quando ormai la villa, già in disuso e in parziale abbandono, aveva perso la sua destinazione residenziale di lusso per privilegiare quella agricola.

I MOSAICI

Svoltate quindi sul lato est. Sotto di voi noterete il triclinium, la sala da pranzo, così chiamata per la presenza dei canonici tre letti a due posti con mensa centrale. La collocazione dei tre letti è intuibile dai relativi posti disegnati sul pavimento dalle tessere rosa. Aguzzate la vista: il suolo è rivestito da delicate tessere chiare con una decorazione a fiorellini sparsi. Si differenzia solo il corridoio di collegamento con le stanze vicine. Una stanza di passaggio, un disimpegno e, più in là, verso la base della copertura, la zona “notte.

Qui sono visibili (seppure troppo da lontano e con una luce non sufficiente), due camere da letto, una doppia a due letti ed una singola: sono i cubicula. Qui i pavimenti sono in tessere scure con disegni in tessere bianche. La camera doppia presenta un grande motivo a rosetta centrale circondato da fasce a meandro; la singola è vivacizzata da motivi a squame, meandri e rombi. I cubicula non avevano finestre perché ci si stava unicamente per dormire e solitamente le dimensioni erano ridotte all’essenziale.

Dovete usare molto la vostra immaginazione e la fantasia per ridare a questa dimora tutti i suoi colori, la sua luce, i suoi spazi aperti sul paesaggio circostante. E’ comunque un sito notevole ed importante: unico in Valle d’Aosta. Voluptas, luxuria et amoenitas sulla collina “VIP” di Aosta romana.

Concludo regalandovi questo suggestivo viaggio virtuale in una villa romana (generica).

Stella